Brevi cenni sul disagio adolescenziale e la devianza. Una possibile Katarsi attraverso la musica ed il cattolicesimo

Sole sul cavalletto; 1973; De Chirico G.

 

 

INDICE

 

 

 

INTRODUZIONE                                                                           

CAPITOLO I   DISAGIO ADOLESCENZIALE E SOCIETA’  

 

Le radici del disagio adolescenziale (Povertà e Benavere)                                                               

 

Dalla famiglia al gruppo dei pari?

 

L’età cibernetica ed il disagio

 

 

 

CAPITOLO II    DEVIANZA ADOLESCENZIALE, UNA CORDA TESA TRA AMORE E VIOLENZA

 

Amo la mia vittima e tanto a te mi interesso da vessarti!

 

Condotte devianti e criminali degli adolescenti contro gli altri

 

Disagio adolescenziale e violenza contro sé stessi

 

CAPITOLO III   KATARSI  

 

Disagio adolescenziale e Katarsi, la “Nova Alternatio” tra arte e cattolicesimo                                                                           

                                                                                                       

     CONCLUSIONI                                                                       

 

BIBLIOGRAFIA

 

SITOGRAFIA

 

NORME SENTENZE E BOLLE PONTIFICE                                                                                    

 

TESTI CITATI O CONSULTATI                                                                      

 

NOTE

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Il presente lavoro analizza sommariamente il fenomeno della devianza e della criminalità adolescenziale partendo dal disagio ad esso sotteso, figlio a sua volta della società cibernetica in cui i ragazzi si trovano a vivere, agire e muoversi.

Abbiamo strutturato l’analisi in tre capitoli, nel primo analizzeremo l’adolescenza e come essa sia dalle più ataviche società epoca di transizione dalla fanciullezza alla età adulta e come, dalla seconda rivoluzione industriale alla crisi economica del 1929, quando si è iniziato a parlare di devianza adolescenziale si sia strutturato meglio questo genus.

Passeremo poi, nel raccontare il passaggio tipico dell’adolescenza dalla famiglia al gruppo dei pari, a descrivere la famiglia dei giorni nostri, non più autorevole né punto di riferimento, ed anche giuridicamente delegittimata e sempre meno società naturale e cellula fondante della società stessa ma piuttosto consorzio di interessi.

Si proseguirà col descrivere, dunque, la società in cui l’adolescente vive, l’epoca cibernetica ove tv ed internet conducono alla reificazione dei soggetti ed alla loro spersonalizzazione in una ottica liberista e capitalista, filo-protestante e laica.

Nel secondo capitolo sarà analizzato il rapporto odio/amore tra adolescente violento e la sua vittima, parleremo della aggressività iter-specifica ed intra-specifica, dei rapporti tra attaccamento ed aggressività, nonché della funzione riflessiva e dello sviluppo della persona. Proseguendo poi, in linea, a delineare il concetto da una prospettiva più squisitamente filosofica, paragonando l’assassino all’adolescente violento.

Saranno poi analizzate le diverse condotte devianti e criminali, dal gangismo alle culture urbane, al branco, alla violenza adolescenziale politica e religiosa sino alla malavita ed ai fenomeni di bullismo e cyberbullismo.

Tratteggiato poi sarà il fenomeno della violenza dei giovani contro sé stessi, in particolare il suicidio sia dei gruppi terroristici che quello classico adolescenziale, ed infine il fenomeno della droga e delle dipendenze.

Grande è stato il contributo di pensatori quali Bowlby, Cohen, Durkeim, Lorenz, nonché  Galimberti, De Lalla e Sgalambro  ed, infine, i testi delle canzoni del gruppo musicale Baustelle, fine conoscitore ed analista del fenomeno del disagio adolescenziale nel nostro millennio, quello  dell’epoca cibernetica.

L’ultimo capitolo, Katarsi, cercherà di trovare e delineare una terza via, tale da comprendere e prevenire la devianza ed il disagio agendo sul sistema valoriale della comunità.

 

 

 

CAPITOLO I

DISAGIO ADOLESCENZIALE E SOCIETA’

 

 

  1. Le radici del disagio adolescenziale (Povertà e Benavere)

 

Parlare di disagio adolescenziale e cercarne le radici, le cause, nell’ottica della sempre attuale disputa tra ambientalisti e genetisti, spesso risolta con la convergenza ed interrelazione di ambedue i fattori, nello sviluppo che dal disagio porta alla devianza e finalmente alla criminalità è impresa non facile. Non facile perché nel definire le radici di un disagio è essenziale carpirne il soggetto, la classe, la fascia di età colpita, ovverossia l’adolescenza. E tale termine  è di nuovo conio, recentissimo, deriva da “adolescere”, ovverosia  “crescere” [1], ma è solo dopo la Seconda Rivoluzione Industriale, nell’Ottocento, che inizierà a definirsi una visione specifica di questa “età di transizione”. Certo una visione approssimativa ed ancora in nuce, che tenderà a svilupparsi compiutamente solo nel secolo successivo, e proprio nella definizione dei fenomeni criminali che vedevano coinvolti tali giovanissimi, nonché nel problema, che sarà speculare nella Nostra trattazione, della nascita di luoghi ad hoc adibiti al ritrovo adolescenziale, con i sottesi fenomeni collegati, dalle sottoculture (o preferibilmente culture urbane) al linguaggio gergale, agli assalti all’ordine socio-economico precostituito.

Precedentemente, dalle ataviche culture neolitiche e paleolitiche, sino all’intera età arcaica ed al mare magnum del millennio medievale, l’adolescenza era ben poco considerata come fascia di età meritevole di attenzione e studio, di analisi ed approfondimento. Essa era una “Pasca”, un passaggio dalla infanzia alla giovinezza/mondo adulto, così era per gli autoctoni delle civiltà dell’Africa subsahariana, dell’Oceania, America Indiana e dell’America Latina, e così è ancora oggi, nei primi tre luoghi ove sopravvivono gli aborigeni, e così anche nel quarto, anche se in una ottica spesso folk[2].

Riti di iniziazioni presenti anche nelle coste del mediterraneo, nella penisola ellenica e negli arcipelaghi del Mare Nostrum, nella Roma Repubblicana e soprattutto imperiale, nelle popolazioni del Medioriente, in particolare la Persia e la penisola Arabica in età preislamica, un passaggio che conservava in sé un’aura di sacralità, sacralità rituale che affonda le proprie radici nei cicli stagionali e dunque nei miti di rigenerazione. Tale aspetto lascia i suoi strascichi ancora oggi nella musica ritmica ossessiva dance che tanto attrae la fascia di età presa in considerazione [3].

Il problema, però, affrontato in maniera esaustiva, come accennavamo, è tipico dello sviluppo socioeconomico e si inizia a parlare seriamente di adolescenza, come epoca distinta dalla fanciullezza, non solo con l’introduzione della psicanalisi, ma soprattutto affrontando la questione da un punto di vista sociologico. Nasce l’adolescenza quando si scopre il crimine adolescente. E si pongono, dunque, problemi definitori, il puer non è più puer, e non è più puer perché già ad otto anni inizia a lavorare in fabbrica (confronta su imputabilità minore Codice Penale Zanardelli artt. 53-56), con le donne, ed urge una soluzione giuridica a tale devianza.

Ma studi seri e compositi sono iniziati solo in un secondo momento, in piena crisi economica, quella del 1929. La genealogia delle gang deviate di ragazzi nasce con la società del benavere che toglie benessere da un lato e lo muta e qualifica in alternatività all’ordine precostituito dall’altro. Gang che nascono a Chicago soprattutto, in pieno protezionismo, e che sono figlie di due fenomeni quanto mai attuali ancora oggi, in epoca di Grande Recessione: la crisi economica e dunque la povertà, accompagnata da standard che difficilmente possono raggiungersi da parte dei figli delle classi meno abbienti, nonché dalla immigrazione massiccia di quegli anni negli USA, che si colloca in un tessuto urbano in larga parte estraneo ai valori degli stranieri, i quali vivono e convivono in periferie cittadine, cadendo facile preda di organizzazioni criminali, avallate dalla ribellione per lo sfruttamento e dal forte clima di intolleranza e violenza razziale tipico negli Stati Uniti in quegli anni[4].

In quest’ottica si collocano l’ultima delle tre teorie di Cohen sulla devianza delle gang, ovverosia la “Teoria dei Mezzi Illeciti”[5], secondo cui il benavere americano di quegli anni del dopoguerra aveva in un certo qual modo creato una sorta di invidia sociale, invidia che rende appetibili a classi disagiate standard di ricchezza e potere, che sentono di meritare a prescindere, finendo con il cadere nella microcriminalità o, peggio, nel baratro delle organizzazioni a delinquere, tanto fiorenti proprio in quegli anni a Chicago. Anche Fredrich M. Thrasher, uno dei massimi esponenti della “Teoria Ecologica”, è dello stesso avviso, seguendo l’ombra di Robert E. Park afferma “Le bande sono un gruppo interstiziale formatosi spontaneamente e integratosi attraverso il conflitto, caratterizzato da alcuni comportamenti tipici come rapporti faccia a faccia, botte conflitto, movimento nello spazio, progettazione. Ma il primo fattore costituente è lo sviluppo della tradizione, della struttura interna non dettata da riflessione, lo spirito di gruppo, la solidarietà, la morale, la coscienza di gruppo”[6]. È questa la base poi dell’anomia di Emile Durkheim e delle teorie di Gramsci, l primee analizzate nel prossimo capitolo.

 

 

  1. Dalla famiglia al gruppo dei pari?

 

L’adolescenza, dunque, è epoca di transizione, una transizione che consente il passaggio dal nucleo familiare al gruppo dei pari. Un passaggio necessario per il sano sviluppo dell’individuo, per la sua configurazione, definizione e consapevolezza di essere persona, essere comunitario, facente parte di un nuovo nucleo, la società, e perfezionandola, con le sue potenzialità, carismi e talenti divenendo parte attiva del tessuto comunitario.

Ma a che ciò accada in maniera sana, consapevole e vantaggiosa per il ragazzo occorre mantenere determinati equilibri, occorre che le iniziazioni/bravate siano limitate alla sperimentazione ed all’ingresso tra i pari, senza sfociare nella criminalità, e soprattutto in una criminalità spietata ed in bilico tra psicotico ed organizzazione delinquenziale adulta. Per non parlare del pericolo terrorismo.

A tal fine è la fonte che deve essere equilibrata, la famiglia, l’ordine da cui si parte per giungere ad un punto di arrivo, l’adolescente ha, secondo il nostro avviso, necessità di una autorità, sia essa famiglia, Stato o educatori, da temere e da combattere, in clima iniziatico e contestativo, nella cosiddetta alternatio. Così la ribellione è costruttiva e si modella amplifica e potenzia l’autorità e l’adolescente si prepara a forgiare un novus ordo, un mondo nuovo, in cui riabbraccia una autorità, nuova ed attuale, da egli plasmata e modificata, ma pur sempre una autorità.

Tuttavia, già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, Konard Lorenz nel suo scritto “Gli otto peccati capitali della società”(1973)  e successivamente Baldoni[7] hanno colto che il problema ha una gravità ab origine, gravità sottolineata anche dal Galimberti[8].

Baldoni e Galimberti concordano con Lorenz che già nel 1963 notava come la cultura umana si fosse sviluppata in maniera esponenziale soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione di massa, giornali e cinema, ma poi aggiungiamo tv generaliste e commerciali, sino all’ingresso del primo internet, dei social forum e dei social network, dei videogames, dei giochi di ruolo. Tale trasformazione ha di fatto comportato una degenerazione della famiglia e soprattutto della figura paterna, il tutto congiunto ad una esponenziale intolleranza verso ciò che provoca dolore e sofferenza, una apatia quasi psicotica in una società deframmentata, un nichilismo spicciolo dilagante tra i giovani.

È demolita l’auctoritas, dunque, e Lorenz aggiunge a complemento, anche la tradizione, in un processo, ci sia azzardato dire, che è partito col materialismo lutero-galileiano del ‘600 per raggiungere la propria apoteosi nell’illuminismo, empirismo, utilitarismo, sino al positivismo ed al passaggio dalla massificazione totalitarista di fascismi di destra e sinistra a quella delle tv e della cibernetica, verso una sorta di democrazia che viene dal basso e non è illuminata dall’alto, dall’auctoritas, tramutandosi così in corsa al consumo, senza limitazioni di sorta da parte della comunità, in parole povere in una demagogia, un ragionare con lo stomaco.

Baldoni a tal proposito sottolinea che tal discrasia è tanto maggiore e tanto più avvertita oggi, epoca in cui non esiste più lo scarto di valori, c’è una uniformità tra anziani e giovani, tra padri ed adolescenti, un attacco alla famiglia tradizionale che impedisce di fatto la rivolta verso la tradizione, sentita nella adolescenza come avversa, e quindi l’impossibilità per l’adolescente oramai adulto di porre in essere valori nuovi, nuovi tradizioni. Ogni cosa è piatta, padri e madri sono sempre più assenti e, ove non assenti, abbracciano gli stessi valori dei figli, in una generazione oramai da cinquant’anni sopita e priva di innovazioni valoriali. C’è un miscuglio, una miscela, a nostro avviso, che smarrisce l’adolescente, e che blocca il suo processo evolutivo, rischiando la continua stasi sociale. Ove non c’è tradizione non può esservi alternatività, né riferimento.

Tale scenario è ben più che apocalittico e rischia di spalancare le porte degli adolescenti a valori fittizi e violenti, del nichilismo banale di primo livello, terrorismo di matrice islamica, emulazione dei miti del cinema americano sempre più violento (i folli solitari che sparano nei college), sino alla affiliazione a società di stampo mafiose, sempre per emulazione dei miti televisivi, ad esempio la serie “Gomorra” e, nel migliore dei casi, avremo generazioni di estraniati ed alienati dalla cibernetica, dagli smartphone, Ipode, Ipad, che pongono al centro dei propri interessi il cibo –propinato da più trasmissioni televisive-, che ergono il tradimento a valore, che non comunicano in una lingua nuova, da loro creata, ma si ancorano nella lineare 1 dei loro smile ideogrammatici.

Restando in Italia certamente a questo sfacelo, a questa perdita di punti di riferimento, non è stata certo d’aiuto la Riforma del diritto di Famiglia del 1975. E parlo soprattutto da un punto di vista penale, nell’ottica della percezione dell’illecito e della devianza e del fisso punto di riferimento. Nota il Moccia a riguardo[9] che la famiglia non è più inquadrabile in una prospettiva pubblicistica servente ad una compagine statale (autoritaria dice, ma non siamo d’accordo, diciamo semplicemente noi autorevole). Tuttalpiù è per noi autorevole in quanto egli stesso afferma che nell’ordinamento vigente essa non può rivestire il ruolo di centro etico-istituzionale propulsivo della convivenza secondo parametri assiologici dati preventivamente. È certo questa una presa d’atto della situazione post-riformista, che spoglia la famiglia stessa dal ruolo di centro di valori da tutelare nel diritto penale trasformandola, in base a quanto espresso dalla Cassazione II sezione Penale con sentenza del 1 marzo 1966  un semplice “consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti vincoli di reciproca assistenza e protezione, cosicché anche i legami di fatto tra uomini e donne valgono a costruire una famiglia quando risultino da una comunione di vita e di affetti non dissimile da quella che si ha nel matrimonio”. Una visione che ben calza con la recente legge cosiddetta “Cirinnà” (76/2016), che seppur distanziando il genus matrimonio da quello dell’unione civile di fatto li equipara, in linea generale, rendendo ancor di più la famiglia un consorzio privato e non pubblico, non un centro di propulsione assiologica, cella fondante della comunità così come sancito dall’art 29 della nostra Costituzione, la società naturale fondata sul matrimonio. Ed il termine naturale stesso viene, a Nostro avviso, completamente svuotato di senso, soprattutto in relazione al diritto naturale e non solo alla sacralità intrinseca della famiglia e del rapporto familiare, sia tra coniugi che con la prole, che tra i membri della prole stessa. Insomma il genus famiglia sembra quasi traslocare dal Titolo II al Titolo III della Costituzione, ovverosia dai rapporti etico-sociali a quelli economici. Un ragionamento analogo a quello fatto sapientemente dal De Lalla[10] che nota come l’art 36 Costituzione, sul lavoro, avrebbe trovato migliore collocazione nel Titolo II e non nel Titolo III come norma di apertura, notando come la collocazione del lavoro nel titolo inerente i rapporti economici viene ad essere un limite non solo sistematico ma anche politico, giacché lo pone in un contesto di lotta e rivendicazione e non di garanzia comunitaria. Citazione necessaria in quanto riteniamo lavoro e famiglia tra loro strettamente collegati, ed è, di più, Nostro parere che l’intero impianto Costituzionale del Titolo II, Famiglia, Salute, Scuola, Cultura, stia spostandosi de facto nel capo sui Rapporti economici, rendendo, di per sé, e per nostra sfortuna, vetusta la stessa dizione Etico-Sociale, dizione che resta intimamente legata all’economia ed alle leggi del mercato e del Capitalismo esasperato (sempre che esista un Capitalismo non esasperato). Il Moccia prosegue sostenendo la necessità di un intero spostamento, ad oggi quasi completamente avvenuto, dei delitti contro l’ordine e la morale della famiglia, nelle sedi specificatamente più opportune, sacrificando però, di tal guisa e come egli stesso afferma, il rapporto familiare nella sua valenza etica e reale, quasi delegittimando la cellula della società a vantaggio dell’individuo. E l’individuo rimane in balia della società, non riuscendo a personalizzarsi nella fase di transizione.

 

  1. L’età cibernetica ed il disagio

Se nel secondo dopoguerra sino agli ultimi sgoccioli del secolo scorso la TV, prima generalista, poi affiancata dalla commerciale, aveva reso l’essere umano ed in particolare i giovani alla stregua di idioti sociali, assopendone le attività e diffondendo un linguaggio unico e standardizzato, l’italiano corrente di Mike Bongiorno, e di più gli adolescenti estraniati nel pensiero e nel ragionamento, sopiti da verità preimpostate e preconfezionate, dunque alienati dal pensiero critico, dall’inizio del millennio, con la diffusione della telefonia mobile prima e della comunicazione digitale poi, il problema è andato acuendosi alienando in misura maggiore l’adolescente soprattutto, in ciò che distingue l’uomo dall’insetto, nell’espressione compiuta del pensiero, la comunicazione, che è partecipazione. L’idiota è divenuto pazzo, autistico, chiuso in sé ed ovunque in contatto, in contatto con tutti squittisce e muove le sue antenne piccine. Sgalambro docet[11] “comunicare è da insetti, solo esprimerci ci riguarda”, continuando col sostenere che la comunicazione è del branco, dei famelici lupi –ahi, aggiungiamo quanto ricorda a Nostro avviso questo branco la violenza degli adolescenti in branco, ahi quanto è vizio comunicativo- oppure del fastidioso ronzio delle mosche nel mercato nietzschiano, la ripugnanza agostiniana del male, che nelle Confessioni definiva informi non già cose prive di forma compiuta ma cose disgustose, il comunicare del branco, che si prepara alla lotta o al riposo, il comunicare di massa, dei mass media, che serve a stupire, divertire, a rovinare nel putrido fango come le svelte scimmie che si arrampicano sul trono di un idolo che nel fetore è trono colmo di fango, quello Stato mercantilista tanto odiato da Nietzsche (Così parlò Zarathustra)! E fango genera fango, la curiosità heideggeriana da comare è notizia, la bile vomitata dai giornali, per tornare al professore di Basilea (ibidem), il Grande Fratello orwelliano (1984)  che tutto vede e che è sia comunicazione di massa, sia curiosità da reality. L’ipertesto che domina sul testo, il nuovissimo medioevo glossante ove ognuno posta e modifica la realtà, amplifica la propria porzione di reale occultando sempre più il vero e la Verità, rendendo verità mercimonio.

Nell’età cibernetica, nel mondo cibernetico, tutto è mercato, anche le idee, anche l’identità. Tutto è globalizzato e tutto ha un prezzo e quindi tutto disprezzato, il prezzo toglie valore, lo mortifica, toglie l’anima all’idea. E, quindi all’identità, che, come sostiene Romano[12], non è in grado di formarsi né di auto-formarsi curando quel processo relazionale che dà senso al coesistere solo nel riconoscimento e nella condivisione con l’altro. Un processo che lo stesso Romano ci ricorda come sia agevolato dal convincimento che la velocità-cibernetica diremo- di acquisizione della propria identità, ovverosia di differenziarsi dalle cose e dagli altri, sia raggiungibile facilmente con l’accesso a mondi virtuali, a reti informatiche, che divengono iper-reali per il fatto proprio di non essere reali, non fissabili mentalmente né materialmente ma flessibili e non definiti, labili, come i rapporti interpersonali. E la dimensione economica retta dal mercato dei prezzi è l’unico indice di tale relazionarsi, relazionarsi che avrebbe invece bisogno di quello che il Romano chiama “linguaggio evocante”, caratterizzato dall’essere disfunzionale e non anticipabile in calcoli, sottratto alla proprietà dell’accesso. Il linguaggio dell’empatia e dell’amore, il linguaggio, diciamo Noi, del sacro e del religioso, del mistico rapporto, dell’indecifrabile. Notiamo ancora[13] che tale identità è acquisita, in questa società cyber-post-industriale dalla figura del consumatore costruito dall’alto ma utilizzando categorie del basso, immagini accattivanti, scarso senso critico, parole semplici ed efficaci, illetterate, subdole, una cultura figurativa quindi, che non produce solo per sé come nelle società autocratiche e familiari, né che genera un accrescimento dei bisogni alienante ma nell’ottica della divisione del lavoro, come nelle società industriali, ma addirittura alienante perché genera identità, genera un consumatore studiato a tavolino, calcolabile, privo di identità propria. Una identità sgravata da confini naturalistici e posta nella rete informatica. Se, infatti, Fichte sosteneva “L’uomo diventa uomo solo con gli altri uomini” in un rapporto di costruzione della identità mediante il riconoscersi nell’altro e quindi diverso dall’altro stesso, il rapporto qui diviene uomo/mere, merce causa e relazione tra gli esseri parlanti (mai più pensanti) l’altro è qualcuno perché è qualcosa. Una connotazione questa tratteggiata dal Romano che ci fa giungere alla oramai certa verità che la attuale società non è solo autistica, deframmentata, a tratti schizofrenica, ma soprattutto narcisista. Non esistono pensanti esistono merci, l’uomo è divenuto un utensile. E per di più un utensile non reale ma iper-reale, ove non vi è posto neanche per la fantasia, per l’immaginazione. Se l’immaginario era alibi del reale in un mondo dominato dal principio di realtà, oggi è il reale che è divenuto l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione[14]

L’uomo è le sue sinapsi, l’uomo è merce, l’uomo è utensile, e ciò pone problemi di non poco momento riguardo la colpevolezza, se vero è che ciò che è spiegabile non è imputabile perché esula dalla libertà e dunque dalla responsabilità ma appartiene a cause specifiche dei casi. Su ciò torneremo nel terzo capitolo.

Concludiamo il presente paragrafo solo con alcune riflessioni meritevoli del De Lalla, che possono orientarci su una prospettiva futura. Ed io mi soffermerei su tre punti. In prima istanza sulla gerarchia dei valori di Scheler[15]. I quattro livelli sono esemplificativi, se il primo si lega alla valutazione gradevole/sgradevole e dunque al sensibile, il secondo è quello dei valori vitali, salute, malattia, vecchiaia, morte, il terzo è campo di valori spirituali, quali i valori morali, estetici, giuridici, il quarto è quello della dimensione sacrale. Tralasciando le riflessioni squisitamente inerenti alla politica ed all’homo socialis, qui interessa notare un passaggio fondante che ben si lega alle riflessioni del Romano, ovverosia che la scienza moderna, empirica, basata sull’Erfahrung, è soprattutto tecnica, come risultante della cooperazione controllata tra sensibilità ed intelletto-intelletto come calcolo ma anche come logica- di essa ha ripreso il tono-base. Ed è facile concludere che l’età cibernetica, a Nostro avviso, ha compiuto se non una regressione quantomeno una accentuazione di tale livello primigenio, tipico dei primati non umani e della tecnologia strumentale. A ciò si aggiunga il secondo livello, tipico della vitalità e collegato al primo “tecnologico”. Esuberanza, vitalità, utilità, etc. questo il contorno, a ciò si limita l’era cibernetica. E questo è l’uomo utensile, corda tesa tra lo sviluppo tecnologico esponenziale e la bestialità vitale, tra impulsi irrefrenabili e criteri meritocratici figli dell’utilitarismo. E un secondo livello in qualche misura depotenziato dal connubio con la tecnica, col primo livello. Ci viene in mente la riflessione di Baudrillard su “Crash” di J.G. Ballard[16] , che descrive un mondo dove non c’è affetto né psicologia, né flusso né desiderio né libido o pulsione di morte, ove alberga selvaggeria della mistura di tecnica e corpo, immanente, dove persino la sessualità  è una sorta di vertigine potenziale di segni nulli del corpo, mero rituale simbolico d’incisione dei segni, alla guisa dei graffiti.

Il secondo ordine di riflessione ci porta al capitolo conclusivo della citata opera del De Lalla, “La democrazia comunitaria”, da cui è possibile trarre alcune riflessioni a tratti illuminanti sulle prospettive future e sull’inquadramento dell’era cibernetica[17].

È indubbio che tale epoca sia figlia del Capitalismo, di un capitalismo subdolo, quello dal “volto buono”, umano, che non è monopolio ma segue le libere leggi del mercato, sposando de facto una liberal-democrazia ove lo Stato pone a freno spinte monopolistiche od oligarchiche, ma che alla fine agevola l’emergere delle medesime anche se in maniera non collusiva, o talvolta le indirizza proprio lì, complice il nuovo mercantilismo/imperialismo dell’Unione Europea. Qui lo Stato ed il Sovrastato non tassa per fini redistributivi, non garantisce nemmanco il nozickiano “stato minimo”, ma tassa per agevolare e agevola tassando. Niente a che vedere con lo stato comunitario di cui parla il De Lalla in Eracle al bivio[18], anzi forse dal 2009, anno di edizione de “La Comunità Democratica” il bivio è stato imboccato e le destre si stanno ergendo, ma nemmanco la sinistra parla di giustizia sociale, non più, partito cartello e partito piglia tutto allo stesso tempo. Ha senz’altro vinto l’Uomo Vecchio, veterotestamentario e filo-protestante, dall’altra parte non c’è, manca-e se ne sente l’assenza-il Cristiano, l’Uomo Nuovo sostituito da ideali ed ideologie di matrice orientale, di stampo islamico, od occidentale, ma di stampo new age, e figlie di Lutero e quindi del liberismo, direzione che la chiesa Cattolica, col nuovo Pontefice, sembra stia prendendo, un cattolicesimo in bilico tra new age e protestantesimo, scarno e veterotestamentario di un filo-protestantesimo non evidente, che vede l’uomo religioso fuori dalla comunità e barlume della società, ma comunque fuori da essa, entrandovi con pochi valori grillini, ecologisti, da marketing della misericordia e della compassione, freno all’estremismo ma, come tutti gli ecologismi, i pietismi e le religioni personalissime e laiche, freno scarno all’avanzata delle destre ed al ritorno del “Vecchio Uomo”.

 

 

 

CAPITOLO II

DEVIANZA ADOLESCENZIALE, UNA CORDA TESA TRA VIOLENZA ED AMORE

 

  1. Amo la mia vittima! Tanto a te mi interesso da vessarti

Imprescindibile per porre dei cenni che sintetizzino le radici socio-psicologiche e filosofiche dei fenomeni di criminalità violenta che vedono coinvolti gli adolescenti, con particolare riguardo al bullismo, al cyberbullismo ed al branco, è l’analisi condotta dal Boldoni[19], di cui qui ci serviamo interamente,  riguardo a una delle opere fondamentali del premio Nobel per la fisiologia e la medicina Konard Lorenz, etologo e naturalista, vale a dire “Il cosiddetto male” (1963)  nonché al discorso su aggressività ed attaccamento di J. Bowlby, che abbraccia un po’ tutta la sua produzione, dagli studi su Darwin e lo stesso Lorenz alla compiuta analisi dell’attaccamento. Imprescindibile anche il lavoro di Manlio Sgalambro[20],  che inquadra, seppur parlando di omicidio, il rapporto  amore-aggressività da un punto di vista squisitamente filosofico che, indubbiamente, merita la Nostra attenzione.

Partiamo col dire che Lorenz, da etologo, non inquadra il fenomeno della violenza da un punto di vista freudiano di repressione e modifica del proprio istinto, l’aggressività è, qui, invece, studiata dal punto di vista di un adattamento necessario per la sopravvivenza della specie[21]. Intendiamoci in prima istanza sul significato etimologico di aggressività, che deriva dal latino “ad-gradior” e reca già in sé, nel suo significato, una ambivalenza, un significato bifronte, essendo traducibile sia nella prospettiva dell’amore (andare verso) ma anche in quella della violenza (andare contro, attaccare). E Lorenz distingue due tipologie di comportamento aggressivo[22], quello “inter-specifico” e quello “intra-specifico”, il primo che si attua tra specie diverse, il secondo tra membri della medesima specie. Ora, la differenza è di non poco momento, tenuto conto che nella aggressività inter-specifica manca l’elemento psicologico, manca l’emozione “rabbia”, il predatore attacca spinto dalla necessità di nutrirsi e quindi per soddisfare un bisogno naturale primario. Interessante, a tal proposito, porre in essere un Nostro inciso che in parte esula dall’economia del discorso, ma che sentiamo di dover fare, in una società spinta sempre più al plutarchesco vegetarismo, o veganismo o fruttarismo. Ed a tal proposito vorrei rifarmi al famoso discorso di Capo Seattle al Congresso Americano[23], specificatamente nella parte in cui afferma e si schiera contro la mattanza e contro l’uccisione di animali fine a sé, in particolare bisonti, per noia (un po’ come i ragazzi del cavalcavia), o per consumismo/capitalismo esasperato, dando nella propria semplicità una immagine che, ai nostri giorni, non può non essere di indirizzo, vale a dire cibarsi di carne per necessità, riconoscendo la dignità dell’animale e senza confinarlo in lager per mattanze su larga scala/globalizzate. Un indirizzo moderato ed attualissimo, e soprattutto figlio del rispetto per una delle massime forme di auctoritas, la Natura. L’uomo, insomma, finisce per essere cruento, esprimere la propria rabbia e la propria vacuità esistenziale addirittura nel comportamento aggressivo “inter-specifico”, caso unico tra gli altri essenti di scala inferiore, tra le altre specie animali.

Passando ora alla aggressività intra-specifica, tra membri della stessa specie, Lorenz nota come tale comportamento è aggressivo strictu sensu, proprio perché intenzionale –tralasciando l’intenzionalità umana inter-specifica di cui abbiamo appena accennato nel precedente inciso-, ed è rivolto, principalmente a tre finalità: la prima è quella di selezionare il membro più forte per la difesa del gruppo e per la scelta della femmina che porterà avanti la specie attraverso la riproduzione col più adatto/forte/capace. La seconda è a fini di “spacing-out”, ovverossia per il miglior sfruttamento del territori del gruppo, infine la terza, il “selective breeding”, vale a dire la protezione della prole.

Ma Lorenz continua la sua analisi in modo egregio per cerare soluzioni, all’interno della specie umana, capaci di tenere a bada tale aggressività, che in pensanti ed esseri razionali può e rischia di sfociare in condotte violenti fine a sé stesse, gratuite ed irrazionali. E a tal proposito propone un incanalamento di tale aggressività, mostrando come ciò sia avvenuto nei secoli, dal neolitico e forse anche prima, attraverso due meccanismi: la ritualizzazione e l’inibizione. La prima reindirizza l’aggressività attraverso rituali, soprattutto di carattere religioso, dalla forte valenza simbolica, tra questi rientrano i famosi riti di iniziazione cui le ataviche società sottoponevano “l’adolescente” per segnare il passaggio dalla infanzia alla età adulta. L’inibizione, invece, è tipica dei predatori, per questo Noi riteniamo si sia sviluppata nell’uomo quando è divenuto da raccoglitore cacciatore, con la scoperta del fuoco, e serve a censurare la violenza, utilizzata nella caccia, nei confronti dei propri simili. A tal proposito gesti inibitori sono per esempio il sorriso, la stretta di mano, il saluto.

Veniamo all’analisi di  Baldoni sull’attaccamento di John Bowlby, l’autore, che come detto inizia i suoi studi in una prospettiva etologico-evoluzionista leggendo Darwin e Lorenz (in particolare L’anello del re Salomone del 1949) coniugando in maniera egregia teorie psicoanalitiche, cognitiviste, sistemiche e naturalistiche. L’intuizione è che l’essere umano manifesta una predisposizione innata a sviluppare relazioni di attaccamento con figure genitoriali primarie[24]. L’aggressività è dunque una componente innata, in accordo con Lorenz, e le ragioni della sua esistenza possono essere ricondotte a quattro ambiti fondamentali: una esperienza infantile di deprivazione materna, un comportamento teso ad evitare esperienze di separazione e di perdita, uno sviluppo carente della funzione riflessiva legato ad abusi, maltrattamenti o scarsa sensibilità genitoriale, lo sviluppo di un attaccamento insicuro. Brevemente[25] , in merito alla deprivazione materna, possiamo ricordare lo studio di Bowlby nel primissimo dopoguerra, in qualità di incaricato della Organizzazione Mondiale della Sanità, compì ricerche e studi che lo portarono a pubblicare due opere agli inizi degli anni ’50 (Maternal care and menthal health e Child care and the growth of maternal love) in cui si sosteneva, fondamentalmente, che i bambini hanno bisogno di un rapporto caldo, intimo ed ininterrotto con la madre o la figura di riferimento materno che possa consentirgli soddisfazione e godimento, di conseguenza la deprivazione materna prolungata tende a favorire disturbi antisociali. Alla stessa stregua si colloca quella che è definita la “Collera non funzionale”; essa si sviluppa in una ottica di protesta messa in atto per mancanza di cura da parte del caregiver, tale mancanza di garanzia di protezione svilupperà probabilmente, in età adolescenziale, condotte quali bullismo, vandalismo, sino alle più gravi violenze contro gli stessi familiari. Altro autore preso in considerazione da Baldoni è Peter Fonagy, che ispira i suoi studi a quelli di Bowlby, e negli anni ’90 del secolo scorso si sofferma sui rapporti tra aggressività e funzione riflessiva[26]. Se nei primi mesi di vita il neonato sperimenta uno stato di “Sé non psicologico”, vale a dire pre-riflessivo o somatico, a che si giunga al “Sé psicologico” o riflessivo è necessario un determinato rapporto riflettente con la figura di riferimento, una empatia, un rapporto a due in cui il genitore riflette sul suo bambino rappresentandosi i suoi pensieri, sensazioni, bisogni, intenzioni, cercando di interpretarli, viceversa ed in sinergia il bambino si riconosce decodificando tali rappresentazioni genitoriali che avvengono attraverso segni, espressioni facciali, linguaggio. Ciò consente al bambino di riconoscersi proponendo un modello riflessivo col quale identificarsi e dunque, in età adolescenziale, avere le basi per la definizione della propria identità. Questa è la “funzione riflessiva” ed è evidente che, se essa raggiunge il proprio obbiettivo, consente lo sviluppo dal Sé non psicologico al Sé psicologico/riflessivo, favorendo un attaccamento sicuro. Ma ove mai la funzione riflessiva fallisse si porrebbe in essere un attaccamento insicuro, prodomo di devianza ed aggressività in età adolescenziale, o, in alternativa, comunque di squilibrio, che si manifestano nell’Evitamento o nello sviluppo del Falso Sé. Tale attaccamento insicuro, secondo la Strange Situation ideata da Mary Ainsworth (1969), ha evidenziato come tali bambini rischiano nella adolescenza una maggior predisposizione all’utilizzo di droghe, all’isolamento ed alla ribellione verso educatori, scuola ed istituzioni.

Vediamo meglio, l’attaccamento insicuro distanziante vede una idealizzazione della figura genitoriale, in contraddizione con i ricordi autobiografici che può favorire attacchi collerici improvvisi ingenerati dal distacco degli affetti negativi del sé, distacco che può provocare perdita di controllo di tali emozioni e scatti cosiddetti d’impeto in età adolescenziale. L’attaccamento insicuro preoccupato, invece, è dovuto a trascuratezza o abuso da parte dei genitori, che crea una scissione del sé che può enfatizzare la rabbia sino all’odio distanziandosi dalla vulnerabilità o, viceversa, enfatizzare la vulnerabilità sino alla paura e distanziarsi dalla rabbia. Nel primo dei due casi abbiamo il cosiddetto attaccamento ossessivamente collerico e ossessionato dalla vendetta nei confronti della figura di riferimento, quivi la collera è disfunzionale (perciò si parla di vendetta ed odio fine a sé) ossia non indirizzata alla necessità di ricevere protezione. L’attaccamento di questo tipo, caratterizzato da collera non funzionale, porterà ad adolescenti aggressivi sia con i loro compagni che nelle relazioni amorose e che spesso sono potenziali partecipi, unendosi a bande, delle “inspiegabili e gratuite” violenze da branco. Da notare, infine, una altra configurazione estrema, quella nascostamente minacciosa o anaffettiva, che, come quella paranoide, potrebbe sfociare in una aggressività adolescenziale rivolta verso tutti, nella percezione di una ostilità non qualificata verso l’altro e verso l’esterno. Giusto un ultimo cenno riguardo, questa volta, la vittima, anch’essa spesso figlia di un attaccamento insicuro, precisamente quello di tipo seduttivo-ossessionato del soccorso, caratterizzato da individui che ricercano protezione e si mostrano deboli e fragili, celando la propria aggressività, negando la propria rabbia ed enfatizzando la paura. Tali soggetti possono divenire facile preda di abusi sessuali o di bullismo.

Questo breve excursus sull’attaccamento e l’aggressività, sintetizzabile nella massima di Lorenz “non c’è amore senza aggressione”, ci apre alla dimensione dell’intimo rapporto sussistente tra amore e violenza, rapporto tanto più vivo nella adolescenza, età sintesi di contraddizioni ed età della transizione al mondo adulto. Epoca questa che tanto affascina perché può assurgere a simbolo della umanità, dei suoi modi d’essere, delle sue oscillazioni, delle sue tendenze tra bene e male, giusto ed ingiusto. L’adolescenza livella ed accomuna tutti proprio in quanto il carattere è in fieri, noi in seguito faremo scelte, l’adolescenza è il periodo deputato alle prove.

Manlio Sgalambro analizza l’atto per eccellenza più riprovevole che possa compiere un uomo, l’assassinio[27]. Come accennato è a Nostro avviso centrare alcuni punti del discorso che può ricondursi a fenomeni di devianza/criminalità più estesi dell’omicidio volontario, cogliendo l’essenza dell’opera che, di fatto, parlando di delitto parla del meccanismo che induce l’uomo a gesti violenti contro il prossimo, ovverosia l’altro individuo. Non a caso l’autore, definendosi hegeliano convinto, parte dal presupposto che “quando il male è nel mondo esso non è più male ma è il mondo stesso”, e per tali motivi mostra un interesse per il fatto, delitto- d’ora in poi Noi diremo violenza- che non occupa lo spazio del mondo ma qualcosa d’altro, di più l’interesse non lo ripone nella causa del fatto, che egli ritiene comunque causa secondaria, ma nel soggetto attivo, l’aguzzino, inteso come persona e dunque causa prima[28] del fatto stesso. E l’analisi non parte da una prospettiva psicologica, ritenendo che l’idea di un individuo di cui non si può sapere altro se non tramite la psicologia sia una idea dovuta al peggioramento stesso del concetto di uomo, nel suo considerarlo imperfetto, mentre, afferma, “l’individuo compiuto non è cosa da psicologia”[29] e, di conseguenza chi commette violenza non deriva il suo atto dalla sua psicologia, ma dal solo fatto che egli non solo è un individuo ma questo individuo[30]. Come, riteniamo Noi, se la transizione da individuo a persona perversamente si realizzasse in quell’atto di riconoscimento dell’altro, la vittima. E ciò si scorge nel nietzschiano assunto della nostalgia dell’assassino (Aurora 366), quindi diciamo del carnefice, a differenza del suicida, o nel nostro caso dell’autolesionista, il carnefice dunque si spinge al di là, non rivolge il suo atto contro sé, sancendo che la propria vita non ha senso ma contro l’altro, se il suicida svaluta la vita l’assassino svaluta anche la morte[31]. E quindi se l’autolesionista svaluta sé chi fa violenza finisce per svalutare anche la possibile pretesa di senso dell’altro e quindi, più in generale, nel suo atto traspare una universalità.

L’atto è mosso dal capriccio e non dalla libertà, capriccio che diviene grazia, e dunque elettivo e non selettivo e soprattutto, ancora non egualitario. Se la libertà livella, infatti, l’atto violento è figlio della grazia di chi sceglie, preferisce, si lega ad uno e non ad un altro[32]. E’  come se lo Sgalambro qui cogliesse l’intensità dell’atto violento come perversione dell’atto d’amore, amore che è di fatto elettivo e guidato dalla grazia. Dietro l’apparente provocazione c’è la sottigliezza di chi comprende come la violenza, l’atto violento e dunque soprattutto il violento eserciti la sua potenza, il suo arbitrio, la grazia di provenienza divina verso una polarità opposta a quella più congeniale. Tali parole racchiudono il senso, profondissimo, della dannazione umana, che perverte la grazia rendendola capriccio e perverte l’amore rendendolo violenza. Ma l’intuizione più sottile ancora, è che ambedue le forze hanno un genus comune. Un genus che parte dalla shellingiana concezione dell’inizio della metafisica nel momento in cui l’uomo tocca il fondo, cade, l’uomo che respira l’etere senza decadere diviene non più uomo ma bestia, ed in ciò, potremmo dire,  colloca quello che Noi definiamo il passaggio dall’età del materialismo a quella cibernetica, come un passaggio da una umanità che, finora era vissuta sub specie mortis ed ora vive sub specie delicti[33].  E ciò è vero non solo e non tanto perché la virtualità in cui siamo oggi immersi ha fatto perdere di vista la realtà, almeno la realtà percettiva diretta, collocandoci in una ottica iper-reale ove l’incontro con l’altro è sopraffattivo e non condivisivo/esperenziale, ma addirittura ove il senso ultimo delle cose, l’esser sé stessi più autentici, non è la heideggeriana morte e nemmanco il sartriano nulla ma addirittura lo scontro, nella percezione dell’altro come nemico, per qualificarlo e dunque qualificare sé temendo l’estraneità figlia dell’indifferenza e quindi la percezione dell’altro e di sé come nulla. Ma Sgalambro va oltre, sostenendo[34] che “il represso non cessa di agire e proietta ovunque il suo incubo”. È questa la censura della metafisica sulla contemporaneità e la censura della stessa scienza empirica, se può ancora parlarsi di scienza e non di mera ricerca, sottraendo quindi tale conoscenza alla certezza ed alla previsione. Persino la storia cerca di scongiurare tale visione, tale perpetrarsi dell’incubo per diffusione da pensante a pensante, ma fallisce rendendo i più grandiosi miserabili, in una sorta di nostalgica dimenticanza, “come se provenissero da una lontananza in cui tutto sarà polvere”[35].

In tale ottica “il delinquente diviene intelligenza” perché hegelianamente è intelligenza (Filosofia dello spirito jenese) e prima ancora, o dopo che è lo stesso, “il delinquente diviene forma di esistenza”[36], una sorta di décadent, un baluardo, un gorgoglio ultimo del nietzschiano crepuscolo degli idoli, non più il “mostro razionale” della Metafisica dei costumi kantiana, mosso dall’invidia e che rompe gli equilibri e l’armonia, ma si erge egli stesso a divino baluardo arzigogolante, a principe del senso, ad unica forma di senso nella virtualità relazionale, sottratto da ogni definizione psicologica di debole o di forte ma, come emerso supra, ontologicamente “essere discernente della decadenza”. E dunque l’infermità stessa viene “legata all’esistenza apatica dell’universo”[37], e misero è lo spazio in cui medicina e psicologia possono guarire, misero perché limitato al reinserimento, alla dimensione adattiva alla società, società stessa che è malata, mentre l’aporia della medicina moderna è nell’imperativo “la verità è salute” e viceversa “la salute è verità”, di qui la via di fuga nietzschiana, il naufragio nella propria stessa follia. Una opinione che ben si sposa con l’ileomorfismo dell’Accademia dei Quaranta ed in particolare di Venturoli contro le ipotesi di Charcot, le malattie nervose, infatti, per lo studioso italiano non potevano avere natura organica ma erano vizi di volontà dell’anima razionale[38], né tantomeno, prosegue Vespignani, i processi mentali ed il pensiero in primis, non potevano ridursi a “fosforescenza celebrale”, né l’anima poteva divenire funzione del cervello[39]. L’uomo è sottratto dal meccanicismo kantiano tanto quanto dal relativismo positivista ma è, sempre secondo il Venturoli, “non mera materia ed organizzazione ma un tutt’uno, inserito ab estrinseco da Dio”[40].  E stesso dicasi per la morale, quella della “Metafisica dei costumi” kantiana, dove in realtà il delinquente si sottrae al meccanicismo dell’equilibrio/squilibrio sociale, quasi karmico, cui la virtualità pone morbosa attenzione, nella fretta anarchica di spiegare con ordine, con sistema, con empirica precisione.

Ecco che fa a questo punto, in questo ritratto della nostra società, il suo ingresso l’amore, quindi la violenza, Sgalambro nel domandarsi cos’è l’amore si domanda cos’è il delitto-per Noi cos’è la violenza-, ed amare è figlio del capriccio e della grazia di cui abbiamo accennato, amare è eleggere un individuo e gettare gli altri negli inferi, “amare è questo infame delitto, amare un individuo è come condannare gli altri all’inesistenza”[41]. E nel ricordarci che “Il cacciatore uccide solo cose belle” si intuisce questa attenzione del delinquente per la vittima, ma la sua umanità non sta solo nel circondare la vittima di tutte le attenzioni del mondo, “l’umanità dell’essenza” hegeliana[42], ma nel fatto che lo stesso si sostituisce alla natura allo ius vitae ac necis che solo a Dio spetta, che dà morte umana e non naturale[43]. E ciò vale per l’assassino e per il violento, a Nostro avviso, ferma la validità dell’umanità nell’essenza hegeliana, il secondo passaggio è pur sempre un sostituirsi alla Natura, a Dio, un’intenzione di proteggere ciò che si vessa, nella certezza che si è gli unici a poterlo vessare, potremmo definirlo un vero e proprio “principio di esclusività”, una divinità che cala d’attenzioni la sua vittima perché solo è sua. In conclusione tanto l’assassino, quanto il carnefice come cosa in sé è un portatore di bene, come fenomeno un delinquente e basta[44]. Un cercatore di scopo, ontologicamente parlando, un décadent sperso nel virtuale che nel reale cerca tale senso attingendo alla virtualità non sua, un artefice che si sostituisce alla Natura ed a Dio.

L’intera opera di Sgalambro, a Nostro avviso, ben si presta e si adatta, come abbiamo più volte sottolineato, a tale epoca cibernetico/virtuale, in cui la morte ha perso significato ed il dolore non risulta neanche concepibile. È un punto di partenza importante, perché ci mostra una via di fuga, un modo per indirizzare tale principio elettivo col quale il soggetto attivo sceglie la sua vittima nella direzione di una serie di valori pieni, coerenti, sistematici. Ed è il Cattolicesimo, riteniamo, la via maestra, l’unica religione non meramente spirituale, ma incarnata, ove il ruolo del corpo è centrale quanto quello dell’anima e dello spirito, ove il dolore trova una sua configurazione e la morte un senso che si sottrae al nulla da un lato ed alla folle pretesa di sostituirsi, in questo nulla, al Dio veterotestamentario e vendicativo, laico e filo-protestante dall’altro. Il cattolicesimo viene ad essere un equilibrio tra dolore e redenzione, una presa di consapevolezza e di coscienza per l’adolescente che non cade nel virtualismo di uno spirito che ha la priorità sul corpo, né nell’edonismo di un corpo che ha la priorità sullo spirito. Una possibilità a che le sue attenzioni verso la vittima siano attenzioni verso l’amico/amato, di modo che la proiezione di sé sull’altro divenga positiva, risultato raggiungibile solo con la piena presa di coscienza della propria identità e, quindi, dell’amore per sé ed in fine dell’amore per sé nell’altro che da alius diventa simile. In una società malata non è una cura che contrasta la violenza ma una giusta consapevolezza e coscienza di sé e quindi dell’altro, consapevolezza che, come vedremo a breve, non va insegnata per imposizione ma come risveglio di coscienza, risveglio della “nova alternatio”.

  1. Condotte devianti e criminali degli adolescenti contro gli altri

Sebbene spesso si faccia una confusione terminologica tra i fenomeni di bullismo, cyberbullismo, gangismo e gli atti orribili compiuti dal cosiddetto “Branco”, è necessario precisare che si tratta di atti con una chiara distinzione, sia nelle modalità, sia nei mezzi, attraverso cui si pongono in essere tali atti, sia, infine, per quanto riguarda la loro durata nel tempo.

Importante è sottolineare, a proposito, che tali fenomeni sono accomunati sia dall’età di riferimento, l’adolescenza, sia dalle caratteristiche ad essa proprie, ovverosia dal disagio.

Il gangismo, a differenza ad esempio del bullismo o del branco, ha caratteristiche completamente diverse, basandosi su un seppur rudimentale “codice d’onore” (che ne delinea i principi cardine) ed un “codice di condotta” (che ne delinea le modalità attraverso le quali porre in essere la condotta deviante o criminale). Tali codici sono quelli che Cohen chiama codici morali e che spingono alla delinquenza in quanto l’adolescente ad essi aderisce ed essi interiorizza[45].  Ora, il codice d’onore, nelle gang, può essere di tre tipi, il primo legato alla sottocultura -noi preferiamo dire cultura urbana- cui gli stessi si ispirano, spesso ponendo in essere dei travisamenti  personalissimi dello Skin, del Gabber, dell’Emo, dello Ska, dell’Hip Hop, del Gotic, del Cyber, del Punk, nelle diverse declinazioni anarcopunk, punkabbestia.

Ora occorre a tal proposito effettuare una precisa e compiuta osservazione. Tale elenco non esaustivo di culture urbane è caratterizzato in primis per una determinata aderenza alla moda, seppur ponendosi in conflitto con essa, infatti, ciascun appartenente segue un look, un vestiario ed un atteggiamento tipico della cultura di riferimento stessa. La caratteristica di queste sotto culture, sta proprio in questo, nella avversione allo schema sociale precostituito, ma l’aspetto fondamentale è che non hanno quasi mai una connotazione di tipo politico, se non tendente all’anarchismo estremista di destra o di sinistra. Le culture urbane, già attive dagli inizi degli anni ’60, attecchiscono soprattutto tra gli adolescenti proprio perché hanno una base culturale solida nel volere e nel sapere, ma parca nell’attivazione e nella mobilitazione per i raggiungimenti dei loro fini. A differenza dei codici d’onore delle altre gang, quelle politiche e quelle legate alla malavita, il contesto d’azione su cui queste operano è di contestazione, di pars destruens ma manchevole di pars costruens. E ciò ne spiega l’ampia diffusione sul finire degli anni ’80 sino ai giorni nostri, o perlomeno sino alla prima decade degli anni duemila. È a partire da questa epoca che sono infatti crollate le ideologie attive-soprattutto il discrimen è stata la caduta del Muro di Berlino- a favore di quelle cartello, ed è stato facile, a questo punto, l’attecchire in maniera massiccia di tali subculture. Ora, ciascuna di essa, non contenendo alcuna connotazione politica, non si configura come cultura che necessiti di fare proseliti o di creare un mondo da essa dominata. Non c’è una verve propagandistica, né di carattere religioso né, come detto, politico, tali culture urbane sono culture che, seppur diffuse su scala internazionale, con le medesime ritualità, costumi e generi musicali di riferimento, hanno una connotazione chiusa, cinica, sono in opposizione a ma non sognano un mondo che utopisticamente si sottometta alla loro Weltanschauung. Hanno ben chiaro che esiste un mondo ufficiale e deprecabile, quasi in decadimento postatomico- ed effettivamente in decadimento post-ideologico- e poi ci sono loro, ultimi reduci, indiani nelle riserve, segno di una adolescenza quasi millenarista, che vive l’attimo ed attende una parusia nichilista e castista.

Capiamo bene che questa alternatio non è lesiva, almeno finché non avviene la travisamento, e, ad esempio, allo Skin o al Gabber, caratterizzati da stili completamente opposti, attecchisce un sentimento nazista che si esplica e sorge nel confronto con altre sottoculture, quella Punk ad esempio di ispirazione prevalentemente anarchica, o la Hip Hop più protesa verso sinistra, o l’Emo cinica per eccellenza. E ben capiamo che a questo punto, data l’assenza di cultura politica sottesa, si finisce per uno scontro, non tanto e non solo contro subculture avversarie, ma anche contro quel mondo “estraneo ed ostile ad essere conquistato”. E la violenza può divenire terribile, insensata, priva di regole proprio perché manca un codice di condotta e la connotazione politica diviene forma d’azione nichilista e distruggente. In questi casi fenomeni devianti sono occasionali ma quando avvengono esplodono con inaudita e cieca ferocia perché ciò che si attacca è il nulla e ciò da cui parte l’attacco è la noia. In parole povere se limitate alla musica, da cui provengono, o all’abbigliamento ed alle azioni tali culture urbane non creano problemi e non cadono nella devianza o nella criminalità ma possono essere addirittura una risposta positiva al disagio adolescenziale, esse infatti, coperte dal manto dell’arte, nel caso di specie la musica, correggono lo spleen attraverso la poesia. Interessante a proposito  una riflessione, breve, sul gruppo musicale Baustelle, gruppo che meglio si sposa a descrivere il disagio adolescenziale dagli albori del millennio ad oggi, aspetto che riprenderemo più volte in seguito, quello della “antiomologata adolescenza torbida” e dei suoi rapporti col cattolicesimo (alternatio religio), un’analisi che è compiuta in maniera acuta nel testo di Jachia e Pilla[46], cui attingeremo più volte nel corso della trattazione, soprattutto nel capitolo III, con i relativi aggiustamenti, approfondimenti ed accrescimenti che riteniamo opportuni. Riprendendo una intervista a Rockshock del leader del gruppo, Francesco Bianconi, gli autori[47] fanno un parallelismo tra il montaliano “Spesso il male di vivere ho incontrato” e l’album “La Malavita”, sottolineano come la via creativa sia l’unica possibile contro il male di vivere, il nulla esistenziale, ma non per forza e non solo facendo poesia ma soprattutto vivendo poeticamente.

Quando, invece, tali culture urbane estrinsecano una condotta illecita si caratterizzano come quelle condotte che Cohen includeva nella “Teoria della disorganizzazione sociale”[48], con la sola differenza che tali devianze non si formano in zone interstiziali della città, i cosiddetti slum, ma ovunque ed anzi maggiormente nei centri e nei luoghi ove meglio circola la cultura e maggiori sono gli stimoli.

Prima di passare agli altri due tipi di codici di condotta ed alla sottesa cultura in cui trovano spazio è utile un breve ma essenziale inciso. Esautorate dalla arte tali forme di sottocultura hanno tanto in comune col fenomeno del cosiddetto “Branco”. Il branco è, infatti, un aggregato di adolescenti che provengono da un qualsiasi ceto sociale ma non appartengono a nessuna cultura, nemmeno urbana, e per questo il loro nichilismo afinalistico è ancora più pericoloso. Costoro, se da soli possono anche essere definiti i classici “bravi ragazzi”, acquisiscono una forza bruta unendosi ad altri membri regredendo ad uno stato animale. Tuttavia, nota bene il Galimberti[49], assimilare l’azione del branco a quella animale potrebbe farci sentire in diritto di porre una certa estraneità nei confronti di atti all’apparenza insensati mentre è evidente che tale nichilismo, definito dall’autore figlio della speranza delusa di trovare un senso e della noia[50] sono solo all’apparenza inspiegabili. Soprattutto se ci poniamo nella dimensione, analizzata in precedenza, del locus in cui gli adolescenti si trovano a vivere, un topos senza valori, senza rispetto per l’autorità e la cultura, proprio perché vengono ad essere figli si una educazione che impone loro, tramite i modelli dei mass media, film, serie televisive, filmati youtube, ma anche degli insegnamenti genitoriali[51] della classe modio alta, una concezione della vita in cui l’arricchimento, il potere, il sesso, sono gli obiettivi cardine da raggiungere. Ed in tale terreno opera il branco, un terreno privo di regole che non siano quelle del più forte, evidente dunque la necessità di colmare la propria debolezza unendosi e divenendo un “mostro collettivo” che, spesso e quasi sempre sotto l’effetto di alcol o droghe stimolanti per colmare la debolezza-,  va a cercare proprio ciò che gli è stato propinato dalla educazione. La rapina, la violenza carnale, persino l’assassinio, ponendo sullo stesso livello vita e morte, dolore e sanità, proprio perché tutto ciò è in prima istanza virtuale e non più reale, in seconda istanza merce, e come merce da usare, consumare e disfarsene. L’unica via di salvezza lo spleen con poesia, il baudelairiano spleen artistico.

Il disagio che genera la follia del branco è tratteggiato dallo stesso Galimberti, nel trattare l’episodio di qualche anno fa dei “ragazzi del cavalcavia”, che gettavano sassi dai ponti generando incidenti, riporta le parole di una giovane suonatrice che dice “l’arpa mi ha salvato, altrimenti sarei anch’io a gettare massi”[52].

Passando agli altri due tipi di codici relativi ad altre, a Nostro avviso, tipologie di Gang, faremo solo qualche cenno, per l’economia del discorso. In prima istanza possiamo affermare che per ambedue i tipi di gang il codice d’onore e quello di condotta sono ben strutturati, a differenza delle culture urbane, soprattutto quello di condotta, che in alcuni casi, prevede rituali specifici su come porre in essere l’atto violento. La prima forma è quella della gang politica, cui possiamo accostare anche quella fanatico/religiosa. Ed il richiamo al terrorismo è d’obbligo, seppur chiariamo un concetto. Il gangismo religioso è altro dal terrorismo ma è spesso prodomo dello stesso, secondo la linea tristemente evolutiva esclusione/gelosia culturale-attività ritorsive delinquenziali-gangismo-terrorismo, evoluzione che si realizza soprattutto in gruppi settari e quando si preferisce l’integrazione al pluralismo. È d’obbligo citarla, dicevamo, soprattutto oggi, se teniamo conto dell’estremismo islamico, in particolare quello dei servi del califfato, ovverossia dell’Isis, perché è un fenomeno che coinvolge soprattutto giovani ed è inoltre figlio, a differenza ad esempio di Al-Qāʿida, dell’era cibernetica, come descrive sapientemente Ballardini[53]. E coinvolge i giovani attraverso la rete, a fini propagandistici, creando un vero e proprio brand, logo, prodotto parusistico preconfezionato e vendibile[54], propaganda della guerra, della necessità di porre in essere uno Stato Islamico qui ed ora su tutta la Terra, che non solo intimorisce l’occidente con i cruenti video di esecuzioni che vengono da “lontano”, con ben specifici format[55] ma che fa leva sul nichilismo giovanile di individui all’apparenza perfettamente integrati, occidentalizzati, persino nei vizi, per fare proseliti, utilizzando non solo semplici comunicati politici o  dichiarazioni ideologiche, ma addirittura composizioni musicali, riviste, blog, che rischiano di stuzzicare i cosiddetti “lupi solitari” che colmano il loro vuoto di valori col gesto estremo del “martirio improprio”,  non solo uccidendo gli altri “infedeli”, ma addirittura, e su questo torneremo nel paragrafo seguente, uccidendo sé stessi[56].

È utile citare il fenomeno dello Stato Islamico combattente perché il rischio di proselitismo tra adolescenti rischia di divenire una minaccia reale, vivendo essi una stagione in cui l’influenzabilità è molto maggiore rispetto ai giovani adulti. Dato l’alto tasso di stranieri di fede islamica, integrati anche da più generazioni, potremmo accomunare tale gangismo, che di fatto è atroce terrorismo, alla Teoria del conflitto culturale di Cohen[57]. Vale a dire che alcuni gruppi etnici favoriscono certe forme di delinquenza, trovandosi in un contesto di tensione mondiale ciò è ancor più vero. Ma il fenomeno riguarda anche gruppi quali i Rom, ove certe condotte illecite, come furti o rapine sono incoraggiati dalla penuria delle attività tipiche attraverso le quali, tali gruppi- che non vogliono aprirsi, gelosi della propria cultura,- trovavano sostentamento, vale a dire chiromanzia e vendita del rame o di altri manufatti in appositi mercati, attività, queste, che oramai non trovano più ragion d’essere né spazio nella società occidentale.

Riguardo le gang politiche, il codice d’onore e quello di condotta sono ben strutturati, ma non prevedono, come nel caso delle culture urbane, la violenza, che diviene accidente non necessario e figlio del travisamento o, ma in casi molto rari, dell’erronea interpretazione di concetti come rivolta o rivoluzione. In tali casi l’atto per eccellenza è di tipo vandalico (danneggiamenti di opere o luoghi pubblici) o, tuttalpiù oltraggioso nei confronti di avversari politici o istituzioni. Raramente si arriva allo scontro diretto violento e, se ciò accade, avviene spesso in luoghi di riunione (manifestazioni) o assumendo la forma di raid punitivo. Poco hanno a che fare oggigiorno queste gang con il terrorismo rosso o nero degli anni di piombo, ma investendo soprattutto adolescenti figli della crisi ideologia e poi economica possono assumere connotazioni ben gravi ed incontrollabili. Sono le classiche “generazioni dal pugno chiuso” come le chiama impropriamente Galimberti[58]. Ci riferiamo al fenomeno che ha preso il via a partire dalla seconda metà degli anni ’90 raggiungendo il suo apice tra 2006-2007, epoca in cui è stato scritto il volume dell’autore. Giustamente egli nota che costoro, parafrasando, sfidano il sistema sociale non ricevendo più da esso le risposte, le garanzie, di ordine sociale, politico e soprattutto economico. I No Global, i collettivi scolastici di ambo i colori, a detta del Galimberti sostituiscono la “sfida simbolica”  al “patto sociale”, venendo di fatto a rompere gli equilibri di sistema. Tuttavia tale affermazione è, a Nostro avviso, poco condivisibile, essendo la sfida simbolica un processo fisiologico della evoluzione societaria, ortegianamente parlando. In secondo luogo egli contrappone a tale sfida, a suo avviso nichilista, come alternativa il patto sociale in una ottica di contrattazione tra Stato e generazioni[59], ottica che è terribilmente privatista e ben poco si sposa con una comunità che sappia leggere gli interessi, le aspirazioni, le potenzialità degli adolescenti, deviati e non. Tenendo presenti gli studi del De Lalla[60],  Noi non condividiamo tale impostazione privatistica dello Stato, in quanto figlia delle leggi del mercato ed essa stessa causa della sfida. E tutto ciò è avvalorato dalle conseguenze della Grande Recessione con la quale oramai da più di dieci anni abbiamo a che fare. Ed in tale clima non trova più posto la generazione dal pugno chiuso, dato il proliferare xenofobo e demagogico delle estreme destre, nonché la vacuità contenutistica tra il parruccone ed il nerdismo acritico di movimenti come quello pentastellato, come emerge nella disillusa canzone dei Baustelle  “Il liberismo ha i giorni contati”[61] , in cui non è più tempo di rivoluzione ed allora la via porta all’annullamento socio/politico inevitabile, al comporre “poesie sulla inevitabile catastrofe”, è quello che Noi riteniamo lo Stoicismo B in Alternatio, l’accettazione della fine e l’ultimo gorgheggio poetico come forma della rivoluzione, gorgheggio ben diverso dalla speranza di redenzione nelle arti figurative, nella poesia etc., “Le avanguardie erano ok/almeno fino al ‘66”, ma un nullismo pieno ed estraneo al “mondo ostile ad essere conquistato”. Ed in  tale clima  hanno fatto ingresso le altre due generazioni di adolescenti di cui parla il Galimberti, che sono assurte a vessillo politico di riferimento, “la generazione x degli indifferenti” e “la generazione q dal basso quoziente intellettivo/emozionale”[62], ambedue pericolosissime, ed anzi, di più, a Nostro avviso tra loro intersecabili e non insiemi distinti. Gli indifferenti mirano all’uniformità, al cibernetico, al virtuale, a programmi di cucina, ad altri in cui vengono esaltati vizi o aberrazioni quali il tradimento, o la “bellezza” della camorra, o altresì si chiudono in giochi di ruolo, su luoghi estranianti quali watt app, facebook, instagramm, twitter, comunicando e non esprimendosi[63], mirano alla droga, al divertimento, al sesso mercificato, mantenendo però talvolta una piena identità seppure frammentata-il Galimberti è eccessivamente poco propositivo ed incompleto nelle sue definizioni- come emerge nella canzone “Charlie fa Surf” [64] , in cui si descrive una omologatio della adolescenza bifronte. Da un lato bravo ragazzo, dall’altro amante del porno virtuale, delle anfetamine, dell’MDMA, ed anche della musica, il doppio senso sulla drum machine delle sigarette e quella della elettronica è fantastico. Galimberti nel descrivere gli indifferenti è ben poco acuto, infatti la canzone riprende e cita la frase con cui si riferiva ai vietcong il militare Kilgolde  nel film “Apocalypse Now”,  sovvertendola. È un passaggio molto delicato, a tratti mistico ed intriso di misticismo. La canzone mostra come le negatività siano imposte dalla società che manda segnali contraddittori al giovane quindicenne, “andare in chiesa/fare sport/prendere pasticche che contengono paroxetina” cui si contrappone il suo mondo fatto di sesso virtuale, fumo, droghe, musica, propinato proprio dalla stessa società che gli comunica codici comportamentali corretti. Ma non solo, la stessa società interviene di nuovo nel punirlo per la sua condotta deviante da essa stessa provocata mandando messaggi ad educatori e genitori “crocifiggetelo/una mazza da baseball quanto bene gli fa”, e concludendo con un laconico e liberal-democristiano “Alleluya Alleluya”. Ma anche qui la musica e l’arte sono la via di redenzione perché Charlie fa surf, è un vietcong occidentale che pur obbedendo pronuncia con “strafottenza”, vive la sua alternatività fregandosene del resto, della società/ tenente colonnello Kilgolde che gli propone i vizi, gli propone come comportarsi, lo punisce per ciò che gli propone. L’inquisizione laica qui non l’ha vinta, ma tristemente non l’ha vinta per pochi attimi evasivi, ma, in definitiva, Charlie, falso alternativo è vero alternativo nella sua consapevolezza di tale contraddizione, e forse è l’unico ad accorgersi, da adolescente, che il disagio è creato dallo stesso genus che pretende di riabilitarlo/curarlo.

Tornando a Noi, quelli dal basso q sono, per Galimberti, potenziali sociopatici o psicopatici, spesso lupi solitari di movimenti estremisti quali lo Stato Islamico di cui abbiamo parlato, o altresì folli che sparano nei college americani. L’intersezione tra i due insiemi è larga parte della cibernetica adolescenza nostrana, alberga tutto tranne che l’amore, ci si affilia a movimenti discutibili ed orwelliani o, peggio, ad azioni violente.

Queste stesse generazioni d’intersezione sono poi quelle che fanno parte del terzo tipo di gang, quello di affiliazione mafiosa, sempre perché attratti dal guadagno facile o dal possedere persone, fisicamente, psicologicamente, sessualmente –dimenticando che a Nostro avviso si possiedono solo cose morte-. Il gangismo mafioso è una via, quella che Cohen definisce Teoria dei mezzi illeciti[65]. L’invidia sociale, verso questa società di arrivisti, consumista, in cui vale il binomio vincente-ricco/promiscuo/potente, quivi, spinge gli adolescenti a trovare spazio fertile su cui estrinsecare la loro rabbia verso “il mondo ostile ad essere conquistato” ed anche la loro cupidigia e lussuria -non propriamente loro ma a loro insegnata da genitori, educatori e mass media come stiamo dicendo e sostenendo ampiamente- ed in più trovano una protezione ed una legittimazione “sociale”, appartenendo a gruppi organizzati. In questi casi il credo ideologico distintivo non è detto che venga assorbito o condiviso, forse neanche capito, ma ciò che a questi ragazzi interessa è il raggiungimento dei benefici che il loro status di affiliati comporta[66].

Tuttavia il disagio forte alberga anche negli adolescenti che scelgono –scelta?- questa vita, e forse anzi sicuramente è ancora più forte di quello che porta alla via del terrorismo. Ed è più forte in questi ultimi anni ove l’affiliazione alla malavita non ha più regole, seppure discutibili, ma è in balia del nichilismo fine a sé, ed i giovani non si limitano allo spaccio, ma compiono azioni alla stregua del Branco, rendendo, a Nostro avviso, difficile che in un futuro i due fenomeni possano essere distinti e che si cada in tale clima di totale anarchia apropositiva. Esemplare la canzone Revolver[67] in cui la darklady affiliata alla malavita su una base musicale quasi mistica ci mostra di come faccia “sesso col revolver” e di quanto il contesto malavitoso in cui si trova poco o nulla ha a che fare col semplice spaccio. Ed è un flusso in cui ci mostra le sue non emozioni, la sua violenza che non è mossa neanche più da rabbia ma da annullamento emotivo, da quello che noi definiamo Stoicismo B in Alternatio, il cuore l’ha lasciato “Morto/ marcio/violentanto”, non sente che freddo non vive che disincanto, persino la scelta della droga “coca/ero/fa lo stesso” non è una via di fuga dalla realtà ma un’accettazione tacita della realtà stessa vacua, e dove solo in lontananza si sente la presenza di un amore, come una eco, musicale su canto apatico e straziante, un amore finito, la perdita del senso stesso dell’amore, l’indifferenza con cui uccide senza provare pentimento né senso di colpa, e la sua vendetta è persino dedicata a quell’amore finito, quell’amore che non tornerà, quell’amore che nemmeno la società, la comunità o la malavita stessa potrà dargli, non più, o forse mai. A quel sogno d’amore è dedicata la sua vendetta.

Sotto il vessillo di tale disagio ed a sommatoria di esso, come se fosse una terribile sintesi, si colloca il fenomeno del Bullismo e quello del Cyberbullismo, cui occorre soffermarsi un attimo per tracciare qualche riflessione.

In prima istanza i bulli ed i cyberbulli non hanno codici, né di condotta né d’onore, sono condotte reiterate nel tempo e contro una sola determinata persona. Altra caratteristica è l’asimmetria del rapporto, vale a dire che tra bullo e vittima non c’è un rapporto paritario ma il bullo si trova in una situazione di superiorità rispetto alla vittima[68]. Egli agisce da solo, con pochi gregari e avvalendosi della collaborazione degli spettatori, che sono terzi estranei al rapporto violento ma che tacciono, assistono e persino si divertono degli atti vessatori. Ove il fenomeno coinvolga più gregari, non è a Nostro avviso bullismo ma fenomeno detto del “Branco”, di cui abbiamo posto in essere qualche cenno supra. Ciò mostra come la categoria bullismo sia in realtà una zona franca, ed al di là di tutto, forse, l’unico elemento che lo distingue dalle altre forme di violenza adolescenziale verso gli altri-persone o beni- è la reiterazione nel tempo, anche ciò con debite distinzioni perché anche fenomeni di gangismo politico o religioso possono essere reiterati nel tempo. L’aspetto però centrale del bullismo, come del cyberbullismo, è che la vittima non è scelta a caso, e nemmeno è caratterizzata, come per il gangismo colorato, da una diversità di vedute socio/politico/religiose, né è una istituzione, ma all’apparenza una persona normale, che però viene ad essere, a Nostro avviso, del tutto simile al bullo, quanto a personalità. Il bullo mai sceglie a caso scegliendo casualmente. Nel bullismo, come mai in altre forme di violenza, il rapporto d’amore nei confronti della vittima è quanto mai marcato.

Gli spettatori degli atti di bullismo o sono ignavi per paura, ed in tal caso assistono anche divertendosi, a Nostro avviso proprio per mostrare il loro senso di estraneità alla vittima, il dire “meno male che non sono come lei”, un po’ come il fariseo ed il pubblicano (Luca 18/ 9-14), e quindi allo stesso tempo per celare ciò  che della vittima alberga nel loro essere; oppure tacciono e si divertono per paura, ed in tal caso parliamo di paura manifesta, sono consci di poter divenire a loro volta vittime e quindi di essere come la vittima. A queste due categorie se ne può aggiungere una terza, gli indifferenti, estranei alla vicenda, si tratta di una figura rara tra gli spettatori, caratterizzata da basso Q intellettivo ed emozionale, potenziali sociopatici o psicopatici[69]. Costoro, infatti, li ritroviamo più spesso dalla parte del bullo o dalla parte della vittima.

Sorge all’uopo necessaria, quindi, una descrizione del bullo, ovverosia delle sue caratteristiche comportamentali, sociali e psicologiche. Il Meluzzi[70], a cui ci rifacciamo nel trattare la tematica, ben analizza la figura del bullo e quella della vittima. Rifacendosi a Besang individua tre tipi di bullo: il “bullo vittima”, che in passato ha egli stesso assunto il ruolo di vittima, spesso in età preadolescenziale, e per questo spesso alterna anche i ruoli, talora è vittima e talora è bullo. Comportamento tipico, questo, di chi vuole salire nella scala, dell’arrivismo, e notiamo quanta affinità ci sia, a Nostro avviso, con la società contemporanea ed i valori che essa propina. C’è poi il bullo provocatore, che ha problemi nel gestire la propria emotività e l’unico modo con cui riesce ad interagire è mostrando la propria aggressività. Ci ricorda questo profilo quello delineato dal Galimberti nel descrivere le generazioni dal basso Q intellettivo ed emotivo[71]. Ovviamente analisi, questa del Galimberti, che poco ci dice sulla fonte del disagio, disagio che anche in questo caso viene a caratterizzarsi come una forma d’amore non verso un soggetto specifico ma verso l’umanità tutta, un po’ come l’assassino di Sgalambro[72] ed un po’ anche come ci ricorda il ritornello della canzone baustelliana “Un romantico a Milano”[73] in cui si canta “Io vi amo/ via amo ma vi odio però/ vi amo tutti/ è bello o brutto io non lo so” verso in cui, a Nostro avviso, si coglie in toto il disagio dovuto alla mancata identificazione del bene e del male, al rapporto contrastante tra vittima e carnefice. Figura analoga per certi versi è quella del “bullo ansioso”, che non riesce a raggiungere lo status dei pari, e prova una invidia verso gli stessi, invidia che lo porta ad estrinsecare verso gli altri la rabbia. Tali categorie di bulli, hanno una potenziale pericolosità, in età adulta o anche nella età stessa in cui agiscono, di affiliarsi ad estremismi terroristici o alla malavita. Sono purtroppo vittime della società che propina modelli, li censura e poi li punisce. E qui sbaglia il Meluzzi[74] quando ritiene che il bullismo si basa su una concezione asimmetrica ove vige la legge del più forte a differenza della società in cui viviamo. La società in cui viviamo è basata sulle mercantilistiche leggi del più forte ed il diritto sempre più sottomesso all’economia, ed il successo alla ricchezza, al sesso ed al potere, ed il merito figlio dell’arrivismo e del rampantismo.  La via di fuga non artistica, in tale quadro, è la delinquenza.

Per quanto concerne le vittime sempre il Meluzzi, accanto ai profili dei bulli, le divide in “vittime passive”, che semplicemente non reagiscono. Capiamo bene il peso che tale tipologia si porta dentro e che può compromettere l’intera sua esistenza, portandosi dentro quel clima di terrore che riverbera poi su quello che Noi definiamo “il mondo ostile ad essere conquistato”. In tal caso c’è anche il rischio di sviluppare psicosi, quali schizofrenia e paranoia, o di converso psicopatie. Abbiamo poi le “vittime collusive” che accettano la loro condizione per non uscire dal gruppo dei pari. A Nostro avviso la vittima collusiva adolescente è metafora pregnante dei componenti adulti o giovani adulti di tale epoca e di questa società, coloro che scendono a compromessi ed accettano tacitamente ma non stoicamente, accettano di collocarsi tra l’hobbesiano “homo homini lupus” e spesso la loro non è rassegnazione ma addirittura “piacere del compromesso”. Pensare al proprio orticello, qualunquisticamente, tanto poi, lampedusianamente “tutto cambierà affinché tutto resti com’era”. Manca l’alternatio, manca la ribellione, è una triste zona silenziosa ed apatica in cui la felicità per la propria apatia la occulta. Sono coloro che assumeranno la coscienza del compromesso, gli stazionari, coloro che si bloccano e bloccano l’evoluzione umana. Ci sono, ancora le “vittime provocatrici”, anch’esse potenziali bulli o addirittura, più spesso, isterici, aggressivi ed ansiosi che provocano gli altri solo per ingenerare tensioni. Ed analogamente i “falsi bulli”, bisognevoli di attenzione e che inventano di sana pianta il fenomeno. Tale categoria rientrerebbe meglio nella categorizzazione delle tipologie di bullo. Ma ricordiamo, tra l’altro, che il limite tra bullo e vittima è in ogni caso una linea bianca, ingenerata dal disagio.

Il bullismo può essere psicologico, verbale o fisico[75]. Il bullismo psicologico porta all’esclusione dell’altro dal gruppo senza esercitare alcuna violenza fisica. Esso era tipico del bullismo al femminile, ma con la parificazione dei generi si è diffuso anche tra i maschi come quello fisico è sempre più diffuso tra le ragazze. Bullismo psicologico e stalking hanno diversi punti di contatto. Il bullismo verbale non si limita ad ingiurie, oltraggi contro la vittima ma soprattutto all’inciucio inautentico heideggeriano, al chiacchiericcio da comare, alla calunnia ed alla diffamazione, infamia talora forse peggiore della fisica. La violenza fisica, invece, è caratterizzata da lesioni, danneggiamenti a beni della vittima, percosse, sino alla violenza carnale ed all’omicidio.

Con riferimento al rapporto tra attaccamento e percezione dell’Io e più nello specifico connessione con disagio e dunque devianza/criminalità, rimandiamo alle riflessioni su Bowlby fatte supra ad inizio del primo paragrafo di questo capitolo. Interessante, risulta invece, analizzare due canzoni baustelliane, esemplificative dell’esperienza del bullo, ma più in generale del deviante adolescente, di fronte alla violenza carnale da egli perpetrata nell’un caso, nell’altro del bullo/deviante/cresciuto[76]. La prima è “La Canzone del Riformatorio”, narra in maniera limpida e perfetta il flusso coscienziale di un giovanissimo, probabilmente della prima adolescenza, ad un anno dalla “reclusione” in un riformatorio a seguito della violenza posta in essere nei confronti di una compagna di scuola, tale Virginia. Una vera e propria dedica” Questa è per quando/ti ho fatto male” lui sotto effetto di alcolici andati a male e di benzedrina” , sconvolto dall’”umidità” puberale ed incapace di relazionarsi, violenta la compagna di scuola. È esemplificativo come vi sia un annullamento emotivo “sono quello che non ride mai/nella tua scuola”, come ci sia la necessità di prendere ciò che la società gli propina come giusto, buono, necessario, il sesso, il potere, “e dolcemente/ ti ho regalato/la mia violenza/il mio attimo di gloria”. Ma l’spetto più interessante è che, ad un anno dai fatti, chiuso in un istituto, comprende che quello che provava era amore, puro amore, nulla a che vedere col sesso mercificato, e lui per mostrarlo si era adeguato a ciò che la società gli propinava, “mi perdonerai Virginia/ e adesso mi manchi te lo giuro/le sogno la notte le tue grida” e soprattutto, amore vs ideali che ci propina la società “le tue cosce bianche stonano/sopra le donnine pornografiche/appese dagli altri custoditi qui/con me”. E la canzone termina con una laconica e consapevole critica l tempo ed alla società “amore tra cinque anni dove andrò/e tu chi sarai e chi saremo noi/ fuori dal riformatorio/le vite perdute come gioia/passata per sempre come moda” e soprattutto” cos’è che ci rende prigionieri?”. Da ciò ci colleghiamo alla “Canzone di Alain Delon”, bullo o deviato adolescente oramai giovane adulto  in cui il filtro della memoria lo riporta ad un amore originario ed adolescenziale, al suo modo di porsi nei confronti dello stesso e del mondo, con violenza ma allo stesso tempo con la dolcezza-già allora-nostalgica della alternatività, dell’altissimo senso estetico “io già nel ’96/ avevo fame di storie” ed ancora “L’unica cosa che ho è la bellezza del mondo/la sola cosa che so è che vorrei conservarla/per me”, seguito più in là da un “L’unica cosa che ho/è lo squallore del mondo/la sola cosa che so è che vorrei conservarlo” lui che imitava il celebre attore francese, spietato amante e spietato contro il mondo, ma con una nostalgica alternatio, con uno stile décadent unico, con una dolcezza d’infinito. Eccolo con i suoi sogni in frantumi, nella nuovissima società, ecco che i sogni di adolescenti svaniscono con l’avanzare della società che corrompe e punisce, ma soprattutto fa il lavaggio del cervello per uniformare tutti alle sue logiche “ma sono diverso/sono sporco/avevo torto marcio/tu piangevi”.

In una società cibernetica non poteva certo mancare il bullismo telematico, caratterizzato da violenza psicologica e da vessazioni continue quali il Flaming (diffusone di messaggi provocatori in blog, tag, social) il Fake, ovverosia il creare falsi profili, che può sfociare in furto d’identità, l’Outing (ovverosia la diffusione di immagini private, anche pornografiche, confidenze, video della vittima), tutte condotte che configurano il fenomeno del cyberstalking, allo scopo di infamare la vittima o provocarla.

Il fenomeno del cyberbullismo  può avere effetti ancora più devastanti del bullismo sic et simplicer, dato che gli effetti sono amplificati dal mezzo di comunicazione di massa, ed il web consente al bullo telematico di avere un pubblico di spettatori amplissimo, cosa che amplifica a dismisura il suo ego ed il suo narcisismo, spesso patologico. A ciò si aggiunga che il processo di colpevolizzazione nel bullo è ridotto quasi a zero e la sua forza potenziata dal coprirsi dietro uno schermo[77] Esistono diverse tipologie di cyberbulli[78]. La prima è quella dell’”angelo vendicatore”, che è colui che, sentendo-a torto o a ragione- di aver subito un torto nella vita reale si vendica, attraverso le condotte sopra riportate, nello spazio telematico, spesso rimanendo anonimo. Ciò demarca una disagio forte del soggetto, che spesso è vittima del bullismo tradizionale, sentendosi indifeso e non protetto dalla società, dalle istituzioni, dagli educatori, dai familiari, o vergognandosi pensando di essere debole riceve la propria dose di forza, la sua piccola porzione di vendetta- in una società che esalta il ricorso alla vendetta- nel web. C’è poi “l’avido di potere”, un cyberbullo che, a differenza degli altri, non sceglie l’anonimato, ma si vanta e vuole farsi vedere, si vanta del suo potere, crea ad esempio gruppi su facebook che minano la dignità altrui facendosi amministratore, cera consensi. In età adulta, a Nostro a vita, e rebus sic stantibus-se non addirittura peggiora- la società questo tipo di bullo diverrà il classico uomo d’affari o il classico truffatore o politico, difficilmente invece, riteniamo, finirà nelle maglie della malavita da protagonista, se mai dovrebbe finirci svolgerebbe funzioni infime o gregarie, in quanto la sua ricerca di consenso ha necessario bisogno di appoggio e protezione da parte di forze maggiori ed esterne. Il cyberbullo “per noia” è il classico esempio di adolescente nichilista in senso negativo, quello che Galimberti tratteggia facendone un leitmotiv nella sua opera[79] facendolo assurgere ad emblema- a torto a nostro avviso- di tutta la generazione attale. Si annoia e come i ragazzi del cavalcavia che lanciano sassi sulle autovetture provocando incidenti, allo stesso modo mina e distrugge la dignità della vittima. Abbiamo infine il cyberbullo “involontario” che non si rende conto della gravità delle azioni da lui compiute e, quando ne capisce la reale portata, si pente di ciò che ha fatto. Sia chiaro che in questa classificazione il Meluzzi parla dell’involontario reattivo, che è un po’ come chi aggredisce d’impeto, e quindi si pente non solo più facilmente ma addirittura egli stesso può rendersi conto, col senno di poi, della dannosità dell’atto compiuto. Potenzialmente, infatti, tutti gli altri bulli, telematici e non, potenzialmente si possono pentire se si riesce a fargli capire il danno compiuto, ma in tali territori è comunque meglio cercare di agire sul piano preventivo, in una società malata, contraddittoria, ambivalente, che istiga alla vendetta ed invita al successo non sempre è facile riuscire a far comprendere la portata della sua azione, se non con una rivoluzione radicale del sistema educativo e delle istituzioni.

  1. Disagio adolescenziale e violenza contro sé stessi

Il disagio adolescenziale non si tramuta per forza di cose solo in criminalità ma anche in altra forma di devianza, ben più triste e ben più allarmante, vale a dire la violenza contro sé stessi, dagli atti autolesionisti, al suicidio, al consumo della droga. Merita attenzione qualche parola su questo fenomeno, consci che il disagio ha comunque radice comune nella durkheimiana anomia[80] , che è definibile come l’assenza di scopi sociali e dunque di funzioni e ruoli all’interno del tessuto sociale stesso che portino alla realizzazione i consociati, tale assenza genera meccanismi di tensioni e frustrazioni che portano alla violenza contro gli altri o contro sé stessi.

Tale anomia è ancora più intensa nella nostra epoca cibernetica, e ben è avvertibile in alcuni testi baustelliani, a cominciare da “La vita va”[81], ove si percepisce l’estraneità dell’adolescente nei confronti della società, del “mondo ostile ad essere conquistato”, la vita fugge, come il foscoliano “tempo reo con cui vanno le torme delle cure”, come il petrarchesco “fugge et non s’arresta un’hora”, o il baustelliano “fugge ma lascia il suo segno”. Questa vita fugge, positivisticamente solo “lo scienziato sa/come prenderla”, la felicità è estranea, è nel piacere annullante ed anestetico “ci si spoglia sì/leva l’ancora”, nella speranza che tale piacere faccia salpare verso lidi migliori, le selendichteriane “rive/ calde del nostro mondo” e si vive così, di illusoria apparenza, di sorrisi finti “vivo così/tra il sociale e il vuoto”, ove l’amore di un istante assurge ad assoluta ultima speranza di felicità, rintracciabile solo nei sogni “ho fatto un sogno/tu c’eri”, un sogno dove l’amore non sia più ”freddo”. Una vacuità quella dei nostri giorni che segna “una sconfitta storica” da parte di educatori, genitori ed istituzioni, come nel dialogo tra il professore e l’adolescente Monica in “A vita bassa”[82], ispirata ad un articolo di giornale ove  si parlava della moda dei pantaloni a vita bassa nella metà della prima decade di questo secolo. La crisi d’identità si percepisce forte, e la società non offre modelli se non quelli di “modelle che sfilano/ centravanti che contano/ famosi che ridono” ed in questo “errore cosmico” l’universo non può che essere inutile. L’identità è in balia del mercato essendo merce[83], e, tristemente  “l’antidoto al futuro anonimo/è la scritta Calvin Klein/è la scritta D&G”.  Persino la cura psicologica è spettacolarizzata, preda di trasmissioni televisive e di interessamenti da un’ora o poco meno, che certo non danno soluzioni ma alimentano la confusione ed il disagio, come in “La moda del lento”[84] in cui si nota quanto “essere depressi oggi/provoca troppi dibattiti/ essere perduti oggi/ dura solo pochi attimi”, e l’unica via di fuga viene ad essere l’arte, quello che noi definiamo lo Stoicismo B in Alternatio, “sono lo scrittore in mare/ lasciami affogare/lasciami/una bibita al terrore/il poeta affonda e non si ferma mai”.

Il primo dei fenomeni che analizzeremo sommariamente è quello del suicidio adolescenziale, che ben si colloca in questa anomia della società cibernetica. Partiamo dal fenomeno Isis, già tratteggiato nel precedente paragrafo, e fenomeno reale e potenzialmente pericoloso, come detto, perché rischia di sedurre non solo i giovani adulti ma persino gli adolescenti figli del disagio. Non si tratta di quello che Durkheim definisce “suicidio altruistico”, tipico delle società primitive e delle gerarchie militari-che come ben nota il sociologo statunitense sono quelle che più si avvicinano, come struttura e codici di condotta a quelle primitive-[85]. Tale suicidio, a differenza dell’egoistico pure tratteggiato dal pensatore[86], si basa sul sacrificio per la comunità e non motu proprio per un personale disagio dell’Io. Giusto un inciso, una sintesi chiarificatrice che ci sarà utile anche in seguito e che Noi sposiamo, dei diversi tipi di suicidio durkheimiani, citando le sue stesse parole “ il suicidio egoistico viene dal fatto che gli uomini non scorgono più una ragione di essere in vita, il suicidio altruistico dal fatto che questa ragione appare fuori dalla vita medesima, l’anomico dal fatto che l’attività degli uomini è sregolata ed essi ne soffrono”[87]. Tale precisazione è d’obbligo perché Noi riteniamo che il suicidio frutto del disagio, in età adolescenziale, sia sempre e comunque anomico, anche nei casi depressivi o negli stati di alterata monomania o psicosi, ed a maggior ragione anomico è a Nostro avviso il suicidio dei fautori dello Stato Islamico. Il loro è un martirio frutto di una interpretatio, non può ritenersi altruistico perché la comunità di provenienza, quella islamica, non lo richiede. Come già intuiva Rosantonietta Sramaglia nella sua introduzione all’opera del sociologo[88] parlando degli attacchi dell’11 settembre e degli attentati alla metro di Madrid, nel Corano non si inneggia mai al suicidio, né è possibile ritenere tale suicidio martirio, in quanto, nella nostra società globalizzata, in prima istanza il terrorismo islamico è internazionale, in secondo luogo gli “uomini bomba” agiscono più per risentimento nei confronti della comunità, occidentale, in cui vivono che per sacrificio religioso. La loro viene ad essere una mera rabbia, alimentata, come Noi abbiamo sottolineato nel precedente paragrafo, dalla pretesa integralista più che pluralista e, di più, ci piace accostare i terroristi dell’Isis, lo ripetiamo, agli adolescenti che sparano nei college occidentali. Si muovono per disagio, non per spirito religioso, il loro nichilismo li spinge a compiere tali atti sotto il vessillo di una ideologia cui si ancorano in virtù della vacuità e della virtualità della ideologia occidentale, mercantilista e filo-protestante. La loro è una ricerca di senso che non riescono più a trovare in questa società secolarizzata, laica e figlia del consumo e della produzione. Gli adolescenti hanno sete di valori autentici, e questo deve essere il compito delle istituzioni, degli educatori e della famiglia. Ritornare ai valori cattolici, spingerli alla via dell’arte, maieuticamente. I ragazzi hanno sete di una nova alternatio.

Della stessa guisa il suicidio adolescenziale classico, quello ancora più inspiegabile per le famiglie. In tal caso o che si tratti di suicidio di una vittima di bullismo o che si tratti di un suicidio per ragioni all’apparenza futili, quali la fine di una storiella d’amore, un brutto voto a scuola, e via discorrendo, la ratio è la medesima. Come gli psicoanalisti sanno il suicidio è l’altra medaglia dell’omicidio, ed in tal caso i giovani si uccidono perché uccidono il mondo che li circonda, quel mondo che noi diciamo “ostile ad essere conquistato”. Tale gesto estremo compiuto dall’adolescente è quello che noi definiamo Stoicismo A in alternatio. I ragazzi muoiono perché consci di vivere in una società che non sanno e non sentono di poter più cambiare, quella società che non dà loro più i valori, le speranze, la gioia, la spensieratezza, la serenità, e non potendo cambiare le cose così come sono scelgono l’annullamento, scelgono di spegnere l’interruttore, ma la loro non è una resa, né tantomeno una fuga ma quella che Jachia e Pilla[89] ritengono, a ragione, una forma estrema di ribellione, l’unica possibile. Ciò ci induce a riflettere sui danni che la nostra e la precedente generazione hanno compiuto, sui danni che l’attuale élite ha fatto e continua a fare se non muta direzione. Un adolescente, un ragazzo o una ragazza che è e deve essere padrone del proprio futuro, il prossimo custode di questo pianetino su cui viviamo, non vede tale futuro, né prospettiva, e non perché non vuole avere speranza o perché sceglie la via più facile, la responsabilità non è sua, egli è anzi lungimirante, consapevole, ciò che pensa è la cruda realtà, il baustelliano “spogliato e crudo nulla”.

Ed in merito al suicidio non possiamo non citare, quindi, tre testi della band di Montepulciano, “Perché una Ragazza di Oggi può Uccidersi”, “Martina” e “La Guerra è Finita”[90]. Nella prima, che si rifà ad un noto film di Antonio Pietrangeli “Io la Conoscevo Bene”, si parla di una ragazza delusa dal tradimento amoroso, ma la cui delusione va al di là e coinvolge tutta la società ed i modelli che essa propina. Lo stoicismo inizia la serie di interrogativi “forse perché/non le piace la gente/o quella festa che ha/dentro di sé/quando vorrebbe/la tranquillità/il niente”, ciò mostra sapientemente quanto un adolescente che compie il gesto estremo è consapevole, Stoico A in alternatio, come diciamo Noi. E poi “quello che lei voleva/era una vita da star/Milano stile/ come credete/che si sentirà/adesso”, e qui vengono elencati i miti di successo, come nella citata A Vita Bassa, gli unici miti che la società ci propina, ed infine il tradimento, amoroso, che in realtà cela, a Nostro avviso, un più profondo senso di tradimento, quello sociale, ove viene incoraggiato il tradimento, il sesso mercificato, la sete e la bramosia di possedere- e cosa si possiede se non cose morte- “ma la causa scatenante/il motivo vero/siamo io e te/io che l’ho tradita/tu che le sei stata amica”. In Martina invece viene tratteggiata una ragazza, adolescente, vista dagli occhi di un coetaneo, che, come tipico in quella età, la “provenzal adolescenza”, la tratta come ragazza angelicata, “miele infinito per anima”, ma angelicata e maledetta, angelicata e così carnale nelle sue debolezze e vizi “ piccola speranza di/non deludere mai più/per morire un attimo/per calvario un angelo” e profondamente sapiente nella sua adolescenza, della vacuità esistenziale, del nulla, e smaniosa di trovare soluzioni “piccole catastrofi/per minuti inutili/tutto ciò significa/scavare in profondità”. Il ragazzo adolescente conosce Martina, ed empaticamente condivide con lei le stesse preoccupazioni e turbamenti, non proiettandoli ma proprio perché sono gli stessi. Tuttavia la nostra società non concede di superarli assieme, le cose cambieranno, e la prospettiva del suicidio del ragazzo è inevitabile, muore della risata superficialetta di una ragazza non affatto superficiale, ma che è costretta a divenirlo per integrarsi nel gruppo dei pari, per essere qualcuno nella consumistica società dei vincenti “tutto ciò significa/anche tu mi ucciderai/un rasoio inciderà/le mie vene/ora ridi/dietro lenti scura riderai”, poeticamente sono contrapposte due risa, quella di scherno iniziale, e quella di comprensione, condivisione, lei assumerà coscienza al funerale che il ragazzo si figura. Infine l’apoteosi in “La Guerra è Finita”, ove una ragazza, bollata dalla società, dai medici e dagli educatori che non comprendono la sua profondità “emotivamente instabile/viziata ed insensibile/il professore la bollò”, né tantomeno la comprendono i suoi genitori, sull’orlo della disperazione, “e nonostante sua madre impazzita/e suo padre” né il mondo che la circonda, preoccupato a fare guerre ed arricchirsi, l’élite politica-loro sì veri falliti, distruggitori, folli, incoscienti, malvagi, egoisti, a cui andrebbero affibbiate le parole con cui il docente bolla la sedicenne- “nonostante le bombe alla televisione/malgrado Belgrado/America e Bush”. Loro sono così presi da non capirla né da comprenderne il talento, e la profondità con la quale capisce, comprende, sa che è la società ad essere malata e non lei deviata “con una bic profumata/da attrice bruciata/la guerra è finita/scrisse così”, l’ultimo messaggio prima di uccidersi, la guerra è finita. Un adolescente che dice la guerra è finita, che depone le armi perché gli adulti gli hanno distrutto il futuro, è la cosa più triste che possa accadere alla società, ed è il sintomo di quanto la nostra società sia malata, anzi morente. A Nostro avviso mai come in questi anni dell’era cibernetica l’umanità è scesa così in basso, tanto in basso da pensare al profitto e non agli adolescenti, ai loro stessi figli, al futuro di questo mondo. L’élite più egoista della storia mangia a sbafo sui cadaveri dei suoi stessi figli.

Un ultimo e brevissimo inciso sul fenomeno della droga tra gli adolescenti. Fenomeno assimilabile, a nostro avviso, all’annullamento emotivo, e quindi allo Stoicismo B in alternatio. A ragione Galimberti riprende le teorie platoniche ed aristoteliche[91] nell’affermare che la tossicomania è di fatto quella che Platone nel Gorgia definisce Teoria del desiderio, ovvero il desiderio come mancanza e non si ricerca la felicità ma la si trova inabissandosi in questa mancanza, nella dipendenza, nella lacaniana manque, la droga come freudiana Sorgerecht “doppiamente affascinante perché doppiamente negativa: fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere di cui non si prende più cura” (Freud; Il disagio della civiltà)[92] quindi da sempre per Freud rimedio contro il disagio sociale. E sempre seguendo il neurologo austriaco ed allo stesso tempo Aristotele (Etica Nicomechea) bene distingue il piacere immediato da quello mediato, l’uno balia della concupiscenza l’altro della mediazione razionale, o psicanaliticamente uno tipico dell’infanzia l’altro dell’età adulta[93]. Ed altresì condivisibile è il terreno su cui ed attraverso il quale risolvere il problema secondo Galimberti, ovvero muovendosi dal terreno meccanicistico-organicistico-scientifico a quello mitico-religioso nella educazione alla droga ed alla dipendenza[94], eliminando il cosiddetto “fascino iniziatico”[95]. Tuttavia riteniamo che ciò non sia sufficiente, gli adolescenti necessitano sempre di una alternatio, e l’attività dell’educatore deve affiancare a tale modello conoscitivo mitico/religioso un altrettanto valido bagaglio di valori che consentano al ragazzo o alla ragazza di porsi in alternativa ad essi ma rientrando in essi. Perché l’alternatività è, a Nostro avviso, sempre contenuta nell’ideologia, o quantomeno nella classe di valori, quindi eliminare l’insegnamento nichilista/esistenzialista e laico/filo-protestante a favore di uno cattolico, di modo che l’alternatio sia in esso contenuta. L’adolescente, infatti, sceglie sempre di essere alternativo imitando i miti propinati dalla società.  D’altronde, come la baustelliana Betty, del loro ultimo album dal titolo proprio “L’Amore e La Violenza” ci ricorda “che cos’è la vita senza/un dose di qualcosa/una dipendenza”, in un mondo cibernetico e tardo-esistenzialista su cui tristemente cade una pioggia tra il sartriano ed il dannunziano “piove/su immondizia e tamerici/sui sue cinquemila amici/sui palazzi è la città” e d’altronde il “sole ritorna”, perché “non esiste differenza/tra la morte di una rosa/e l’adolescenza”, e la consoliana Guarda l’Alba conclude con una verità profonda” nel chiudersi un fiore al tramonto si rigenera” perché “L’ora più buia è sempre quella che precede il sorgere del sole” (Coelho; L’Alchimista).

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO III

 

KATARSI

 

 

  1. Disagio adolescenziale e Katarsi, la “Nova Alternatio” tra arte e cattolicesimo

 

Prima di entrare nel vivo di questo che è paragrafo unico e conclusivo del presente lavoro e che cercherà di dare delle risposte, proporre soluzioni, o perlomeno vie che a Nostro avviso possono rompere questo anomico disagio adolescenziale, riteniamo utile spendere due parole sulla punibilità dei minori.

Il nostro ordinamento prevede per i minori una giustizia penale differente già dal regio decreto 1404 del 1934, proprio a tutela di quelle che all’epoce-e fino a qualche anno fa- venivano definite “fasce deboli”. Si pongono problemi e diversità di trattamento proprio in virtù della imputabilità, ex art. 85, 2° comma c.p. “è imputabile chi al momento del fatto aveva la capacità di intendere e di volere”, e con i minori il discorso è peculiare. Se l’art 97 c.p. prevede che non è imputabile chi, nel momento in cui abbia commesso il fatto non aveva compiuto l’età di quattordici anni, e l’art. 98 c.p. prevede, salvo vizio di mente o sordomutismo, una presunzione di imputabilità per chi ha compiuto il diciottesimo anno di età, nella fascia tra i quattordici ed i diciotto anni la imputabilità o meno resta subordinata all’accertamento caso per caso della capacità di intendere e di volere del minore. Sia ben chiaro, tuttavia, che l’infra quattordicenne ritenuto sempre non imputabile dal citato art. 97 c.p., non resta impunito né sguarnita la società di tutela, prevedendo per il minore degli anni quattordici che commette delitto una valutazione della “pericolosità sociale”, e lo stesso può essere sottoposto, in caso di accertamento positivo, a misure di sicurezza che vanno dalla libertà vigilata all’ex riformatorio giudiziario, ora sostituito dalla permanenza in comunità di recupero.

Ai minorenni si applicano quattro tipi di misure cautelari, a seconda della gravità. Le prescrizioni, inerenti ad attività di studio, di lavoro od educative cui devono sottostare su ordine del giudice. La permanenza in casa, sotto la vigilanza dei genitori o dei tutori, con eventuali permessi di allontanarsi per ragioni di studio o lavoro. Il collocamento in comunità, con prescrizioni di recupero educative o di lavoro, infine la custodia cautelare nel carcere minorile, per tutti i reati per i quali la legge prevede una pena non inferiore agli anni nove ed, in ogni caso, nei casi di delitto di violenza carnale o ove mai lo richiedessero peculiari esigenze cautelari.

Ciò detto riprendiamo il discorso interrotto nel primo paragrafo del secondo capitolo circa il rapporto società cibernetica-imputabilità, proseguendo poi nel cercare una possibile “terza via” che prevenga la devianza agendo sul disagio. Nel far ciò riprenderemo lo studio di antropologia giuridica fatta dal Romano[96]. L’autore, partendo dalla concezione nichilistica di Nietzsche, così come analizzata da Irti (Nichilismo e metodo giuridico)[97], espone la tesi secondo cui, non esistendo fenomeni morali ma solo interpretazioni morali di tali fenomeni, l’interpretazione ha una origine extra-morale figlia della spiegazione scientifica dell’uomo, della società e del diritto. E dunque prende tre modelli che assurgono a spiegazione scientifica dell’uomo[98] la neurobiologia di Changeux, l’intelligenza artificiale di Minsky e la teoria generale dei sistemi di Luhmann. Nella prospettiva delle neuroscienze[99] le ricerche sulla coscienza dell’individuo descrivono elementi caratteristici di una coscienza nucleare, vale a dire che il fenomeno vita/organizzazione sociale non è tipico degli esseri umani ma accomuna tutti gli esseri viventi.  C’è poi una coscienza estesa tipica solo degli umani. Quivi l’Io neurobiologico si identificherebbe con la coscienza dell’uomo, che si configura come capacità di svolgere complesse operazioni nella memoria sinaptica, e limitandosi, in tal guisa, Noi riteniamo, a spiegazione scientifica della morale. E se vale l’imperativo “tu sei le tue sinapsi”[100] vale anche il principio di non imputabilità, non dipendendo i fatti dalla propria libertà, dal libero arbitrio, e quindi essendo estranei alla responsabilità, vengono ad essere mero accidente, e dunque scientificamente spiegabile ed, infine, non imputabile.

Ancor di più col parallelo di Minsky tra neurobiologia ed intelligenza artificiale, ove le sinapsi sono circuiti e tutto ciò che avviene basato su un insieme di leggi fisse e deterministiche ed una serie, come dicevamo, di accidenti. Un cibernetico ritorno alla frenologia, alla antropologia criminale lombrosiana. E venendo a Luhmann lo stesso colloca tutto ciò in un costruttivismo operativo, ovverosia sistemi operativamente chiusi come conseguenza della epistemologia biologica e della neurofisiologia[101]. Nel costruttivismo operativo il parlante è un mero sistema cognitivo, di un kantiano meccanicismo(Metafisica dei costumi)[102], l’anima ed il pensiero mera fluorescenza[103]. Notiamo come l’epistemologia sottesa a tale società non contenga più una etica ma una pluralità di etiche, morali e deontologie, problema superato dai filosofi analisti con la metaetica, ma riteniamo che la stessa metaetica sia superata, data l’impossibilità di ricercare fondamenti etici. Per questi motivi concordiamo[104] con la prospettiva neotomista della essenzialità di una etica normativa che già conosce fondamenti, che sono opinioni consolidate, gli endoxa tommasiani. Il pluralismo etico richiede per la convivenza una morale generale che controlli la pratica, separando il giusto oggettivo dal buono/bene soggettivo, ma il giusto non è per nulla-e qui v’è l’errore relativista- oggettivo ma legato ad un concetto di bene, nel caso di specie identificabile con la libertà. La giustizia, seguendo questa linea, si baserebbe sulle preferenze personali. Per questo riteniamo ancora attuale il diritto naturale di provenienza stoica e soprattutto cattolica, nella misura in cui cerca vincoli oggettivi altri dal mero piacere. L’insegnamento di Jacques Maritain è in tal guisa rivoluzionario ed attualissimo, soprattutto in merito all’umanesimo integrato, che pone al centro le persone (umanesimo) ma è corretto dalla trascendenza di Dio contro i totalitarismi che pongono al centro l’individuo[105]. E se Maritain parla di totalitarismi della sua epoca, comunisti e fascisti, tale umanesimo integrato è attualizzabile nei totalitarismi laici/filo-protestanti ed estremistico/islamici che caratterizzano la nostra era cibernetica. Jacques Maritain, insomma, coglie a pieno i concetti espressi nella nostra Carta Costituzionale agli artt. 2 e 3, l’uguaglianza formale che si aggiunge alla sostanziale rendendo l’uomo da individuo ( in balia dell’egoismo e quindi degli estremismi e delle leggi del mercato) a persona, ovvero essere comunitario e nella comunità inserito e, in quanto la comunità trascende il concetto stesso di società, l’uomo, nell’incontro col divino e nella percezione del sé divino, della sua essenza di immago christi, riacquista l’identità e la dignità perduta dalla mercificazione e reificazione subita. Riprendendo le parole di Josef  Piper[106] “il tomismo unisce la capacità di cogliere i valori trascendenti ed i principi metafisici della realtà nella consapevolezza del limite di ogni conoscenza umana, superando tentazioni storicistiche o relativistiche, hegeliane o marxiane o positiviste  che pretendono di possedere la chiave di lettura dell’Assoluto” la concezione tomista, invece, mette l’uomo nella condizione di ricercatore e di artista, di homo capex, che codifica il linguaggio divino, e che essendo uomo artistico riacquista ciò che la nostra società gli nega, la speranza per il futuro, l’essere pronto all’imprevedibile. Situato al centro del mondo è sempre pronto all’imprevedibile ed, artista innanzi alle cose esistenti, ne coglie l’interiore sconfinatezza, una risposta alla inesauribile immensità del mondo. Questa è l’ideologia essenziale, questa la linea a Nostro avviso che debbono seguire educatori, famigliari ed istituzione. E condivisibile è ciò che sostiene il Romano[107] riguardo al giurista, ed estendibile alle categorie sopra citate. Nell’epoca cibernetica e del post-umanesimo, ove i diritti –ed aggiungiamo Noi la morale- dell’uomo sono trasmutati in diritti della sensienza, ponendo a compimento il nichilismo perfetto e di primo livello, tanto l’operatore del diritto quanto le altre categorie non possono limitarsi alla sartriana “mediazione inessenziale”, in cui l’inizio, l’orientamento ed il risultato del suo fare non appartengono all’esercizio scelto della sua soggettività creativa ma sono accadimenti extrasoggettivi, prodotti post-umani delle combinatorie che seguono le leggi della casualità e quelle della causalità kantiana, ovverossia flussi di messaggi bio-macchinali. Essi non devono svolgere operazioni strettamente omogenee a quelle dei sistemi biologici (neurobiologia) ed informatici (intelligenza artificiale/cibernetica). Non devono essere operatori della sensienza ma artisti della ragione, che utilizzano il linguaggio dell’arte, a mo’ di dipinto e poesia, e non quello digitale a mo’ di fotografia o ipertesto. Occorre, come sottolinea il filosofo del diritto[108], utilizzare il logos-nomos, che manifesta il senso dialogico che si compie nella terzietà del giudizio, in una interpretazione filosofica del relazionarsi e non i numeri-operazioni, che registrano il linguaggio delle tecno-norme- e, Noi aggiungiamo, in una prospettiva assiologica, dei tecno-valori- che sono spiegazione scientifica del rapportarsi, determinata dalla combinatoria de-soggettiva di causalità e casualità, genesi del post-umanesimo.

Questa la via educativa e preventiva ed altresì recuperativa degli adolescenti, la cura della devianza, la previsione e l’affronto diretto al disagio. Di modo che, in questa prospettiva assiologica rinnovata, all’interno di questo pascoliano “nuovo anzi antico” asse di valori ispirati al cattolicesimo, essi possano sperimentare la nova alternatio, perché le potenzialità le hanno tutti, come abbiamo ampliamente dimostrato, ed anche il senso critico e la profondità esistenziale. L’asse di valori cattolici, in una prospettiva neoscolastica, non censura ma modella, si apre, interpreta, impara, sa cogliere il positivo, ciò che di buono c’è nell’arte e nella letteratura, può rendere l’antiomologata adolescenza torbida alternatio religio. Bene, ad esempio Jachia  e Pilla[109] definiscono il baustelliano Baudelaire, dandy, martire e mistico, nuova frontiera, il Baudelaire che in “un Romantico a Milano” pone in essere una alternativa alla borghesia nel dandysmo non stereotipato, il Baudelaire figura Christi, santo e mistico degli ultimi, nuova frontiera del cattolicesimo, che nella omonima canzone mostra la pienezza della libertà e della vita ottenuta grazie al sacrificio dei “santi ultimi”, da Cristo a Pietro, da Pasolini a Luigi Tenco, sino a Caravaggio, personaggi che vanno rivalutati dal cattolicesimo, alla stregua, a Nostro avviso, di Giordano Bruno e Nietzsche, che si ponevano contro la secolarizzazione senza misticismo, auspicando una religione secolarizzata in cui ben si conciliassero e conciliassero traditio ed alternatio.

Sbagliano tuttavia i sopracitati autori a ritenere i Baustelle mistici laici, il loro misticismo non è filo-protestante/laico, né estremista/islamico, ma è un esistenzialismo cattolico a tutti gli effetti, che si pone per una rinnovazione del cattolicesimo, per una sua sincretia, sincretia con eroi ripudiati e maledetti e persino con ideologie pagane, come nella canzone “Nessuno”, contro “il mercato/che produce demenza” e contro “la falsa beneficenza”. E cos’è il misticismo se non il tassello più alto dell’evoluzione umana, cos’è se non l’alternatio che chiedono gli adolescenti, che per sete d’amore si rifugiano in violenza e dipendenze.  Gli adolescenti di questa epoca cibernetica, che molti simpaticamente chiamano “Era dell’Aquario”, sono molto più predisposti di noi al misticismo, di noi figli di un’epoca del materialismo iniziata nel 1600 dove la scienza ed il laicismo ateo e filo-protestante e mercantilista sono assurti ad idolo. I Baustelle, profondi e finissimi conoscitori del disagio adolescenziale, nel loro ultimo album hanno inciso due canzoni, Il Vangelo di Giovanni e l’Era dell’Aquario, profeti non del nichilismo o del nulla, ma ultimi reduci di un cattolicesimo in rovina.

E concludiamo, si parva licet componere magnis, con un messaggio inviato dal pontefice emerito Benedetto XVI in occasione del suo novantesimo compleanno, un messaggio in cui spinge a cercare una terza via contro i totalitarismi atei e l’estremismo islamico, seguendo l’esempio di ciò che ha fatto Giovanni Paolo II contro i totalitarismi rossi e neri del suo tempo, spingendoci a fare lo stesso contro questi nuovi totalitarismi mercantilisti attuali, ed allo stesso tempo recuperando il senso profondissimo della musica e dell’arte, soprattutto la musica che è il referente maggiore cui puntare per combattere il disagio adolescenziale, essendo l’arma potentissima e che loro adorano, un modo per vincere lo spleen poetizzandolo.

 

CONCLUSIONI

 

Dalla analisi compiuta del disagio adolescenziale e del conseguente possibile sviluppo deviante, abbiamo toccato un po’ tutti i punti criminologici, dalle gang, alle sottoculture, alla violenza dei gruppi politici o religiosi estremisti, alla malavita sino al bullismo ed al cyberbullismo. Ed altresì abbiamo analizzato il disagio che si estrinseca in atto violento contro sé stessi, autolesionismo, suicidio, dipendenza.

Tutto ciò è collegato ad una società, quella che Noi definiamo cibernetica, figlia delle tv generaliste e commerciali e soprattutto dell’epoca di internet, in cui meglio si realizza il mercantilismo latu sensu ed il capitalismo esasperato, con la riduzione dell’adolescente a merce ed utensile, con la sua conseguente perdita di identità e soprattutto di senso e di speranza per il futuro.

Figlio di questa società, l’adolescente è tuttavia mai come prima pronto ad una rivoluzione quasi mistica, è più incline allo spiritualismo di noi figli dell’epoca materialista che è cominciata nel 1600 con la scienza empirica, con il protestantesimo, divenuto oggi l’origine della cultura atea e laica, essendo da esso sviluppatosi l’empirismo,  l’illuminismo ed il positivismo, in una concezione che mira alla meritocrazia basata sul valore economico e ad una dimensione sociale, dove vince il più forte ed ove i  modelli di successo sono il sesso mercificato, il danaro, il potere, la sopraffazione.

Gli adolescenti, dicevamo, sono pronti al cambiamento, e lo notiamo dall’attività che pongono in essere innanzi a tale società in cui sono calati, esautorati dalla speranza nel futuro attuano, a nostro avviso, una condotta stoica/alternativa, o nello Stoicismo A in alternatio, vale a dire il suicidio, gesto estremo non per vincere, né per fuggire, ma per non perdere, o nello Stoicismo B in alternatio, vale a dire l’annullamento emotivo, che li spinge alle dipendenze o a comportamenti violenti che a noi possono sembrare, dall’esterno, insensati, figli del nulla, ma che in realtà sono una reazione dell’adolescente al nulla essendo diretti verso il nulla, in quanto le loro qualificazioni e la loro sottigliezza critica cozzano con la superficialità della società in cui vivono.

La prospettiva sarebbe, a nostro avviso, condurli verso uno Stoicismo C in alternatio, vale a dire la via dell’arte e della poesia, lo spleen poetico per superare lo spleen senza poesia e nichilista di primo livello.

A tal fine occorre riprendere quelli che sono i valori e le nostre radici occidentali, ovverosia quelle cattoliche. Siamo infatti consapevoli che i comportamenti devianti o criminali degli adolescenti sono figli del disagio che a sua volta viene colmato con la necessità di agire, alternativamente, nel sistema di valori dato, raggiungendo quegli scopi.

Se i loro modelli sono il liberismo capitalista, laico e filo-protestante e quello della spiritualità individuale e non comunitaria, capiamo bene che essi si muoveranno in tale terreno e la loro azione deviante sarà indirizzata al raggiungimento di tali obbiettivi dalla società stessa propinata.

Un ritorno alla comunità cattolica invece che alla società liberista ed egoica, un recupero del sincretismo tipico della religione di Roma, una valorizzazione di figure sante perché vicino agli ultimi, o sante perché ultime va recuperata anche con personaggi che all’apparenza poco hanno a che vedere col cristianesimo, in una ottica accettante e non censurante e, soprattutto, per un modello politico/culturale pluralista e non integrazionista.

 

dottor Giovanni Di Rubba

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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SITOGRAFIA

 

 

 

 

 

 

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  • “ ”; Il cosiddetto male
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  • Nietzsche Friedrich; Così Parlò Zarathustra
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  • “ ”; Aurora
  • Petrarca Francesco; De rerum vulgarium fragmenta
  • Platone; Gorgia
  • Plutarco, Del Mangiar Carne
  • Sartre Jean Paul ; L’Essere e il Nulla
  • “ ”; La Nausea

 

 

 

NOTE

 

 

 

 

 

 

 

[1]  in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011

[2] Friedrich Engels, L’origine della famiglia e della proprietà privata dello Stato, 1863, Editori Riuniti, pp. 189-208

[3] Umberto Galimberti, Cristianesimo la religione dal cielo vuoto, Feltrinelli Editore Milano, pp.329-337

[4] In L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, Leonardo Basile, 2004, http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/devianza/basile/index.htm

[5] Albert K. Cohen; Ragazzi delinquenti, prima edizione 1955, traduzione italiana edita Feltrinelli 1974; pag. 31

[6] Trasher(1926 pag.15)  in L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, Leonardo Basile, 2004, http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/devianza/basile/index.htm

[7] Franco Baldoni, Aggressività comportamento antisociale e attaccamento, pag.4, in Crocetti G.. Galassi D., Bulli marionette nella cultura del disagio impossibile, Pedagron, Bologna, 2005

[8] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani d’oggi, Feltrinelli Editore Milano, 2007, pp. 31-41, pp.163-170

[9] Sergio Moccia, il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Edizioni Scientifiche italiane, 1992, pp.219-222

[10] Paolo de Lalla Millul, La Comunità Democratica vol III (La resistenza all’Altra vicenda), Guida, Napoli, 2009, pp. 1465-1476

[11] Manlio Sgalambro, Del Delitto, Adelphi, Milano, 2009, pp. 98-99

[12] Bruno Romano, Globalizzazione del commercio e fenomenologia del diritto, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 48-51

[13] Ivi, pp. 31-38

[14] Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis edizione, Milano, 2010, pag.10

[15] Paolo de Lalla Millul, La Comunità Democratica vol III (La resistenza all’Altra vicenda), Guida, Napoli, 2009, pp.1326-1332

[16] Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis edizione, Milano, 2010, pp. 27-28

[17] Paolo de Lalla Millul, La Comunità Democratica vol III (La resistenza all’Altra vicenda), Guida, Napoli, 2009, pp.1693-1863

[18] Paolo de Lalla Millul, La Comunità Democratica vol III (La resistenza all’Altra vicenda), Guida, Napoli, 2009, pp. 1788-1812

[19] Franco Boldoni, Aggressività, comportamento antisociale e attaccamento, pp. 1-16, in Crocetti G., Galassi D., Bulli marionette nella cultura del disagio impossibile, Pedragon, Bologna, 2005

[20] Manlio Sgalambro, Del delitto, Adelphi, Milano, 2009

[21] Franco Boldoni, Aggressività, comportamento antisociale e attaccamento, pag. 2,  in Crocetti G., Galassi D., Bulli marionette nella cultura del disagio impossibile, Pedragon, Bologna, 2005

[22] Ivi pp.2-3

[23] Risposta del Capo Indiano Seattle al Presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce,  1852

[24]   Franco Boldoni, Aggressività, comportamento antisociale e attaccamento, pag. 5,  in Crocetti G., Galassi D., Bulli marionette nella cultura del disagio impossibile, Pedragon, Bologna, 2005

[25] Ivi pp. 6-13

[26] Ivi pp.7-13

[27] Manlio Sgalambro, Del delitto, Adelphi, Milano, 2009

[28] Ivi pp. 27-28

[29] Ivi pag. 26

[30] Ivi pag. 28

[31] Ivi pp.33-34

[32] Ivi pp.43-44

[33] Ivi pag.52

[34] Ivi, pag.60

[35] ibidem

[36] Ivi, pag. 68

[37] Ivi pp. 69-71

[38] Emmanuel Betta, Per una medicina neotomista, la Scienza Italiana (1876-1889), Istituto Universitario Europeo, Firenze, pag. 17

[39] Ivi, pag. 18

[40] Ivi, pag. 16

[41] Ivi, pag. 136

[42] Ivi, pag. 175

[43] ibidem

[44] Ivi pag. 179

[45] Albert K. Cohen, Ragazzi delinquenti, 1955, traduzione italiana Feltrinelli 1975, pag. 11

[46] Jaica P., Pilla D., I Baustelle mistici dell’occidente, Ancora, 2011

[47] ivi, pp. 42-43

[48] Albert K. Cohen, Ragazzi delinquenti, 1955, traduzione italiana Feltrinelli 1975, pp. 27-29

[49] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli 2007, pag. 114

[50] Ivi, pag. 107

[51] Franco Boldoni, Aggressività, comportamento antisociale e attaccamento, pp. 4-5, in Crocetti G., Galassi D., Bulli marionette nella cultura del disagio impossibile, Pedragon, Bologna, 2005

[52] Ivi, pag.114

[53] Bruno Ballardini, Isis, il marketing dell’apocalisse, Baldini e Castoldi edizioni, 2015

[54] Ivi, pp. 23-32 et 46-59

[55] Ivi, pp.102-106

[56] Ivi, pp. 106-128

[57] Ivi, pp. 29-30

[58] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli 2007, pp. 123-126

[59] Ivi, pp. 124-126

[60] Paolo de Lalla Millul, La Comunità Democratica vol II (Gli eredi della prima storia), Guida, Napoli, 2009, pp.953-1081

[61] Jachia P., Pilla D., I Baustelle mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pag. 75-76

[62] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli 2007, pp. 127-135

[63] Manlio Sgalambro, Del delitto, Adelphi 2009, pag. 99

[64]   Jachia P., Pilla D., I Baustelle mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp.71-74

[65] Albert K. Cohen, Ragazzi delinquenti, 1955, edizione italiana Feltrinelli 1974, pag. 31

[66] Ivi, pag. 161

[67] Jachia P., Pilla D., I Baustelle mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp. 46-47

[68] Alessandro Meluzzi, Bullismo e cyberbullismo, Imprimatur editori, 2014, pag.16

[69] Umaberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, 2007, pp. 130-135

[70] Alessandro Meluzzi, Bullismo e cyberbullismo, Imprimatur editori, 2014, pp. 32-35

[71] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli 2007, pp. 130-135

[72] Sgalambro M., Del delitto, Adelphi, 2009

[73] Jachia P., Pilla D., I Baustelle mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp. 49-51

[74] Alessandro Meluzzi, Bullismo e cyberbullismo, Imprimatur editori, 2014, pp. 12-13

[75] Alessandro Meluzzi, Bullismo e cyberbullismo, Imprimatur editori, 2014, pag. 19

[76] Jachia P., Pilla D., I Baustelle mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp. 16-17 et pp. 26-27

[77] Alessandro Meluzzi, Bullismo e cyberbullismo, Imprimatur editori, 2014, pp. 61-62

[78] Ivi, pp. 59-60

[79] Galimberti U., L’ospite inquietante, Feltrinelli, 2007

[80] Durkeim E., Il Suicidio, studio di sociologia, 1897, traduzione italiana Rizzoli 2006, pp. 320-340

[81] Jachia P., Pilla D., Baustelle i mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp. 89-90

[82] Ivi, pp. 51-54

[83] Bruno Romano, Globalizzazione del commercio e fenomenologia del diritto, Giappichelli, Torino, 2001, pp. 48-51

[84] Jachia P., Pilla D., Baustelle i mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pag. 37

[85] Durkeim E., Il Suicidio, studio di sociologia, 1897, traduzione italiana Rizzoli 2006, pp. 311-320

[86] Ivi, pp. 271-308

[87] Ivi, pag. 330

[88] Ivi, pag. 165-168

[89] Jachia P., Pilla D., Baustelle i mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pag. 44

[90] Jachia P., Pilla D., Baustelle i mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp. 12-13, pp. 43-44, pp. 54-55

[91] Galimberti U., L’ospite inquietante pp. 66-68

[92] Ivi, pag. 67

[93] ibidem

[94] Ivi, pag. 88

[95] Ivi, pag. 93

[96] Romano B., Diritto postumanesimo e nichilismo, Giappichelli, Torino, 2001

[97] Ivi, pag.11

[98] Ivi, pag. 24

[99] Ivi, pp.27-29

[100] Ivi, pag. 29

[101] Ivi, pp. 22-25

[102] Sgalambro M., Del delitto, Adelphi 2007, pp.66-67

[103] Emmanuel Betta, Per una medicina neotomista, la Scienza Italiana (1876-1889), Istituto Universitario Europeo, Firenze, pag. 14

[104] Vuiola F., Tommaso tra i contemporanei, pag. 235

[105] Porcarelli A., Tomismo e neotomismo, pag. 5

[106] Ivi, pag. 11

[107] Romano B., Diritto postumanesimo e nichilismo, Giappichelli, 2001, pp. 50-52

[108] Ivi, pp. 53-54

[109] Jachia P., Pilla D., Baustelle i mistici dell’occidente, Ancora, 2011, pp. 147-159

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