Clizia; Frederic Leighton
Erminia
Erminia,
et in arcadia ego,
tagliuzzate le vene
più di un anno fa,
musica dell’mp3 nelle cuffie
in riporto
mista di canzoni d’amore.
Sguardo alto sotto la doccia,
principessa delle serate
uno sprazzo sereno
e poi pupille dilatate!
Il treno che ci accompagnava
nei discorsi vuoto è ormai,
un filo solo si addipanava,
naufragava
verso incogniti prati azzurri
cori serali
e lamenti mattutini.
Poi le grida di rabbia
erano voci velate
soffocate
e dal tedio offuscate.
Dall’oblio sepolta
il candore della pelle
non ha saputo il vento smorzare.
Tenuti insieme per mano
tracciavamo costellazioni
sognanti
e veementi sprazzi di noi,
frammenti di domani.
Il gaudio dei tuoi dolori,
la noncuranza nemica.
Muta,
la società la risposta
ai tuoi desideri non l’ha data.
Erminia carta stampata
e disegno
di ogni costellazione,
nella melodia
del mio ultimo accordo.
Discorsi folli
Pioggia toccante
e cinematografica nella tua mente.
Sete giallognola
e aspra tra le gengive
e gli incisivi sporgenti.
Stracolmi di euforia
gli ubriachi della sera
ondeggiano a sinistra,
lieve il caduco introito di destra,
spalmati come cioccolata
i neuroni
o pronti all’assedio bellicoso,
un grappolo d’uva.
Messaggi telepatici
ed incanto bilingue
della nazione destrimane
e cilindrica,
sensazioni di quiete.
E la tempesta a volte
segue questa calma
nell’incrocio di sguardi,
pensieri ovattati.
Il vichiano corso e ricorso
dei bestioni e degli umani,
dei villani e dei baritoni,
privi di titoli accademici,
i maestri distratti dalla natura,
pensieri malandati
dall’incuria guizzante della paura.
È la follia la molla della storia,
è questa la verità
neanche amara,
ha un retrogusto dolciastro.
Siamo in simbiosi.
Ci esuliamo come assediati
ma siamo noi lo specchio del destino.
Il mondo sbarazzino,
lo sguardo tuo non è da meno,
mangiucchiamo qualcosa,
hai fame?
Prendi ciò che sai
tanto la fame si dissolve
come un fantasma,
comportamento alimentare
da adolescente sbadata
a ingurgitare patatine vertigo.
Il nido d’uccello
è il nostro fisso sguardo,
un’altra fissazione.
Discorsi folli come la storia
che si muove come quei tre ubriachi.
Una sigaretta accesa,
l’odore del vento si confonde
con quello del tempo
ed ora leggi a ritroso
quello che ho scritto
e quello che scrissi.
Il circolo indo-nietzschiano
è l’inizio dell’origine
e la fine del principio finale,
è un susseguirsi di invettive
contro poveri cagnolini
che si mordono a trotto la coda,
se l’immagine è il serpente
nella dannazione edenica
il re del mondo
ha maledetto anche il tempo
che dissipa e consuma
i nostri corpi giovinetti.
L’astrazione matematica
delle cose naturali
perde il contatto con la realtà,
ma nel paradosso è quella
l’unica certa verità.
La matematica infallibile
dà più volte segni di resa.
Il vero iperuranio è nei pensieri
dei poeti
non nelle quattro assurdità
del teorema dei carabinieri
o del coseno di gamma,
cercalo piuttosto nella pioggia
sulla sabbia,
astratta ovviamente
dalla mente sensibile e cordica,
la mente dell’anima.
La sedicente saracena
La sedicente saracena
con un velo che le copre il capo
e le spalle
sorride timorosa alla finestra.
Federico il mecenate
nella corte siciliana
a comporre sonetti e canzoni
coi suoi notai ed amministratori,
fiduciari di versi.
Tartari che scendevano
come nebbia,
beduini sepolti
dalla foschia del fumo
o dalle sostanze violacee
che inalavano in sostituzione
per mistica ascensione.
È l’inverno che tarderà quest’anno,
che mostrerà il varco montaliano
ed atteso,
è l’autunno che libererà
il giogo delle catene,
senza pretese.
Lungo il tratturo antico al piano
si abbeveravano i pastori
mentre D’Annunzio sorvolava Vienna
con manifesti
inneggianti alla patria e al pacifismo.
È l’inverno che si spera
libererà dall’oppressione afosa
dell’indifferenza,
è l’inverno della speranza,
della mia assurda pretesa,
quella di viver la vita,
la pretesa folle di felicità
seppure solo sfiorata,
colta in un attimo di verità.
Alle porte del destino
Alle porte del destino
di nuovo io e te mano nella mano,
con le bocche traboccanti
di bacche balbettanti
e claudicanti
per i temuti incanti,
parlare a stento,
come assordati
e respingere le insidie
della paura
cogli abbracci reciproci
e remoti nella loro attualità.
Esser pronti per un lungo viaggio
in una difficoltosa foresta,
temere la tempesta,
il vuoto e qualche naturale vendetta,
poi perdersi allibiti
dallo spettacolo dei pini,
degli abeti, delle querce
e sentirsi come ginestre
sperse eppure coraggiose.
Dici no, dici che nei sofismi
sull’essenza un ricordo può servire,
alla ricerca di quello perduto
non trovo resa.
Passeggiare per le strade isolate
con il calendario tra le mani
ignorando itinerari,
domandarsi la conservazione caratteriale
se può avere quell’influsso astrale
di cui tu mi parli sempre,
poi capire che la scrittura,
il cielo è tutto e dio con lui,
sì è così le scosse telluriche,
i maremoti, le maree,
le temperature
e gli aspetti caratteriali
ce li dan le stelle
nel loro superbo danzare.
Oppure no, dici no,
dici non generalizziamo, c’è l’eccezione.
Ma ti dico, è questo il punto,
non c’è regola che tenga,
le nostre vite sono solo anarchiche
eccezioni figlie però
di un sincretismo universale.
Hai da accendere?
L’accendino l’ho dimenticato.
Incedi con passo leggero
Incedi con passo leggero
coperta solo del tuo velo,
il mare scosso dal tuo adagio
e l’erba cresce ad ogni palpito,
sboccia un fiore ad ogni gesto.
E poi ti vedo tracciare le parole
che non sai ascoltare,
con la grazia delle piante rampicanti
ti adagi sul mio corpo e gli dai vita.
E sono in preda ad un affanno,
ma le tue mani già lo sanno,
sapienti carezzano un sorriso
che dalle labbra inonda il viso,
un’esplosione di colori.
E continui a tracciare
storie che non vuoi raccontare,
e continui a ricoprire
questo vento col silenzio.
Poi tra i flutti sembri scomparire,
come Venere a ritroso
ritorni sirena generata
da una conchiglia innamorata.
Ed è ancora sera
La sera stende il suo manto,
un sole rossiccio m’illumina,
è incanto.
La sera stende atmosfere
celate agli occhi degli orbi,
della dualità trinitaria
persa nei borghi
scanditi da chiare pupille
della docile ragazza
con le cuffiette alle orecchie
e un refrigerio nella mente.
Sembra che non bastino parole
a smorzare i silenzi,
sembra che non bastino silenzi
ad incutere i tuoi tepori serali.
E dallo sguardo sperso scruto
rimasugli d’incenso,
le nostre serate
sono leggere ed estive,
indimenticabili ed indimenticate,
come due natanti all’incrocio
di piatti suoniamo
melodie nell’afa sbiadita,
può darsi la penombra
un mistero ditirambico ci sveli.
Ed è ancora sera.
La mia passione è svilita,
sembra infittirsi la voglia
di respirare l’uno ed il tutto.
Ma come può un germoglio
sfiorire senza appassire,
può nel ricordo vivere
senza svilire,
ed è la memoria che mi salva
dal tedio e mi affligge
come rovescio di medaglia
celtica e incisa su bronzo
restio all’incrocio di sguardi,
e tu ancora mi guardi
e strizzi l’occhio.
Ed è ancora sera.
Restò una dolce viola candida
Le fondamenta del mio pensiero
tracciavo con cura,
vittime dell’arsura
del lavorio incessante
come sciami di formiche,
fisso in maniera salda
il trivio e il quadrivio
come cardo e decumano,
la realtà triplice
come pietra di volta,
quella d’angolo
una giravolta etilica
e candidamente rubiconda.
Poi mi assalirono mille dubbi,
tutto da capo,
tutto da rifare.
Poi mi assalirono mille problemi,
il tutto è già scritto
con piume d’oca,
ma ne varrà la pena?
La salda pietra
sotto la scossa del reale
perse il barlume di vero
e a colpi tellurici
rovinò a terra.
Restò una dolce viola candida,
restò solo una come dolce empirea
rosa candida
frammento di memoria
e flusso coscienziale.
Conosci a fondo le mie paure
Si lamenta nel tormento atroce
di un’età senza più voce.
Conosci a fondo le mie paure
più segrete e già scrutate
dagli attimi fuggiti,
come adolescenze in bilico,
passeggiate in bici.
Potrei ora divagare,
potrei sfiorarti con le mani.
Potrei ora silente
fiatare il mio ultimo lamento.
Ma credo che la prospettiva
del domani si imponga inaudita,
mi stia fuggendo tra le dita.
Conosci a fondo, amore,
ogni mio dolore
per questo corpo vittima del vento,
del passo tardo del tempo.
Potrei parlare.
Potrei dimenticare.
Ma la mia voce muta
continua a sognare,
tra un po’ è già autunno,
qualcosa cambierà?
Potrei dirti ti amo di sfuggita
e poi baciarti e perdermi così
nell’oblio dei sensi.
Il peso specifico è annullato
Il peso specifico è annullato
da un possente fluido appena condensato,
col bagliore degli occhi
creerei le immagini
e la matita è capovolta.
Insula in flumine nata,
la tua sveglia nel dormiveglia,
la tua curva sospesa
da elettrochimica resa
d’intenso incenso
gettato a quintali
su muschi e licheni,
dai, diamoci un altro bacio.
E attraverso il ritorno ondulante,
non è musica quella che esce
dai lobi auricolari,
la tua chioccia è punta
dall’anello di roccia
che solo l’aere profondo
e tenue dà,
la tua incudine ed il tuo martello,
la falce e il grano cosiddetto.
Giallognole avversità
in tramonti di verità,
sopita sei un po’ svilita,
non ti fa più effetto
il tossico detto,
non una sola parola,
non una speranza,
non una motivazione
se non melodie perse nel tempo
che vogliono farmi continuare.
Continuare a ondeggiare,
come pazzo in su le scale,
sto solcando un’epoca nuova
e la gente indifferente muore
oppure passa e sorride,
qualche spicciolo per le sigarette,
le meno costose,
qualche danno collaterale
per poter continuare.
E finirei con un bel,
nel blu dipinto di blu.
Irrequietezza malinconica
Un’irrequietezza malinconica
e trasognata la mia
al di là della realtà,
magari un cenno del tuo dito
o un allettante invito intellettuale
potrebbe di nuovo tracciare
speranza nel mio animo
in frammenti,
eppure l’ansia che mi uccide,
il tedio e l’accidia
dei giorni sempre uguali,
sei eterea a due passi
ma mi sfiori appena.
Magari mai tutto è perduto,
nella mia gioventù potrò ascoltare
ancora silenziosa,
leggere le tue poesie
in riva al mare
con quel clamore calmo
delle onde che ci accompagnava,
manteneva il tempo la notte
che in refrigerio ti raffreddava
e tu sul mio corpo accovacciata,
io ora invece mi domando
che ne sarà del futuro,
dei miei giorni,
davanti a scelte sempre più sbagliate,
ma il risvolto della medaglia
c’è sempre,
sono un frammento d’uomo
alla ricerca di una luce soffusa
e di parole scritte anche alla rinfusa,
sei eterea dinanzi a me e mi sfiori,
non mi abbandonare!
Qual è la verità?
Lei dove è
se è vero che ti cerca.
Tra di noi dei segreti
mia forma priva di sostanza
che rifletti solo bagliori mattutini
ma ti manca l’assonanza
con le tue parole,
sfiorami ancora,
te ne prego,
sono nulla senza te.
Qual è la realtà?
È solo la nostra immaginazione,
un triangolo sperso e maledetto
dall’illusorio tempo,
io ti cerco come limpida
acqua di sorgente,
pura mia assidua brezza mattutina,
ti dirò come sempre
le mie parole gettate in aria
da un sorso di vento.
Potremmo fare i sofisticati coi sofismi
e magari avere pur ragione,
potremmo continuare a disegnare
questa nostra vita separati
ma un filo labile ci lega
e non possiamo farne a meno.
Spero solo tornerai ragazza
destinata alla più somma melodia.
Qual è la sincerità?
Due parole dette di sfuggita,
dimmi quale è il tranello
per uscire da questa miserrima
condizione umana,
trascendere noi stessi?
Guidami tu,
o mia ragazza,
dall’armatura alabastrina
e il volto paonazzo
e i capelli mossi
di quel carminio così intenso .
Mentre la gente guarda distratta
E mentre la gente guarda distratta
il libero airone palustre
si lancia al di là del confine terreno,
mondi sotterranei lo attendono,
trema già la mano al pensiero.
Un caffè
ormai tra angusti rifugi,
svogliati e disincantati,
volati come cenere,
smascheri il volto ed è già autunno,
il volo di chi va via in migrazione
è un balenare di lucciole
ormai abbandonate
nelle tetre follie cumane.
E poi i papaveri rossi,
sangue lucido ed oblio,
potenza dei sensi,
espansione mentale,
rigurgito come al solito astrale.
Vola nel cielo
resistendo alla calura
e vola che la stagione
sarà un groviglio vago
di temperatura,
già vedo le stelle,
il vino rosso nei bicchieri,
mille palloni poetici
in trotto nell’aere,
mille spume,
mille effluvi d’incenso,
e vola,
dimenticando quanto ardore
il sole sprigiona
intrappolato nelle sue redini
sottili.
E l’afa rimane.
Giocare a tresette
tra uno spaghetto e un sorso di vino
con nosferatu che è sazio d’assenzio,
potrà vivere già da oggi,
con un cambio di rotta,
la mia più sublime speranza,
il desio del domani.
Ed è silenzio.
Maschere di ghiaccio
sono sulla spiaggia,
rendono oltraggio
all’ultimo notturno spasmo,
e che pace l’aurora,
l’amore e i colori.
Non so se è sentimento
il brivido che ho dentro,
ma puoi guardare languidi
gli occhi al crepuscolo,
plasmati come violette.
Vola su ripiani desolati,
avvoltoio di pentimento,
frescura, frescura,
tu mi dici e sorridi,
ma lo sai,
già lo sai che cadrà
l’ultima stella confusa
e noi saremo preda
di una nuova serenità.
Stella,
vola che si attutiscono i miei timori,
le parole e le esplosioni di incertezza,
vola,
non smettere spauracchio
del presente
che sei nella mia mente,
un sorso d’acqua pura
ed è subito mattina.
Volano i colori,
nel cielo temperato,
vola il tuo ultimo desiderio avverato,
vola e non trova pace
l’euforia della giornata
ciclotimica e daltonica,
vola e l’incanto scolorisce
nel momento più intenso.
O mia Regina
E se volessi cambiare argomento,
un fiume in piena arresterebbe
il turbamento,
in fondo un tantino assorbo
quelle parole,
poi ne invento, poi le scordo.
Cosa c’è dentro me,
un falco in volo possente
e incatenato
che della vita ha percorso
solo qualche fiato sfumato.
Un vortice, il solito maestoso,
quello che spaventa,
la rimessa, la stupida paura
è come assedio che mi storpia
quando in temperature avverse
muto rotta e dovrei disincagliare
il raggio luminoso e porgerlo
al di là dell’ultimo fuoco,
hai visto? è già scaduto
il biglietto del tram,
il viaggio della mente
un treno in salita che abbassa
l’attenzione ed attendo la tua profusione,
l’importante è dire assurdo
quando ce n’è bisogno,
gira a vuoto l’ultimo accordo.
O regina nella polvere celata
ed improvvisamente illuminata,
sorgi coronata e districata
tra risucchi di biancospini.
Ed io da falco
cerco libero attracco
contro il mondo e per il mondo
ad un tempo,
carino il tramonto dei nostri sogni
è la rinascita per nuovi giorni serali
e imbellettati.
O regina nella cenere
riarsa divieni
ad un tratto materia eterna,
un flusso d’amore sgorga
nelle vene
ed è già passione
il bacio in tensione.
Perdendo il filo un po’ per vizio
un po’ per capriccio,
ti scrivo altre due righe,
è già un impiccio,
ti chiedo e poi mi schiudo
pronto a ripartire,
o mia regina.
Ad altro non penso
Sai, mente annebbiata,
mentre mi concentro
ed entro in contatto coll’Un invisibile
che prende forma,
ecco,
comunicazioni celebrali
introito restio
dell’inconscio collettivo,
allineata la nostra costellazione
con il bacio che dai
in riva al mare,
damigella decorosa
eppure così viola
il congedo delle piante
che tramite angusti sentieri
percorriamo,
senti già il trastullo delle onde,
il mutamento ciclico,
il nostro allibito confronto.
Le spiagge dorate
son granelli della tua vita,
l’eternità l’abbiamo conquistata
lottando con schiere di draghi
e cavalcando liocorni d’oro bianco,
il piercing è uno spasmo,
una noia vederlo cadere
ad ogni movimento
del tuo nasino intimidito,
unione di spirito e corpo.
L’estate schiarisce
e tra un po’ i variopinti colori
degli arbusti saranno pensieri di domani,
saranno speranze e respiri profondi,
come l’anima che ascolti,
la musica respiro della stessa,
la musica spirito manifesto,
ti bacio
e ad altro non penso.
Parole al vento nel silenzio
Parole al vento nel silenzio,
nell’intrigo destinato
ad un sussulto per un bacio
sul tuo collo scoperto,
incandescente.
Quale è il senso
delle tante frasi sconnesse,
dei periodi campati in aria
come atolli od emissari
di una nostalgia canaglia
o di un effetto a collo di bottiglia,
filtro per le stupidate fatte
con l’intenzione di cucire abiti spenti
dai tuoi occhi sempre più accesi.
Tanti sogni e poche speranze
ma nell’ostinazione il sentimento
che permane figlio dell’ambizione
e non di rampantismo
come luce un po’ soffusa
nella nostra dimora ambita,
un arredamento etnico
e tre canti al mattino
per svegliare i dormiveglia
che scrutano la nostra vestigia
di figli di un dio dimenticato
eppure così vivido e sentito
nella nostra interiorità.
(Pochi grammi di zucchero nel caffè,
pochi baci ma buoni,
io in realtà non smetterei
di stringerti a me).
Il viale sussurra nell’estate,
c’è un vento freddo nel ricordo,
il materasso con l’accordo primordiale
della scintilla universale.
(Pochi grammi d’assenzio,
vino caldo,
un letto su cui dormire con te,
un altro canto).
Piccolo scritto
vai tra paesi, monti, colline
e città, urla come il tempo
che passa
e rendi vivido il ricordo
della sua fascinosa bellezza
che esulta come un mare in tempesta
o come lo scorrere di un fiume
all’ombra della cresta.
Ipotesi astruse sul tuo polso
Ipotesi astruse sul tuo polso
perché la pioggia ci risucchia
in un vortice abissale,
soli io e te,
inauditamente la questione
da logica diverrebbe estetica
e passerei ad una estrosa
epistemologia ma del metafisico.
Ti vedo un po’ stordita
sarà l’effetto della polvere
e del polline tra le dita,
credo meglio riprendere dal basso
per puntare al cielo candido.
Allora con sospetto guardo
un oggetto od un soggetto
e scopro l’identità, tra l’uno e l’altro
non vi scorgo diversità,
non sono utensili heideggeriani
ma soggetti dotati d’anima,
lo senti il dolce romore
della macchinetta quando sale il caffè,
sembra gridare, sveglia!!!
non sono solo qui per te?
Ma d’improvviso
sarà quel tuo profumo
che si impone sensualissimo
e allora lo confermo
è un’anima cosmetica
la tua dolce essenza di cobalto.
Tutto cambia in mutamento statico
E sei arrampicata ai tuoi spasmi,
fumi un’altra sigaretta in silenzio
mentre lo spirito del diamante,
supremo ardire,
sfacciato ti sfiora un po’.
Alzi un poco la testa nello sbuffo,
chissà a che pensi,
se al tepore dell’autunno
o alla congiunzione astrale dell’inverno
che riporterà tutto alla normalità.
Riflettendoci sopra
un po’ d’erba cresce
sui piedi fatti a conchiglia,
i pensieri assorbiti,
una eco lontano,
mi sfiori la mano
mentre si agita la maretta
della rivolta studentesca.
“Siamo noi soli”,
dici e sorridi e tremi,
hai voglia di me.
Ed allora un abbraccio plurimillenario,
un approccio geologico e atmosferico
dei nostri corpi che si sfiorano,
la pazienza delle tue nobili trincee,
le placche della Pangea
che si dividono ma un giorno
in congiunzione questo eterno movimento
sarà la libertà tanto sognata
dal nostro fermento,
poi un sorso di vino,
mi stringi un po’ più forte,
ti do la mia coperta
ma restiamo mano nella mano
avvinghiati all’abisso.
E finalmente dalle tue parole
tradirò un ricordo,
sarò sempre più libero,
un Icaro distratto
ma fremente come il segno
che hai impresso sul tuo polso.
E in silenzio prolungato,
quasi meditativo,
scompare dalle cose
e dalle persone
ogni tratto negativo,
i valori hanno fallito,
guardiamo ad una nuova filosofia,
lo studio sistematico
dei fondi di bottiglia,
fondi dove alberga
l’anima più pura
e che deve esser solo manifestata
dallo spirito.
E stasera, ti dico,
tu lo emani.
Tutto “peace and love” il nostro incontro,
bandiere d’Assisi con la pace,
spillette trasversali con i teschi,
un po’ un “memento mori”,
un po’ pars destruens.
Ed allora zitti
costruiamo con un bacio arrogante
nell’etimologia distruggeremo
questo inferno di schifo,
questo impero claudicante.
E passa il tempo,
ormai un ricordo lontano,
fondo di pietrine di fumo
e di rimasugli di ciliegi sottospirito,
magari tu che sei l’assenza ,
dimmelo per sempre,
dimmelo tesoro
che ti adoro e ti rinnovo
i sentimenti come clandestini a bordo,
perché sei la più bella,
tira un’altra pall mall
e scorgi il sole che sta nascendo ad est,
ci illumina l’intenso,
ci apre le porte al mondo sconosciuto
del domani che poi altro non è
che una nostra speranza,
includibile nel presente.
E tutto cambia in un mutamento statico,
sei la dolce essenza
fluorescente della vita,
sei il pensiero,
l’aurora del mattino,
sei il mio sonno,
compagna di Morfeo nella notte,
mia dolce Selene,
Artemide cacciatrice
e Pallade rivoluzionaria,
ti coprirei di baci
come fosse pioggia al sole.
Ti amo così,
un po’ pateticamente,
e tutto il resto
domani
sarà un surplus ma immanente
nell’animo nostro.
E’ scesa l’ultima goccia
E’ scesa l’ultima goccia giù
del tuo sapore viola,
credo che sia il motivo
della nostra trattenuta
nella stiva pleonastica e fantastica.
Il gran cerchio del tempo
rosso e blu
più lungo di così,
da pi greco alla sponda del sollievo,
in realtà sei il mio sogno per metà,
sola contro il mondo sei tu.
Non ti aspettavo sai,
stasera più che mai
il mio corpo è proteso
alle tue gambe intrecciate
ai mie capelli.
No, non farlo, non distruggermi,
nel tuo pensiero lascia spazio
al mio futuro.
Poi ritorna quel nostro circolo perverso
menato per l’aia
come fondo di grondaia,
i tuoi occhi dal luccichio insolente,
i tuoi sogni da sabarazzina un po’ invadente.
Nel puro,
intenso godimento.
Godimento.
Agitazioni spastiche,
tardo rock.
E passi di sfuggita,
mordicchi un po’ le dita e mi dici,
sono stanca di viaggiare,
posa l’auto all’autogrill.
Posa?
Un panino e poi,
cento lire nel jukebox,
ondeggi a stento quando premi
il cuore lento,
sei bella sai quando sospiri
e alzi le mani,
come a dire non lo so.
Tra gli accordi sei distesa
come arresa e me lo dici
come pupilla dello stelo un po’ inclinato,
un po’ svogliato,
dai tuoi sogni agitato.
Novembre
La marcia ingranata
nell’accelerazione infestata,
qualcosa da dire,
pensare col tempo agli errori
e all’ipocrisia per scoprir
se il domani è congelato e insicuro,
poi ad un tratto dirsi
che non ne vale la pena
e sorpassare senza accostare.
Ti amo e lo sai,
vado via e ne soffrirai,
resta pure a fianco a me,
non arrenderti mai.
Porsi degli obbiettivi
a colpo di chitarra,
schiudere le porte,
sorseggiare una birra scura
piangendo della tua frescura autunnale.
Le violette sedentarie
ma attente,
i baronati e gli inciuci,
le chiacchiere da comare heideggeriane,
in questa riunione sovversiva
cogliere l’egoismo dei fiori,
scroccare un passaggio
se va a fuoco l’autovettura,
sentirsi immortali,
e rider di gusto degli errori,
agli errori
poi piangere di nuovo ed aspettare te.
Ti amo e lo sai
che mai ti dimenticherei.
Impastare del formaggio
incrociando nuovi sguardi
ma lasciandoli alla deriva
per tornare da te
che sei la mia vita.
Passaggio inconcludente,
fine deludente.
Gradisci del latte nel caffè, amore mio
Una parola non la puoi mai consumare
se sopra l’acqua volteggia
a dorso come un crinale,
e regge il mondo
su queste circostanze indissolubili
mentre io e te passeggiamo
come due stranieri,
quanto dolore è esploso
in un attimo in me,
che confusione hanno generato
le tue azioni,
ho studiato a fondo le intenzioni,
capendo che è l’attimo che conta,
la nostra pura apparenza
che volteggia in aria
come un pallone a incandescenza
col gas nobile e stizzito
che ti fa perdere per un momento,
solo uno,
il fiato.
Sgocciolano come arpeggi
le parole e cerco appiglio
nel mio cuore docile,
ma sei in riva al mare,
il cielo minaccia un temporale,
le onde investono il succinto vestito
che mi fa impazzire,
ho creduto a fondo che fosse l’infinito,
non ti so scordare,
anima graziosa.
La spiaggia imbevuta
e tu tra il telo imbacuccata,
credo che metà del sogno
l’ho già scontata.
Partono prorompenti
i treni alla stazione,
senti il fischio e immagini i vagoni,
i nostri pensieri fuggono
ed è già ieri,
tutto statico e immobile il destino,
due dita incrociate, la follia del mattino.
Mentre continuo a scrivere
e parlare al vento
i tuoi capelli sono mossi
al mio fermento
e mi stringo questa volta
un po’ più forte al cuore.
Guardo una foto
e si scatena la rimembranza
dell’attualità,
le scorciatoie rese viole del pensiero
per raggiungere un sentiero
in cui io ti tengo la mano,
tu mi dici di sentirti strana,
sarà colpa del tempo
o delle Parche il lamento.
Magari il futuro
cambierà tante cose
perché figlio della nostra più intima
speranza,
ma devi crederci, amore,
anche se a volte rallenta il cuore,
Davide disse, fermati o sole.
Sgocciolano altre parole al muro,
impresse con l’acrilico
della ripetizione,
lo sciocco riff dell’azione,
un abbellimento per la colazione,
ho creduto e vincerò
anche se resto attento,
solo, in un mare di frumento.
Parole sulla tua bellezza
e sulle nostre perversioni,
gradisci latte nel caffè,
o mio amore?
Riff
Penso dunque volteggio
come solfeggio
e vado all’inverso,
la percezione extrasensoriale
è fluido nel fruscio degli spiriti,
Dostoevskij al bar,
non è sperimentazione l’emozione
ma prova pratica pronta
per essere ignorata dal passante
incurante della musica,
un altro gettone nel jukebox
e pochi spiccioli al mendicante
col violino elettrico della relatività,
o almeno credo.
Cosmico il ricordo
fisso in me,
una malattia la linea bianca
tra genio e follia,
si accavallano le gambe
nel discorso che saltella
come la civetta da un posto qua e là,
bene dove canta
male dove guarda
e tu non consideri per niente
il fatto che siamo soli,
l’io presuppone un relazionarsi
finto e a metà,
ciò che guardiamo negli altri
è solo proiezione della nostra assenza,
credo.
L’apparenza l’unica possibile
manifestazione dell’essenza,
il traffico della città
all’ora di punta
è un coltello teso
alle mie braccia
che solca la verità
due tre olivastre vestali
e vergini di clausura
in contemplazione
come ad adorare
il sapore di un bignè,
buono il crauto
di prima mattina
all’aeroporto di Bruxelles
mentre il parlamento di Strasburgo
è bilingue
esclude il bel sì,
magica speranza.
Ok, va tutto bene,
due parole e poi,
e poi,
stop.
Intro estroso
Intro estroso.
Dentro noi c’è
l’entusiasmo di uno spirito beffardo.
Intro estroso.
Non sempre vale la pena,
non sempre è giusto continuare.
Intro estroso.
Parla con lo status divino,
sei apparenza sublime e stemperata,
puoi tacere senza essere ignorata.
Intro estroso.
La paura del nostro abisso
muterà solo se ti fisso.
Forse il silenzio
dei tuoi occhi
non è che pura fantasia,
forse il temperamento
del tuo dito sollevato in meditazione
è sintomo di eccitazione
al di là della sensualità
già insita nelle orme
che mostri con pudore,
forse dal nulla nascerà un sussulto,
quello che avevi senza dimenticarmi,
gira il verdetto della nostra poesia
scevra di senso
e pure così concentrata
in mille navicelle notturne.
È giunto il momento,
è venuta l’ora,
cosa sono io per te?
dillo senza fiatare,
è giunto il momento di realizzare
i sogni miei,
tuoi e di noi tutti.
Intro estroso.
Sono ammutolito,
dal venticello allibito.
Intro estroso.
Credo di divagare,
ma saltando da un pensiero
a un altro puoi anche tu volare.
Affinché distruggessimo la materialità
della violenza
con l’amore dell’anima nostra
ormai incandescente
mi spiegasti il sistema
avviluppato su sé stesso.
Guarda il vero
(Nella Terra di Mezzo
un rombo sul tetto a strapiombo).
Ero fermo alla stazione
con l’intenzione di mirare
treni nella noia heideggeriana
e avevo il viso pieno di furore
(guardavi tanto
mentre ti raccoglievi
nel pianto)
nel sentirmi vivo
come non mai nel disquisire
con la panchina ,
una qualunque
(piacere tangente)
ma a volte anche le scritte
rendono l’inanimato immortale.
Solitudine,
( soluzione),
beata inquietudine
(dannata volubilità).
Continuavo
(la tua vita è diversa
se senti l’odore donzella),
allunga le braccia
(ma se puoi perdi)
solo se lo vuoi però
( non arrenderti),
non perdere in divagazioni
quello che dice il tuo cuore
è puro e semplice e lo conferma
(guarda lì)
il tramonto partenopeo.
(Il pub era pieno di gente)
qua usano pinte dipinte
(ordina pure un doppio jack)
e due crodini serali
per le future prossime
invasioni nelle aurore boreali.
(Guardati attorno
rischi di perdere il controllo).
Mi colpisce diritto al cuore
il tuo pudore
e quell’occhietto ribelle
ma anche il silenzio tenebroso
delle apparenze,
la donna perfetta
(le invasioni continuano
nella Terra di Mezzo)
che brama in tutta fretta.
Guarda bene,
ripeto guarda il vero.
Nel sorriso del mattino
riposi ancora,
che carina, mia sbarazzina.
Guarda lì,
ripeto,
sona il bel sì.
(La notte trascorsa da un locale
a un altro,
la birra a fiumi,
prego
esula per i drink
il ghiaccio,
così mi piaccio,
riposa pure,
e tu sorridendo chini il capo
come a dire sì).
Il lieto rumore delle tende
Il lieto rumore delle tende
mi rimanda sincero a te.
Tra le strade viaggia
l’anima tua
che non risponde
ai miei quesiti
come un soffio della guardia
di frontiera che controlla
il desiderio perverso
del mio intento.
Viaggia la mente
e ritorna a te,
alle serate erbose
tra i fumi dell’incenso.
Ed è solo un momento
che mi vedo
sfiorire nell’età matura,
vorrei che una foto
prendesse vita
e ritornassi magari un po’ tu,
ragazza dagli occhi colore del cielo,
anarchica per semplice complessità,
penserai, chissà,
se qualche volta di sfuggita a me.
Sta arrivando il nuovo anno
e chissà se qualcosa
davvero cambierà
o sarà solo il frutto
di una nostra più illuminata umanità.
Nella mia stanza un sussulto
e c’è un’immagine di te,
magistra et ancella.
E fuori il collocamento chiudiamone un altro,
siamo soli io e te
e non te ne accorgi nemmeno,
passa il tempo e siamo cambiati
ma qualcosa dentro te
di me ancora c’è.
Il lieto rumore delle tende
mi ricorda le tue gambe divaricate
al vento dell’estate.
Poche parole
su uno scrittoio antico,
questo sono io,
eccomi qui,
tante abitudini che non ho perso
in bilico tra un’anima antica, paura e il nuovo corso
che sbalza e fiorisce,
fumiamo ancora la stessa marca di sigarette?
Il lieto rumore delle tende
mi sussurra che darei ancora
tanto per te.
Candido
Una speranza inviolabile,
sigillo impresso sulla cartapesta
delle tue emozioni,
ascolta il silenzio,
la via eccola qua,
legami indissolubili,
passioni carnali
intrise di spirito sgocciolato
come dalla nebbia intriso,
sembri ciò che non sei,
come a dire violetta,
la passione svanisce in fretta.
Candido,
il canto di cicale
nel paradosso invernale,
sei luce che sorprende
e inaspettata promessa,
sei il vuoto di una stanza
che è ricolma di te.
Candido,
se l’ottimismo è un fuoco
che riverbera,
la sensazione pulsionale
è la risposta che cauta
e paziente ci attende,
un saluto,
bacetto estroverso.
Dici e sorridi
che ripeto sempre le stesse parole,
ma quando le hai impresse nel cuore
l’acqua raggio non distrugge il colore,
tuffiamoci dagli scogli che c’è il mare
di sapienza che spalanca
le braccia nell’attesa,
siamo soli ancora io e te,
che tramonto stupendo
inzuppato nell’acqua
come biscotto proustiano del ricordo.
Candido,
se l’eroico furore
ci porterà oltre il confine del sapere,
se la mente si espanderà
oltre il tuo pudore,
due parole te le dedico
e tu per me che fai?
Sei gocciolina perversa
e già lo sai.
Candido è solo
quello che blocca la scrivente,
dai continua a scrivere parlando
col tuo micino dolciastro.
Tu animal grazioso
Tu animal grazioso,
tu senza ormai più suono,
dipingi gli ultimi istanti
come nebbie atroci e beffarde,
sale il mi minore
della nostra storia
e rappresenta lui in silenzio
la nostra stessa clemenza,
la nostra verità.
Un carillon suona
per rimembranza o triste rimando,
al posto di cose ci sei tu.
O animal grazioso,
o fulgida sordina.
Passa trionfale
l’armata letale
e noi ridiamo del gioco di parole,
anacronistici in questo mondo parallelo,
c’è un sentiero dalle mille biforcazioni
e poi c’è il tuo dolce volto
e poi ancora tu,
mio passato, presente e futuro
a un tempo.
Passa e non dà scampo
se non guardi nello specchio
quel che ti ho detto.
I cardi questa sera
struggeranno l’atmosfera.
Teologia sperimentale
E vaghi per il deserto
senza spalle coperte.
Ti sorge un dubbio intramontabile,
le statue non sono più le stesse
senza il sorriso di terracotta.
Le anime sperse negli anfratti,
le scorgi facendo trentuno
e si salva il rifugio mentale.
Cosa vuoi che conti
chi tu sia in questo mondo,
l’esser sé stessi più autentico
è per il parallelismo non euclideo.
Ammide di nucleoside
proteso al vento contrario,
l’introito netto della meccanica,
il quanto ed il bosone,
la gemmazione delle piante,
tachione
le betulle e la fotosintetica
interruzione delle stanze poetiche
che in un attimo ti rimandano
al creatore, la vita nova
è vuoto contenitore aperto
ad altri contenuti sconosciuti,
etica etilica,
nel vuoto si ripropongono
situazioni estrose
che non sai rifare
nella realtà annullando
l’esistenza della stessa,
se l’infinitamente piccolo
altro non è che infinito
allora è massiccio il peso dell’elio
nel comunque infinito cielo
dove vola per dispetto il palloncino
e tu resti china.
Nelle regole
di derivazione non scorgi mica
la biologia del sogno,
l’onirica teoria del sonno.
La storia sta sempre lì.
Suoni dolci come le mandorle
e il lillà.
Dimmi amore il passo tenero,
dove sta?
Cerchi le parole
Cerchi le parole,
quelle nella giusta ondulazione,
va bene così non va,
ma se sposti il tuo sguardo
il fiore sboccerà.
Potremmo periodare senza verbo,
no che non ha senso
ma bastano le tue labbra,
sarà che senza te
è tutto più difficile,
anche quella dannata parola,
che volava sui campi di grano,
nelle nottate medioevali
su boschi fitti di lupi,
ma io oramai ti conosco,
guardo quel tuo viso,
quello che sogna di navigare
sulle nubi
e condottieri da distruggere.
I piccoli aforismi,
ne abbiamo fatti tanti,
generici e bislacchi,
specifici per ogni occasione,
ossequi alla signora,
e allora tu ti volti
come sai fare
con le lenzuola da violare.
Ma questa volta credo
sia la definitiva,
non hai altro da espormi,
mi soccorri,
ma non è solo della tua carne
e delle tue parole che vivo
ma anche del tuo profumo
delizioso,
quel profumo che inebriante
sboccia come fiore tra le piante.
E se proprio vuoi sapere
qual è il segreto,
tu sei,
prigioniera scalza nel tuo tempio,
ed ovemai di me dovessi ricordarti
strizzami l’occhio
e manda sopra il mio respiro
quel tumulto
come quando.
Ora mi guardi,
sorridi come sempre
e sempre altera sei,
io sotto il tuo manto sapiente
sarò un piumino incandescente,
ho voglia di una birra doppio malto
per smorzare un poco la tensione
e tu che sei ovunque
la dipingi ed io già sorseggio
quello che è il mio piumaggio
e punteggio.
Ponendo un punto fisso
Ponendo un punto fisso
e ben nascosto
sul tuo profilo ingiallito
mi accorgo attonito
che le parole sono lontane
dai gesti,
risuona nel mio inconscio
un pensiero sepolto
ed è questo il motore
delle mie assurde confusioni.
Ti vedo ancora passeggiare
incappucciata per le nostre vie
e chissà se ancora ti ricordi di me.
Passa un altro giorno
nel tempo che non esiste
ed allora ti chiedi insolente
se sprechi cosa,
diamogli un nome a questa inesistente
dimensione vissuta e cresciuta
coi nostri patemi d’animo
e con le nostre gioie inconcludenti.
Non so davvero
se ancora mi pensi
se il tuo mondo così vicino al mio
si è ormai dissolto
senza mai venire al dunque.
Nel silenzio tu,
chimera eterna
non ricordi e gira la banderuola,
il pensiero è sempre di traverso
dove quel punto è l’unico
immisurabile granello
che ci tiene ancora uniti
e di cui tu forse
non hai più memoria.
Non puoi dimenticare
quando schivavi i miei passi d’amore,
quando non c’era altro tra noi,
quando assaporavamo l’anima
dell’assoluto quella notte
da soli seduti,
quando ascoltavamo
le nostre parole,
i nostri monologhi
erano inconfondibilmente
l’uno per l’altro,
con te tornerei
mia epoca lontana,
in un attimo le cose cambierei,
ma il passato è dell’oggi il domani.
Tutto è nostro
Sul piano di un abisso ti miro,
tu sei dissacrante come sempre
ed io coi miei occhi ti investo,
c’è qualcosa che mi insinua,
è il tuo pensiero anzi il vederti
così chiara nella mente,
tutto si è adagiato ai nostri piedi,
tutto risponde solo ai nostri comandi,
tutto arriva dall’assoluto,
tutto può essere nostro.
Ascolta la melodia del sempre
dalle pupille sgorga l’incenso,
sprizzi di nubi oscure
per chiarire il nostro punto,
tutto è nostro,
tutto ruota attorno a quel segno,
tutto anche l’amore più urlato,
tutto anche l’amore mai esistito,
tutto anche me e te.
Tutto!
Sogni astrusi ma convinti
per sanare le tue indecisioni,
guardo ancora più giù
con vertigini audaci aspettando tu dica
sì,
è pronto l’ormeggio del desio intramontabile.
Tutto è nostro solo per amore,
tutto è nostro solo per capriccio,
tutto è nostro per delizia
tutto anche me, il mondo e te.
Due o tre parole
Due anzi tre parole nel vuoto,
aspetta un minuto che guardo,
due o tre parole nel vuoto,
aspetta.
Le storie di signori
incontrastati dal dominio,
nelle ore perse tra il Danubio e il reverse,
si avvicina la festa di Berecyntia,
allora Lilith pone un guanto nello stagno
con la dolcezza di una quiete mal dimessa.
Gli orologi a pendolo
con il cucù,
l’integrale inverso
che scapita sulle scale.
È tutto un caos,
ci pensi tu?
Due o tre parole
e salgo su,
guardo all’orizzonte il mare,
due o tre parole
e mi tuffo nell’immensità
del cielo di Modugno.
Sognai passioni inconfessabili
che in limo litis et salis agli opposti fisici
delle sinapsi fecero da giudice,
io ti invoco,
scendi o dea dai mille volti,
il tuo gesto è scaricato dall’ira.
Ho perso il sonno
in questo sogno
dall’incenso adorante,
le storie non si inventano,
scendono da sé
come calzate da febbraio
accanto al rimario.
Parlami un po’ di te
e delle passioni,
io ti invoco Brigith,
e mi scordo della 7up.
Le ombre della polvere
umanizzate dal soffio di vento,
oh passione, passione eterna,
rigira l’ LP da te
in mancanza di THC.
E la musica va.
Trallallero trallalà,
banalmente ti amo,
dimenticando i fiori.
Due o tre parole,
un tiro,
ti adoro Hathor delusa.
Ah!
Son coriandoli
i tuoi,
buttati all’aria,
vibra il suono,
penso o no,
la mia base musicale
che si perde tra i grovigli
di storie serie
e mai inventate,
sentirai la verità che ascende
quieta fin lassù,
dammi il mi, nel bel sì,
tutto fatto alla rovescia
e lo dico, ti sei svestita,
campata in aria la pretesa,
e non val la pena sprecare
altri fumetti se fai l’indiana
sulle scale tutta dipinta
tra le tue stesse brame,
ok, d’accordo va bene,
scacco alla regina.
Ah! che bello il riporto!
lo stavo aspettando
in questa realtà frazionata
quoto perfetto,
e non parlo del social network.
Ah! che bello l’inverso!
Lo componiamo
e poi facciamo il reverse,
credo che così ti senti perfetta.
Questo è il ricordo,
da sfiorire e da capire,
poi aspetto Godot,
poi mi perdo
nella tundra adagiata a dessert del desio,
e siamo alla frutta.
Questo è quanto,
suggerimento,
ascolto ancora,
quel folletto,
gira nella mia penombra
il monacello un po’ ubriaco,
è prima mattina,
pensa al tempo,
non ci sento
e non penso.
Ah! marasma perfetto!
se lo dico e scrivo
ti oscuri e dai senso
al flusso di parole,
ulissico e filmico,
ciak al primo arrivato.
Ah! che bello così!
Dai non ti spostare
dall’asse cardinale,
vedo che ci sai fare.
Questo è quanto penserò
quando in silenzio per non svegliarti
me ne andrò,
e non è un tabù,
che ne parliamo a fare.
Te lo dico così
L’antropologia culturale
dell’atomo di idrogeno
che esplode per contorno,
forza, dai, continuate
che le storie sono semiserie,
c’è il fondo di verità nella follia,
puoi pure rimarla.
E cosa vuoi che dica del mondo
che mi aspetta,
delle persone che passeggiano
indifferenti e dispettose,
tal altre vanagloriose,
piene di sé e senza rimpianti
cancellano con un colpo di spugna
la gente che diventa fluorescente fluido
da rigettare per i gomitoli di lana
che non sanno tessere o aspettare.
Te lo dico così, senza pudore
e farneticando un po’,
la folla che ostacola i miei pensieri
mi sta in sordina
se penso fremente a me stesso
incandescente e pronto
ad esplorare ciò che voi non sapete vedere.
Un’altra apparizione,
la madonna e la pietas,
nella tundra oscura
una ragazza che addomestica
la lonza, la lupa e la leonessa sbronza,
le rivoluzioni culturali
seguono soltanto la stima
della musica
e son frutto di una realtà sfiorita.
Cosa pensate che vi dica
se non c’è più fiato dalla mattina?
Sono un semplice balbettante
dinanzi alla verità divina.
Che dolci illusioni atemporali,
ah! che passioni!
Il pensiero nuovissimo
non lo riesco a scorger.
L’epoca della vendemmia
è giunta all’ora terza,
pensaci un pochino,
se vuoi faccio l’inchino.
Sei un miraggio come reggia diroccata
Sei un miraggio
come reggia diroccata,
la tua immagine che riflette
sul mio corpo
e vive ancora in me.
Sono in un giardino fatato
appisolato
mi immergo nel verde
ma non dimentico te
che sei in ogni cosa
stupore e disincanto.
Ho una vertigine
assurda
e mi viene la voglia
di ritornare a un passato
indefinito e lontano.
Un sapore disperso
e spaurito sono ora io.
Nei roveti roseti turbati
e tanti diademi trapunti
dalle dodici costellazioni
ed immensi come un retrogusto
d’infinito sono i giorni miei
che trottano a ridosso
di un eterno ritorno.
Nella foresta nera
un’atroce rimessa di fiati
che accordano la voce
ad ogni tuo passo felpato,
come pioggia il manto
che hai appena tracciato.
E come vorrei fissare questo momento
su filigrana
ma passa il fluido nascosto
del senso della parola
ad una velocità superiore
alla luce
ed ogni tempo si confonde.
Piove
Piove
sulle tamerici riarse
dal tempo perdute
e dal senso delle tue parole confuse.
Averti è ormai il passato
ma sei atroce.
E sento che non c’è più
il verso di ogni lacrima
che ha perso direzione,
ti schiarivi nell’autunno
mentre l’estate mi aiutava
a conoscerti ma come eri
e sei veramente
lo avevo solo sospettato
e, credimi,
fa troppo male
il sole del mattino
quando sveglia tu non sei più
al mio fianco,
e ignorami,
inventa un’altra scusa
ancora ora
che non siamo più insieme,
spreca una parola maledetta
ora che non mi puoi far male
perché ho già sofferto
e questo non lo puoi sapere.
Piove ancora
nel campo dove i fiori
germogliano malgrado te.
Averti è ormai
solo un sogno
ma adesso che non ti ho
più al mio fianco
forse
potrebbe essere il futuro,
un sentimento che sgusciava
via dalle mie mani
e credo che era solo un sogno.
Piove e non so aspettare.
Aspetto
Ma sono solo fitte speranze
quando respiri piano
appesa a un punto di domanda,
oppure all’angolo di quella strada,
così, giusto un po’ immersa
dentro i tuoi pensieri
mentre un attimo di sfuggita
mi guardi,
come un passante che attira attenzione
chissà per quale misterioso rito
ti ascolto e ti sento
a me un poco più vicina,
saranno gli occhi
o forse il tuo cappello,
sarà il tuo volto
che sembra da ragazzina,
così, dicevo,
ti ho più vicina,
guardi l’orologio
come fosse l’ora determinante
in un rapporto
e poi ti accarezzi
il polpaccio con la suola,
guardi a terra rimuginante,
è solo fiato sperso tra le piante,
credo sia questa la tua conclusione,
scisso lo ione come fosse
indivisibile iato,
sillabeggi come fosse niente,
e me ne accorgo dal tuo dito
sospeso
che come in bicicletta ondeggia
e divide con sapienza
le mie parole in sezione aurea,
rispettando metriche duecentesche,
è solo un attimo per le chiare acque fresche,
adagi infine il tutto su un pentagramma,
il rigo musicale lo leggo
e un po’ mi piace,
ricorrono le stesse parole
ma le note sono così disilluse
da farmi sognare di andare distante,
su una nuvola lontana
o in altri paesi,
lo vedi che non ti sei arresa
e neanche io,
è un balaustrino che ci rende
perfetti
leggendo le nostre balbettanti
imperfezioni
ed una nuova marca,
un marchio,
un simbolo od altro
racchiuso dentro al libro,
per pudicizia sempre chiuso
e sigillato,
me lo porgi con longhissima manu,
sembri avere ius vitae ac necis,
che bello quel pensiero di rivolta,
giochi col fuoco, cara,
e si sta facendo sera,
in piena notte so che leggerai
o con un dito in bocca solo immaginerai,
e giro l’angolo
e non mi hai più in traiettoria,
ogni balistica è stravolta
dai tuoi sguardi
che piegano palazzi e sassi,
in un attimo è la confusione
che ti raddolcisce,
ma poi sicura prendi
e sfoderi la spada triste
dalle tue labbra in movimento inclinate,
pallida e dolce in un secondo,
e te lo dico topomasticamente,
non ci giro attorno a quell’intorno
costruito, ma come fai a pensarci?
miri il dito ormai trafitto,
sembri morente quando tutto
è chiaro,
su per le scale del gaudio inesistente
e vago, ecco, vedi,
sei sullo stesso piano
e non ti inclini
con la metafisica di un autotreno,
sei irrigidita ma sorridente,
hai solo un attimo per i pensieri in fuga
mentre ti sento trottare e roteare
come dardo astrale.
Comunque se non vuoi è lo stesso.
Come ti posso contenere
con la musicalità delle mie povere
e sempre le stesse parole?
Potrei provare a disegnarti
se il tuo volto non mi sfuggisse,
ma in ogni istante di questa primavera
anticipata germoglia già il pesco
e non te l’aspettavi,
germoglia dalla mia finestra
e giuri che non ci credevi,
con un atteggiamento sbarazzino
sai socchiudere e lasciare immaginare
le porte del destino,
amore
è come mandorlo confuso,
verrà il giorno e avrà il tuo nome,
impresso sulle soglie in declinazione,
santi numi mi pensi!
è tutto appena appena sperato
e nato,
mi sai confondere
e come te poche ci riescono,
bellina mia, mia dolce,
per te sta calando il sole,
per te le stelle e la falce di luna
che sorride beffarda ma silenziosa
e fissa ti guarda e sa capirti,
ecco che scende la scala musicale,
con la chitarra proprio mi vuoi cercare,
guardi diritto e sai di avermi trovato,
ma poi ti fermi e non sai finire
e così dici ho poco da spartire
con i miei stessi spartiti
che viaggiano da soli,
partiture come flussi di coscienza,
è l’attimo della tenerezza.
Comunque se non vuoi è lo stesso.
Ah! o mio dio!
La musica governa
ogni evoluzione culturale,
e così lo puoi capire,
adoremici che credete nei numeri
senza contare nella loro
intrinseca unicità sonora.
Non credo sia dedotta
la frase che ho scomposto,
Hegel era un coglione,
Aristotele lo sa pure fingendo
che ad un certo punto l’uomo
si fermerà,
ma credo, e qui Darwin non lo sostengo,
che non è mai iniziato
un mutamento
che la realtà è unica
nella sua staticità.
Ah! o mio dio!
Fingendo indifferenza,
la tua incredulità mi fa un baffo,
sai.
Non mi tange la tua stupida verità,
gli ideali, il matrimonio e la famiglia,
che realtà imborghesita e monocromatica.
La benedizione fa un ammicco
alla reale condizione di castità,
ci credi per davvero all’inscindibilità?
Le tue rivelazioni a mezzo tono
sono sempre le stesse.
Che pensieri sociali,
odio la società preferisco
una comunità d’intenti
non viziata dal pregiudizio dialettico
della tua imbecillità parascolastica
e parascientifica.
Ah! o mio dio!
Ci credi veramente?
È una follia la mia vita,
ma mi sta bene così.
L’evoluzione culturale
dipende dal tuo gusto musicale.
Non credere neanche un attimo
di poterne fare a meno,
è la sfericità delle iperbole sonore
come Venere strabica
che ti rende perfetta.
Ah! o mio dio!
Ci credi che basta un dito.
Ah! o mio dio!
Piccola Selene
Gli odori soffici
della nuova stagione balbettante,
appena appena stonata.
Gli odori
mi invadono le sfere eteree.
Passeggio tra le strade
gustando infusi di marzapane,
in sul monte della verità
rivoluzioni eterne,
c’è necessità di incubi svelati
per divenire esseri entropici dei sogni.
Gli odori dal vento cullati
nel mondo inclinato
di questa dimensione
di cui non sempre vediamo
la sfericità imperfetta,
sto bene senza,
dici impiegata come un bosone solo,
questa frase è falsa.
Gli odori della realtà di Maya.
Pulsazioni destromani
e perversioni mancine e strabiche,
qual è la verità?
nulla indulgentia sine scientia.
Custodi un po’ stolti
dei misteri egizi,
introiti in sé incupiti.
Gli odori dal senso svelato nel verbo.
Gli odori per te piccola Selene.
Bacio di Giugno
Quando il sapore del canto inviolato
stringeva nel volto
una nuova incursione
del logos che dal fiato
come indomita brezza
portava al concreto
io stesi le parole
e rimasi in silenzio
ascoltandoti ancora
pronunciare le tue superbe
dolci effusioni.
Era di maggio
oppure di marzo
che il tempo stringeva
ed andavi veloce,
più chiara ad ogni incitazione
ed era solo l’inizio del vanto
e notte si fa.
Tu mi premevi il corpo
col ventre dicevi
parla ancora
ma io più mi chiedevo
e più non sapevo.
Era una storia scalfita dal fuoco
e ora è solo un miraggio autunnale,
una scusa,
qualcosa che non so più ricordare.
Stringimi più forte
dicevi invadente
ed io lo feci soffuso
a palpebre dischiuse
mentre il canto proseguiva
ed io imbavagliato un accordo
continuavo a seguire.
Era il sapore
del bacio di giugno
o un precluso venir mano mano
nel senso di questa attuale,
spietata eppur incantevole primavera
che i fiori rinchiusi liberare mi fa.
Era o è,
cosa mi dici al trasbuardo
era l’ultimo sguardo,
una storia che nella genesi
trova l’epilogo,
era o è ma così è sempre stato
mentre cambi aspetto,
pure tu coperta dalle viole
o dal pesco,
era di marzo,
era che il giugno fiorì.
Io criptavo messaggi segreti
e tu li decriptavi paziente e indolente,
dov’è l’arpa? dov’è il pizzico o il volo d’augello?
dov’è il mantra incastrato?
oppure dov’è il mio rimario?
Fa un po’ tu,
io resto sullo scoglio a guardarti.
Era di giugno
e non me lo scordo
se il marzo inviolato
è passato col rosso.
Goccia di te
Una goccia di acido acetilsalicilico
nella mente in giro solforico,
ogni cosa a collo di bottiglia
tra le mani agitate nella soluzione.
Un ricordo inconciliabile
con la tua celebrale iperattività
ma non mi rispondi se voglio cercare
la fonte imprevedibile
dell’elisir filosofale aureo,
come dall’imbuto su posto fluisce
lo scritto di ogni libro
e il certame di ogni libero pensiero.
Ecco là, ecco lì,
che si può continuare anche solo sì o solo no,
comunque trovando le risposte
a quello sconfinato mondo
che hai dentro sopito
e che si vuole risvegliare.
Pensaci ancora!
Suvvia inoltrati
e non aver paura.
Ciò che poi nascerà
dal mondo nostro sepolto
non è ritrosia imperiale
ma sapienza sesquipedale
e chiara come la tua mossa fulminea.
Abbracciami!
Suvvia lasciati andare.
Penso a te ed ogni cosa
è stoltezza e miseria.
Penso a te ed ogni rivoluzione
è fatta solo a tua immagine
e simiglianza.
Penso a te ed ogni intrusione
è solo vispa abbondanza.
Penso a te!
Ciò che è in subbuglio in me
è frutto del tuo sguardo introspettivo
e di ogni cosa che riguarda il volto
e te,
l’aspetto linguistico
di un gioco intramontabile.
Poi improvviso un raggio di sole
e un incontro desiderabile
e post meridiano
e direi telepaticamente sconnesso.
Adorabile!
Scaglia ogni vuoto inesistente
perché stracolmo della tua
magna intelligentia
quasi al di là di ogni umana comprensione,
potresti anche stare in silenzio,
intuirei comunque il tuo verbo
perché spirito della tua immensa
apparenza manifestabile.
O sì o no
è questo il dilemma,
scegli un teschio per porti
sul baratro,
ma non sai e non vuoi varcare
il confine se trapunto
ed infestato da insuperabili spine.
Ciò che per me rappresenti
è l’oltre limite,
è il limite di ogni destino
ridotto a cenere restia
ad ogni insensato mutamento,
statico è il tuo essere divina.
Penso a te e si apre il cielo
perché sei in me
ed al di fuori
mia illuminata rappresentazione.
Penso a te
e credo fermamente in me.
Penso a te
e spero solamente
in un tuo inclito sguardo traverso
e perciò stesso immenso.
Penso a te!
Ciò che ascolto dentro te
è la paura del domani dileguata
e fondata su un pensiero
che irriducibile affonda
ogni flotta avversa
e la rimette a pacifica resa
intermittente del tuo saluto
in me gaudente.
Profumo di pollini altezzosi
Potrebbe essere vera la conclusione
in confusione,
le spiagge già dicono di sì
con brezze primaverili.
Potrebbe essere anche vero
che sull’asfalto si intravede
la luce della concupiscenza
e flotte ingiallite di sigarette
e gomme atomiche
di stile corinzio come colonne
piazzate a punto fisso
su un filo di Arianna
piantata in Nasso e solitaria
sull’isola mentre assurge il drappo nero
e il Minotauro si rincresce
dell’accaduto attendendo soluzioni
o continuità
curvo e spaurito
alla fermata del treno,
regno mai più violato.
Il profumo di pollini altezzosi
incupito dal vuoto dei tuoi silenzi,
silenzio alessandrino
e in codice mattutino
di finte speranze
vendute a poco
su piazze giganti e restie
a compromessi dialettici e immensi,
sviliti, traditi.
Le mastodontiche sentenze
dinanzi a un rifiuto
smantellato d’assenzio,
le prime scorie di basalto
pongono assedio.
Il pianto si confonde
col clamore
e si accende di soppiatto.
(Le guardie in tenuta da spola
guardano intralci alla deriva generale).
Nel porto un sapore ditirambico,
sguardo nuovamente perso
alla tempesta
che si affaccia in orizzonti troppo lontani,
è solo apparente la momentanea quiete,
sogni mai sfioriti e divertenti,
prorompenti.
Lo zoo di Berlino
Io ascolterei
il lento soffuso tepore di te
in quanto piangerei
vedendoti ancora.
Io annuncerei
motivi di strada
perché la tua essenza più non svanisca.
L’ago trabocca un poco interdetto
e scende a lambire la tua pelle svilita,
la ascolto e ascolti anche tu
la mia melodia, la vivi
al di sotto di ogni vera passione.
Io spenderei
altre due parole
perché in preda a questa mia follia
ti veda ogni giorno
nei miei gesti puerili.
Io continuerei
per farti pensare
ad un anarchico Nietzsche
che fissi atmosfere
e con i miei occhi ti squadri.
Riascolto di nuovo la tua voce,
vanagloriose memorie sospese
che raccolgo da inutile stilita
ritirato sul Monte Ventoso,
ogni sua incitazione
mi freme nel cuore
al punto che non la so più scordare.
La sento e si trascina sotto pelle.
Ancora,
sì.
Il pensiero è senso
Ho posto condizioni
in giorni a ciò protesi,
descrizioni minuziose
di mosaici in sé imbalsamati.
L’atmosfera è incline a rendimento,
tra le viuzze dei tranvieri del triumvirato,
cardi e decumani attendendo
i passanti stanchi.
“Dixerat astrologus
periturum te cito,
nec, puto,
mentitus dixerat ille tibi”.
Il pensiero è senso di Diocleziano,
dei compendi e delle istituzioni di Gaio,
Giuliano è l’apostata del significato
ed è imbronciato
nel contemplare divinità silvane.
Platone al centro del discorso
scambiando le battute
tra i salmi della Thorà,
prendendo posizione
tentennando un po’ all’inizio
e poi sciorinando versi di Ovidio.
“Ecce, recens
dives parto per vulnera censu
praefertur nobis sanguine
postus eques.
Hunc potest amplecti formonsis, vita,
laceris?”
Vero e ci credo
Il vento tra le finestre,
mille colori la primavera in città,
per le strade ragazzi a giocar,
pochi spiccioli in tasca.
Vero e ci credo
che la tua essenza trascenda
l’umana comprensione
per la bellezza che comunica
a chi ha occhi per guardare,
il tuo volto intrepido
dagli occhi vispi e sognanti.
Un tempo eri mia,
amica di ogni giorno.
E il vento continua,
un brivido caldo dietro la schiena,
sembra spingermi a buttar giù
le tele per guardarci di traverso,
il vero essere di te.
Nei tuoi jeans e nel capello
un po’ scomposto,
nel tuo corpo
di quando eri
cinabro tra i capelli,
più ci penso e più ti immagino,
ogni lingua tremando muta
si pone ai tuoi piedi
e la diatonica diventa
stupore universale.
E quando chiacchieravamo
all’ora di rientrare
era notte inoltrata e già lo so,
non fummo mai prigionieri
delle convenzioni
né lo siamo tuttora,
io e te unici al mondo
sincretisti senza aporia
di leggi universali,
coscienti almeno
per pura spinta spirituale
del Karma che ci governa
e invade tra le nostre labbra
in visibilio
che fremono amore.
Il vento è irrefrenabile,
urlo soprano
sulla settima corda
per precedere la nona,
una quinta diretta
con grazia tra le tue mani,
e sì, raramente ti incontro
di sfuggita ancora,
anche se il mio verbo esulta
è difficile comporre parole
dinanzi a tale specchio ribelle.
Rimarchi la pretesa
Rimarchi la pretesa
nella duplice scoscesa
spiaggia ondeggiante
tra le prove e tra le bisacce,
le mie tasche.
Puoi dimenticare
oppure non fiatare.
Chiedi scusa,
posso passare,
due lire tra il crinale,
nella guerra persa dalla pianta
che protende rami al cielo.
Puoi passare,
ok hai voglia di gridare.
Hai il ricordo impresso
come cartongesso nella mente,
gomma pane ad impostar
la voce senza vocale
impronunciabile e vitale.
Nell’aria rarefatta
ti pieghi tracciando
la circonferenza
e senza dualità cominci a fumare.
L’inviolabile dittongo
è un miraggio nel giorno afoso
ed infossato,
un po’ carino mia biondina
dai velati arpeggi inconsistenti.
Ok parla pure,
ma giusto due parole.
In ogni verso scorre
senza resa il flusso illusorio
del tempo.
Scaturendo in sensazioni,
vai aleatoria,
con la tua unicità superi
le tue stesse insicurezze.
L’elmo in capo
è corona d’alloro
nella pax universale,
triplice ardente stuola sola suola
capovolta nel trittico intonato,
la musa e l’atomo si scindono
in energie sovrumane,
più del vuoto può il sussurro
dell’amore tra le grondaie festose.
Le passioni che riponi
si tramutano in legge.
Distrattamente
Distrattamente
tra la luce della finestra
speravo in una futura ascesa,
primavera due o tre pagine
della mia stessa chimera,
sogni sfiniti sui libri.
Forse mi chiedevo
se l’inverno è valso a qualcosa,
forse non sapevo
ciò che so ora
che sono in confusione.
Ti guardavo con occhi puri.
Parlarti non ha oramai più senso
nei miei deliranti discorsi controvento,
parlarti era un po’ tutto.
Ora tu non sei più la stessa
mia cara,
non sei come ieri.
Distrattamente sporgevo
lo sguardo più in là del monte,
le storie velate,
le tue splendide trame.
Forse era il dominio tuo
eguale sul mio,
forse non era l’ora,
ma ti ammiravo.
Parlarti era ciò che credevo
fosse vero
ma in preda al panico
nasceva la tua indifferenza.
E così non sei più tu,
e così non sei quella di prima,
di ieri,
dei giorni di splendore.
Non sei più tu.
Ciò che penso e vedo
Ciò che penso e vedo
è il ricordo di un silenzio teso
all’alba senza redenzione.
È quell’innaturale gioia delle persone
tra le mie dita.
È il buio totale nelle parole
a vanvera della gente,
è un dissenso come restio
all’intramontabile destino.
È un rimbombo di tuoni lontani,
un fulminio di auto usate e consumate
come tamburelli zingareschi
ed eclissati dal tempo
in cui non c’è più bisogno di senso.
Sì.
È un po’ un essere desto
nelle notti in bianco
è un po’ un dimenticarsi di dormire
vivendo nel tepore,
girati come girovaghi nel letto
ad inumidire gli occhi.
Come il passare dei giorni
e l’offuscarsi dei sogni,
come un incubo in realtà mai
così denso
e le glorie di delirio folle
ed infine il suono lontano
di una viola come unica cosa
che resta all’estate che si appresta
e già scioglie la veste
rovinata infondo al mare.
D’altronde
D’altronde
questa baraonda notturna
è influsso lunare sul mio umore.
Nell’incandescenza spiritica
un che di spirituale
nel flusso notturno in subbuglio.
Nella temperanza dei tuoi occhi
accesi come foco,
ci basta poco per volare
su strade trascinandoci
a colpi di libeccio etereo,
non c’è la giusta premessa
ma la creiamo nell’evasione.
Credi pure a ciò che senti,
non dar peso alla vista fugace.
Credi pure alle sensazioni,
lasciati andare.
Credi pure al di là di ogni immaginazione
e con sapienza sguscia
tra le parole col tuo far felino.
D’altronde nella confusione
pensavo intensamente
ai tuoi sguardi abbaglianti e puri.
Nell’entusiasmo si incendia
lo spirito amante.
Nella verità raggiungiamo
i più impensati sentieri della conoscenza,
non c’è spazio per ignoranza
o errore fatale.
Credi pure alle mie illusioni,
sono il senso,
l’unico reale.
Credi pure alle deduzioni
dal particolare nasce ogni giorno
un fiore sbocciando irreale
come germoglio tra i nostri discorsi.
Credi pure a tutto,
credici fermamente.
Dopotutto è questa la strada,
l’incubo non ci avvolge,
non ci tocca
ma sfiora sul filo dell’abisso.
“Sicut amaracini blandum
stactaeque liquorem
et nardi florem,
nectar qui naribus halat,
cum facere instituas,
cum primis quaerere par est,
quod licet ac possit reperire,
insolentis olvi naturam,
nullam quae mittat naribus
auram, quam minime ut possit
mixtos in corpore odores
concoctosque suo contractas
perdere viro,
propter eandem rem debet
primordia rerum non adhire
suum gigundis rebus
odorem nec sonitum,
quoniam nil ab se mittere possunt,
nec simili ratione saporem
denique quemquam nec frigus
neque item calidum
tepidumque vaporem,
cetera, quae cum ita
sunt tamen ut mortalia constent,
molli lenta, fragorosa putri,
cava corpore raro,
omnia sint a principiis seiuncta necesset,
immortalia si volumus subiungere
rebus fundamenta quibus nitatur
summa salutis;
nec tibi res redeant
ad nilum funditus omnes.”
Da sopra a un albero
Da sopra un albero
traccio l’incoscienza
e l’anima la sento
nell’applauso e nella gloria sfinita,
parlerò ancora e ancora mentirai
guardando questa scena
come spettatrice esterna,
sarai in preda a questo spasmo
tutta dipinta di fragole
e di albori nati da poco.
Dall’abisso
mi vengono idee testarde e inutili
clamori che vanno
man mano in disuso,
frasi sconnesse eterne estese
lacrime dal punto di domanda
del tuo fare interrogative retoriche
mai così vive
come quando fuori piove
o trama tra le squame bagnate
e traspiranti dell’assenzio.
Banalità ripresa che distrugge
ogni correre qua e là
tremiti intensi
tra vespri e libertà,
due nastri grigi tra le labbra e la follia,
soffici bolle decorate
al mio maggiore incanto stonato
e posto come idea
dalla tua veste scintillante
più purpurea dell’intenso
scadere tra pagine fenice.
Non fuggire tra i cespugli
e i cespiti ingialliti,
non sfiorire
mia eterna unica follia.
Poi in silenzio ti prepari al viaggio,
non hai sincerità che possa chiederti
a quando ma soltanto quell’intensità
che porgeva adolescenziale
velleità
a tratti di spuma
e resta lì sospesa
a vanità
nello specchietto riflessa
e santificata
con l’incenso del perdono,
nel mio ricordo frutto
di doni imbiancati.
Inutilità paonazza posta un altro ciao
tra il cablaggio stanco
di inestricabili domani
vissuti già da oggi
da questo istante che già piange
coperto delle velate ortiche
che incutono timore nel buio
del tuo cenno turchino
occhi ormai dimenticati,
vai via davvero
e non so decifrarmi più.
Non fuggire come cerbiatto tra i licheni,
non sfiorire mia inutile verità.
Chiuse le porte della conoscenza
Chiuse le porte della conoscenza
spalancate nella prima metà del secolo
per coscienza,
nel tepore lunare mi svestivo.
L’erba della quinta ondata
sparsa nella celebrale dialettica entità.
Credo nella mia incoerenza
con tanta clemenza,
credo a volte a ciò che dico
per temperanza.
Sapori deliziosi
nell’alabastro delle coppe,
miele mischiato ad ambrosia
per colorire il senso,
la mia vera personalità
nel fumo della stanza incalzante
e musicata.
Credo che questo pensiero
sfiori corde dissipate,
credo per sentito dire
all’anima del mondo
che come vortice in ascesa
risucchia lo spirito
della resa ad occhi chiusi
e fantastica nell’assurda meditazione
sul cobalto,
presenza intensa
di ogni promiscuità eclissata
dalla purezza del tuo sguardo
e del tuo strano cenno.
La passione
La musica col suo riverbero
ha spaccato,
nella penombra del mio passato,
comunque le sensazioni
sono all’ottavo grado
nello sfinito astruso mio fiato.
La passione è un’illusione
che vampa con grazia innaturale
e accende un fuoco indissipabile
sulle nostre sensazioni.
Nelle tue dolci lentiggini
da fiore sbocciato sei protesa
verso confuse irrealtà,
hai bisogno di svelarti come sei
o rimanere chiusa nel tuo guscio
inaccessibile e misterioso.
La passione mi manda in confusione
e stordisce come intatta
sul tuo volto,
tiene un po’ di tempo preso al volo.
Il fumo sulla cattedrale
pensando all’oggi,
parlare all’inverso
di Baudelaire e dell’assenzio.
Il baldo sul fuoco
Il bardo in bicicletta
timido
Dilan Dog.
Sembrare un po’ assorti.
Assopirsi.
La passione che sfiorisce
è il nostro sommare intenzioni spoglie
e tiene viva la pretesa
della nostra vita intensamente
e un po’ ripresa.
La passione primordiale non perisce.
Per te
Il quesito scucito
e preciso.
Le civette affacciate sul parquet
domandandosi a tratti perché,
la ragazza spara,
ha già dipinto il vestito
e si è scurito il viso
del dilemma cavalcato
nel lemma aforistico e senza pietà,
potremmo sognare,
continuare a farlo,
residui della vecchia guardia
a fumare sorseggiando vodka
come fosse caffè,
forse erano le tre.
Per te.
Il fiore ormai è trapassato
ed il moderno è quello che era stato,
dolce la fragola nel gin
accompagnata col bignè,
santi sono i numi,
canti sono i lumi
tesi in inversa processione
audace sulle mendaci trame,
questo è il punto
o Lou von Salomè.
Con le bastardate i caini del sufflè,
con i piedi nudi in ascensore
scavalcando il giocoliere
che fa a pugni con me
tra dardi e birilli sordi
come trilli,
poi all’improvviso un’ ombra sul tuo viso,
disse qualcuno,
vasto il melodramma
della mia volgente flemma
all’interno dei sogni
e allora se è per te
sono al corrente del dessert,
visioni si materializzano
nell’inconscio ormai deriso
e io sono qui per te,
e piove.
Per te, per te.
L’alba era rinascita
ma la nuvola mi fa capolino
e l’alma nel mattino
piange attendendo la sera
nello stesso istante in cui parli di me,
l’intervista al rostro imperiale,
parlare con oltraggio
senza aver timore reverenziale
e ponendo sotto i piedi
il sordido principio d’autorità,
ecco tutto questo è per te,
potremmo scriverlo
o magari masticarlo
ovvero sorseggiarlo un po’.
Per te, per te.
Cromatura dark
Parlando a briga sciolta
nel deserto infausto
del silenzio e del tormento
trovo te.
Come stai? Che fai?
È l’età la tua dualità!
Va be’ diciamo se l’intenso
inverno si nidifica
e le tensioni moltiplica.
Ok.
Vai così,
strofinio.
Da beata fonte
sorge il mio languire,
Artemide è già qui
e tu in ritardo sacerdotessa sei,
volessero gli dei
mi ti ci penserei, vorrei, farei,
sciogliti nel gesso.
Cromatura dark.
Mi basta già la penna
che possa scrivere
e te con i tuoi urlettini audaci
amore mio già sei
perché dicesti lo dipingerei
il volto tuo su filigrana
e tu compari e vai,
ti spargi nel via vai,
ripetizione danzante sei.
Bagliori.
E puoi partire
con il biglietto obliterato anni fa,
che dolce sei,
che belli gli occhi
per cui perdo il senno,
ed è tutto ok.
Io ti guardo
desossiribonucleica mia,
sei proprio tu.
Ok, lo so che gli anni passano
e come cicatrici qualcosa lasciano
e la partenza ormai incombe
su, non fossilizziamoci,
un cambio c’è.
È tutto ancora ok.
Momento propizio,
Cromatura dark.
Vai così sei perfetta
nella giravolta che maledici
e fai lo stesso in vertice
e muretto scavalcato
schizofrenico l’ardire
un po’ frammentato
dei nostri progetti protesi
verso l’attimo
che ora rappresenti ed è.
Cromatura dark.
Come stai?
Sciogli la neve,
piove già mentre ti asciughi
il colore dei capelli e pensi a me.
Va bene così?
Mantengo l’elastico
mentre ti snodi e fai.
Già troppo dai.
Te ne ravvedi
ed eclissi tutto sul rimmel.
E come va? È così ancora?
Tu sei splendida stasera,
manca qualcosa,
un nome o una persona
ribonucleica.
Serata splendida, ok,
va bene,
sei fumante ed io ti ammiro.
Aprile 22
Ciao, mi faresti accendere per piacere?
tre litri atroci,
due spose e tremila deludenti,
scadenti tridenti per sognare
notti al mare, lascia stare,
fra le scuse nelle frasche
sono a respirare aria
da centro sociale,
sale sulle scale
delle tue vocali
la mia mano intrecciata
dal legame intenso del senso.
Vedo, ciò che vedo,
fallo, ti prego, ci spero,
non trovo pace
nelle discussioni intramontabili
mentre ti penso,
sei densa come erba,
ti sgretolo tra le mani,
preferisci se faccio subito
ovvero aspetto,
d’accordo.
Pensi, tu
davvero,
ti rincorro per averti in cartolina,
risentirti mentre scruti la mattina,
i tuoi piedi intorpiditi nel risveglio,
tra la nebbia delle mie sigarette
ci credi,
strizzi l’occhio
come avorio è il braccialetto,
l’estensore ti strofini
e dici mai mi alzerei dal letto,
vorrei dire le assonanze vespertine,
ripetute come respiri del male,
mi concentro ancora per due ore,
sei davvero complicata con stupore,
guarda fuori come è bello
fa capolino il sole,
se rimani ti richiedo,
vuoi restare? è aprile,
se sul bordo della sera
facendo un altro tiro
ci pensiamo,
abbiamo navigato troppo
con la fantasia,
o forse no,
mi sai dire il giorno e l’ora
con precisione,
si sottende ad un pensiero
ma si stende una vocale sul sale.
Io ci penso ancora, anni tanti,
ci vedo ancor quel poco di tenebra,
i nostri sogni apocalittici
e gli uguali segnali del destino,
ti direi ti amo, ciò che voglio non so.
Io ci penso ancor
a quel raggio che sei tu,
un raggio oscuro che investe
e tutto copre con dolcezza
e delicatezza,
col tuo solito fare moine
ed effusioni rinate
come catene che apri
e poi richiudi
nelle occupazioni notturne.
Ciao, per favore,
mi sfioreresti le labbra
con la tua solita grazia? prego,
sono pronte,
manca poco ad un intrecciarsi
di illusioni, sia gentile mia amata,
lo faccia subito,
bevo un sorso
mio angelo azzurro
pur inumidendo il resto
ma è un residuo del mio nulla,
allora? Sei pronta?
Caravaggio sembra
l’incisione del mio cuore,
tu come sei precisa questa sera,
ognuno di noi ha da fare,
ma adesso per favore
non ci pensiamo,
proseguiamo con le prose liriche
in chiaroscuro,
che docile, cominci a danzare
ma sei pronta ad azzannare
le mie labbra come fossero ciliege,
miele,
ok, d’accordo,
leggi ancora
manca solo qualche ora.
Io ci penso,
ci penso tanto
ed è assurdo lo so,
ci penso per ricordare le strade.
Io ci penso ancora,
ci penso per guardare
i fari delle macchine
e le dita ingiallite
dei freni roventi
sulle sabbie mobili del tempo,
ci penso.
Io ci penso
come se attraversassi
il sentiero dei mie giorni,
vapore l’erba si consuma.
Nel trapassato soffuso
Nel trapassato soffuso
ricordo oscuro,
di pomeriggio,
l’afa ricordo ancora,
con il pensiero rivolto a te
ti ammiravo mentre guardavi
la leggiadria delle correnti avverse,
delle ondate iconoclastiche
di pietà mondiale e spirituale,
l’anima la tendevi già
verso l’infinito,
per le tue rose in pieno agosto
andavo pazzo,
eri la più bella,
sai?
Era ciò che poi è stato,
tu mi ascoltavi mentre fingevo
e ti porgevo la mia innocenza
rivestita d’amarezza,
il tuo ritorno al paleolitico ingorgo
imbalsamato,
non lo ridico per non sfiorire
ma l’attimo davvero ci fu,
poi si annidava sopra i nostri occhi
stesi nel godimento la passione
e ciò che restava della serenità,
forse è per questo motivo
che l’intento ormai è svanito
ed il tempo è passato
senza conseguenze
ma prendendo con sé ciò che resta
del mio tributo, o cara.
Una parola viene o non viene,
lì parlava l’umidità delle nostre labbra
esplose in un bacio,
sì ti pensavo mentre ti vedevo
ed era passato l’attimo dell’abbraccio,
ti adoravo senza gloria
come un forsennato
e il momento venne da sé,
ti desidero ancora, sai?
Ed ora che sono
all’ombra del ciliegio
e penso a quanto ancora sento,
le sensazioni vanno e vengono,
mille pulsioni mi rinvigoriscono.
Le tue splendide giunture
e il taglio degli occhi riflessi
come su specchi d’acqua bramo
perché sei sempre dentro me.
Mia cara, dove sei
scissa in prosa e trafitta
che sarai e che farai
senza poter mai più rinnovare
il cenno col capo
come quando dici no?
Ti desidero e lo ripeto.
Fuori da questo illusorio tempo
ci lambiamo ancora
come due scampati
all’ultimo sbarco della vita.
Perché non mi appunti
più le tue iniziali
e le conclusioni sulla pelle?
Hai steso il sogno un po’ sbiadito
e l’hai riposto nella valigia
pronta a partir,
all’improvviso ti ho chiesto
se il ricordo è più forte del pianto
e tu sorridendo hai chinato la testa.
Ed ora ti voglio più che mai,
lo sai?
Ci penso ancora alle tue stupende
sottolineature sopra i nostri manuali
da sbirciare come facevi
tu quando disegnavi distratta
e vanagloriosa.
La tua voglia era immensa
e non dimenticai
perché così è la vita,
ti imprime le parole
e i gesti su filigrana,
mi fa bene un poco d’aria.
Mia cara ora che si fa?
Dove è la verità?
Noi siamo legati da indissolubili trame.
Al di là del bene e del male
viaggiamo con la mente ancor,
sei qui?
Potresti uscire col vuoto della sera
Potresti uscire col vuoto della sera.
Non pensi di me per incisione statica.
Una soluzione ibrida e tenue,
un pensiero e un ricordo
come dissi e sempre dico,
un sogno desto
per illuminarmi di immenso,
senza paura e senza panico.
Siamo nati dal disdegno
del futuro intrecciato
con le follie della notte
che ricorda fiumi d’autostrada,
solchi tracciati e poi sepolti.
Parli.
Prepararsi con ritegno,
fare il bagno al mare
e non guidare spiriti avversi
affogati in tracce di benzodiazepine.
Bruciare di passioni mai arrese,
correre a perdifiato senza più fiatare.
Nell’ingorgo americano
cercare melodie londinesi
e sciogliere il ghiaccio nell’infuso,
intruso.
Ascolti.
Accendo una pall mall
e spengo il cuore.
Profumo di vaniglia
invade l’olfatto tramutato
il tuo sospiro in candido felino.
Duplice parossismo.
La carestia di parole ed i concetti,
guarda, sempre gli stessi,
avrei bisogno di mutare il trambusto,
di guardare fisso negli occhi
il mio gatto per ispirazioni
a perdifiato.
Come adulati dalla sorte,
in bilico tra cielo e monte
puntare il dito indicando
la prima stella mattutina.
Ancora,
stop.
Andare come un vaporetto,
forza scendi dal mio letto,
stai esaltando ciò che non ho fatto.
L’incrocio.
Lo sgorgo.
Canti mia upupa nella calura atroce.
Ah però!
Aspetto un po’.
La canzone
Sosteniamo quelle assurdità
leggendo noi stessi
per imparar a scoprire
il retrogusto delle rose e del lillà.
Spingo al massimo
l’acceleratore per calcolare
la tensione
nel momento preciso
del disturbo allo stomaco
come la colomba che vola
seguo la verità.
La canzone rispetta
la struttura moderna petrarchiana
e non respinge
la arcaicità leopardiana
della vacuità,
noi siamo sempre noi,
tu l’asso nella manica
sul molo a guardar le stelle,
io e te sul far della sera
dicendoci,
ti voglio.
Desidero una birra fredda,
assaggi la vendetta
con la calma lucida,
poni assiomi
che son fiori germogliati
come al cuore i chiodi.
Ti ricordi se mi guardi
con un bacio da questa realtà evadiamo
non l’abuso di sostanze
ma soltanto delle musicali stanze.
La canzone pian piano
si consuma sotto le gocce
violente della pioggia,
noi due non siamo più
una trinitaria stessa cosa.
La canzone sta sfiorendo
mentre il mio amore sta
gaussianamente crescendo,
e tu mia cara dove sei?
Tu dolce anarchica ribelle
che guardavi me mentre
ti ammiravo,
noi due che il rapporto hegeliano
servo-padrone
non ci ha fatto mai capire
chi fosse il governato
e chi il governatore.
“Agli ordini generalessa”.
“Son pronta mio unico ammiraglio”.
Quante amare delusioni
ma che intense passioni
nella nostra bohemien
vita controvento.
Quanti idola e quanta morale
abbiamo distrutto
per poi costruire
dadaistici valori
dai frammenti
ed approdare al nostro sogno surreale.
Quante quelle lettere ingiallite
e tu lontana mentre guardo
la luna che selenica risplende
sulla mia parete
e si rispecchia nei tuoi occhi cobalto.
Quel che abbiamo fatto
è talmente potente e assurdo
che nessuna forza,
neanche la nostra
potrà eclissare
o soltanto obnubilare.
Noi siamo stati e sempre saremo
quel che resta
del controverso mondo intero.
Continua
Continua,
scriverono e controfirmarono
le tre uniche, indissolubili, fuggiasche
e ribelli,
era l’estate ed io neoterico
mi approssimavo ad appoggiare
piani, idee mie
arricchendole di me
affinché fossimo
ciò che resta del futuro.
Molto futile l’incontro
ed il saluto della dama dagli occhi blu,
dolce ragazza crudele sbarazzina
piena spilletta
etnica borsetta
e dai cani scortata
e tutta calata
percorse a ritroso la piazza,
si raccontò da sé
aneddoti e fato
e scrisse decisa
sulle affinità elettive
che Goethe era alticcio
ed Hegel un ciarlatano,
la battaglia continua
e niente dividerà
storie intrecciate
fuggite e rubate
come saette
tra la vendetta
e la noia del meriggio.
E dai sogni guidata
etilica ondeggiata
un sorso di vita sul libro fotocopiato
con cura nella calura
lasciò,
riscrisse oltraggiata
la battaglia mai finita
Dovrei guardare negli occhi per decifrare
Novembre rinchiusi
in una bolla di vetro
io ad annusarti,
la pioggia che batteva
con disinganno e distaccato,
credevo che tutto andasse meglio.
Dopo dei mesi
cinema da ondeggiamento spiritico
piccola ornitologica indovina,
tendevo silenzioso
ad un ideale irrealizzato,
pronto dalla strada a passare
alla quinta musicale.
E tu carina e rivoltosa,
nella macchina indecorosa
ad espiare qualche colpa
un tantino incasinata
ma ci credevi nel profondo
al cambiamento di costume,
alla cultura ed a citare
le mie stesse informazioni
che io medesimo mescolavo
con le mie,
mi daresti dieci mila lire?
E sciorinavo paroline a perdifiato
cosciente che sarebbe un giorno
tutto finito
ma consapevole altresì
che il legame covalente
che ci ha uniti ambivalente
mai si sarebbe scisso
in quanto quell’elettrone
a noi comune
era la forza sovrumana
di una potenza vincolata.
E poi l’estate un po’ annebbiata
e seduta sul sediolino di dietro,
sdraiata poi e mezza nuda
come se colta dalla spuma.
Torna il tempo incatenato,
seduti da mozzare il fiato,
quel bacio
la situazione incandescente
si ricreava inconsistente,
davamo la sostanza
a quella nostra forma,
dualità nell’abbraccio,
sviavi discorsi
e discutevi di strade, vicoli e palazzi.
E così imparai ed imparammo
l’odio nel riscontro delle fonti
che musicate da un intorno
scolavano etilici limiti
e solfuree destromani spalle
tracciate
delimitate da un integrale.
Ed ancora,
ancora il tempo
che restio all’accidente
era noumeno tanto invadente
che noi riuscimmo a governare
come incenso.
Dovrei guardarti negli occhi per decifrare.
Ed oggi è oggi,
riporto solingo
del ieri mai così com’è,
altezzoso e inutile,
bastardo quanto te,
bastardo quanto me,
imbarazzato e sensibile,
specchio lontano del percepibile.
Un tantino furiosa
Un tantino furiosa
nell’altitudine barometrica,
sale la pressione enciclopedica,
io sono qui,
calmo al tuo fianco,
tu che sei l’eternità,
il mondo e l’intero universo
in brume trame,
ti aspettavo
come se t’amassi
eclissato
ribaltavo continuamente
i pensieri,
dove sei?
Tanti orripilanti sogni
in cui noi due sguazzavamo,
servi solo di noi stessi,
il mondo era inquietudine,
sfiora l’alba nel decoro.
Io e lei unici
Io e lei unici,
tre coppie alternate
mai ripetibili
quella sera di luglio,
il mondo è ai nostri piedi
in un bacio.
Poi un umido soffio di vento
e l’amore lieve discese
le musicali scale.
Noi amanti intrepidi
tra accordi inutili,
al di là del tempo,
della storia,
dell’umanità,
io e lei unici
asso e ditirambo.