Leonardo Da Vinci; La Vergine delle Rocce; Louvre
“Udii i sospiri e i gemiti di tutti coloro che avevano versato quelle lacrime, amare, di paura, di dolore, di delusione, di sconfitta, di rabbia, ma anche le più dolci, versate per amore, per il ritorno di una persona cara, per uno scampato pericolo. Finanche, in lontananza, il pianto di Cristo davanti alla tomba di Lazzaro, il pianto nel Getsemani, il pianto della croce. Compresi allora che anche le mie lacrime erano un unico pianto, puro ed indistinto, che scorreva nelle acque di quel fiume e non ero più figlio del dolore ma della compassione, della misericordia.”
Il presente scritto non ha alcuna pretesa di storicità o di analisi scientifica dei fatti, né tantomeno la presunzione di completezza. E’ un breve scritto che apre interrogativi più che rispondere ad essi, narra una storia sotto forma di saggio ma non ha queste ambizioni, è piuttosto una leggenda, una storia artistica, frutto della fantasia, dell’intuizione e della memoria. Una sorta di exemplum fantastico e come tutte le opere non scientificamente corrette, come tutte le creazioni di fantasia della mente umana, spero apra le porte al desiderio di una ricerca, questa sì seria. A che la mente sia, comunque, guidata dal cuore.
C’è una Santa, venerata un tempo in Pomigliano d’Arco, di cui non si sa praticamente nulla. Una Santa di cui si è persa la memoria, come fosse stata cancellata con un getto di spugna, per sempre, una Santa che è di Pomigliano d’Arco e solo di questo paese e di cui ancora diverse donne, almeno quelle nate sino agli anni ’70 del secolo scorso, portano il nome. Santa Afrodite. Su di essa la bibliografia è quasi assente, scarsi gli studi, fatto salvo, forse, quello condotto da Vera Dugo Iasevoli, che ne parla incidentalmente in uno scritto sulla pomiglianese Chiesa di Santa Maria del Carmine.
Ecco i fatti noti: dopo la soppressione degli ordini religiosi datata 1807, i Carmelitani, da tempo risalente presenti nella suindicata Chiesa, dovettero abbandonare il convento, fu solo nel 1840 che furono ripristinati. Poiché non fu possibile far tornare gli amati Carmelitani, furono chiamati a servizio del convento i padri Pisani, ovvero i frati dell’”Ordine di S. Girolamo della Congregazione del beato Pietro da Pisa”. Costoro seguivano la regola di San Girolamo (o Gerolamo) Sacerdote e dottore della Chiesa, nato in Dalmazia, a Stridone intorno al 347 e morto a Betlemme nel 420. Dopo gli studi enciclopedici si dedicò alla vita ascetica nel deserto di Antiochia, ma tuttavia di lui si ricorda il carattere acceso e focoso, lo zelo nel sostenere tesi con un accento quasi ribelle, ma che tuttavia non ne pregiudicava la fede vivissima e la condanna ai vizi. Grande storico ed erudita nonché appassionato traduttore a lui si deve la Volgata, o Vulgata, in latino della Bibbia, a cui aggiunse dei commenti, ancora oggi importanti come quelli sui libri dei Profeti, e che è tutt’ora il testo biblico di riferimento per gli studiosi cristiani. E’, tra le altre cose, protettore di ricercatori, archeologi e bibliotecari. Particolare di non poco momento quest’ultimo alla luce dell’analisi che mi accingo a condurre. L’ Ordine dei poveri eremiti di san Girolamo fu un istituto di vita consacrata fondato dal Beato Pietro Gambacorta di Pisa agli inizi del XV secolo, di vita contemplativa e seguente la regola di Sant’Agostino e soppresso, per obsolescenza, nel 1933. Istituiti con una bolla di papa Eugenio IV del 1446, essi ebbero tra i primi aderenti briganti convertiti. Sono noti anche con l’appellativo di Gerolimini o di Romiti.
Giunti presso la Chiesa del Carmine di Pomigliano nel 1840, nel 1843 chiesero ed ottennero dal Pontefice il trasporto di una lapide con reliquie di una tale Santa Afrodite, vergine e martire. Il convento assurse alla dignità di Santuario e da subito i Pisani cercarono di sostentare lo stesso, chiedendo al vescovo di Nola la possibilità di raccogliere offerte in onore della Santa, al fine di celebrare la festa in suo onore nell’anno venturo nonché edificare una statua lignea in suo onore eseguita poi dallo eseguita dallo scultore napoletano Giuseppe Catello, con bottega vicino a Santa Chiara. Furono anche stampate e figurine e libretti, eseguiti dallo stampatore Filippo Scala. Fu, inoltre, affrescata la volta della Chiesa con immagini relativi alla vita ed al martirio della stessa. Il priore Giulio Berardi, assoldò due questuanti, col compito di raccogliere le offerte per il paese e le campagne, inviando nominativi al Vescovo, che chiede referenze al Sottointendente del Distretto di Casoria. La risposta dello stesso, inviata al Vescovo, fu quantomai negativa. Egli affermava che i Pisani vivevano in un lusso non adatto al loro ministero né regola, avevano già abbastanza introiti da altre offerte per santi quale Elia e la stessa Madonna, nonché per il Bambino Gesù o la via Crucis. Ma su un punto vorrei soffermarmi, preso dalla missiva del Sottintendente che per me è cardine. Dopo averne denunciato il lusso e il nocumento economico che recavano al paese pomilio afferma testualmente “Qual bene a questo Comune arrecano i succennati PP. Parimente conchiudo, e per la verità, com’è mio solito, che invece diverse famiglie han demoralizzate”. Quale il senso? In che modo, perché demoralizzate e non impoverite? E perché tanto zelo nel cercare di obnubilare il culto. Dietro ci sono solo questioni di carattere economico? Se così fosse a che fine, con la soppressione degli ordini religiosi del 1866, il culto cadde nell’oblio, che fine hanno fatto le reliquie? Perché nessuno, neanche i parroci più anziani, neanche il vescovo, sa qualcosa in merito, e nemmanco poi dagli archivi emerge qualcosa della predetta Santa pomiglianese? E di più, che fine ha fatto la bolla papale che concedeva il culto e di cui Salvatore Cantone stesso parla nei suoi “Cenni Storici”. E la statua lignea? Gli affreschi? Quali i motivi di questa damnatio memoriae?
A questo punto inizia la mia analisi, e prima di tornare ai “fatti” del 1843 ed ai Pisani, voglio dar svago alla fantasia e tornare ai primordi, alla fondazione della Chiesa di Santa Maria del Carmine. La stessa ha origini antichissime, probabilmente anteriore anche a quella in onore del Santo patrono della cittadina, Felice in Pincis, la cui chiesa sorgeva inizialmente non dove è ora presente, ove ce ne era un’altra dedicata a San Paolino da Nola, ma nei pressi del rione “Spitale” o “Spedale”, che sta a significare “ospitale”, all’interno delle antiche mura, e per la precisione, non di poco conto, come emerge da una scrittura privata di tale Bartolomeo Capasso del maggio 1073, “Sergio e Simone, abitanti in Pomigliano fuori dell’Arco un tempo dell’acquedotto”. La chiesa di cui parliamo, invece, era dunque posta al di fori delle mura cittadine, eretta in tempi remoti e detta di “Santa Croce”, da una croce bizantina posta su di una colonna nel largo antistante la piazza, colonna tutt’ora esistente, e situata in Piazza Mercato, la croce tuttavia è andata persa ed al suo posto sono presenti tre pomi, simbolo da qualche secolo della città, nonché stendardo. La Chiesa sorgeva dove vi era l’alveo di un fiume, la piazza, infatti, anticamente era solcata da un alveo, in seguito arginato con delle mura nelle quali vi erano delle scalette per passare da una riva all’altra. Un fiume? E se fosse, azzardo, il tanto cantato “Sebeto” il fortunoso “Bono Greco”? Procediamo con ordine.
Nella chiesa si insediarono i monaci Basiliani, che dimoravano nell’annesso convento. Ma prima di capire cosa c’entra Sant’Afrodite coi Basiliani e col Sebeto un po’ di pazienza e cerchiamo di capire chi sono questi “Basiliani”. Sono monaci che si ispirano alla regola dettata da San Basilio Magno, nato intorno al 330 in Cappadocia, a Cesarea, oggi Kaysery. La sua fu una famiglia “tutta santa”, a partire dai genitori, e dal fratello, san Gregorio di Nanzianzo, assieme al quale, dopo una vita di peregrinazioni ed ascesi scrisse la regola dell’ordine. Impegnatissimo soprattutto nella difesa del dogma trinitario (celebre l’affermazione ““Una sola essenza in tre ipostasi”), con particolare riguardo alle opere scritte sullo Spirito Santo, condusse valenti battaglie contro l’eresia ariana, tanto che la sua abilità nella predicazione gli avvalsero l’appellativo di “Magno” Morì nel 379 a Cesarea. E’ anche Padre e Dottore della Chiesa. La Regola basiliana fu redatta in due tempi successivi ed in due parti: la prima (Regulae fusius tractatae) comprende 55 articoli sui doveri generali del monaco, definito “fratello”, la seconda (Regulae brevius tractatae) è una specie di casistica pratica sulla vita monastica. La vita monastica come lo stato ideale per raggiungere la perfezione cristiana, o meglio invita tutti, anche chi oggi definiremmo laico, a condurre, indipendentemente dalla propria condizione di vita, uno specifico stile di vita. Tuttavia alla contemplazione ed alla preghiera egli associa la vita attiva, al servizio degli altri, e non a caso i suoi conventi sorgevano spesso nelle periferie delle città, spesso presso le grotte, le rive, gli alvei o le sorgenti dei fiumi. Il Typikòn (Santa Regola) afferma che i discepoli sono nel mondo ma non del mondo ed il monaco è colui che, rispondendo all’appello di Dio che lo chiama si reca nel deserto per scoprire e parlare al suo cuore, vivendo una vita angelica, ponendosi come gli angeli nella docilità di spirito, pur consapevole delle proprie debolezze e miserie. I Santi particolarmente cari ai Basiliani sono Maria Madre di Dio, Giovanni Battista, Maria di Betania, il Discepolo prediletto, ossia Giovanni. Ma l’aspetto più significativo è incentrato sul cosiddetto “secondo battesimo”, tipico dell’attività monacale, ma che nella dimensione dell’ordine di San Basilio trova una luce nuova ed escatologica, ossia il passaggio dall’”uomo vecchio”, figlio della vanità, dell’amor proprio, dell’ambizione e dell’egoismo, all’”uomo nuovo”, figlio della spiritualità, dell’amore per Dio ed il prossimo, per la rinuncia a sé, e per la misericordia. L’ordine, di origini egiziane, palestinesi, siriane e turche, si spostò nei paesi dell’Italia meridionale per sfuggire alla lotta iconoclasta, soprattutto nel Salento, in Calabria, in Campania ed anche in Sicilia. Oltre alla contemplazione si occuparono dell’istruzione di adulti e bambini, insegnarono i mestieri della pesca e dell’agricoltura, dissodarono i terreni e resero fertili le zone paludose che venivano poi affidate alla gente del posto per la coltivazione. Attività senz’altro compiuta anche presso il borgo Santa Croce della terra pomilia.
La prima traccia dei Basiliani in Pomigliano appare in un documento del 1028, una pergamena nella quale è menzionata l’esistenza già da tempo di detto convento di Santa Croce, un certo Giovanni chiese ed ottenne, infatti, un campo in Pomigliano, col diritto di trattenere la metà del raccolto e l’obbligo di darne l’altra metà ai concedenti, recandola presso il monastero pomiglianese stesso. Detta richiesta e detta concessione fu data dal monastero dei Santi Sergio e Bacco, di Napoli. Si tratta di un antico monastero, non più esistente, posto ad oriente del Castrum Lucullanum. E qui inizia la nostra leggenda. Ecco il fiume, ecco il mistero.
Procediamo con ordine, cos’è il Castrum Lucullianum e cosa c’entrano i Basiliani, e chi sono i Santi Sergio e Bacco cui era dedicata la chiesa napoletana posta lì nei pressi e legata alla pomiglianese Santa Croce?
Parliamo della Villa di Licinio Lucullo, militare ed uomo di cultura della Roma antica, noto per le sue campagne militari in Oriente, nel corso delle quali ebbe modo di entrare in contatto con una certa cultura, è noto al volgo per le sue raffinate abitudini alimentari (ancora oggi è comune chiamare un pasto sontuoso, fine ed abbondante “luculliano”), nonché per aver portato in occidente, per primo, le piante di pesco e cerasa (ciliegia). La villa fu edificata nel I secolo a.C. a Napoli, estendendosi dall’isolotto di Megaride fino al monte Echia sul lato sud e, stando agli ultimi rinvenimenti archeologici, sul lato sud-est anche fino al circondario del Maschio Angioino, nei pressi di piazza Municipio. Un vero e proprio paradiso terrestre, dotato di laghetti di pesci e di moli che si protendevano sul mare, di allevamenti di murene e di alberi di pesco importati dalla Persia, e di ciliegi importati da Cerasunto.
La fortezza di Lucullo si estendeva anche nel celebre isolotto ove ora sorge il misterioso Castel dell’Ovo, quello di Megaride appunto. La cosiddetta “sala delle colonne”, ad esempio, ancora rimasta intatta, e che deve il suo nome proprio alle colonne di epoca romana, era un antico ambiente della fortezza risalente appunto all’epoca in cui sorgeva sull’isolotto la villa del generale Lucullo. Dai suoi numerosi viaggi, soprattutto dalle battaglie in Oriente, Lucullo raccolse una ingente quantità di rotoli, pergamene e libri che raccolse a Napoli in una ricchissima biblioteca. Qui iniziano i misteri sul contenuto di tale arcaica conoscenza, qui i miti e qui non si può tacere circa il famoso Virgilio Mago, personaggio cardine delle leggende e della sotterranea cultura napoletana.
Premettiamo però che, alla morte di Lucullo la villa passa all’imperatore romano, perdendo rilevanza, mentre con Valentiniano III, verrà trasformata in una fortezza. Durante il medioevo i monaci basiliani prendono il possesso della villa-fortezza, facendola diventare un monastero. Le sale che edificarono furono fatte sui resti della villa romana, molte sale sono state destinate poi negli anni successivi a refettori, ma soprattutto a luoghi di scrittura, dove venivano trascritti e studiati i libri antichi, e tra questi, senz’altro, gli antichi testi orientali della biblioteca luculliana, operazione di molto agevolata ai basiliani data la loro amplissima conoscenza del greco. Fu proprio ove ora sorge Castel dell’Ovo, sull’isolotto di Megaride, che vi fu lo stanziamento principale, furono anche traslati i resti dell’abate Severino. L’isola, dunque, divenne fiorente centro di cultura durante il VI secolo, a partire dal quale i monaci si dedicarono a copiare codici, creando preziose raccolte e intessendo relazioni con i maggiori centri religiosi, all’epoca depositari della cultura poiché sede della raccolta di manoscritti. Affluirono anche codici e pergamene dalle più importanti raccolte conventuali per essere trascritti dagli amanuensi del Cenobio luculliano e il richiamo che esercitò questa “schola scriptoria”, antecedente diretto del Monastero di Montecassino, conferì a Napoli un ruolo primario tra i centri di cultura occidentali, quasi divenne Napoli, con tale biblioteca, la nuova Alessandria d’Egitto, i cui rotoli che raccoglievano la sapienza dell’intero mondo conosciuto andarono perduti nel famoso incendio, anzi nei due incendi.
Insomma anche qui i basiliani senz’altro conservarono codici, immagini sacre, opere d’arte e della cultura greco-latina, copiando e realizzando miniature. E senz’altro conservarono anche quella “sotterranea sapienza” attribuita a Virgilio mago.
Parliamo di Publio Virgilio Marone, il celebre autore dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche, nato a Mantova nel 70 a.C. e morto a Brindisi nel 19 a. C., e sepolto a Napoli. Durante il Medioevo Napoli non ne ebbe solo passione, ammirazione e memoria ma ne celebrò un vero e proprio culto, non solo da parte del volgo e non solo per superstizione. Nel VI secolo Fabio Fulgenzio Planeiade vide in Virgilio il misterioso portatore di una dottrina segreta, capace di schiudere nuovi e inaspettati livelli di realtà al di fuori del campo letterario, anche per la diffusione della rinascita neoplatonica che andava man mano risorgendo e rifiorendo in quel periodo. Come se in Napoli rifiorisse una certa cultura, fatta di simboli, allegorie, significati arcani nascosti dietro gli eventi quotidiani e straordinari, cara alla Scuola di Atene che oramai era stata chiusa. Noto a tutti il fatto, ad esempio, che l’accompagnatore di Dante nei gironi dell’inferno e per la montagna del purgatorio, era considerato il vate della cristianità, pur essendo vissuto all’epoca degli dei falsi e bugiardi, colui che aveva predetto l’avvento del Cristo redentore. La vicenda di Enea, ad esempio, veniva letta come la storia dell’anima che cerca Dio, o come il piano divino per la redenzione dell’umanità dal peccato.
Diverse le leggende su questa figura, che non narreremo per l’economia del discorso e per non accomodarci troppo in divagazioni, diversi gli studiosi che si sono prestati a raccoglierle, il Comparetti, Giovanni di Salisbury, Gervaso di Tilbury, Alessandro Neckam, Charles Godfrey Leland, Heinrich Heine anche in pieno Rinascimento, quando rifiorì il neoplatonismo, soprattutto da parte di alcuni autori tedeschi, e via di seguito, sino dunque all’ ‘800. L’opera di maggior rilievo che le raccoglie è però la “Cronica di Partenope”.
Quello che qui interessa è la dottrina orfico-pitagorica sottesa alla figura del Virgilio mago, ed assieme ad essa alcuni riferimenti che possono trarsi sul Sebeto sino ad arrivare alla Pistis Sophia per giungere alla nostra Santa.
Legata a Virgilio, che ne accennerà anche nell’Eneide, nell’episodio della sibilla di Cuma (Libro su cui torneremo parlando del Sebeto) è la profezia del “Grande Anno”, secondo la quale la vita sarebbe scandita in grandi cicli che prenderebbero il nome da metalli (oro, argento, ferro, rame, bronzo e via di seguito) il cui ciclo finale sarebbe retto dal sole, sino al ritorno dell’epoca dell’oro sotto Saturno. Interessante notare anche il fatto che, accanto a tale credenza vi è anche quella dell’”uomo nuovo” che soppianta l’”uomo vecchio”, vale a dire il sacerdote, che rappresenta le virtù dello spirito, dotato cioè di pazienza, umiltà, senso di giustizia e misericordia, che sostituisce il guerriero, l’uomo vecchio, l’uomo istinto, colui che agisce per l’istinto, per egoismo, per il proprio tornaconto e che vede nella guerra il massimo valore. Non sorprende, come abbiamo accennato sopra, che tale concezione è tipica anche dei monaci basiliani, così come dei riti alessandrini, che, vedremo di qui a poco, erano presenti da tempo immemore a Napoli.
La leggenda di Virgilio mago inoltre, si inserì, proprio nel periodo normanno ed angioino, ed i basiliani certo erano presenti a Napoli in quel periodo, almeno sicuramente subito prima ed agli albori. E Virgilio è legato anche all’isolotto di Megaride ed a Castel dell’Ovo il cui nome si deve proprio ad una leggenda su Virgilio che vi posizionò all’interno un uovo per garantirne la solidità ed assieme ad esso la solidità della stessa Napoli. E l’uovo è senz’altro anche inteso come uovo filosofico, nome esoterico dell’ “Athanor”, il piccolo forno chiuso di metallo o vetro nel quale avveniva la trasmutazione dello zolfo e del mercurio in metallo prezioso, simbolo del passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo.
La presenza di tale cultura magico-esoterica, connessa alla sapienza greco-alessandrina è testimoniata anche se vogliamo prendere come simbolico il racconto secondo il quale Virgilio mago apprese la sua arte dai libri magici raccolti assieme al discepolo Filomeno sul monte Barbaro ove sorgeva la tomba del centauro Chirone. E’ noto, infatti, che nell’antica Neapolis viveva una colonia alessandrina ancora oggi testimoniata dalla statua del Nilo, nonché la forma a “Y” del quartiere Forcella, giusto per citare due dei tantissimi riferimenti. Vivo il culto mitraico, la connessa concezione trinitaria delle cose e del divino, tutto mantenuto nell’humus del culto medioevale di Virgilio mago. E se c’erano gli Egiziani, c’era il culto di Iside, la dea degli iniziati. E qui entriamo in un altro punto chiave del nostro discorso. La femminilità esoterica, qui siamo nel punto in cui cercheremo di capire la derivazione del culto della Santa pomiglianese, riservandoci più appresso di rendere manifesta la nostra tesi.
Ricordiamo anzitutto che lo stesso Virgilio, nella IV ecloga delle Bucoliche parla di un “puer” nascente, di una Vergine madre e di un serpente soggiogato e calpestato, che per tradizione medioevale è teofania del Cristo e della Madonna. Vale giusto la pena ricordare anche, ma per inciso, che Virgilio ebbe l’appellativo di “Parthenias”, “Vergine”-notate l’assonanza con Parthenope di cui parleremo di qui a poco- e i suoi libri si trasformarono in fonti divinatorie, le cosiddette “sortes virgilianae” e poi nel Medioevo e che il suo sepolcro, meta di pellegrinaggio già dal I secolo d. C., continuò ad essere luogo e oggetto di culto popolare, che da pagano si è trasformato in cristiano con la famosa festa della Madonna di Piedigrotta.
E ritorniamo per un attimo al culto di Iside, o Tanit, o Berecyntia, o, infine Afrodite e, finalmente, Vergine Maria o Santa. Mi preme sottolineare come tale culto sia intimamente connesso a quello di un’altra figura mitologica legata a Napoli, a Virgilio, a Castel dell’Ovo, al Sebeto, Parthenope. Ma procediamo con ordine partendo da una brevissima, fatta di puri cenni, descrizione di chi era Tanit e chi Afrodite, come dire Iside, come dire Astarte. Dee dai nomi diversi a seconda delle popolazioni ma per quel che qui interessa, in partico0lar modo cioè la diffusione del culto di questa divinità femminea in Magna Grecia e soprattutto a Napoli, potremmo dire che Tanit, Cartaginese, era dea della fertilità, dell’amore e del piacere, associata alla buona fortuna, alla Luna e alle messi, allo stesso modo Astarte per i Fenici ed Afrodite per i Greci. Anche se, occorre bene precisare, che la divinità in questione non è la Afrodite della mitologia classica, dea dell’Amore sensuale, erotico, ma qualcosa di più. Afrodite era una dea molto complessa, l’elaborazione del mito di Afrodite in ambiente greco s’incentrò sull’idea dell’amore, inteso però non come sentimento, ma come forza naturale, un potere primigenio al cosmo ed allo stesso Zeus, nata dalla schiuma (afrós) del mare fecondato da Urano. Ed era un amore dalle diverse sfaccettature e lo stesso culto era diversificato, Afrodite Urania rappresentava l’amore puro e ideale, Afrodite Areia (guerriera) era rappresentata armata e associata al culto di Ares, Afrodite Anzeia (fiorita) era venerata come dea della fecondità in rapporto ai frutti della terra e raffigurata con fiori di mirto e di melo, Afrodite Pandemia (di tutto il popolo) era il simbolo dell’amore sensuale, volgare, venale, come Afrodite Euploia (della buona navigazione) o Afrodite Pontia (marina) era venerata come protettrice dei naviganti. Torneremo su Afrodite Anzeia con riguardo alla Santa pomiglianese di qui a poco, e vedremo perché. Intanto proseguiamo ritornando al rapporto tra queste divinità, o meglio tra quest’unica divinità femminile ed il mito di Parthenope.
Parthenope (termine che in greco Παρθενόπη significa appunto “ vergine”) le poche notizie che ci sono giunte al riguardo concernono soltanto i giochi detti Lampadedromie, una corsa con le fiaccole che ogni anno si compiva in suo onore. Secondo la leggenda era una sirena (analogia con la Cartaginese Tanit, trasposta in Afrodite) e si narra sia sepolta non a Napoli, ma nelle sue vicinanze. Ovviamente, e qui da notare il simbolismo nonché il legame con la sapienza virgiliana, basiliana, nonché con la Pistis Sophia, pare che sia morta nel luogo in cui oggi sorge Castel dell’Ovo. Taluno azzarda una affinità o commistione con Santa Patrizia, una delle patrone di Napoli, pure non esclusa; tuttavia la santa in questione è proprio sepolta nei pressi del Castello. Santa Patrizia era una vergine fuggita per motivo della sua fede da Costantinopoli e morta a Napoli a causa di una tempesta.
Ad ogni modo di Parthenope bellissima è la descrizione di Matilde Serao “ E’ lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore.” Senz’altro una bella descrizione, e interessante è l’accostamento di Parthenope con l’amore, forse con la nostra Santa? Qui inizia un’altra leggenda, quella dell’amore tra Parthenope e Sebeto, che ci farà ripercorrere il corso del fiume al contrario e porci nel mezzo non di qualche soluzione ma, come da incipit, di qualche curiosità, di qualche desiderio di conoscere, conoscere con la sapienza del cuore, che è passione, ovverossia la declinazione più bella dell’amore.
Il Mito del Sebeto è quello di una divinità fluviale generatrice di vita, un fiume che si estendeva per il territorio della provincia napoletana e percorreva la stessa Napoli, in loco sfociando. Lo si vuole sposo innamorato proprio della Sirena Parthenope, da cui ebbe addirittura, secondo alcuni, una progenie, la ninfa Sebetide che andò in sposa al re di Capri: Telone, dall’unione dei quali nasce Ebalo, primo re di Partenope. Vediamo un po’ di far chiarezza sul Sebeto, “Lo Bono Greco”, come veniva chiamato.
Citato soprattutto ed ovviamente nell’Eneide, precisamente nel Libro VII, da Virgilio, versi 733-740 “Èbalo, te n’andrai, del gran Telone/ e de la bella Ninfa di Sebeto/ figlio onorato. Di costui si dice/ che, non contento del paterno regno,/ Capri al vecchio lasciando e i Teleboi,/ fe’ d’esterni paesi ampio conquisto,/ e fu re de’ Sarrasti e de le genti/ che Sarno irriga. Insignorissi appresso/ di Bàtulo, di Rufra, di Celenne/ e de’ campi fruttiferi d’Avella.”
In questo caso Sebeto non è un dio fluviale ma una ninfa fluviale, Sebeto, madre del leggendario eroe Ebalo. La sostanza non cambia, parlando di miti, e conoscendo la tradizione esoterica del Virgilio mago medioevale, è molto probabile che il mito di Parthenope sposa di Sebeto sia nato per tenerne nascosta la valenza esclusivamente femminea e Sebeto e Parthenope siano in realtà una sola “persona” fusa, parliamo comunque di miti e di leggende, e se è pur vero il ritrovamento di alcune monete che rappresentavano un “giovane cornuto”-il corno era simbolo di vigore e fertilità maschile-, con inciso il nome “Sepeithos” e sul retro una donna alata e la scritta Neapolites, datate VI secolo a.C., è interessante seguire questa tesi perché è probabile è quella seguita dai basiliani e poi ripresa, per fascino, dai Pisani, con la trasmutazione e l’adattamento che alla fine vedremo. E poi la moneta potrebbe rappresentare non due entità differenti ma una unica divinità della fertilità con duplice attributo, classico espediente utilizzato dagli incisori, vale volgarmente ancora oggi il detto “due facce della stessa moneta”.
Anche Publio Papinio Stazio, nato a Napoli nel 40 d. C, nelle Silvae scrive : “il Sebeto vada orgoglioso per quella che ha nutrito” e Lucio Giunio Moderato Columella, di Cadice ma con diverse proprietà in terra napoletana, nel “De re rustica”, scrive “la colta Parthenope è bagnata dalla benefica acqua del Sebeto “. Interessante notare che l’ultima opera citata tratti di agricoltura ed è come se unisca la sirena e la divinità fluviale in un’unica essenza, rispecchiandone l’effettiva divinità agreste, come Afrodite Azenia, la fiorita. E’ indubbia la connessione dunque con la divinità della fertilità, il Sebeto e Parthenope. Un po’ come se la Parthenope colta rendesse fertili i campi per tramite del Sebeto che li attraversa. Una interessante metafora simbolica, una allegoria dell’attività svolta dai basiliani, sicuramente anche a Pomigliano, di rendere fertili le terre attraverso attività di bonifica? Ipotesi anche questa interessante. Giusto per accenno ricordo che il nome Afrodite, diffuso a Pomigliano, è spesso contratto in “Fiorella”, chiaro riferimento alla Ανϑεια, la divinità di tutto ciò che fiorisce e dà frutti, di ciò che rinasce e rallegra, che ha come sacri i fiori, i giardini, la primavera ed ha sacro il mese di aprile, rappresentata coronata di fiori, specialmente di mirti e di rose, accompagnata spesso dal melo-il pomo pomiglianese?- Azenia, ossia che favorisce la fioritura, il nascere e il maturare dei frutti.
Ed ancora più interessante notare che Jacopo Sannazaro, massimo esponente dell’Arcadia, nato e vissuto a Napoli nell’opera omonima –Arcadia- canta ancora il Sebeto come luogo di delizie campestri. Sincero, infatti, nelle ultime due egloghe e nella prosa tra queste compresa, ha in sogno un doloroso presentimento sulla donna amata, decide di partire e ai piedi di un monte trova un sentiero magico che lo conduce a Napoli, dove trova, alla sorgente del fiume Sebeto, due ragazze che gli comunicano la morte della donna.
Storicamente il fiume, già nel primo medioevo, non esisteva più, se non come piccolo fiumiciattolo “ ’o ciummo”, tra gli altri il Petrarca ed il Boccaccio vennero a Napoli per ammirarlo ma non trovarono che poca cosa, nulla a che vedere con il maestoso generatore di fertilità, il corso Ανϑεια, il floris flumen, cantato dalle leggende, che trasformava, come narra uno dei prodigi del solito Virgilio mago, le paludi (sebe potrebbe significare proprio acqua salmastre, palude) in terreno fertile –ancora simbolo dell’attività dei basiliani?-.
Tra le varie collocazioni ipotizzate ed i vari percorsi possibili a noi piace sostenere una ipotesi, che tra l’altro appare la più plausibile, il fiume nascerebbe dal Monte Somma e non dalla Bolla (cioè Volla) dove invece stazionerebbe, e dopo aver percorso le campagne di Pomigliano, Casalnuovo, Cercola, Barra, arricchendosi lungo il cammino delle acque di fiumi minori, dei torrenti che scendevano dalla collina di Poggio Reale dall’acqua piovana, di altre acque paludosi o salmastre, giungerebbe a Napoli nei pressi di via Cirillo, dividendosi in due rami, uno sfociava ove vi è il Ponte della Maddalena, il cosiddetto “Rubeolo”, piccola riva, l’altro nei pressi di piazza Municipio, vicino a dove sorge il Castel dell’Ovo. Due diramazioni quindi, la seconda costeggiava tutta la città, riceveva come affluenti i corsi di acqua che abbiamo visto, i tre torrenti della Arenella, della Sanità e di Miano, passava per l’attuale via Foria scendendo quindi nella zona di Piazza Municipio.
Dove la fonte? Sicuramente nel Monte Somma e non a Bolla. Una delle ipotesi avanzate, ed è quella che sposiamo proprio in coerenza della nostra tesi, è che sia nei luoghi ove ora sorge la Chiesa di Santa Maria del Pozzo, scendendo di lì lieta sino alle terre pomilie, svoltando a sinistra per via Passariello, depositandosi nella Vasca, il Parco Pubblico, e giù fino alla chiesa di Santa Maria del Carmine, proseguendo poi il cammino verso Casalnuovo.
La Madonna del Pozzo, detta anche “Santa Maria del Pozzo Madre”, “Regina di Misericordia”, o “Maria Santissima del Pozzo” è uno dei tanti appellativi con cui la Chiesa venera la Madre del Cristo. Venerata principalmente in Puglia, è rappresentata con un’icona in stile bizantino, cosa che non ci stupisce, riecco i basiliani!, a mezzo busto, viso roseo circondato da un’aureola con scanalature a raggiera coperta sin dal capo di un manto rosso paonazzo, con un ampio panneggio, sul petto e sulle spalle, mentre sul braccio sinistro si posa Gesù Bambino, vestito di bianco, con aureola dorata, in atto benedicente con la destra e reca nella mano sinistra un rotolo di papiro, da sempre simbolo della sapienza, sulla spalla sinistra del Gesù Bambino scende un manto di colore smeraldino. La storia racconta che un tale don Domenico Tanzella nel 1705 fu miracolosamente guarito bevendo l’acqua del pozzo pugliese, ove fu in seguito trovata un’icona bizantina della Vergine, quella sopra descritta. Ciò testimonia che il culto era probabilmente di molto antecedente, probabilmente, ed anzi diciamo sicuramente, importato dai basiliani, di provenienza bizantina. La Madonna comunque riveste un ruolo cardine, è anche, tra l’altro, la compatrona dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Fatta questa debita premessa torniamo a Somma Vesuviana, la Chiesa era in precedenza affiancata da un Convento e da una Biblioteca, e non è più visibile, essendo sprofondata a seguito della alluvione del 1448. La chiesa attuale fu edificata nel 1333 per volere del Re di Napoli Roberto d’Angiò, in onore del matrimonio della nipote Giovanna I con Andrea d’Ungheria, figlio del re Carlo Umberto. Inoltre, poco distante, lo stesso Roberto d’Angiò fece erigere una chiesetta in onore di “Nostra Donna” o “Nostra Dama”, per valorizzare l’evento. L’appellativo del Pozzo, secondo l’ipotesi più accreditata, deriva da una antica raffigurazione della Madonna, o da una Vergine dipinta in un pozzo nella adiacente Villa Romana. Aspetto interessante, in quanto potrebbe sussistere una venerazione di Maria Santissima del Pozzo anteriore a quella pugliese. La chiesa sorge su di un antico ipogeo, scendendo nella parte sotterranea si conserva il dipinto di “Santa Maria del Pozzo”, o “Santa Maria del Latte” perché raffigura la Vergine che allatta il Bambino. Anche in questo caso si tratta di una possibile raffigurazione della fertilità, della rigenerazione, della “Vergine Nutrice”, con tutti i riferimenti sopra riportati. Un aspetto importante e che avvolge ancora di più la Chiesa in un alone di mistero è il fatto che la Biblioteca, oggi, non esiste più ed i libri sono conservati presso la sede del I Circolo Didattico di Somma Vesuviana, ma alcuni ritengono che i libri siano molti di più, e nascosti altrove per motivi sconosciuti. Aspetto quantomai strano e singolare.
Dopo questa disamina, senza alcun pregio scientifico ma da prendere come un racconto basato su fantasia, intuizione e memoria, giungiamo al termine, tornando al 1843, tornando ai Pisani.
Che questi, seguaci di San Girolamo, valenti studiosi, conoscitori del latino e del greco, precettori dei fanciulli pomiglianesi, abbiano attinto alle tante leggende ora descritte, al mito di Parthenope, derivazione di Afrodite Azeia, e del Sebeto quindi, sull’alveo del quale sorgeva la prima “Santa Croce” basiliana? E poi, l’Afrodite contratta in Fiorella a Pomigliano è un ricordo, quindi, della suddetta Afrodite Azeina, la “fiorita”, colei che, ninfa del Sebeto, Parthenope, rese quelle terre paludosi fertili e fecondi, così come uno degli episodi attribuiti a Virgilio mago e così come tipico dell’attività dei basiliani? Da notare che il culto di Santa Veneranda o di Santa Venera- spesso erroneamente identificate- è diffusissimo nell’Italia Meridionale, sostituendo spesso quello di Venere, c’è ad esempio una Chiesa dedicata a Santa Veneranda a Taormina dove sorgeva il tempio di Afrodite. Santa Venera sarebbe nata il venerdì Santo dell’anno 100 d.C., nella zona delle terme romane Xiphonie vicino Acireale, dette anche Terme di Santa Venera al Pozzo figlia di due nobili cristiani della Gallia. La madre voleva che si chiamasse Venera in ricordo del giorno fortunato della sua nascita, però il padre, temendo che quel nome potesse essere confuso con quello della dea la chiamò Veneranda, ma i greci della contrada, ispirandosi al nome usato dagli Ebrei nell’indicare il giorno precedente al sabato della Pasqua, nel quale era nata la fanciulla, la chiamarono Parasceve. Consacratasi a Dio, Venera studiò la Bibbia e le vite dei martiri e, dopo la morte dei genitori, si sarebbe dedicata per dieci anni all’ascesi e poi, dati tutti i suoi beni ai poveri, cominciò a predicare il Vangelo spostandosi da un capo all’altro della Sicilia, e della Calabria e Campania, non trascurando l’assistenza a poveri e malati. Arrestata a Locri dal prefetto Antonio, il quale avrebbe cercato invano di ricondurla alla religione romana, prima con inviti e poi addirittura con atroci torture, dalle quali però Venera sarebbe uscita illesa. Il prefetto Antonio si convertì alla vista di tanti miracoli. Dopo questa esperienza, Venera avrebbe ripreso l’attività missionaria, percorrendo quasi tutte le province della Magna Grecia e convertendo molte persone, fino a un nuovo arresto da parte delle autorità locali (in particolare si fa il nome di un certo Temio), che l’avrebbe sottoposta ad altre torture ma dalle quali, anche stavolta, sarebbe uscita illesa ed avrebbe convertito il tiranno Temio. Sarebbe poi morta in Gallia, o secondo altri nella stessa Sicilia in seguito a una condanna alla decapitazione. Ipotesi non remota, ma che credo i Pisani abbiano corretto, arricchito con le leggende di cui ho ampiamente parlato, in particolare con la Afrodite Fiorita, e traslato in terra pomiglianese altre spoglie, non quelle di Veneranda. Poi abbiano introdotto il culto di Santa Afrodite, martire e Vergine, miscelando Venera, la Afrodite Fiorita e le altre leggende collegate sul Sebeto con una Santa cara al loro ordine, e simile ad Afrodite per provenienza, costumi ed assonanza, santa Afra di Augusta. Presente proprio nel “Martyrologium Hieronymianum” “Martirologio Geronimiano”, ordine di appartenenza dei Pisani, fu originaria di Cipro (ricordiamo che Afrodite, per i Greci, nasce proprio, secondo la leggenda, nell’isola di Cipro dalla spuma marina) ma si trasferì ad Augusta. Afra era una meretrice che, convertita al cristianesimo, ma non ancora battezzata, fu martirizzata durante la persecuzione di Diocleziano, arrestata e condannata al rogo.
Che tale venerazione, seppure autorizzata dal Papa, andava scomoda, stretta, al clero locale perché, come scrisse il Sottintendente di Casoria al Vescovo di Nola demoralizzava i paesani? Questi i motivi dei frequenti dissidi tra parrocchia e convento all’epoca dei Pisani, più ancora od assieme alle ragioni economiche? Da sottolineare che molte fanciulle e per largo tempo, dopo che i Pisani furono cacciati nel 1866 per l’abolizione degli ordini religiosi, non furono sempre battezzate solo col nome di Afrodite, ma ad esso si aggiungeva quello di Maria, come per cancellare per sempre il culto della “Santa”. Certo Afra d’Augusta, traspostacon arricchimenti in Sant’Afrodite, non era una santa normale per dei paesani di provincia, meretrice, martirizzata non battezzata e condannata al rogo, un po’ sui generi, un po’ Santa un po’ eretica, una sorta di Giovanna D’Arco pomilia.
Un ultimo particolare che non abbiamo approfondito e che qui gettiamo giù con pochissime parole. Come anzidetto l’autorizzazione concessa alla e la dipendenza della Chiesa di Santa Croce in Pomigliano era nei confronti della Chiesa dei Santi Sergio e Bacco, presso il Castrum Lucullianum. Santi martiri in Siria e forse collegati a questa storia di leggende sotterranee d’amore e di fantasticherie, i due Santi, infatti, sono spesso rappresentati con un’unica aureola o tenendosi per mano, emblema di un amore casto, puro, ma che unisce i due in una comunione di spirito. Un amore che era caro ai basiliani, alla loro vita monacale, di comunione ma anche di purezza.
Ricordiamo ancora una volta che Sant’Afrodite non è annoverata ad oggi tra i Santi o i Beati, Veneranda, Venera ed Afra d’Augusta sì. Ed è giusto nominare due Santi legati a Pomigliano, Sant’Antonio Abate, che la leggenda vuole abbia consentito a Pompeo di fondare la cittadina, e San Felice in Pincis, patrono della città.
APPENDICE “Passione di Sant’Afra di Augusta”
Nella Rezia, infierendo la persecuzione, accadde che in Augusta de’ Vindelicii Afra, femmina di perduti costumi, venisse carcerata: la interpellò il giudice: “Sagrifica agli Dei; a ciascuno, ma specialmente a persona pari tuo, giova vivere”.
Afra: “Son anche troppe le colpe in cui caddi mentre ignorai Dio; questa a cui tu mi chiami non sarà mai ch’io la commetta”.
Gajo giudice: “Vieni al Campidoglio, e sagrifica”.
Afra: “Mio Campidoglio è Cristo, che mi sta davanti gli occhi: a Lui vo continuamente confessando i miei peccati; e, perché sono indegna di tributargli oblazioni, me stessa desidero sacrificargli, acciò quelle membra che mi furono organo d’infamia si rimondino mediante i tormenti che soffriranno per amore di Lui”.
Gajo: “Ti conosco; sacrificherai; devi essere aliena dal Dio de’ cristiani”.
Afra: “Il mio Signore Gesù Cristo ha dichiarato d’essere disceso dal cileo per riscattare i rei; la Peccatrice che gl’irrigò i piedi delle sue lagrime fu perdonata; non disprezzò il Pubblicano, e lo accettò commensale”.
Gajo: “Cristo non può tenerti degna di sé; e mal a proposito appelli tuo Signore Lui, mentr’è noto che tu non sapresti essere sua: le femmine pari a te non possono qualificarsi cristiane”.
Afra: “Non merito d’essere né di venire qualificata cristiana; eppur lo sono per la misericordia di Dio, che non consulta i meriti altrui, ma la propria bontà”.
Gajo: “E come sai che ti abbia accettata?”.
Afra: “Conosco che non mi respinse dal permettermi che fa questa gloriosa confessione del suo santo nome, la cui mercé credo di aver a riuscire monda da ogni passata bruttura”.
Gajo: “Sono favole” sagrifica piuttosto agli Dei, da’ quai ti provverrà salvamento”.
Afra: “Il mio salvamento è in Cristo, che, confitto in croce, promise al Ladrone le beatitudini celesti”.
Gajo: “Sagrifica ond’evitare ch’io faccia strazio di te”.
Afra: “Provo una sola confusione paurosa, quella de’ miei rimorsi”.
Gajo: “Ti ripeto di sacrificare; già tengomi ad ingiuria avermi tu fatte sprecare tante parole”.
Afra: “Soggiacciano pure a strazio le membra che mi furon occasione di peccato: io non prostituirò l’anima vendendola a’ demonii”.
Tosto i carnefici la trassero in un isola del Liri e l’avvinsero ad un palo: ella orò piangendo: “Onnipotente Signor mio Gesù Cristo, che non sei venuto a chiamare i giusti ma i peccatori a penitenza, le cui promesse son vere e manifeste; Tu che dicesti che nel punto in cui il colpevole di dorrà delle sue pecche, Tu avrai cessato di memorarle; accoglimi contrita in quest’ora della mia passione, e mediante il fuoco momentaneo che brucerà il mio corpo, liberami da quello eterno che mi brucerebbe contemporaneamente anima e corpo!”.
Pronunciati ch’ella ebbe questi detti, la sua voce fu ancor udita tra le fiamme: “Ti rendo grazie, o Signore, che mi accettasti vittima, tu, che lo fosti del mondo: clemente cogl’ingiusti, buono a’malvagi, benedicente ai maledicenti, innocente tra’contaminati…”, e la sua vita si spense…
Stavano sulla opposta riva, guardando, le ancelle della Martire, Degna, Eutropia, Ennonia, state a lei compange pria di peccati poscia di battesimo; veduta ascendere il fiume una barca, pagarono il navicellajo che le tragittasse; raccolsero le ossa della padrona e vennero notturnamente ad Ilaria, madre sua, che le trasferì al domestico sepolcro.
Riseppelo Gajo, e spedì soldati, che, in conformità agli ordini avuti, trovate le pie donne adunate nel cavo mortuario, ne sbarrarono l’accesso con fasci di paglia, e accesale, ve le fecero morire soffocate ed arse.
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Sannazzaro Jacopo; Arcadia
Serao Matilde; Leggende Napoletane
Giovanni Di Rubba
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