Ernest Hébert; Ofelia
Senza il tuo profumo
La realtà non è solo
nei miei occhi
e dunque tu dimmi
che pensi.
Così
volevo il tuo amore
e tu guardavi me
in controluce.
La verità
è nel nostro essere avvinghiati
tra mille lune,
tempi moderni,
estrosi pensieri.
Ricorderai un giorno
l’amore solo, crederai reale
il fumo
dei miei giorni,
dimmi, che altro posso fare?
Le cose che mi rimproveri
mi esulano dall’essere
umano
vite a limite della speranza
le mie azioni.
Amerai ancora
come io amo te?
amerai davvero
chi cerchi
pensando alle mie labbra?
e
la realtà
è che ti ho perdonata.
È così,
non riesco a dimenticarti.
Davvero non so
se riuscirai ad amarmi,
sono pazzo
perso
nell’amore stesso.
Ma pensa un attimo
alla vita
stravissuta
nei sussulti
solo per renderti speciale
e ora
non so più
se riuscirò a vivere
senza il tuo profumo.
Ragazzina, godi e sogna più che puoi
Splendente come la luna
magari imprevedibile
è la mossa
che scomposta
poni sulla scacchiera
dei miei giorni.
Tu profumi d’assenzio
ed il rigurgito
è già amore
e così spendi
giorni come destrieri
a furia esosa.
E tu
senza pensarci
mi adori, come collirio scolori
gli occhi tersi dal fumo.
Puerilità
sia lodata
la tua mossa precoce
da ragazzina,
mi fai godere,
strette le mani
sul mio senso stordito
dal tuo fraseggio esaustivo,
vorrei dirti davvero,
continua,
è l’amore che pone le basi
del pensiero
un po’ perverso
un po’ storicamente eterno.
Vita viva
e vissuta,
diciassettenne
esaudisci il mio bisogno
d’amore,
sei già esperta
e lo vedo,
il rimpianto sdrucciolato
nel bicchiere
del calice eterno,
sono sicuro
sia vero amore.
Ecco
sono sul punto di volere
più di quanto mi possa aspettare,
siamo al limite del prezzo
d’albergo,
ragazzina, vai tu,
sei più bella delle ninfe,
porgimi il tuo cuore
che non può essere
peccato
il reciproco amore.
Senza condizioni,
scanzonata la sonata,
la mia pelle innamorata
è frutto della tua sapienza
da studentessa furente
e più che bella.
Ed io
chiedo di averti
solo per il nostro
più intenso bisogno
e improvvisa mi fissi
godendo
fai capire che non c’è barriera
che tenga la piena
del vero amore,
non pensare ti prego
alla notizia da telegiornale
intrisa di morale,
godi e sogna
più che puoi.
La più acerba, candida, passione
Fiori incolti
tra i prati
disillusi
del domani.
Il passato
è solo lo specchio del futuro,
sai, amore mio,
che il ricordo
mi trapunta spilla
disillusa
della tua dolcezza.
Guarda
la nostra fantasia
ed i rapporti
elusi
dalla tua vita
fantastica.
Vivi
come mai
hai sognato
la differenza
della tua realtà
è flusso
della nostra età
acerba.
Magica
polvere
di sogni.
Se tu non ricordi
come esistere
completamente,
non piangere più,
guardami negli occhi
e scopri
che delle altre
molto più
speciale sei.
Sulla nostra spiaggia
l’anima
riflusso d’assoluto,
spirito ribelle,
mia amica della terra
di Provenza
fai la leziosa,
mostrami il tuo accento
figlio della luna
e dipinto delle stelle,
riflesso del più puro amore.
Ti amo,
così.
Mentre penso a te,
tutto intorno
è quiete.
I nostri passi
si confondono col vento,
amore mio
respira anche tu.
Splendido
è il tripudio dell’illusione
di questo amore,
saziami sempre più.
Amo
il tuo corpo ribelle,
l’età dell’adolescenza
che sui nostri corpi
impone la più acerba
candida
passione.
203
Ecco,
pronta,
lì.
Un’unica risposta
ai tormenti tuoi,
peso annullato
dalla piegatura
dissonanza plastica,
fa un po’ come vuoi,
esatto
hai già capito
distratto come sai
che il mio abbraccio
ed il mio seno
languido
è uva e tabasco per te.
Poni l’illusione
e baciami muto,
è il tormento
che brucia
e saporito
scaglia disarmante
il tepore
delle tue guance.
Zitto zitto,
serpina e male
estetico
ed esistenziale.
Parola
magica
e chiave di volta,
parola chiave,
sono tutta per te.
E dimmi sincero
chi è più carina
di me.
Dammi il mi minore
e posta la soluzione
nelle brame della legge
il comando è mio
ed il corpo tuo.
Baciami
in silenzio,
nessuno ci può,
ci potrà ascoltare.
E dimmi
se sono serpentina,
perversa
e godereccia
come ti aspetti,
spegniti lucente
in bocca
al mio piacere.
È il sapore sincero
del tuo amore.
Dammi tutto
te.
Inizio al buio
Inizio al buio
senza neanche pensare
alle influenze
della musica
affine
al sentimento
perso
frammentario
che transige
l’ultima umana transizione,
delusione del millennio
che non è più fresco
ma ancorato ancora
a
pensieri, quelli tuoi,
linea melodica difforme
e schema metrico
dada consumato
dall’incertezza del genealogico
passato.
Ed io ti dico
che stai benissimo
così,
un po’ distratta dalla luce
soffusa
e pura
dei tuoi atti osceni
sperimentati
all’alba come sempre.
Trova le connessioni,
vedi non è
superficiale
come credi
sono pezzettini
di già
fatto
col lavoro
del tempo,
arriva la sera
e sostituisci
il jazz
col
minimal.
Poi,
ponti noi,
virgole
dei nostri domani,
troncature stanche
di solchi esistenziali
imbarbariti,
imbruttiti
nella ricerca del bello
un po’ assoluto
un po’ emisfero eterno
in bilico
tra
contemplazione e godimento.
Eliot fuma
sorseggiando
resti di arancia
in incandescenza
sgocciolano
le sue parole
tra gli appunti
seduto al tavolo
del suo bar.
Piccina mia, dammi l’eternità
Conta ancora
il profumo
del tuo respiro,
sente il bisogno
la nostalgica pretesa.
Ciao, amore mio,
sono quello dell’altra sera,
come dici?
ricordi,
il tempo nelle sue sfumature
grigie da casalinghe
insoddisfatte,
preferisci come me
il viola,
giusto per ottenebrare
la memoria,
mettici qualche ortensia
e sfuma il verdetto,
ci dipingiamo d’eterno.
Io?
non lo so,
forse dovresti
stringermi ancora.
Il mistero nei nostri corpi
sarà il nostro segreto,
insieme avviluppati
come animali
godi della prima
fioritura autunnale
olistica
e parossistica
nell’ottobre dei mille
riflessi di corolla,
scindi l’axiotica,
come mulino a vento
frulli
e ne son contento,
mettici qualche punto
e il senso
è ancora nostro.
Come stai?
Dimmi se moriamo
dal piacere
ristretto
nell’amplesso
d’assoluto.
E poi
sogni lucidi,
assunti gotici,
che fai stasera?
Se vuoi
sono al parco.
Le tue elucubrazioni
saranno reali,
stringimi ancora
che quest’attimo
potrebbe essere
l’ultimo reale.
E saremo brame
senza neanche
rimpiangere stazionamenti
passati oramai.
Ed improvviso
il sassofono.
È un po’ un sopruso,
piccina mia,
dammi l’eternità!
L’estate finisce gemendo sé
Porgimi un fiore
amore
nel pudore
del tuo pallido
colore,
è tutto opaco.
Piangi
come traversa
diagonale.
Rotoli
nell’estromissione
delle parole,
gelate
essenze.
Brucia la rissosa
lotta del tabacco,
pongo un esseno assedio
nella bionda
veduta,
panorama etilico
della gioventù.
Vaghe
parole insensate,
aurore boreali nei tuoi occhi.
Prestami mille lire,
senti il mio odore
che stracolmo
espone
aneddoti
già vissuti
e consumati.
Pare
scomparire
l’orizzonte
degli eventi
esteri,
meglio appaciarsi
nel rimando implicito
a sublimazioni mentali
e l’estate finisce
gemendo sé.
Il mio paradiso
Essendo il mio
pensiero
perduto tra i rami
dei tuoi sogni
e svuotando l’alma sino all’osso
la tenue luce rissosa
della noia
e del rassegnato
abbandono
nelle brame
dell’illusorio
spasmo,
ritengo scomposto
il sentimento
dalle mastodontiche velature
di cartapesta,
basta,
basta, basta
urla il mio spirito
che esule immemore
dagli avamposti
del tuo occhio
socchiuso
come ad assentire
le mie fantasticherie
funeste,
dormi,
sì, dormi ti dico,
piccina riposa
stesa nuda sul mio petto
tra le cicale naufraghe della sera
in serrate fessure
consumate
dallo sbattere incessante
su specchietti d’acciaio
delle lancette
bastarde,
dei secondi
carcerieri
del mio essere puro
mentre ascolti il palpito
mio
oramai scomposto.
Mi raccomando,
non svegliarti,
non svegliarti amore mio,
abusata dalla terrena
maledizione,
resta così,
ancora a sognare
mondi cristallini
in questa stanza in penombra
ove rotola terribile
la scimitarra delle bottiglie
aguzze
di gin e cointreau.
Saremo noi,
tu piccola innocente
dal corpo giovine già
consumato
da mani arroganti
ed ignoranza,
da penetrazioni assurde
e autoreferenziali,
da grida senza piacere,
da mani callose
sul tuo seno splendente
macchiato di sigari
e violenza.
Saremo noi
e sai perché?
Perché il tuo sonno
senza affanno
di ragazza
è lo scampo giocondo
che ti salva
dalle intemperie
di questo mondo
ipocrita.
Dormi, dormi,
come divina imperatrice,
come regina,
dormi,
io ti osservo
angelo mio
maledetto dalla ribellione
e dal silenzio.
Tremava la tua mano
un’ora fa,
l’illogicità, il lavorio scomposto
delle tue mani,
come alienata proletaria
a muovere il mio sesso
senza scampo,
coi gemiti falsi
da attrice di quinta,
da ballerina esausta.
Averti vicina,
sfidare l’assoluto
con le tue labbra
profonde
nei baci che non puoi
dare,
è così,
non voglio perdere un attimo
dei tuoi sospiri
non voglio svegliarti,
piccina,
le signore mutano
parole
e sogni,
ma tu sei qui,
ancora, candida come la rosa,
illuminata dalla falce di luna
come una stella
del firmamento
eterno,
no,
no, scappa via,
questo mondo
non t’appartiene,
fuggi
come cigno
lontano lontano,
spalanca la finestra,
non tornare mai più,
resta qui
senza pensieri,
invidie,
curiosità deviate,
senza giudizi
e giudici,
resta qui e planiamo
oltre l’eterno,
sino al giardino
che ti porti dentro.
Io canterò
e tu resterai sul mio petto
luminosa
e sarà questo
il mio paradiso.
Tu sei ciò che sveglio mi tiene nel tepore
Spesso ti guardo
da spiraglio
della tua alma
tra strade perdute.
I tuoi sussulti
essenze maledette
dei miei giorni
stanchi.
I tuoi occhi
come tramezzi
del lavoro
writer
et crypto
nel tripudio assurdo
della tua bocca,
ah!
quella tua bocca!
Che aspetto
abbarbicato
tra il centro storico,
sei tu
l’unica luce
del respiro d’affanno,
sincera,
la notte inizia
e tu
sei ciò
che sveglio
mi tiene
nel tepore.
Ye soy feliz
So che sarai tu
da quel sorriso
tiepido
e un po’ ribelle,
i tuoi capelli
saranno l’arma
migliore,
occhi metilene,
piccina,
adoro
strusciare
le mie parole corporali
sulle
tue
forme,
perverso il pensiero,
tu di dieci anni più
piccola.
E allora capiremo
che davvero
non vale più nulla,
che sei la mia
pupilla
io
il tuo maestro
o meno,
e tu indosserai
quella gonna
che ti regalai,
ye soy feliz,
mi toccherai
come solo tu
sai fare
parleremo di Giambattista Vico
all’apice dell’adolescenziale
godimento.
Parola,
fatto e forma
sublime.
Spogliati
piccina,
voglio venirti dentro.
E un giorno
capirai
che non esiste morale
che non sia di servi
e noi
al di là
di questi Vittoriani
italiani di sinistra
parrucconi,
al di là
di quelle troiette
di destra liberista
serve del Bercogli.
La giusta negazione dell’infinito
Il tuo ricordo
è come la nebbia
fitta tra stagioni
di rimpianti,
gorgoglio del cielo
esausto
e della mano lirica
che contempla fruscii
sinestici
senza toccarli.
Piangi,
distruggi,
strappa
e lancia nel vento,
al vento, sul vento
ogni mia pretesa
scritta
nelle tue vene
urlando spaesata
tra righi d’infinito.
Ecco,
ora puoi sentire
il rinnegare
del tempo
nei tuoi occhi
allo specchio.
E attende il tuo vestito,
inorridito
dalle lancette
mute
nel sentire
graffi,
balze scoscese,
statue di marmo
arroventate
nel silenzio
la giusta negazione
dell’infinito.
Il tuo riflesso
Non ti stanchi
del tetro romore
del vento
su pupille d’acciaio.
E sei sperduta
come sopita
sotto i rami
spogli
dell’eterno
desio.
A volte gli odori
parchi
rendono le mie note
scaltre
come clero
tedioso
all’imbrunire.
Basta coi riflessi,
le ombre sul soffitto
aspettano insidiose
il tuo riflesso.
La tua voce attracco nel porto notturno
La terra battuta
dal sole
nell’istante
del sonno
steso
funesto
nella danza
soffice
e repentina
che non accede
e non tace
i miei ed
ai miei
dolori.
Distruggi il dramma
del mio essere
con la tua voce
lieta
e la profezia
della sofferenza
dell’alma
si distrae
e tu continui,
come signorina
dei sogni
appena germogliati,
come dicesti
e come dissi,
nella metrica
sconfina
il tuo corpo,
il mio sentire
l’eremo solingo
della croce infernale
che arde
inesauribile
dietro
i miei sorrisi.
Bene,
dormiamo,
trasgrediamo l’inerzia
della vita
ascoltando la tua musica,
attracco
nel porto
notturno.
Etica
Calcolando il confine
dell’orizzonte ottico
di mezzodì
chiuso nel sogno
e arroventato
trafitto
dalla tua ombra
scarna
e pusillanime
teca di porpora,
dimmi allora,
noi chi siamo?
Cosa ci differenzia
da questa brezza
incantevole
e taciturna
e dal gabbiano
svolazzante
allo scandire
dei giorni,
quando come rose appassite
gelavi i miei
occhi.
Ecco,
questo è il nostro
tempo,
uno scarabocchio
sulle tele
stracciate
dalle punte delle mine.
Destreggiamo,
cara
così
i nostri limiti
fanciulleschi
e giochiamo
irriverenti
coi bozzetti ed i dipinti
incompiuti
da chi non libera
ma imprigiona
nel suo pensiero
e si dice maestro,
ma Maestro della Natura
e dell’Etereo,
Chiren Selin grande
divenuto sono
dopo me stesso Mabus,
trittico nostro del primo millennio,
Giovialista
e poeta della luna
e selenio denso,
non aspetta plauso
o giudizio dei contemporanei,
né epigoni,
né discepoli,
né adepti,
noi
siamo
ribelli
e bellissimi
liberi
ma soli
e dunque salvi.
Camminavi un tempo
Camminavi un tempo
come folgore
tra nubi,
il riflesso lungo del tuo pallore
era la luna
specchio sul mare,
e il tuo rigore
distratto
incudine rimbombante
tra flutti
del mio spirito
leggiadri,
le mie parole
scrollavano
la tua cera, stampo
di lugubre affanno
dondolante docile
su altalene
di piume,
simpatica
aggrovigliata ai muri
della città
nostra scomposta
tra cumuli di scritte
macchiate le tue mani
di rosso
barberino
ricordo,
l’occhio lucente
tra stelle
di cicale
e di pruni
fischiettanti
nei tuoi boschi
ora deserti
di felci,
ah! e quando
dormisti
accanto al mio
giaciglio
di ghirlande
il collo
pullulava
sornione
alla nuova moda
consumata
dal vigore
della tua pronuncia
strana,
allora passeggiavi
su filo spinato
e melodie rissose
d’equilibrio
intarsiate
dalla tua mano rampicante
tra ciuffi di note
confuse.
Ora nel firmamento
sperso il mio sguardo
è senza guida.
Piccola stella del deserto
Potresti,
come fai,
dimenticarmi.
Ma voglio dirti una cosa
che il tuo volto
riflesso
nell’irideo nubifragio
mio ha consumato.
Piove
e la stagione lieta
rende suffragi
alla peregrinazione
del tuo corpo.
Il cristallo autunnale
del fuoco
rissoso
sgorgando
minerale
perduto
nell’entroterra
australe.
Piove
e lo sai.
Tremi ai boccoli
tuoi,
dal jeans corto
estivo
al ricordo,
non vuoi.
E la temperanza,
io chi sono?,
la temperanza ti preme
il cuore
soffocandolo.
Ti prego facciamolo,
facciamola questa follia.
Amami,
amami come il vento,
le stagioni,
amami come
nei miei sogni,
non aver paura.
Non aver paura se gli altri
mi additano
come il diverso,
il folle,
non aver paura
né pregiudizio,
non dimenticare te,
non farlo,
il mondo è nostro.
Lascia proliferare
voci assurde
in giro,
lascia dire alla legge
stanca,
ai medici da manicomio,
alle comare,
lasciale parlare,
lasciale dire
lui è pazzo.
Ma salvami
se io
ogni giorno ti salvo,
salvami se t’amo.
La musica
è ciò che ha
scosso
frullii di gesso,
lascia perdere
amami,
anche solo uno istante,
anche solo il tempo di dire
amore.
L’universo ti spinge
a declinazioni astruse
e lo sai,
amami
anche adesso.
Fallo,
piccola stella
del deserto.
Chi sei tu?
Chi sei tu
che spaventi
i miei riflessi
con noncurante
amore?
Tu sei
il tripudio di belve
affamate
alla mensa
del mio corpo.
Tu sei l’anima mia
consumata
dallo strazio
del ricordo.
Tu sei gli anarchici
e i punkabbestia
stanchi,
tu sei gli eroi esanimi
di un tempo.
Il silenzio
è oggi nostro,
ai bordi di strade
dimenticate
a elemosinare
verità
e follia.
Tu sei il silenzio,
allora.
È così.
Sei me
che sempre
stupido
e stupito
attingo alla vostra
mente.
Tu sei me
che dimentico
nell’acido
lisergico
ogni cognizione
reale
e fuggo
finito,
sperso,
senza te
al mio fianco.
Stringimi
Impallidisco
al far della sera
ma tu stringimi
quando la luce
parca
confonde
i miei pensieri
nell’oscuro tramonto
del mio sogno
che nel languire
vive
tra i vostri desii
e le vostre aspirazioni
come se oramai fossi
solo
alla deriva
e sorridente
esclusivamente
dei vostri successi,
stanchi e inesaudibili
i miei,
già,
i vostri successi,
amiche mie,
compagni miei,
in voi trovo l’ultima ragione
della mia esistenza.
Ma tu stringimi,
stringimi nel mio essere
imperfetto,
inutile,
la vergogna della umana specie,
dove il cor spaura
ai mie nubifragi
stringimi ora che muoio
non già nel corpo
ma nell’alma
e nel suo foco sempre più
penoso
e roco.
Stringimi
mentre la gente
straparla
della mia essenza
additandola come subdola
e perversa,
stringimi
quando socchiudo gli occhi
e trattengo le lacrime
per non perire
d’apparenza.
Stringimi
tenendomi la mano,
come nessuno fa più
con me
da tempo,
e asciuga la mia rabbia
e la melanconia
senza fiatare,
con un bacio muto,
Stringimi almeno tu,
ragazza,
non lasciarmi andare
nel gorgo
della morte del mio cuore.