Tacita amata

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La Naiade Melite; J.W. Waterhouse; 1893

 

Tacita amata

splendente tra faville ebenacee

dei miei fiati spenti,

che bestiola dolce

sei a me lontana

e sognata,

frutto dei ricordi

che non furon mai

tra la tua pelle soffice

e di dolce ammanto

immago superba

del tuo corpo che luccica tenue

e degli occhi

che per l’incanto

e il sortire

del Fato

all’alma mia reimpairano

fulminee saette;

cade di mano

il verace appoggio

e vacilla lo spirito

innanzi la tua essenza.

Sei così,

spettacolo del firmamento

allo sguardo deciso

che talor ravviva

e talor

con stessa mano,

ferrea moneta,

dal ristoro e per esso

ambito

muore di  grazia.

E ti penso,

tutta ardita,

quando come fluido

canto

fugge tra carri

di mimetiche fughe

e sintesi astruse

ed è la balza sonora

del rimando vocale

che più agguerrita mi assale

e ti penso

carina,

tutta diletta tra oscuri silenzi

e indifferente riguardo

di chi pensa quando

c’è e dimentica in assenza,

ed il mio volto il tuo

invece

contempla estasiato in tua apparenza

ricorda indomito quando apparente

è solo effige lontana

ma vividamente impressa.

Tra balze scoscese

e madrigali spogli

il tuo manto è stupendo

come se fosse di trapunta il firmamento

e se fosse di gioia il sonno

e ragione

ed ogni umana azione

anzi la mia,

verde tra viole sperdute

di giardini e di canti

a sponda di fiume

del canto disilluso

ed inutile

dell’amor che brama bellezza

impressa in un istante

manifesto ed essente

sul tuo corpo lucente.

Piange ancora il mio spirito

al desio impossibile

di te riflessa,

ed alla sonata fatta di riso

e di silenzio,

perso,

perso

e ti penso.

Sei bella d’incanto

nella tua colloquiale

quotidianità

della voce mancante

il respiro,

alati furori

di ogni canzon riflesso

e dell’orionica cassiopea danzante

al trottare del sole aprico

nella notte che scolora

su mesta tua arsura.

Ed io solingo

e muto,

ti penso,

ti penso.

Quando la notte ancor più calda

non schiarisce il tedio

nemmanco ad una frescura

ricercata,

quale viandante sperso nel deserto

alla tua vista,

oasi dilettosa e ambita,

e più si disseta

e più traccia leggi

fulminee

e labili, flebili,

sfuggenti

tra le dita

tenui

dirette alla bocca

che mai si disseta

mancando i tuoi baci

al giovial ristoro

ed è Acheronte

il corso

e non lezioso Eufrate

né altro corso magico edenico;

ed anche come il naufrago

in naufragio atroce

di mar gran oceano

non atlantico

e dal nome infame

ed ossimorico

come tempestoso al grido

di marosi

ed acque mai chete

s’avvolge, avviluppa, e in groppa

alla corrente

sommerso è da tal mole

di salmastra acqua

che lacustre le pare

più che grandiosa

ma che grandiosamente

lo sovrasta

e s’immerge

ed è continuamente

alla deriva andando

e sempre più ne è immerso

più risale

e più tortura

immane riceve

che al portator umano

del lume divino,

tal son anch’io

al tuo pensiero

tutto di te immerso

e tutto di te senza

porto sicuro alcuno,

e tu tanto possente

che mi avvolgi a tua volta

e mi avviluppi

e mi sommergi

ma è ricordo e rimembranza

e a ciò perciò più doloroso

che l’averti

quotidiana accanto,

o come il pensier

l’insonne notte

invade

me dunque!

E ti penso,

ti penso.

Ti penso anche alla luce dell’aurora

con castelli rabbiosi

e rabbiose prove,

anche al mattino,

mattutino,

laudi

e vespri

ed ogni sonno

vetusto

sei tu

ed ogni amata antica

da te occultata,

capretta boschiva,

docile furente

mia perduta

anche al desio.

E disio mai spento

sempre tormenta.

E ti penso,

ti penso.

A me non concederà

forse

né Fato né a suo comand le Parche

il cuore tuo

se pur il mio

è tutto già tuo,

e la soavità del mio pensiero

per quanto tendente

ad un nulla che in sé dilegua

ogni speme

ed ogni

misericordia

e tenue

ma terribile

nell’abisso mi trasporta

nel tartaro mi alloca

io il tuo volto sogno

e ti penso,

io il tuo volto

pongo al centro

d’universo,

come empedocleo romore

tutto scuote

il mio dorso

ed il brivido è tempesta

e mesta sei tu,

essenza stupenda

e irraggiungibile

ed impossibile.

E tutto turbato resto,

dolce,

dolcezza

ti penso,

volgesse

magari il mio misero esistere

a te,

arcana astrale arcadica.

Sarà concessa, per virtù

di cavaliere eroico

di lotta persa

e combattuta a corpo

e a sangue tra marette

contro il fuggir delle moderne

e terribili social saette,

o per la mia musica

stolta e stonata

o per la lira, l’arpa,

la solitudo,

la voce mia rotta

(la tua che tanto è bella

e tanto resta impressa

nella mente come suono che risona

e tutto

l’universo sprona

e dirige,

anima potentissima

che il cor trafigge)

o per silenzi

-sua altissima regale apparenza?

Pensami

io ti penso,

ti penso.

Un giorno, se concessomi rivederti

anche solo

per saperti

sempre mai più caduca

nel mio mondo corporal

realtà reale

che caduco si allarma

e scorre

in riservato

ruscello

ove ti sogno,

in chiara fonte

dissetarmi

e in porto sicuro rifugiarmi

e in rottura d’equilibrio universale

ricompormi,

solo la tua vista

somma mia dolce

somma mia dolce,

ti penso,

ti penso.

In disparte ti penso

e sai che non ti scordo

e se non sai

tel dico

perché l’ultimo mio lamento

sia di gioia,

e seppur tutto scosso,

assetato,

sperso,

possan le tue braccia

stringere al cuore

l’ultimo inutile e silente

fante sperso

di questo folle amore.

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