L’artista dell’Underground partenopeo Mathilda dipinge la misteriosa Santa pomiglianese Afrodite

I Padri Pisani, ovverosia della Congregazione del Beato Pietro da Pisa, Pietro Gambacorta, che raccolse questi frati  fondando, La Congregazione dei Padri Pisani di San Girolamo, seguenti la regola dell’autore della Vulgata.

Questi erano stati richiesti dal popolo che dopo un po’ li ebbe in odio per la loro venalità e continua richiesta di proventi.

Ad ogni modo i Pisani, quivi chiesero ed ottennero nella metà dell’Ottocento le reliquie della Santa Afrodite, una fanciulla che subì martirio e ritrovata nelle Catacombe di Priscilla.

Come vi erano arrivate da Eraclea non è dato saperlo, se trattasi della stessa Afrodite, comunque all’epoca e per tutto il medioevo era diffuso il traffico di reliquie.

Comunque i Pisani raccolte diverse questue fecero realizzare una scultura dal grande artista Catello, stamparono un libretto e riposero le reliquie nella lastra conservando in sagrestia la Bolla di Papa Gregorio XVI che elevava la Chiesa a dignità di Santuario.

Trattasi di Santuario Universale in quanto istituito con bolla Pontificia e, pur non essendoci più le reliquie della Santa resta Santuario.

Nel 1866 i religiosi, con la soppressione degli enti ecclesiastici, fuggirono e non si sa che fine fecero le reliquie e la statua del maestro Catello.

La professoressa Vera Dugo Iasevoli sosteneva che Sant’Afrodite subì martirio sotto Sotto Costantino, nel 312, ove vi era un convento di 40 monache  sotto un diacono, Ammone, a Berea.

Nonostante l’Editto di Costantino avesse legalizzato e tollerato il culto Cristiano, in quella Provincia vi era il terribile Licinio, che le condusse ad Eraclea ed ivi le martirizzò, avendo costituito una  comunità di vergini e vedove cristiana.

Da accertamenti compiuti grazie al giornale per cui mi vanto di scrivere, unico per precisione e serietà, “Report Vesuviano”, siamo riusciti a rinvenire non solo i Preci ma un libricino contenente anche il martirologio ed una Commedia in tre Atti, commissionata quest’ultima al maestro Sala dai Padri Pisani pomili

Quivi scoprivamo che il martirio avveniva sotto Marco Aurelio, in epoca anteriore a Costantino e, ripercorrendo dalla fuga l’iter dei Padri Pisani ritrovavamo l’attuale ubicazione delle reliquie, nel Santuario della Cattedrale di Cagliari.

In loco vi sono più di 172 martiri, ed ognuno ha la propria statua.

Comparando l’icona bizantina reperita dalla Dugo con la statua cagliaritana, Mathilda, pittrice dell’Underground partenopeo, ha realizzato un olio su tela dedicato alla Santa.

L’icona si mostra ben più luminosa della Bizantina e l’ocra dello sfondo sfuma all’avvicinarsi al capo della Santa rilucendo l’intera immagine.

Sui due lati in alto campeggia la scritta Aghia Aphrodith, Santa Afrodite, in un intenso colore rubineo. Il volto è aggraziato con zigomi spigolosi e gentili, gli occhi sono volti in fare serafico alla sinistra del fruitore, dandone un rilievo mistico di non poco rilievo, così le labbra, di lieve intensità.

La potenza mistica del guardar altrove e del porgere anche la mano come a fermare ciò che è nel reale si spiega, nella intenzione della artista, realizzando il dipinto in sezione aurea orizzontale, tracciando una linea immaginaria che passa da sotto il collo, altezza del bottone, la parte superiore del dipinto è il paradiso, la Verità, il metafisico, ove la martire è già proiettata, in estasi. La parte inferiore, invece, è la realtà, terribile, del martirio che sta subendo. Ella si ribella ma è già, come cantando tra cori angelici, rivolta altrove.

Al di sotto indossa una veste blu marino, simbolo del cielo, mentre l‘ocra luminoso che fa da sfondo è il cielo dei cieli. Il blu rappresenta, infatti, l’azione della Santa durante questa vita, il fare attivo, il dedicarsi a Dio, mentre il velo bianco la purezza e le stelle nere si accendono come azioni Sante compiute, tutte nere o cercate di compiere con bordo nero ed interno bianco.

La carnagione accenna ad un colorito orientalizzante, ma tendente all’olivastro, tipico dei popoli dell’Italia Meridionale all’epoca. Le mani, possenti nel gesto, hanno un colorito più intenso, segno di forza con cui respinge la violenza e di lavoro compiuto per la salvezza delle anime.

L’una che ferma è sostenuta da l’altra con stretta una croce dai quattro raggi simbolo dei quattro elementi, fuoco, acqua, aria, terra, che confluiscono nell’etereo divenire.

Il ritratto è una sapiente commistione di stili, dal bizantino, al gotico, al precristiano e catacomabale con tracce di giottismo.

Giovanni Di Rubba

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