I ragazzi nell’era cibernetica

Con riguardo alla adolescenza siamo passati, dal duemila ad ora, dall’homo loquens all’homo videns sino addirittura all’homo digitans.

Il Ragazzo non solo è estraniato e vede ciò che gli viene propinato dai media ma risulta essere egli stesso media di futilità antropico-sociali che lo collocano alla stregua del soffiatore d’insetti, apprende ma muta e mai è stanco.

Se nel secondo dopoguerra sino agli ultimi sgoccioli del secolo scorso la TV, prima generalista, poi affiancata dalla commerciale, aveva reso l’essere umano ed in particolare i giovani alla stregua di idioti sociali, assopendone le attività e diffondendo un linguaggio unico e standardizzato, l’italiano corrente di Mike Bongiorno, e di più gli adolescenti estraniati nel pensiero e nel ragionamento, sopiti da verità preimpostate e preconfezionate, dunque alienati dal pensiero critico, dall’inizio del millennio, con la diffusione della telefonia mobile prima e della comunicazione digitale poi, il problema è andato acuendosi alienando in misura maggiore l’adolescente soprattutto, in ciò che distingue l’uomo dall’insetto, nell’espressione compiuta del pensiero, la comunicazione, che è partecipazione. L’idiota è divenuto pazzo, autistico, chiuso in sé ed ovunque in contatto, in contatto con tutti squittisce e muove le sue antenne piccine. Sgalambro docet “comunicare è da insetti, solo esprimerci ci riguarda”, continuando col sostenere che la comunicazione è del branco, dei famelici lupi –ahi, aggiungiamo quanto ricorda a Nostro avviso questo branco la violenza degli adolescenti in branco, ahi quanto è vizio comunicativo- oppure del fastidioso ronzio delle mosche nel mercato nietzschiano, la ripugnanza agostiniana del male, che nelle Confessioni definiva informi non già cose prive di forma compiuta ma cose disgustose, il comunicare del branco, che si prepara alla lotta o al riposo, il comunicare di massa, dei mass media, che serve a stupire, divertire, a rovinare nel putrido fango come le svelte scimmie che si arrampicano sul trono di un idolo che nel fetore è trono colmo di fango, quello Stato mercantilista tanto odiato da Nietzsche (Così parlò Zarathustra)! E fango genera fango, la curiosità heideggeriana da comare è notizia, la bile vomitata dai giornali, per tornare al professore di Basilea (ibidem), il Grande Fratello orwelliano (1984)  che tutto vede e che è sia comunicazione di massa, sia curiosità da reality. L’ipertesto che domina sul testo, il nuovissimo medioevo glossante ove ognuno posta e modifica la realtà, amplifica la propria porzione di reale occultando sempre più il vero e la Verità, rendendo verità mercimonio.

Nell’età cibernetica, nel mondo cibernetico, tutto è mercato, anche le idee, anche l’identità. Tutto è globalizzato e tutto ha un prezzo e quindi tutto disprezzato, il prezzo toglie valore, lo mortifica, toglie l’anima all’idea. E, quindi all’identità, che, come sostiene Romano, non è in grado di formarsi né di auto-formarsi curando quel processo relazionale che dà senso al coesistere solo nel riconoscimento e nella condivisione con l’altro. Un processo che lo stesso Romano ci ricorda come sia agevolato dal convincimento che la velocità-cibernetica diremo- di acquisizione della propria identità, ovverosia di differenziarsi dalle cose e dagli altri, sia raggiungibile facilmente con l’accesso a mondi virtuali, a reti informatiche, che divengono iper-reali per il fatto proprio di non essere reali, non fissabili mentalmente né materialmente ma flessibili e non definiti, labili, come i rapporti interpersonali. E la dimensione economica retta dal mercato dei prezzi è l’unico indice di tale relazionarsi, relazionarsi che avrebbe invece bisogno di quello che il Romano chiama “linguaggio evocante”, caratterizzato dall’essere disfunzionale e non anticipabile in calcoli, sottratto alla proprietà dell’accesso. Il linguaggio dell’empatia e dell’amore, il linguaggio, diciamo Noi, del sacro e del religioso, del mistico rapporto, dell’indecifrabile. Notiamo ancora che tale identità è acquisita, in questa società cyber-post-industriale dalla figura del consumatore costruito dall’alto ma utilizzando categorie del basso, immagini accattivanti, scarso senso critico, parole semplici ed efficaci, illetterate, subdole, una cultura figurativa quindi, che non produce solo per sé come nelle società autocratiche e familiari, né che genera un accrescimento dei bisogni alienante ma nell’ottica della divisione del lavoro, come nelle società industriali, ma addirittura alienante perché genera identità, genera un consumatore studiato a tavolino, calcolabile, privo di identità propria. Una identità sgravata da confini naturalistici e posta nella rete informatica. Se, infatti, Fichte sosteneva “L’uomo diventa uomo solo con gli altri uomini” in un rapporto di costruzione della identità mediante il riconoscersi nell’altro e quindi diverso dall’altro stesso, il rapporto qui diviene uomo/mere, merce causa e relazione tra gli esseri parlanti (mai più pensanti) l’altro è qualcuno perché è qualcosa. Una connotazione questa tratteggiata dal Romano che ci fa giungere alla oramai certa verità che la attuale società non è solo autistica, deframmentata, a tratti schizofrenica, ma soprattutto narcisista. Non esistono pensanti esistono merci, l’uomo è divenuto un utensile. E per di più un utensile non reale ma iper-reale, ove non vi è posto neanche per la fantasia, per l’immaginazione. Se l’immaginario era alibi del reale in un mondo dominato dal principio di realtà, oggi è il reale che è divenuto l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione

L’uomo è le sue sinapsi, l’uomo è merce, l’uomo è utensile, e ciò pone problemi di non poco momento riguardo la colpevolezza, se vero è che ciò che è spiegabile non è imputabile perché esula dalla libertà e dunque dalla responsabilità ma appartiene a cause specifiche dei casi. Su ciò torneremo nel terzo capitolo.

Concludiamo il presente paragrafo solo con alcune riflessioni meritevoli del De Lalla, che possono orientarci su una prospettiva futura. Ed io mi soffermerei su tre punti. In prima istanza sulla gerarchia dei valori di Scheler. I quattro livelli sono esemplificativi, se il primo si lega alla valutazione gradevole/sgradevole e dunque al sensibile, il secondo è quello dei valori vitali, salute, malattia, vecchiaia, morte, il terzo è campo di valori spirituali, quali i valori morali, estetici, giuridici, il quarto è quello della dimensione sacrale. Tralasciando le riflessioni squisitamente inerenti alla politica ed all’homo socialis, qui interessa notare un passaggio fondante che ben si lega alle riflessioni del Romano, ovverosia che la scienza moderna, empirica, basata sull’Erfahrung, è soprattutto tecnica, come risultante della cooperazione controllata tra sensibilità ed intelletto-intelletto come calcolo ma anche come logica- di essa ha ripreso il tono-base. Ed è facile concludere che l’età cibernetica, a Nostro avviso, ha compiuto se non una regressione quantomeno una accentuazione di tale livello primigenio, tipico dei primati non umani e della tecnologia strumentale. A ciò si aggiunga il secondo livello, tipico della vitalità e collegato al primo “tecnologico”. Esuberanza, vitalità, utilità, etc. questo il contorno, a ciò si limita l’era cibernetica. E questo è l’uomo utensile, corda tesa tra lo sviluppo tecnologico esponenziale e la bestialità vitale, tra impulsi irrefrenabili e criteri meritocratici figli dell’utilitarismo. E un secondo livello in qualche misura depotenziato dal connubio con la tecnica, col primo livello. Ci viene in mente la riflessione di Baudrillard su “Crash” di J.G. Ballard , che descrive un mondo dove non c’è affetto né psicologia, né flusso né desiderio né libido o pulsione di morte, ove alberga selvaggeria della mistura di tecnica e corpo, immanente, dove persino la sessualità  è una sorta di vertigine potenziale di segni nulli del corpo, mero rituale simbolico d’incisione dei segni, alla guisa dei graffiti.

Il secondo ordine di riflessione ci porta al capitolo conclusivo della citata opera del De Lalla, “La democrazia comunitaria”, da cui è possibile trarre alcune riflessioni a tratti illuminanti sulle prospettive future e sull’inquadramento dell’era cibernetica.

Di questo rimandiamo

Giovanni Di Rubba

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