Pompeian Lady, John William Godward, 1891
Parti in quarta
con una quinta da dio,
accovacciata alla luna
con ali tinte di gridellino,
ti specchi con purpurei capelli,
narcisa in balia d’altri venti
e da te stessa sottomessa,
fiori attorniano l’anima
e il tuo corpo messaggero
dei nostri rimandi all’astratto.
Vento, dicevo il vento,
il vento e te stessa,
in principio era solo questo,
a volte ho paura
che la tua melodia
sia ardua da seguire,
ecco
penna e calamaio,
plasmiamo con un ghigno
una nuova glaciazione.
Rimpiangiamo un po’ fanciulli
quell’autunno
che ricopre come piume
il nostro corpo,
tu padrona,
mio tesoro sconosciuto,
mio irsuto vaneggio,
sai è da un po’ che mi manca
il suono della tua chitarra,
il tuo canticchiare di traverso
come sull’orlo di una tazza
di caffè scolorita
dal tuo languire
e dal tuo esplodere giallognolo,
accendi un’altra sigaretta.
Sull’orlo dicevamo
o dicevo,
ma capisco che,
sei tu il mio abisso
ed io sospeso
tra paura e voglia d’avventura,
ossia timore e libertà,
una nuvola si impone
imperiosa,
il tuo sapore scorge
l’astuta rocciosa scogliera,
agitazioni motorie
come spasmi naturali
di tettoniche a zolle,
maree le assenza di te.
Sbocci dalle tue stesse ali
in metamorfosi ora candidissime
accompagnata dal tuo fedele
liocorno in miniatura
e dalla tua euristica bravura.
Una cascata improvvisa
artistica sbavatura
delle colonne corinzie
ti ridà la limpidezza
di un giglio immortalato
dal mio sguardo
ed immortale
per tuo stesso gesto.
Forse sarà stradicciola
di campagna
un po’ aspra, un po’ adirata,
alzi in scollatura aizzando la tempesta,
non ti scuote fermamente
il fango della gente,
Alice intrecci Ofelia
in alienazione redimente,
più che introspezione psicologica
o critica sociologica
realtà cosmica.
Congiungi le mani
ed è la luce,
le divarichi
ed è chiaro l’invisibile.
Ho capito forse di volerti,
come l’elmo in battaglia,
ricca di colori,
stendardo novembrino
di un amore mai sopito.
Guarda credo sia passato tempo,
non è vero,
è per dispetto,
suonami, ti prego, ancora
qualcosa,
non sfiorire come pallida viola.
Oh!
Non hai mai assaporato
la mela della perdizione
fico dell’austro batticuore
scostante e scosso ondulante
ma sei comunque maledetta,
si crea il buio nella mia mente,
darkettina mia insolente.
Ti deponi
tra il silenzio e l’ultimo fascio
che ci accende,
ti intravedo
un po’ lilla
un po’ trafitta
ma sempre fiera e mai sconfitta.
Vola annebbiata caotica
l’effige,
altro da scrivere,
quanti scomposti di fiati mossi
da vivere
non ho più inchiostro,
scrivo col gesso
ma te ne prego,
non violarlo con la mano.
Grigiore si impone
e riappaio quando scompari
fumosa essenza vaporosa
(nell’atrio del locale
il fumo inverso sale).
Lo spirito che esulta
nelle tue boccate profonde
che secernono la verità
e si espande il suono dittico
lì intorno,
io seduto al limite
ultimo dell’inchino
col sapore senza uguali
del campari.
Tingi l’assedio vitale
cantando a voce stanca,
assurta a castro
o chiostro del sentimento
ti sento in me
lieve accenno profondo
della velatura d’abisso.
Mi dici con lo sguardo perverso
che il nostro rendimento
netto è frutto di passione
mentre strizzo l’occhio
declini in iperurani sopraffini,
ti sciogli e scendi
dal palco
e mentre canto a mia volta
silente mi abbracci,
unico appiglio
nel tuo borderline sintetizzare parole
d’assoluto,
scossa da un bacio
declinato eucalipto
al varco oltraggiato
dalle note sempre in mi.
Ancora ti stringo a me,
per sempre
e non fa niente
se il domani si spegne.
La voglia sale
mentre mi accarezzi
ancora quasi sincera
mi squadri
come fossi l’entusiasmo
tendente al tuo desio.
Ripenso a te,
moine scomposte.
Ed ascoltami
empirico trapatto,
ontico amplesso
mentre penso
in compromesso
che il tuo corpo
per tutta la notte giace
sopra il mio interdetto,
intelletto in godimento
e gaudio del tuo lamento,
il piacere all’ottava musicale,
elevato alla nona
per simpatia
tratta dall’attrazione
di un pensiero, questo,
campato in aria
e da te lodato
come fosse l’ultimo traguardo
possibile
della rivoluzione umana,
esaltati ci poniamo
in ingorgo ritmato,
un altro bacio.
E ti penso come vuoi tu,
è già mattina
e il tuo capello si impone,
voltata non mi guardi più.
Non mi sveglio
appigliato al tavolino
lo sai tu?
Me ne vado
discreto
e ti ricorderò
come spoglia decimata che alberga
stretta al mio manto,
vado via da me stesso
quando si spalanca la porta
del locale
e il fumo disappare
traccia mobile
l’orma del rossetto è quel che resta
muta nell’entusiasmo,
amata per sempre,
tu.