Tutti i miei commenti all’Oltrismo del Maestro Sarossa (Salvatore D’Auria, movimento artistico da lui fondato). Opere sue e di altri oltristi.

L’Oltrismo

L’uomo si trova oggi più che mai immerso in un nichilismo statico ed in una vacuità esistenziale che tuttavia vengono vissute nella loro pochezza e disespressione estetica. Il pregiudizio ed una ricerca del bello scarno, che tramuta l’apparenza in vezzo egoico, rendendola spura dal suo significato primordiale, stanno portando gli esseri umani ad una scansione distruttiva rapida e voluttuosa dell’esistente. L’epoca attuale, quella che dal 2001 è divenuta l’”Epoca Cibernetica”, spazzando via ogni rimasuglio di quella “Contemporanea”, oramai chiusasi in un claudicante Novecento, spento prematuro con la caduta del “Muro di Berlino” e apertosi con la decadenza morale e pochezza di valori che, reduci di una battaglia con noi stessi, sia avverte imponente. C’è un eccesso di notizie, reperibili in quantità ingente sul web ed una pressoché totale mancanza di riflessione. La rappresentazione grafica del Maestro Sarossa, fondatore e massimo esponente dell’Oltrismo, corrente che da sempre cerca una “quarta via”, la possibilità dell’uomo di essere differente dall’inanimato non per coscienza ed identità ma per l’agire irrazionale, è in tal guisa esemplare. L’ agire irrazionale, alla base della natura umana, l’ essere contro la natura stessa e, in un agire fuori da logiche darwiniane e strettamente sociali, dall’homo homini lupus di hobbesiana memoria, rende l’uomo pensante comunitario, trovando nel donare sé incondizionatamente e irrazionalmente all’altro la sua ragion d’essere e la sua evoluzione da individuo a persona, tale perché si riconosce solo nelle formazioni sociali, nell’incontro, nella condivisione. L’epoca cibernetica sta facendo regredire l’uomo alla dimensione di “homo videns”, che guarda e osserva con curiosità di comare e non vero e proprio spirito di ricerca, che in un periodo di totale crisi economica cerca disperatamente il modello ultimo di IPhone, la macchina all’ultimo grido, reificandosi in maniera feticista non ad immagini soprannaturali o a figure di culto, ma ad emblemi della divinità del pecunio. Alcune costanti delle opere artistiche oltriste sono la rappresentazione di una terra, spesso brulla, infondata, non coltivata, arsa dallo sfruttamento, è a tutti gli effetti l’inferno dell’uomo di oggi, morto tra morti, lobotomizzato da stendardi economici, dal consumismo, dallo sfrenato capitalismo. Nulla è, nulla salva, nulla germoglia,  neanche una Ginestra vesuviana di leopardiana memoria. Unica ed ultima salvezza per il genere umano è squarciare questa illusione di perimento e, uniti in un unico abbraccio, aprirci alla sapienza, e per far ciò occorre l’amore, solo un cuore innamorato cerca incessantemente la sapienza, sotto forma di bellezza, vera ed unica bellezza possibile. E, l’eterno amore che tutto move, può portarci al di fuori delle nostre sofferenze, aprirci a noi stessi e agli altri col coraggio di cambiare, di accettare ogni vessazione e patimento come transito verso un giardino pullulante di fiori germogliati asciutti, un paradiso lezioso e candido, un al di là da sé che, conservando nel nostro animo la predisposizione e l’incessante desiderio di ricerca, potrà farci intuire, già qui ed ora, da subito, illuminati dallo spirito del mutamento, l’essenza del divino.

Il mio bagaglio culturale, le mie riflessioni e il mio studio delle correnti alternative e delle culture urbane di questo Millennio, l’esigenza di cogliere l’etereo della figura femminile, esaltazione dell’essere, colma di grazia, via d’ascesi, guida e cammino ad un tempo, ha portato me, Giovanni, a collocarmi nell’etereismo, movimento poetico che coglie questa essenza e la manifesta.  Aderendo, per questi stessi motivi, in pieno all’Oltrismo, tendo di dare la mia voce, nei commenti alle opere dei suoi esponenti, sottolineando questa visione, apertura, interpretazione, esegesi. Cogliendo l’etereo dall’arte, come ho sempre fatto non solo per l’Oltrismo, cui sono onorato di appartenere, ma anche per la musica e per altri movimenti artistici, per l’arte tutta, che è e sempre sarà impronta del divino, mano di un artefice, artista, che a simiglianza di Dio crea il bello, una bellezza che può essere contemplata solo ad un cuore innamorato, “al cor gentile rempaira sempre amor”. L’amore, che è cortese, che è gentile, cerca incessantemente questa bellezza perché, in essa, trova la bontà, la grazia, il kalos kai agathos. Mai come oggi i giovani, i ragazzi e non solo ricercano la  spiritualità, si  interrogano, in una prospettiva nuova e diversa, sui quesiti che da sempre affascinano l’umanità, chi siamo, da dove veniamo, qual è il nostro ruolo nell’universo, nel cosmo. Interrogativi che, a partire dall’età del materialismo iniziata nel 1600 circa, erano stati volta per volta spiegati razionalmente, assurgendo persino l’anima ad oggetto di studio empirico attraverso le neuroscienze, la neuropsichiatria e la psicologia. E tutto sembrava chiaro, palese, anche nella fisica, allocata in precisi schemi galileiani-newtoniani prima, poi corretti con le relatività einsteiniane. Ma a partire dallo squarcio della fisica quantistica, della necessità si concepire la realtà solo come oggetto di percezione nostra e non come realtà data per rata e definita e quindi solo misurabile, si spalanca un nuovo mondo, una liberazione, un ritorno alla spiritualità. L’Oltrismo, come corrente artistica d’avanguardia, apre una di queste porte, con la fruizione del bello e l’esaltazione della gnosi. Una corrente spirituale, una orma piccola di Dio che porta l’animo nostro a luccicare ed ad interrogarsi, L’Oltrismo è tutto questo, e come il mio etereismo utilizza la parola per aprire varchi, così l’Oltrismo utilizza le arti figurative. Ed anche la musica assume questa connotazione Oltrista, seguendo, come le mie liriche cercano di fare, vibrazioni eteree per giungere, tramite l’etereo stesso e la contemplazione della grazia e quindi la ricerca della bellezza attraverso l’amore,  ad una spiritualità nuova, all’Oltre.

dottor Giovanni Di Rubba

 

Opere di Sarossa, Antonio Marchese, Giuseppe Pollio, Gost, Ferdinando Todisco Laura Luperini, Mattew Palmo, Linda Granito. Commenti a cura di Giovanni Di Rubba.

 

Per maggiori informazioni sull’Oltrismo vista il blog del maestro Sarossa-Salvatore D’Auria   http://oltrismo.com

 

Universi Paralleli; Sarossa

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Universi Paralleli, Sarossa; 2014; Oltrismo

 

La megatela dipinta dal maestro Sarossa, ideatore ed esponente della corrente artistico-culturale “Oltrismo” porta il titolo “Universi Paralleli”.

Essa è la rappresentazione geografica del pianeta in cui viviamo ma si presenta con una peculiarità del tutto originale: i continenti, o meglio gli Stati, sono miscelati, scomposti, un po’ come se Dio avesse giocato a dadi col mondo, avesse dissolto ogni limite, ogni confine, ogni inesorabile certezza mettendola in discussione. Una visione di inizio secolo dunque, che tanta discussione porta anche in tale seconda decade, pervade, il concetto di globalizzazione. Una globalizzazione non economica ma bensì artistica, culturale, geopolitica, di usi e costumi ridotti nella loro vaghezza ai minimi termini, al caos, al brodo primordiale, e poi sapientemente esaltati, riordinati. Ma in che modo? Con gli occhi dell’artista fruitore, solo chi abbatte sé ed i suoi pregiudizi può scorgere nel dipinto una pace ancestrale, un paradiso terrestre prebabelico, privo di incomprensione, una terra uniforme con popoli non uniformati, simili ma con un sapore di differenza abissale, differenza negli usi e nei costumi, nelle credenze, nei riti, nelle abitudini quotidiane. Differenze che ci rendono vicini nella interscambiabilità, nel posizionare le Ande altrove, le piramidi in un capo inverso, la bell’Italia in bilico e sdoppiata, la Germania in perenne difficoltà, orientata male, quasi spersa.

C’è un’incredibile affinità con l’eros nella confusione spaziale, da Henry Miller ai suoi tropici, Cancro, Capricorno, in cui il surrealismo è frammentazione dell’essere, o sarebbe più corretto dire dell’Es, e trova sua forma e consistenza solo nella spinta erotica, del tutto opposta a quella violenta e statica, da Gustave Coubert e la sua “Origine du Monde”, in cui si percepisce il femmineo come generatore e ricreatore, come l’energia, la forza, capace di plasmare il reale e dargli sempre nuova forma, adattandolo al concreto ma con una visione avanguardista: quando l’artista, infatti, pone in essere un’opera nel modo  lo fa allo stesso modo con cui la donna crea la vita dà il senso a quella vita, fa sì che la stessa abbia un codice genetico tutto particolare, che le consenta di vivere da subito, magari in maniera incerta, ma fa sì che il futuro sia vissuto in maniera piena e compiuta. E’ questo il senso della frammentazione, sembrare inadeguati e confusi ora perché il vero senso lo avremo un giorno, e sarà la nostra inadeguatezza, quella che gli evoluzionisti chiamano “mutazione sfavorevole”, a divenire un giorno dominante.

Gli Universi Paralleli è una rappresentazione spaziale avanguardista che ci spiazza e ci induce a riflettere. Noi esseri umani, che ci crediamo dei, padroni del mondo, che sappiamo sempre in che posto stiamo, che usiamo apparecchiature satellitari estremamente complesse ma di uso comune, navigatori, noi che non chiediamo più informazione ai passanti affinché ci insegnino la strada ma la consultiamo nel chiuso delle nostre automobili con aria condizionata e con precisione tecnica, matematica. Noi che sappiamo il luogo in cui siamo non conosciamo il nostro posto nel mondo, nell’universo.

“Pale Blue Dot” di Carl Sagan è stata universalmente riconosciuta come l’immagine fotografica più bella del secolo scorso. Un’immagine in cui la terra, l’oasi blu, la “nostra” terra, altro non era che un minuscolo puntino a sei miliardi di chilometri di distanza. Un punto insignificante tra un universo in continua espansione di dimensioni enormi, quasi inconcepibili all’uomo. Un universo  la cui goffa crescita inghiotte inesorabilmente il nulla, l’eterno nulla, il non luogo, il topos distopico in cui nulla è, in cui non siamo, ed inghiottendolo lo pervade di materia e d’energia. E noi, che posto abbiamo? Siamo un granello infinitesimale, siamo un pulviscolo di materia in mezzo all’immenso, siamo il granello di sabbia nel chilometrico deserto amorfo. Noi esseri più intelligenti, che siamo stati condottieri, predoni, santi, inventori, artisti, magniloquenti oratori, guerrieri e guerriglieri, nemici e amici, occidente ed oriente, rivoluzionari e rivoltosi, portatori di pace e portatori di discordia, macellai di popoli e benefattori dell’umanità, che siamo stati Napoleone, Cesare, Hitler, Einstein, Socrate, Mozart, siamo l’infinitesimo del granello in cui abitiamo, la rosa più parva dell’ultimo giardino del più piccolo dominio di dio. Noi che ci siamo sempre creduti dei, domini, padroni incontrastati, saggi, siamo in realtà demoni, siamo gli unici esseri che distruggono i luoghi in cui vivono, gli unici esseri che hanno il potere di soggiogare l’ambiente, dominarlo, inquinarlo. Siamo i divini superbi maledetti. Non combattiamo né mangiamo per vivere ma per ingordigia, non spariamo ad un bufalo per nutrirci ma a cento e cento capi di bestiame per divertimento, per eccesso, senza necessità.  Forse, come diceva Sagan, siamo gli esseri più intelligenti dell’universo, ma visti dall’alto siamo dei condannati ad una prigionia, la prigionia dell’oblio, dell’indifferenza, dell’inutilità cosmica.

Questo il senso più profondo della tela, solo un caos armonico può salvarci, solo un ordine nuovo, un mondo nuovo, senza confini, dipinto come lo dipingerebbe un bambino, con la stessa innocenza e la stessa saggezza, la saggezza di chi sa che soli siamo niente, sia come popoli che come uomini e l’innocenza di chi ama l’altro perché sa che chi ci è vicino o chi ci sembra lontano non è un nemico, ma un amico cui possiamo insegnare tanto e, ponendoci nella prospettiva, difficile per l’uomo, dell’ascolto, imparare cento volte di più.

E tale atteggiamento ci aprirà a nuovi confini, a nuovi modi di intendere l’altro, quello che definiamo il diverso. Nella prospettiva trasmutata del mondo, nella sua concezione remiscelata, nell’avvicinare terre lontane, il  fruitore ha un sobbalzo di spirito. Ammirando l’immagine di Sagan ci si sente spersi e piccoli ma soprattutto vicini, concentrati, come se non esistessero differenze o se pure esistessero sarebbero così innocue, impercettibili, viste dall’alto di un satellite. Noi esseri umani in tale prospettiva ci rendiamo in un istante conto della eterna fratellanza, di quel misero pulviscolo di materia chiamata terra, che brilla ma di luce riflessa, la luce della nostra stella, il sole, la luce della nostra anima. Noi fratelli. E di sangue. Della linfa che scorre dopotutto uguale nelle nostre vene. Allo stesso modo non si può non scorgere, osservando “Universi Paralleli”, quanto alla fine siamo uniti, quanto stupidi siano i limiti ed i confini che ci poniamo, quanto assurde le guerre  che combattiamo, quanto fallace e stereotipato il concetto di lontananza. Noi siamo terrestri, figli della terra, di una terra che solo un occhio distratto, superficiale, stolto e limitato può vedere limitata da confini. L’unica, vera e reale idea che si può avere della terra è quella rappresentata da Sarossa nella tela, la terra dell’unione, della fratellanza, dell’amore, la terra dove non esiste un muro, un recinto che ci renda chiusi in noi stessi, una terra libera, aperta, una terra dove lo spirito umano può davvero rompere i vetri della finestra che lo intrappola, che lo rende spettatore del mondo, vivendo non solo per sé ma con l’altro, realizzando il vero significato dell’Oltrismo, l’andare oltre le convenzioni, i pregiudizi, le paure e finalmente abbracciare il “fratello terrestre”.

dottor Giovanni Di Rubba

 

Gravità Zero; Sarossa

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Gravità Zero, Sarossa; olio su tela; febbraio 2015; Oltrismo

 

La fuga dalla mondanità verso le tenebre gaudiose e lucenti dell’irrazionalità cosmica, che nella casualità caotica trova il suo senso primo e perfettissimo, comprensibile dall’anima per il tramite dello spirito prima che giunga all’intelletto,  è un ritrovare se stessi. Non ci si sperde ove l’occhio sensibile vigila e si rinnega ogni sprazzo di senso imposto, realismo forzato, positivismo sdottrinato ed empirico, per immergersi nell’immaginazione che plasma il passato ed attraverso il ricordo, sempre personalissimo ed attuale, invade e modifica ciò che ci sembrava accaduto ma che mai accadde se non per nostra concezione implosiva subitanea.

Tuffarsi non è fuggire, è imprimersi in sé, è comprendere sé, nel suo senso iperreale ed  oltreumano a un tempo, vero, profondo. E la profondità dà la vita, eterna acqua di sorgente da cui noi proveniamo, dà la vita al senso stesso di tempo, al nostro wormhole interiore che ci rende padroni dell’universo stretti nell’abbraccio comunitario collettivo, scevro da individualismi bigotti perché egoisti, scurati dall’ipocrisia. E tale profondità apre alla contemplazione somma della bellezza di sé, dunque della natura.

Tuffarsi dunque, gesto per eccellenza solingo, come la scalata, l’ascesa mistica, come l’atto dell’atleta, non è solitario agire, ma proprissimo acquisire consapevolezza della personale realtà statica da sempre, in apparente mutamento, ma scoperta increata a tratti dall’atto creatore stesso. Trasfigurazione dell’Es, trasmigrazione del proprio Ego, transustanziazione della propria immagine, trasvalutazione del proprio credo. E ci si incontra, ci si incontra assieme. L’umanità tutta. Il folle volo è un atto subitaneo, rappresentato nel dipinto nel momento attivo, ma pochi attimi prima dell’immersione. Ma esso è il seguito del lento lavorio interiore che può farci amare gli altri solo odiando in loro la parte terribile che scorgiamo che è la nostra, ciò che ripudiamo nell’altro è ciò che ci spaventa di noi. E solo stando da soli, purificati, felini catartizzati, ove la scaltrezza diviene giudizio e la furbizia astuzia, la brama di potere intelletto, solo allora, dicevo, possiamo e siamo pronti ad accogliere gli altri, ad amare il diverso in quanto, per definizione, nostra parte, nostro strettissimo punto di riconoscimento.

Non sappiamo il gradivo rappresentato nell’opera cosa lascia alle spalle, l’unico punto di appartenenza con il passato sono le sue forme ed il suo corpo. Ma chiarissimo scorgiamo cosa ha d’avanti. In basso il catartico purgatorio, il Lete che fa cadere le sue paure, divenuto, attraverso la coscienza, limpidissimo, mare calmo ma non tiepido, chiarissimo e lucente. In lontananza i monti, i suoi ostacoli, dipinti egregiamente, sono lontani e volando sembrano miserrimi, sembrano ciò che sono al tuffatore consapevole. E la prospettiva designa egregiamente che il varco, il passaggio, il buco nero che porta allo splendore lucente e vivido, non si cura delle vette, rappresentato prospetticamente non solo al di sopra di esse in altezza e quindi in magnificenza ed ordine gerarchico, ma soprattutto prima, antecedenti postume in lunghezza. Il tuffatore consapevole non dovrà né avrà bisogno di varcarli o fronteggiarli perché, nella sua consapevolezza acquisita, che gli concede il volo, la sua condizione conquistata, quella di essere a gravità zero, nulla è più limite, ed il limite stesso si è tramutato in sembiante di se stesso, impotente e vana ogni sua pretesa sull’uomo nuovo che spicca il volo libero.

dottor Giovanni  Di Rubba

 

Carpe Diem; Sarossa

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Sarossa; Carpe Diem; 2014; Oltrismo

 

Il maestro Sarossa, esponente e fondatore dell’”Oltrismo“, corrente artistico – culturale che si propone di andare oltre l’apparenza del pensiero umano, al di là dei suoi percorsi logici, ritenuti scientisticamente e moralmente universali e per ciò stesso destinati ad essere posti in discussione continuamente, data la fallacità di un ordine umano e naturale comprensibile con il solo utilizzo della ragione, tralasciando l’impatto emotivo e in particolar modo l’irrazionalità. Irrazionalità che è ciò che distingue l’uomo dagli altri animali, intesi come animati, vivi, perché possessori d’anima. L’animo umano è tale perché capace di ragionare, tramite il sentire, in maniera imprevedibile e quindi irrazionale ed è questo che, con ogni probabilità, lo ha reso il vivente più evoluto, essente pluridimensionale più che logico, spirituale più che materiale, in quanto capace di essere alieno, altro, dagli istinti, dagli  impulsi primordiali, cioè violenza ed eros, e porre in essere atteggiamenti che, nel paradosso della loro irrazionalità, sono capaci di piegare e modificare il destino, inteso etimologicamente come ciò che è immutabile, la legge che regola tutti ed è universale, tutti tranne l’uomo che può scegliere, col libero arbitrio, di tradire il destino, dal latino tradere, cioè condurre fuori, travasare, farlo proprio perché ha la possibilità, come si fa con una pianta, di trovarne la collocazione migliore e a sé più confacente.

Ed è questo concetto di al di là dell’essere categorico il centro dell’opera di Sarossa immortalata sulla valigia prodotta Carpisa. Il viaggio, lo spostarsi, il non essere sedentari ma nomadi, rende possibile ingannare la staticità del destino e vivere a pieno il tempo, facendolo proprio. L’immagine è luminosa, sovrasta la solarità della luce, del sole, il generatore dell’energia di cui si nutrono i viventi e l’uomo. La luce solare che ristora, rigenera, dà forza, così come dopo una vacanza ci sentiamo uomini nuovi, rinvigoriti in animo, spirito e corpo. Più forti, più illuminati, più intelligenti, più vitali. Luce che promana dal sole, dalla realtà che noi scopriamo visitando luoghi, spostandoci dalla nostra dimora, e che da piccole gocce diventa un oceano, un oceano che appena appena riesce a contenere la coppa, coppa plasmata dalla stessa luce e resa corpo definito, sua sostanza ed ad un tempo suo contenitore. Un contenitore finito, che seleziona l’immensità delle nuove esperienze, ma che ci lascia intuire traboccante tutto l’infinito di esse che noi non comprendiamo, al momento, e che saranno lo sprono per spingerci ad altri viaggi, a plasmare altre coppe, a renderci immortali, eternamente giovani, come bambini che si stupiscono dinanzi alle meraviglie del mondo. I viaggiatori sono esploratori di sempre nuove e più entusiasmanti realtà, conoscitori profondi del loro essere, della loro luce, proprio perché sanno scorgerla in ogni nuovo che imparano dal mondo.

In basso, in rosso, quasi come fosse un marchio indelebile, c’è impresso il “carpe diem” Oraziano, il quam minimum credula postero, il credi nel domani il meno possibile, lo spirito che ha ogni viaggiatore, il desiderio di vivere quell’attimo o  quegli attimi come se fossero gli unici essenziali, gli unici importanti, unici perché ci inducono ad una evoluzione, noi siamo diversi, mutati, siamo noi ma non siamo ciò che eravamo. siamo oltreuomini, ogni giorno. Siamo fluenti, fluenti come il tempo, mai statico ma parallelamente inganniamo quel tempo e sfuggiamo alla caducità del mutare del nostro corpo sotto l’imperio delle ore, dei giorni, degli anni. Giovani viaggiatori inganniamo il tempo perché viaggiamo, rompiamo la barriera spaziale e indissolubile con essa il tempo immaginario che la accompagna. Siamo d’improvviso un eterno e al tempo stesso un presente, siamo l’assoluto perché viaggiando coincidono in noi questi due opposti. Siamo come il fiume eracliteo, mai gli stessi e mai mortali.

In alto campeggia un quadro blu e delle montagne vaghe, simboleggianti il nostro limite, il nostro limite però fugace, dissolto dalla luce, che non scompare ma nemmeno ostacola il flusso luminoso. E’ quel limite la nostra identità, che come montagne, se fisse, se vissute come giogo, come confine irraggiungibile ed invalicabile, ci inchiodano a noi stessi, non ci fanno crescere, ci rendono egoisti, chiusi, gretti. Ma se mossi dal pensiero lucente, dal dinamismo del nostro vagare irrequieti per il mondo, sono il filtro che non ci abbaglia, l’essenza che comprende intuendo l’infinito.

Non bisogna distruggere le montagne, non dobbiamo rinnegare i nostri limiti, ma renderli malleabili, come utensili, far sì che fluttuino come eterne memorie. D’altronde la luce generata dal sole pur sempre proviene dal piano spaziale della volta celeste, blu, limite ultimo dell’infinito e al tempo stesso suo superbo fattore.

Da notare anche un particolare stilistico di non poco momento che ci aiuta senz’altro nella comprensione del simbolismo dell’opera. Il dipinto è realizzato in sezione aurea, delineata proprio dal solco umano, dal punto in cui noi non possiamo andare oltre, dal nostro limite: le montagne. Esse fanno da spartiacque tra la parte superiore (minore) che rappresenta le sfere celesti iperuranee, l’empireo ideale. Questo si presenta statico, ma solo perché immutevole ed incomprensibile all’uomo. Tuttavia il limite, le montagne appunto, come abbiamo accennato sono vaghe, fluttuanti. Se fossero al loro posto valicherebbero un confine inaccessibile tra la parte bassa, il nostro mondo, e la parte alta, il mondo eterno. In tal modo l’uomo sarebbe vittima di sé stesso e non capirebbe il divino. Tuttavia la vaghezza consente la mobilità del confine e la luce riesce a filtrare e noi, seppure non comprendiamo, tramite la percezione e l’emozione, tramite gli stati emotivi estremi, ci possiamo nutrire della luce divina, possiamo berne alla fonte traboccante, possiamo intuirne l’infinito e, in tale intuizione, cercare nuove strade, intraprendere nuovi viaggi per conoscere, alla fine, più in profondità l’eterno che è in noi specchio della realtà altra.

In cima, quasi come fosse l’involucro dei chiodi del dipinto, ciò che tutto sostiene, fa bella mostra di sé un “V”, la V di viaggio senz’altro, ma anche la V di Vero (vero inteso come oltre, al di là del reale apparente) e di Vittoria, la vittoria dell’uomo sul destino, la capacità dell’uomo di ingannarlo intraprendendo un viaggio, varcando gli approdi sicuri, naufragando tra flutti di luce ed estasiandosi della ricchezza interiore conquistata.

dottor Giovanni Di Rubba

 

L’Isola dei Giganti; Sarossa

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L’Isola dei Giganti; Sarossa; olio e acrilico su legno multistrato; giugno 2015; Oltrismo

 

Lo sguardo ritto verso il “Isola dei Giganti”, ultimo lavoro del maestro Sarossa, cade spietato sui due teschi, l’uno ritto a metà sulla destra, l’altro di sbieco. Immagine inquietante, tanto più che gli stessi sono tinti di immagini di bimbi e di barchette. Un brivido sordo, un’immagine hitchcockiana, una vaga rimembranza  dell’”IT” di Stephen King, ove l’orma del male inghiottiva anime innocenti. E c’è la barca, ci sono le barchette, ci si perde, sembra perdersi, si ha paura, orrore. Noi stessi ci sentiamo e siamo, esseri umani porelli, quei bambini inghiottiti da un vortice di paura.

Ma lo sguardo ritto è ciò che vediamo, non ciò che è. La paura, la nostra, è ciò che sentiamo, non ciò che è. Tremoleggia l’alma alla vista del reale. E che fare?

Noi fruitori del dipinto siamo emblema di noi stessi spersi tra i sentieri della vita. Noi non siamo coloro che decidono le cose, ma siamo coloro i quali scelgono. E quale scelta dunque? quale sarà il nostro atteggiamento nei confronti del dipinto? quale dunque quello nei confronti della vita?

Scegliamo, noi possiamo scegliere, l’Altissimo ci ha donato l’arbitrio. La nostra vita è il dipinto.

Che fare?

Inorridirsi spauriti, inghiottiti dai teschi delle nostre fobie, perduti come i bambini sigillati con i loro giochi nell’immago della morte?

No, non possiamo, non dobbiamo fermarci lì. La vita non è lo sguardo ritto e semplice, la vita non è l’ammirare una sconfitta, la vita non è perdersi nelle proprie paure e non agire.

La vita è guardare oltre, come insegna l’oltrismo, oltre il velo della superficiale vacuità per raggiungere noi stessi nella autentica nostra entità apparente e dunque vera al di là e nonostante il reale, che con tale apparenza, noi profughi del divenire, possiamo plasmare, modellare il creato con la scelta, la verità può modificare la realtà.

E allora fruitori dell’opra, guardate all’opra e non ritti, guardatela, guardatela in tondo e capite. Vivere è ricercare per essere in contatto con Dio, ogni momento. E la ricerca non è la banalità casuale esistenziale in cui ci sentiamo immersi, ove tutto è eguale, ove domina il fato e noi inerti inorridiamo, aggredendo o fuggendo.

Ciò che è sotto il nostro naso non può esser visto dallo sguardo ritto.

Guardiamo l’opera intera e capiamo, se vogliamo. Oppure fermatevi qui, con sguardo ritto, vinti dalle vostre paure.

L’opera è altro, il significato diverso, la scelta delle scelte oltrista.

I teschi sono il centro del dipinto, ciò che risalta, ma ciò che risalta non è mai ciò che è prezioso.

Iniziamo da ciò che meno si nota, ciò che, dicevo, è sotto al nostro naso.

Gli strumenti del mestiere, quasi non si notano ma sono lì, sotto gli occhi. E noi siamo padroni degli utensili dotati di talenti, e coi nostri talenti possiamo modificare il reale a servizio del bene e del vero, fruttando e accrescendo il nostro essere, nobilitandoci e scoprendoci. Cambiamo il mondo con ciò che ci è donato, con ciò che è dentro di noi che plasma ciò che è fuori di noi.

Non si nota poi cosa? In alto a destra una nuvola scomposta è un ritratto di Sarossa, l’artista che ha plasmato il dipinto. E’ il suo unico autoritratto inserito in un’opera (altro rimando all’inquietudine hitchcockiana?!?). E come l’artista crea un’opra lasciandone un marchio impercettibile, così nella nostra vita l’essenza divina lascia un marchio che non notiamo, ma che è lì, una firma tacita che ci ricorda che non siamo soli. Ed è un’immago nascosta più forte ancora del “SAROSSA” scritto colorato e a grandi lettere, perché è una essenza della vita in cui il creatore dell’universo ci dice non solo che esiste ed è il padrone ma che si è incarnato ed ha assunto la nostra stessa sostanza corporale restando divino e rimanendo con noi sempre, non come entità invisibile ed astratta ma come immagine nascosta in noi, nella nostra vita.

E il mare, il mare non è un abisso, ma un lido quieto, ove noi, rappresentati dai fanciulli e spersi dinanzi alla vita come essi, non naufraghiamo, ma se sappiamo guardare la vita nella sua pienezza attraversiamo la Scilla e Cariddi delle nostre paure senza alcun timore. Le avversità non saranno insormontabili, perché la vita ci offre talenti, strumenti, basse maree, segni divini presenti e nascosti che non possono far trionfare il male. Noi siamo spaventati dal male e spesso lo facciamo vincere. Ma il male ha orrore di noi, perché abbiamo di lui più strumenti e ne siamo più forti. Il male è uno spaventapasseri che il nostro dolce canto può e sa distruggere.

dottor Giovanni Di Rubba

 

La Torre dell’Equilibrista; Sarossa

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La Torre dell’Equilibrista; Sarossa; olio su pannello multistrato; 2015; Oltrismo

 

La Torre della Pelosa a Stintino, in territorio sardo, è stato uno dei massimi forti per tutta l’epoca medioevale e moderna. Sita strategicamente nello stretto dell’Asinara, si erge a guardia del territorio. Nella rappresentazione del Maestro Sarossa, essa si innalza non possente ma sicura, stabile, porto ove ristorare l’anima in piena quiete. Punto d’approdo in cui ci si può rifugiare. Essa è sferzata spesso da venti e mari turbinosi, emblema dell’inquietudine e del travaglio umano, sede della coscienza e dei suoi abissi, della prodigiosa ma instabile follia dell’essere umano che, attraverso la sofferenza psichica e il  risvolto sensibile di sé, scopre un altrove dell’io. I flutti avversi, principio della creazione artistica, scuotono l’interiorità dell’essere umano, accendono e vivificano i propri conflitti interiori. Naufraghi spesso ci sentiamo spersi in questa catasta di sensazioni e di sapere, lo spirito che ricerca la somma bellezza sente su di sé tutto il peso del viaggio dell’anima, inquieto vigila. Ed è in questa dimensione che improvvisa svetta una torre, posta nella dimensione spaziale perfetta, solco timido ma inamovibile del dipinto. Monti tenui sono posti ai suoi piedi, i limiti imposti dalla collettività o dal se stesso interiore sono facili da oltrepassare, quasi minori. Ai lati della torre e sopra d’essa un caotico agglomerato di nubi. L’etereo e l’impercettibile tormentano più ancora del reale, più dei monti pragmatici. Il caos primordiale e primigenio, interiore, annebbia la vista, ci impedisce di capire cosa ci accade intorno. Ma alla destra del forte c’è un equilibrista, in bilico tra le nubi stesse, che le domina, attraversa il periglio confuso, sicuro perché dipinto con un bianco più chiaro e deciso delle altre, una nube fa da sentiero stabile. Non è un filo sottile, ma un percorso che pone ordine al confuso arzigogolo nubiloso. L’equilibrista plasma una via, non fugge dal caos del proprio io e della natura, ma lo comprende, lo addomestica, lo fa proprio. E, tranquillo tra i pericoli, certo che il caos non potrà arrecargli nocumento perché lui ne ha intuito la natura, tramite la conoscenza, si dirige verso la sommità della torre. Tal sentiero fermo, tale nube più bianca, è una scia nata tra i flutti della tormenta, è la vita per come la intendiamo, è la vita la nostra, personalissima, un’onda che lambisce le altre, che l’equilibrista, essere senziente e vivo, plasma, modifica, ma che già è allo stesso tempo tracciata. Tuttavia ciò non implica un destino fisso ed immutabile, seppur tracciata e personalissima è e resta flutto, resta movimento, resta in sé dinamico. Nasce dal mare e con un percorso in bilico giunge alla vetta della torre sicura. Ma non è un semplice e timido approdo, l’onda emblema della vita tutto vuole e tutto ottiene, tutto invade, spruzza inarrestabile e sormonta la torre stessa, la invade come il maroso abbraccia sicuro lo scoglio. La nube bianchissima, candida, la nostra vita è generata dal mare, dal caos ed al mare tornerà ma, come la goccia inonda il cielo e genera tempesta, così la vita di ciascuno di noi, perché nostra, è una goccia che lascia sgomento il mare. Il mare non resta indifferente a quella goccia, il mare resta per sempre segnato da questa vita, che a noi può sembrare una delle tante ma che ha un’identità travolgente ed unica. Ogni goccia custodisce un messaggio sensazionale, di immane portata, che non può e non deve essere taciuto. Questa vita, quest’onda particolarissima, questa nube tra le nubi più bianca si impone proprio nel suo essere bianca tra l’oscurità e il colore, all’apparenza neutro, esalta sé e la natura che lo circonda e con essa l’intero universo. L’equilibrio, dunque, non è altro che una perenne vibrazione tra follia e razionalità, non è escludere o distruggere tale vibrazione, ma capirla o intravederla e dominarla facendola propria. L’opera non rinnega l’oscillazione a favore di una certezza ma fa capire che l’unica certezza è l’oscillazione stessa e il modo unico per vivere autenticamente è farla propria. Sormonta la torre un occhio gigante, che tutto vede e tutto sa, emblema di un soprannaturale, di un essere onnisciente. L’equilibrista non pensa di raggiungerlo, ma la sua meta è la sommità della torre. Comprende i propri limiti e l’occhio onniveggente, potente tra i potenti, dall’alto, sembra quasi ammirare quest’uomo, che non aspira all’impossibile al potere, a sconfiggere il caos a favore dell’ordine, atteggiamento che non sarebbe di chi vuole capire sé stesso e la realtà ma di chi vuole imporre il proprio sé e le proprie categorie personali alla realtà. L’equilibrista ha capito che vivere significa essere in bilico sul caos, accettarlo. La vita è una continua vibrazione, una dialettica tra gli opposti e dal dipinto emerge questa verità, certa nella propria imperfezione. Non è con la mente che si comprende l’universo ma con la percezione della sua anima, in perenne movimento, in continua ondulazione. Lo spirito aleggia sulle acque, e la vita, la natura, l’uomo e finanche il cielo altro non sono che superfici fluide, su cui non si può incedere, camminare, ma volteggiare tenui.

dottor Giovanni Di Rubba

 

Maria Stella Maris; Sarossa

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Maria Stella Maris; Sarossa; olio su pannello legno multistrato; aprile 2015, Oltrismo

 

La luce dolcissima della luna è eterna, non risplende se non il candore lucido del sole, sua fattura e suo fattore. Pallida sembra chiusa in sé, timida, ma genera tenera e sincera, plasma materna e tutto ciò che è in essa è soffice protezione per noi, figli spersi, mortali spauriti di noi stessi. Lei è lì e non abbandona. Una connessione sottile, la manifestazione espressa del nostro paraclito, la nostra agguerrita difensrice dinanzi alla possenza del divino in sé, impronunciabile ed inconcepibile, amore che unisce dharma e samsara, respiro dell’aurora. Stella del mattino, la Madonna si erge in tutta la sua fulgida potenza, luna perché lontana, ma non tanto, nella cerchia degli angeli, di coloro che puri non mantennero promesse non per loro svogliatezza, disinvoltura o pochezza di spirito. No. Perché impossibilitati da fattori esterni. E questa è la sua linea, questa la sua difesa dinnanzi all’Altissimo. Noi povere creature, simili e somiglianti al creatore per essenza creativa, per libera scelta, siamo difesi, e non è una difesa labile. Siamo difesi, non perché le nostre ragioni siano giustificabili in sé, ma perché in lei trovano giustificazione. Gli ultimi, i reietti, gli scarti del mondo no, non restano indifferenti a quel grido di madre, quella madre che mai ci abbandona. Noi, al di sotto dei monti, nella parte più piccola della sezione aurea del dipinto, siamo adusi a facili giudizi, facili contestazioni, ci ergiamo a tremendi giudici scorgendo nel vizio altrui giustificazione al nostro, oppure, farisei ingialliti, preghiamo il Signore non per chiedere, ma per dire, grazie, grazie che non siamo come i pubblicani. Noi, con che ardire, con che autorità, con che stoltezza ci diciamo fattori di giustizia divina, sporcandola, rendendola terrena, confondendo il perdono e l’equilibrio, la temperanza ed il discernimento con la vendetta. Noi giudicanti siamo i reietti. E peggiori sono i cattivi giudici, gli ipocriti, coloro i quali hanno compassione, ma non patiscono insieme, coloro che hanno la pietas più che il comune sentire la sofferenza ed il dolore. Coloro che trattano gli altri come idioti perché diversi, e si compiacciono della loro squallida virtù chiamandola persino bontà. Coloro che vedono il diverso ma tacciono, lo riconoscono diverso e dicono, curiamoci di lui, peccatore, oppure peggio, curiamoci di lui idiota, e meno male che non siamo pubblicani. No. Noi siamo normali, e ci sentiamo bene se aiutiamo gli altri, perché il nostro muro ci rende migliori, perché non abbiamo il coraggio di ammettere a noi stessi, che loro, i reietti, coloro che godono del disprezzo e dello scherno hanno una visione, un sentire, una weltanschauung molto più profonda della nostra, e non ci vedono come i cagnolini guardano al padrone, ma come il saggio disprezza lo stolto loro, unici eroi, veri stupidi, perché si stupiscono ancora, guardano al saggio come ridendo, da dietro una colonna, dei tanti arzigogoli reali, loro che, eterei, sono in una dimensione che noi non riusciamo a capire, molto più vicina al divino, per questo emarginati. E non a caso la parte minore della sessione aurea, quella più compatta, è quella meno travagliata, perché è la nostra visione della madre celeste, sprazzi di luce, sprazzi d’azzurro, ma senza essenza, come tra gironi, striscianti con gli occhi tuttavia al cielo, vediamo lei come una stella, quella che guida i marinai, quella che ci ricorda quale sia la via da seguire non imponendocela, la scelta è nostra, ma solo indicandola. Ed è una stella del tutto speciale, perché lucente è anche sede della Sapienza, e a noi la dona col suo zampillio, noi che senza l’umiltà e l’intercessione mariana non potremo mai raggiungere alcuna conoscenza. Ma un emblema non basta, non può bastare, la madre delle madri e la donna delle donne, la stella, la più luminosa, anzi la “luminosa” come gli arabi definiscono la figlia di Maometto, che tanto patì e tanto in silenzio, come le tante donne vittima di una violenza becera e dell’impossibilità di esprimersi, come negare alla fonte di sapienza, all’immago divina, alla sua fulgida apparenza di zampillare? E qui è la verità, oltre i nostri muri mentali, valicando i monti, limite dei nostri nocchi,  ben più frastagliata, non complessa, ma addolorata. La Madonna è immaginata dall’artista con il velo orientale. E nella dimensione più elevate si percepisce non la serafica gioia, il lezioso gaudio dei cori angelici. Si percepisce il dolore. Perché la madre di Dio, luna sublime, è prima ancora e anzi ancor di più, essendo madre del Cristo, dell’incarnazione presente in noi del divino, madre degli uomini, degli esseri umani. E che sofferenza, che patimenti, che angosce deve subire colei che ci difende. Prevaricata, stuprata nell’aspetto, si nasconde per vergogna ma ci difende a testa alta. Tante volte ferma le mani possenti del suo figlio, divinità assoluta e tanto lo convince a perdonarci, a non essere il vendicativo veterotestamentario, ricordandogli di quando anch’egli era uomo, di cosa sia il tradimento, di cosa sia l’essere guardati con altera superiorità da carnefici, di cosa sia essere dimenticati e rinnegati dagli amici prima ancora che dai nemici, Lei è terra e luna, lei è donna, e già in quanto donna è superiore all’uomo, per grazia e per capacità di discernimento, per letizia, per gioia, lei deve soffrire la violenza orrida sulle donne e sugli uomini, lei deve soffrire la violenza fisica alle donne, quella morale, e quella virtuale, basata sull’immago e non sull’apparenza, sulla reificazione della donna, ed anche dell’uomo sempre più spesso, dall’essersi sentir dire è bella, attraente, ma sempre più raramente, è carina. Non basta amare una donna, bisogna volergli bene, perché solo volendola bene la si può adorare, si può adorare il respiro di Dio in terra.

dottor Giovanni Di Rubba

No Rock’N’Roll; Sarossa

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No Rock’N’Roll; Sarossa; mista su multistrato; 2016; Oltrismo

 

L’opera del Maestro Sarossa “No Rock ‘N’ Roll” è una esplosione festante di colori, si respira una atmosfera evidente di gioia nel tripudio luminoso, nei palloncini che sorgono lieti da un mare tranquillo, tendendo verso un rasserenante cielo quieto, accompagnato da soffici sprazzi di nubi serene. A sinistra, in primo piano, uno spaventapasseri ridente con la testa di zucca reclinata a destra e sullo sfondo, preceduto da piccoli rilievi montani d’azzurro, uno sprazzo ocra continuo che divide le acque dalla volta celeste.

Tuttavia non può sfuggire, in tale giubilo sereno, l’incongruenza di fondo, l’elemento strano che si erge tra i rassicuranti abissi, lo spaventapasseri, posto lì ove non dovrebbe, nel mare. Posto a guisa di personaggio scomodo, finito, ingombrante, inutile. Quale mai può essere il suo scopo, la funzione, l’utilità in un mondo che, seppure festoso, gli è estraneo? Il suo volto non è angoscioso, inquieto, sorride e non è un sorriso inebetito, ma ricolmo di saggezza, ove per poco la saggezza è un tutt’uno con l’umiltà e la serenità di spirito. L’uomo-spaventapasseri è un uomo finito, che non è finito, che sorge come candida rosa, che illumina tutto ciò che vi è altrove, l’essere estraneo che non si adatta ad un posto straniero ma quasi lo domina con sicurezza ed il luogo gli porge gli omaggi, lo festeggia, la musica finita, il non rock ‘n’ roll non è invero una musica finita, ma attorniata da candidissimi cuori, e la fine è svilita dall’interrogativo, rivolto al fruitore più che al soggetto del dipinto. I giochi sono davvero finiti?

Come eroi da lungo periglio restiamo ciò che siamo, e scopriamo ciò che possedevamo e prima ci era solo celato, nascosto nel profondo del nostro essere. Finisce una storia e tutto è come l’inizio, nella valenza cosmica di staticità, nel siamo ciò che eravamo, nella realtà che seppur fluida mai muta, eterna, come verità, eterna, ma scoperta per gradi. Per gradi trovare il tesoro che è in noi e nel cercare entrare in contatto con la divinità. Cercare continuamente sino a giungere alla serenità ancestrale dello spaventapasseri, la serenità di chi è finalmente consapevole di sé,  in interiore homine habitat veritas, e la consapevolezza di sé ci pone in dominio assoluto, ma un dominio armonico, con la Natura, che ci risponde, ci sussurra, e l’ostilità, l’inutilità, l’esser fuori luogo, non esiste se non agli occhi dell’osservatore esterno. Lo spaventapasseri ha finalmente acquisito ciò che sempre ha avuto, ed il disagio è scomparso perché era in sé e non nel mondo attorno, era lo scudo che impediva alla intelligenza, all’amore ed al coraggio, sempre in lui presenti, di uscir fuori. Lo spaventapasseri è finalmente consapevole di sé, ha acquisito la sua stessa consapevolezza. E la musica, allora, è davvero finita?

Tale opera non può non rimandarci al “Meraviglioso Mondo di Oz” di  Lyman Frank Baum, letto in una ottica esoterica, di viaggio mistico, di risveglio interiore. Ed a parte lo spaventapasseri, che scopre di possedere la saggezza che cercava, tanti sono i riferimenti cromatici al romanzo di Baum. L’orizzonte ocra che divide il cielo dal mare ricorda il sentiero dei mattoni gialli, la via dorata, il viaggio che i personaggi di Oz devono fare per giungere al Mago sovrano della Città di Smeraldo, il limpido dorato percorso di ascesi interiore, sentiero lucente che si può percorrere solo valicando i monti tinti di blu, che sono i nostri limiti, e che nel dipinto, in lontananza, sono minuscoli rispetto all’immane grandezza gialleggiante. E tale sentiero sfumato e vividissimo sostituisce nell’opera uno dei simboli chiave dell’Oltrismo, la Sfera, allegoria del divino e della perfezione, che qui è vista in tutta la sua estensione, come un sole che esplodesse in manifestazione di giubilo e di grandezza per illuminare pienamente l’essere fuori luogo e fargli festa, assieme al resto della natura circostante. Il mare, poi, che qui riveste un duplice significato, è placido, calmo, come il deserto, luogo di meditazione, riflessione, riscoperta, ricerca, ove realmente e pienamente possiamo trovare noi stessi, nel silenzio placido delle onde piatte. Ma è anche simbolo del potere degli abissi, dello sterminato potere della Natura che qui non è assoluto e terribile come quando si è in burrasca, ma un potere armonico, di consonanza con sé e con il creato tutto, è come il filo d’argento che lega la nostra anima al corpo, rimando alle scarpette indossate da Dorothy, è la nostra pienezza, il nostro equilibrio e potere che, reso consapevole, ci dona l’infinito. E c’è anche un rimando al cuore che mancava al Boscaiolo di Latta, frastornante come il rock, forte, possente, che tutto scuote col suono rituale e atavico, ritmico, sferzante, della “musica forte”. Ed al Boscaiolo mancava proprio il cuore, il cuore che è donato, meglio, che scopre di avere, ai limiti del suo viaggio interiore, così come emerge ai bordi della scritta che campeggia sul dipinto “No Rock ‘N’ Roll?”, sei sicuro che il frastuono assordante non sia ancora dolce, lieve, cordico, che la musica tutto sommato anche se posta agli estremi, anche se è un metallico grido interiore, non celi in sé una soavità magica. Soavità che non è solo nel cantar lieto ma anche nell’urlo ribelle, nel rimbombo mai sordo, un grido che racchiude in sé la forza barbarica e la rende candida perché pura, finalizzata ad un idea o ad un ideale, ad un principio sovrumano e umanissimo, la rabbia amorosa, che preclude la violenza facendosi musica e divenendo musica non può che essere opera del divino. Ogni suono mai è maledetto, ogni canto giunge all’orecchio della divinità, dell’armonia, anche il più dissonante, perché la musica è una unica e plurima voce, sentimentale, armoniosa, disarmonica, arrabbiata, ritmica, martellante ma pur sempre  creazione sublime dell’uomo. Anche l’armonia è lamento, anche il martellamento ritmico atavico è adorazione, anche l’urlo frastornante è invocazione. La musica è divina ed al divino destinata perché plasmata dalla parte più nobile dell’uomo, dalla sua scintilla che lo avvicina a Dio, e dunque “No Rock ‘N’Roll?”, è ancora possibile fare poesia. L’interrogativo non può che avere una risposta affermativa, la musica è l’uomo sublimato, ed ogni suono è espressione dell’umanità e punto di contatto indelebile con l’assoluto. I giochi sono davvero finiti?

Ed il Rock e le sue derivazioni sono urlo, dunque, come il frastuono del Boscaiolo di Latta che crede non ci sia sentimento nell’assordare ma anche come il ruggito del Leone, che crede di non aver coraggio, ma ruggendo mostra di averlo, mostra di elevare un volere forte ed altisonante, un grido all’assoluto, e per ciò stesso è come il poeta che plasma e lancia una saetta al cielo, ha coraggio, e la sua azione è amore perché il coraggio è possedere un altissimo sentimento, avere cuore, dal latino cor habeo.

Quando lo spaventapasseri e gli altri giungono nella Città di Smeraldo, colore della tavola del Trismegisto, come l’alchemico viriditas, giungono al cospetto del Mago, che rappresenta il nostro archetipo, nel caso di specie allo spaventapasseri appare come una splendida dama, maestosa, come la sapienza, una Pallade tutta magnifica, il Mago plasma e dà ciò che lo spaventapasseri, come gli altri, avevano, rompe il velo di Maya, ma indirettamente, il viaggio infatti proseguirà con nuove avventure. Il Mago dà lo sprono, il coltello per tagliare il velo, il sasso per rompere le finestre, ma alla fine la consapevolezza la si può acquisire solo individualmente, divenendo da individui persone. E lo spaventapasseri sarà come il re Salomone, tanto saggio, da divenire lui l’erede del Mago, lui il sovrano del Regno di Smeraldo. Così quando il nostro archetipo, la nostra guida, l’amore che è saggezza, che è la guida e che è il sentiero, volerà via, su di una mongolfiera, noi non saremo soli con la nostra sapienza, perché resteranno frammenti del nostro cammino e delle nostre paure che vibreranno in aria, come la mongolfiera del Mago, donate dal mare, donate dalla nostra anima.

E lo spaventapasseri non è più fuori luogo, è nel luogo in cui è sempre stato, ma consapevole, è nella staticità fluida, il suo cammino interiore è terminato. Il cammino è terminato e perciò sta per cominciare, e l’interrogativo “No Rock ‘N’ Roll?” sarà non una domanda ma una esortazione, sarà come dire diamo inizio alle danze.

dottor Giovanni Di Rubba

 

L’Infanzia e la Coscienza; Sarossa

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L’Infanzia e la Coscienza; Sarossa

 

La macchia come d’inchiostro ai margini del deserto riflessivo, sul pendio di sabbia scossa dal vento, maroso dialettico tenue. Ai bordi, in basso a destra, sullo strapiombo dell’esistenza erto sicuro c’è un padre col braccio sinistro teso verso l’alto, a fianco un bambino, il figlio, appoggiato e quasi aggrappato alla sua destra, un’immagine che separata – si intravedono le gambe dei due- dal basso man mano che sale si unifica, divenendo unica forma. Braccia tesa ad indicare al pargolo la sfera perfetta, il trivio ed il quadrivio in sintesi, sostanza e manifestazione, l’unica verità silente dell’intera vita di un uomo, dalla nascita alla rinascita, la figura femminile che protegge sicura e a cui ogni uomo ambisce nella ricerca, la luna che dà sapienza perché di sapienza è colma.  La luna, sfera leziosa e pallida, influenza la nostra anima, il nostro carattere, il corso della nostra esistenza ed è posta lì dov’è discreta ed umile. Non si pone al centro dell’universo né al centro del dipinto perché è il cardine, il sostegno, la chiave di volta, il vero centro come del dipinto così dell’universo. Si pone lì, punto femmineo sapienziale genealogico del tutto, si pone lì plasmando il resto, si pone lì ed è discreto l’inizio di tutto. Si pone lì, in sezione aurea, e dà forma. Tracciando in perpendicolo due parallele che passano per detto centro il dipinto è scisso in sezione perfetta, a sinistra come a destra, sotto come sopra, ed a sinistra, doppio della destra è l’esistenza umana vissuta sin d’ora, a sinistra la metà di essa che è da vivere. Così, in basso vi è la nostra vita terrena, di passioni, sfumature, delusioni e gioie, in alto, sua metà ancora, c’è la nostra vita celeste. E non parliamo di tempo, ma di sapienza, di preziosità, di ciò che ci resta da vedere e da scoprire nella vita, che la verità e dunque la felicità della vita stessa è nella metà di essa, nascosta dietro le piccole cose, che la vera gioia è celata in un punto che è la metà perfetta di un istante pieno. Ed è un sorriso, come quello di una donna, che dà la vita e che è vita. Un sorriso che ha la sua pienezza nel suo discreto nascondimento, nel suo umile essere tutto ciò per cui si vive. Tutto ciò che illumina. Perché dal dipinto del Maestro Sarossa si svela ciò che è agli occhi spesso muto, che la luce vera che illumina dona la luce e dona la vita ma non la riserba per sé. Come insegna l’Oltrismo ciò che è non è ciò che sembra ma ciò che appare, la luna dona la sua luce, è il sacrificio massimo e la massima sapienza, è il volto femmineo dell’universo, la luna resta pallida e dà luce all’intero universo, alla terra, al dipinto. Selene ed Artemide non si crogiolano di sé come Elio ed Apollo, non sono gloria di sé, della propria luce, non sono portatrici di luce ma donatrici della luce e restano umilmente in disparte, umilmente pallide, ma luminosissime nel loro femmineo sorriso. E si intuisce la verità. Grammatica è il sostegno, è l’eccezione che insidia la norma e non la conferma, ma lentamente la erode e la purifica ribelle; retorica è l’estetica, la bellezza manifesta della donna che è la terra ed è per i figli della terra dolce consiglio e dolce ristoro, vera sapienza perché non celebrale ma cordica, respiro e refrigerio della mente guidata dai palpiti del cuore; dialettica è l’incontro perfettissimo degli opposti imperfetti, che si sintetizzano un unico spirito grandioso che è l’amore e che genera la grazia dell’insieme. E l’aritmetica, che è il codice dell’universo e che risplende dei suoi paradossi, la lingua consonantica, impronunciabile che sa che tra un intervallo ed un altro c’è l’infinito che non è dipingibile né descrivibile né decifrabile; e la geometria la forma, che non è pura astrazione ma pragmaticità assoluta, che ci mostra che nella natura il triangolo ed il rombo non sono linee diritte e perfette, ma sfasate, sfumate e perciò degne di essere ammirate e vissute; e l’astronomia che non è calcolo degli astri ma ascolto del sussurro delle stelle, in silenzio; e la musica, l’arte somma, l’ultimo gradino, il principio e la fine, il verbo, il suono, l’acca muta palesata, la vocale che dà dignità alle cose. Questo indica il padre al figlio, questo il segreto della vita che gli svela, di essere “kart”, ossia un uomo libero che esercita le arti liberali non per decifrare, comprendere l’assoluto, non per dominare, non per crogiolarsi della propria sapienza ma per vivere, per amare in silenzio il sorriso di una donna, ossia il respiro dell’universo.

dottor Giovanni Di Rubba

 

nitro su legno multistrato; Antonio Marchese

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“A volte quando dipingo il mio corpo mi pesa e la mia mente va al di là della terza dimensione, attraverso uno stato conscio di pazzia, che mi trasporta in un mondo alieno, dove la coscienza ha un significato a noi sconosciuto: il raggiungimento di uno stato superiore di conoscenza e armonia”. Così esordisce il Maestro Antonio Marchese nel definire il suo contributo all’Oltrismo. L’artista si colloca in una dimensione di  astrattismo primigenio, ancestrale, etereo, sidereo. La sua evoluzione coglie una sfaccettatura peculiare del movimento di Sarossa, quella di descrivere situazioni e stati ultraselenici. Costante è una sorta di primitivismo, semplicità stilistica, che non elude ed anzi esalta la profondità della descrizione dell’esistente. I mondi che attraversa sono lontanissimi ma ad un palmo dal nostro sentire. Il Marchese non si addentra in una realtà tutta nuova, quella del divenire, quella oltreumana ed oltremondana, non scruta i molteplici universi paralleli, non approda in terre nuovissime e sconosciute né tantomeno resta qui, nella nostra realtà sensibile a descriverla in superfice. La posizione del Maestro è in bilico, al limite, sul varco. E lì rimane, sul varco, come guardiano, come plasmatore della essenza di transizione, come colui che indica la via d’accesso all’altrove, all’oltre.

La sua opera è realizzata con nitro su legno multistrato, attraverso una tecnica che ne evidenzia questa caratteristica di indicatore dell’oltre, di Zauberkunstdichter, ossia attraverso il soffio, senza l’utilizzo di strumenti od utensili, ma col fiato umano, col neshama, in una ambientazione ed atmosfera che ci rimanda all’origine dei tempi. Ed il Marchese è un oltrista della genesi, è un descrittore delle origini, della genealogia delle cose, dell’uomo, dell’essere, un descrittore che indica ma non narra. Ciò si evidenzia nelle altre opere, l’acquatica “Origine della vita” o le diverse rappresentazioni di tali varchi eterei, che ne stanno designando una recente evoluzione e caratterizzazione. C’è l’oscurità., il buio primigenio universale e poi la rappresentazione di un varco, un passaggio, un wormhole, verso un nuovo spazio-tempo, una nuova realtà che ci porti ad una più consapevole coscienza e conoscenza del vero e del bello e dell’amore, in una trinità armonica che, per adesso, noi qui intuiamo soltanto e che il Marchese ci fa non scorgere ma di cui ce ne mostra il passaggio.

Tali rappresentazioni sono spesso oscure, si viaggia nel cosmo ma senza percepire la armoniosa melodia delle sfere celesti, il pitagorico vibrare matematicamente perfetto, il neoplatonico  ascolto idealmente perfetto ma solo un rombo sordo, un suonare e audire sorde e mute melodie. Nemmeno è un rissoso rumore, un fastidioso ronzio, una dissacrante baraonda. È il silenzio, il silenzio del passaggio ad una armonia che non è perfezione acordica, puro calcolo e valutazione. Ed in questo silenzio, in una altra opera siderea, Anotonio Marchese ha rappresentato Aleppo, silente dopo il bombardamento, terribilmente silente. Così, dopo il frastuono della mondanità, il caos del reale, per ascoltare musica nuova e dolcissima, per cantare colmi di grazia, dobbiamo porci nell’oscuro silenzio e prepararci a varcare, muti, l’accesso alla gioia policromatica e sinestetica del tutto armonico, senza distinzione tra suono, contemplazione visiva, profumo di rose e di viole e di ortensie, perché una volta solcato il passaggio il nostro corpo sarà consciamente connesso alla nostra anima ed al nostro spirito e noi saremo una parte del tutto e tutto ad un tempo ed unicamente ed esclusivamente unici perché non singoli parti del tutto ma Tutto in Unità, seppure e soprattutto perché persone e non individui.

Tale opera è peculiare rispetto alle altre, e potremmo definirla l’opera colma di speranza dell’oltristico astrattismo sidereo, in quanto mentre nelle altre rappresentazione dominava l’oscurità del silenzio di transizione qui non è il corpo muto che parla ma l’anima incosciente che sta per raggiungere coscienza e perciò è conscia della bellezza, amore ed armonia che troverà di lì dal varco. E ciò perché quando attraverseremo il varco divenendo uomini nuovi, oltreuomini, non perderemo quello che avremo fatto, il nostro corpo resterà silente ma la nostra anima ne serberà memoria, a che possa, dopo il passaggio, irradiare tale somma bellezza, amore ed armonia al nostro corpo. Ai margini un blu cosmico, l’anima che ricorda i nostri dolori oramai solo sullo sfondo non perché dimenticati ma perché ravvivati dall’amore, dagli spruzzi rossi che contornano e contaminano il blu che acquista diverse intensità, il mare, il cielo, la meditazione, la ricchezza di spirito, il bianco della purezza. Sino ad avvicinarsi al varco del tunnel, nero ma poi con contorni rossi fino ad intuire, quasi al limite il lucente azzurro.

Questa la rappresentazione artistica del varco, che può condurre l’uomo vecchio, materialista, assetato di ricchezza e gloria terrena, a quello nuovo, cosciente e sapiente perché ama e da innamorato cerca la Bellezza, la contempla e raggiunge l’Armonia, col creato, con gli essenti tutti, animati ed inanimati, con gli altri uomini.

dottor Giovanni Di Rubba

 

L’Origine della Vita; Antonio Marchese

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L’Origine della Vita; Antonio Marchese; tecnica mista su legno; 2016; Oltrismo

 

Fluido sincretico, pulviscolo vitale, guazzabuglio cromatico.

“L’Origine della Vita” è opera del Maestro Antonio Marchese, esponente dell’Oltrismo e si pone in una dimensione antecedente al pensiero, o forse successiva, ma catturando una immagine del caos cosmico primigenio, allegoria della acquatica aquantica formazione delle specie naturali, alchemicamente fuse dalla intensità di colori, adagiati come macchie nella fluidità cosmica. E tutto ciò se vero che il macrocosmo è specchio del microcosmo, anche l’origine del mondo è forma e sostanza manifesta di ciò che avviene in noi, qualche attimo prima del miracolo; la nascita della vita, il respiro dell’universo.

Siamo qui in una dimensione biologica, embriologica, citologica, non fisica, all’apparenza. In realtà bìos e physiká non sono essenze indissolubili ma legate strettamente in una dimensione eterea, che è la concreta manifestazione silente dell’anima divina.

La lettura dell’opera va fatta ponendosi su multistrati, i colori danno al dipinto una quadrimensionalità di fatto e di significato non trascurabile. Nel livello a noi più vicino c’è il bianco degli spermatozoi, e questo sappiamo, essotericamente, tutti. Un groviglio frenetico e competitivo, un libero mercato giustificato, così come la selezione naturale, un liberismo che da ormai quattrocento anni confermiamo, confermiamo spudoratamente facendo dell’uomo lo specchio della natura e non della natura l’immagine e simiglianza dell’uomo, custode, nomoteta, generatore nella sua intima sostanza, quella più nascosta, quel dito che sfiora Dio e che da Dio stesso ci è donato. Noi non siamo padroni di ciò che è stato plasmato ma custodi, un giorno restituiremo ciò che ci è stato affidato. Per questo dobbiamo custodire come boni viri, consci che ciò che abbiamo, qui ed ora, non è nostro. Ma è una custodia del tutto particolare, quando finiremo i nostri giorni non dovremo consegnare le chiavi dell’universo al Padrone, il Padrone stesso ci renderà partecipi della sua proprietà, saremo un tutt’uno con lui, un tutt’uno con l’universo ed il significato di possesso, proprietà, svanirà perché noi da custodi non diventeremo possessori o proprietari ma la nostra essenza sarà immanente all’universo stesso. Noi saremo universo. Noi, che gli diamo vita con le nostre diverse sfumature differentissime che rendono ognuno di noi non individuo ma persona, doneremo la nostra alma, e il suono degli astri, la musica ancestrale, le percussioni della terra, le corde tese del vento, il sussurro dei colori sarà varissimo e completo, ergo armonico, grazie alla nostra diversità, sarà perfettissimo grazie alle nostre imperfezioni che renderanno le dissonanze armoniche e il tutto triplice ed unico.

Ma rimaniamo ancora un attimo in superfice, il bianco, gli spermatozoi. Dal Seicento abbiamo progressivamente perso la nostra dimensione spirituale, che a partire dalla seconda metà del ‘900 sembra man mano riavanzare e rigenerarsi, sicuramente tornare con gli dei che sono in noi, resi attoniti e sopiti dal nostro desio di materia, padroni e dunque distruttori, anziché custodi, della natura e della vita. Le teorie economiche dal Mercantilismo in poi, Adam Smith con la sua spiritualizzazione aberrante della materia, Thomas Malthus il terribile divoratore di persone, ma anche Marx con la materializzazione della spiritualità, sino ai Marginalisti ai keynesiani ai neoclassici ed agli ultimi agonizzanti novecenteschi. Alla stessa guisa la politica Hobbesiana, il pensiero illuminista, il positivismo scientifico, sino al nichilismo e alla democristianità cattolica compromissoria, quindi pochissimo universale, in aporia etimologica. E il lamarckismo seguito dal darwinismo e dal concetto di selezione naturale, del più forte, o meglio di chi detiene una mutazione più favorevole, che meglio si adatta alla natura, che domina. Sempre aberrante considerare che sia l’uomo che si adatti alla natura e non viceversa. E se c’è un viceversa è visto in una ottica del dominio del più forte, ossia l’uomo si sostituisce alla natura e la adegua con le proprie perverse violazioni a causa delle quali tanto geme la Madre Terra. Tali periodi sospesi, volutamente, hanno un seguito, diretta conseguenza. La corsa degli spermatozoi per fecondare l’ovulo altro non è che una metafora della libera concorrenza ove, partendo da una situazione di parità, vince il meritocratico, il più forte, intellettivamente e/o economicamente e/o perché maggiormente vigoroso nel corpo.

Ma ciò che l’uomo crede di capire è ben diverso dal disegno dell’anima del mondo, ben diverso dallo stesso senso cristiano, l’uomo si spoglia della sua umanità per divenire né minerale né animato, ibrido che sotterra i talenti o li getta all’aria, o li usa come stuzzicadenti. L’uomo che usa perversamente, inadeguatamente e dunque inutilmente gli utensili. L’uomo che rinuncia alla spiritualità o, peggio, se ne disinteressa, obnubilando la ricerca del senso delle cose, la sua missione.

Prima della formazione degli spermatozoi, lo spermatide 1 era ancora una cellula diploide, con un corredo cromosomico di 46, successivamente, perde una parte di sé e conserva 23 cromosomi. C’è una logica, rinunciare a parte di sé per creare qualcosa che trascende il sé, qualcosa di più alto, far fruttare i talenti rischiando, anzi avendo la certezza, di perderne un bel po’. La metà, come nel mito degli ermafroditi platoniani. L’uomo da solo ha tutto ma per scoprire, comprendere e far fruttare il proprio tutto deve perdere  parte di sé e ritrovarla nell’altro.

E una volta fecondato l’ovulo, nella meiosi, e precisamente nell’anafase I, avviene il vero primo grande miracolo, il crossing-over, il rimescolamento del “messaggio” dello spermatozoo con quello della cellula fecondata, uniti in un punto preciso, all’apparenza causale, ma sarà proprio da quell’unione di cromosomi, in quel punto preciso e non in un altro, che inizierà l’essenza ultima, la primigenia verità ultima, la vita.

Gli spermatozoi sono raffigurati nel dipinto in una fluidità statica, fluidità data non da un intuito movimento ma dalla casualità apparente stessa col quale sono posizionati. Non c’è competizione, non è lo spermatozoo più scaltro, più veloce, più forte, che feconda. Da solo lo spermatozoo non sarebbe nulla, è la forza degli altri che lo fa giungere a destinazione.  Nessun  seme sarà sperso. Ognuno ha una funzione unica, e lo spermatozoo che feconderà è accompagnato nel viaggio da una forza quasi mistica, da un sostegno, è spinto dalla fluida corrente degli altri che hanno un ruolo, farlo giungere a destinazione. E quel ruolo è già prefissato. Ed anche la scienza ha scoperto che gli spermatozoi vendono “guidati” verso la cellula uovo, studiando alcuni animali acquatici come la Campanularia.

E cosa resta, tuttavia, di questi spermatozoi non competitori o nemici, ma guide dello spermatozoo fecondante. Scendiamo al secondo livello del dipinto, addentrandoci nei segni esoterici, diverse sfumature gialleggianti, alcune tracce purpuree. Sembrano morenti ma nel terzo strato c’è la risposta, l’ocra dominante è la loro memoria che rimarrà per sempre nell’individuo, nel nascituro, e concorrerà alla sua crescita, al suo divenire persona. Nessun seme andrà sperso, gli spermatozoi guida, in una amalgama giallognola, saranno il respiro del vento, il canto delle cicale, il bisbiglio degli uccelli, il candore dell’aurora, la goccia di brina che investe ed illumina la rosa. Frammenti eterni dell’etereo spirito dell’universo.

Il quarto ed ultimo strato è blu, la dimensione ultima e rivelatoria. “In principio lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”, e “la vita, dal mare, venuta al mare ritornerà”. Nessun seme andrà sperso, nessuna parola, nessuna melodia o rumore, nessuna traccia cromatica. Tutto permane custodito nell’infinita e pulsante fiamma dell’amore divino, della multiforme e trinitariamente unitaria anima dell’universo, ovverosia del tutto, visibile, invisibile, reale e trascendente.

dottor Giovanni Di Rubba

 

La Grande Seminatrice Cosmica

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Autore: Sarossa (Salvatore D’Auria)

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

“Lo Zed (o Djed), è un geroglifico che rappresenta il dio Osiride, la sua “spina dorsale”. E’ un simbolo di rinascita, di risveglio, ma soprattutto di energia spirituale (e, forse, non solo). Per gli Antichi Egiziani la spina dorsale era la sede del fluido vitale e il canale attraverso il quale fluisce l’energia cosmica che conserva l’armonia e la stabilità dei processi esistenziali. Lo Zed era dunque simbolo di vita eterna.

Ho voluto in questo dipinto rappresentare che ci potrà essere un altro incontro con esseri alieni, infatti la figura a sinistra con la proboscide è la seminatrice, al centro la nave aliena, biologica o organismo spaziale o nave spaziale organica. Le conchiglie avranno tutte gli occhi come una entità aliena. Il cane già custode dello Zed, guarda con sorpresa l’entità che appare nella conchiglia aliena. L’erma rappresenta la storia.

Nella proboscide della grande seminatrice c’è questo piccolissimo ritratto che è una via di mezzo tra Gesù ed il mio ritratto con la barba un poco bianca e rossa. Ma è solo una mia presenza sfuggevole, alla Hitchcock,  nel dipinto.

Le conchiglie con gli occhi di una presenza aliena

L’uovo mondo, uovo cosmico o uovo mondano è un simbolo mitologico trovato nei miti della creazione di molte culture e civiltà. In genere, l’uovo mondo sta a indicare un inizio di qualche tipo dell’universo o un qualche essere primordiale proveniente dal fatto di covare questo simbolo di uovo, il quale sovente si trova posizionato nelle acque primordiali della Terra a rappresentare la scintilla che diede inizio alla vita.”

Con queste parole il maestro Sarossa, fondatore e massimo esponente della corrente artistica dell’Oltrismo, spiega il significato dei simboli presenti nel suo ultimo lavoro “La Grande Seminatrice Cosmica”. Un’opera che rappresenta in tutto e per tutto l’apoteosi  della corrente, il suo più intimo significato. Un’opera che ha avuto una gestazione lunga e che esplode cosmicamente ponendo in evidenza il mondo sarossiano, il suo profondo  messaggio. Ciò che fu principio e ciò che fu la fine, rigenerata in nuovo principio. Ciò che fu la scintilla primordiale dell’attività artistica di un pantocreatore, misterico ed evidentissimo in quanto immanente, ciò che fu l’esoterico che si svela, ciò che fu il mito, che si spiega e declina giungendo alla necessità ultima, al colpo di spugna dato all’intero modo di credere e percepire le cose. Ad un sogno nato negli anni ’70 e che trova ora la sua massima realizzazione ora. Al corridore che vince due volte, ‘sta volta naufrago, nello spazio sidereo. Alla sfera di sapienza sarossiana che qui è assente perché si manifesta nell’intero dipinto.

La Seminatrice da cui spunta la barbetta del maestro rappresenta ad un tempo il divino che crea spruzzando frammenti di spirito liquido sulle cose, e dandogli con ciò vita e l’artista stesso, Sarossa, Salvatore D’Auria, che per tutta la vita ha dato e che continuerà a dare vita ai suoi dipinti, di cui io talora commento cercando umilmente di coglierne l’essenza. Questo lavoro è, soprattutto, dunque, biografico, e qui la mia parola si arresta, qui si ferma l’Etereismo, il mio, di Giovanni, per dare spazio a ciò che è pulsante, vivo, la sua opera, l’esplodere dei colori, la nascita della vita. La Seminatrice è rossa, altro elemento biografico del maestro, che compare e si affaccia, scandendo il suo nome artistico, Sarossa.

E dà vita, l’esplosione immanente di colori dà vita e va oltre, ma va oltre ancora qui, nella nostra realtà newtoniana, nella ricerca di pianeti abitati da esserini a noi simili o forse, speranza vana, a noi migliori. Esserini che nell’immaginario sarossiano sono biologicamente esistenti e complessi, macchine similumane, esseri animati e cordici. Esseri con cui dialogare nella nostra sfera comunicativa, Annunaki che magari disquisiscono in sumero, o in accadico, o in tardo cannaneo.

Dà vita la Seminatrice, la realtà manifesta ed evidente della Panspermia, della primigenia ed aliena dispensazione vitale. Da essa una navicella, racchiusa a grappolo, come fecondata, memoria forse di una gemmazione prolifera, navicella dunque, navel conducente l’alios e che atterra dallo spazio ma prolime feconda dalla terra. Luccicante, colma d’energia pulsante e vitale, colma dell’oltre, colma di una lucentezza motrice che è il centro da cui dipana l’intensità cromatica completa del dipinto.  In una fossa simile a conchiglia, come generatrice di bellezza, da cui nacque Venere, da cui nasce vita, da cui nasce messaggio profondo, navetta, nuovo orizzonte. Ed a forma di conchiglia, che rappresenta la sezione aurea, una costante da sempre presente nei dipinti sarossiani, sono gli organismi viventi, gli alieni, esserini da cui spuntano degli occhietti scrutanti, esserini di cui non conosciamo ancora la forma ma di cui abbiamo innanzi agli occhi la corazza, che è somma perfezione, somma proporzione, sommo involucro di bellezze cosmiche. Come a dire che la nostra certezza pone la lapassianità della perfezione di esseri ultramondani. Extraterrestri che noi avvolgiamo nella perfezione perché cosa sono se non la ricerca di noi stessi, della nostra mancata perfezione, della felicità. Il desiderio di ricercare altre vite per trovare, finalmente, una risposta alla nostra di vita, al nostro sfuggente qui ed ora.

Al centro, di profilo, una statua, un erma, hermetica presenza femminea che è la storia, agalma di mistero ma fissa, statica, da adorare, idolo fuggevole e tremendamente statico, scultura dall’espressione  dimessa e possente, da Grande Madre, accogliente ed immaginata. Realissima, scultura cui è stato tolto il velo e da cui promana tutta la sua vera essenza. La nostra concezione della storia. Quella di un susseguirsi lineare, del dirigerci verso una meta. Erma che tutto deve svelarci e che svelata è al centro del dipinto ma quasi dimessa non è loquace, ci invita a guardare altrove, intorno. Al centro per importanza, importanza che noi le diamo, ci dice di guardare al di là. Il resto. Di guardare al di là per scoprire il reale che cerchiamo.

In fondo ci sono i monti, una coppia di monti bassi, costante dei dipinti sarossiani, dei monti altissimi ora rappresentati come se fossero collinette con vette appuntite. Sono i monti degli altri dipinti, i limiti che noi ci poniamo che ora, finalmente, sono superati, superati perché non valicati ma visti nella loro vera prospettiva. I nostri limiti ed i nostri ostacoli non sono. Semplicemente sono nostre costruzioni mentali che arretrano e si rimpiccioliscono-ma comunque permangono in noi come esperienza- innanzi alle vere sommità, ai veri valichi, alle vere catene montuose, ultramondane, che non sono ostacolo o limite ma dalla cui sommità promana luce, energia, pulsione vitale, spinta vitale, desio di andare oltre. Tagliano il dipinto in sezione aurea ed il cielo nubiloso è ancora ciò che c’è da vedere, oltre la coltre. L’insondabile leggermente schiarito verso destra, di un azzurro rivelatore.

Ed è qui, alla destra del dipinto, che si colloca in primo piano la Zed, lo Djed, colonna vertebrale di Osiride, di Asar. Dea o dio della vegetazione, nata giocando a dadi con la luna, nata dalla somma possenza celeste delle maggiori forze cosmiche. Su di essa un cane, che da un lato la custodisce, dall’altro guarda stupito la conchiglia alla sua destra da cui spuntano gli occhietti, la vita.

Lo Zed svolge una duplice funzione, come quello presente nella piramide di Giza, regge architettonicamente tutto il substrato, tutto il dipinto ma allo stesso tempo è anche un monolite da cui promana l’energia, monolite primordiale presente in tutte le civiltà ed a tutte le latitudini, da Ston Age alle costruzioni mesoamericane ed ai gingilli spirituali nordamericani, sino alla Mesopotamia ed alla estrema terra del Drago ed alle sue isole di samurai, ed all’India, ed alla terra Etiope di Prete Gianni. Ed in Italia, ed in Sardegna, così come nelle terre fenici. Alla sua sinistra c’è l’athanor, l’ovo cosmico et alchemico, il principio generatore, Osiride che si bagna le vesti e lo spirito di Dio che aleggiava sulle acque. Il forno che tramuta in oro, il forno del messaggero hermete, del mercurio trasudato e traspirante.

Ecco alla sinistra l’ovo cosmico, alla destra la vita, sormontante il custode, al centro la colonna portante, lo Zed. Che è colonna portante e che è monolite, passaggio dalla caccia la agricoltura, quindi alla nascita della magia e con essa della cultura. In un dipinto fortemente reale, in cui è assente ogni forma di trascendenza, ed in cui pullula la realtà newtoniana in cui si scoprono nuovi pianeti emerge questo elemento etereo, posto al lato opposto della Seminatrice, dell’artista, come a dire il Verbo da un lato, l’Arte dall’altro. Zed, una duplice struttura un tronco verticale che, secondo il mito, rappresenta l’energia che circola liberamente, mentre le sue parti orizzontali la fissano. E se il tronco ne favorisce l’ingresso, i piani verticali la rendono stabile, regolandone l’ordine e la potenza, liberandola dalla circolazione caotica d’accesso. Lo Djed, celato nell’ermetismo degli Antichi Testi Egizi, nel Libro dei Morti, come dispensatore di immortalità temporale. Come centro propulsore di elettromagnetismo, comparso in età neolitica, dodicimila anni orsono. Una presenza eterea in un dipinto fortemente newtoniano ed immanente, che riesce ad andare oltre verso nuovi mondi e nuovi modi di vedere il reale. Una presenza che ci ricorda che noi, comunque, esseri umani, percepiamo solo parte del tutto, quando siamo coscienti. E se l’universo, da questa sfera percettiva, è già di per sé inconcepibile nella sua infinità di galassie e sistemi, nella miriade di pianeti uguali al nostro, pensiamo a ciò che non percepiamo, agli ultrasuoni et agli infrasuoni, all’ultravioletto ed all’infrarosso, al novanta percento di materia oscura che è il restante. E per non parlare dell’energia oscura. Quindi dal dipinto capiamo che potremmo anche scrutare l’intero universo così come appare ai nostri sensi, ma la parte più misteriosa dell’universo stesso è ad un palmo dal nostro naso, è il verbo che è principio, è l’invisibile e l’impercepibile e l’indescrivibile ed indipingibile. È l’infinità di mondi e dimensioni bruniana, l’infinitamente piccolo. È l’etereo che ci accompagna e che intuiamo talora, nel dormiveglia, in meditazione, nel sonno, nell’incoscienza.

A sinistra la Seminatrice, l’Oltrismo artistico che cerca l’Oltre nella realtà immanente, a destra l’Etereismo che lascia il velo di mistero e di inafferrabile. Nel dipinto emergono le due nuovissime avanguardie sorte ad emblema universale delle scienze dell’intuizione, che da sempre, grazie alla potenza degli artisti e dei poeti, precedono la scienza empirica e le sue scoperte. Da una parte l’arte che rappresenta , dall’altra il suono, la parola che seppure appare scompare nel suo formarsi e resta come traccia eterea.

dottor Giovanni Di Rubba

 

Il Giorno del Giudizio; Ghost

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Il Giorno del Giudizio; Ghost; olio su tela; 24 agosto 2007; Oltrismo

 

Ecco vividissimo e chiaro un rombo sordo, uno squarcio nella materia, una contrapposizione. Ecco l’Era del Materialismo, sfregiata come reduce da un conflitto, reduce postatomica dell’Età Nostra, di una guerra silente contro lo spirito, la grazia e la bellezza. Postatomica e Postumana.

Il Maestro Ghost, esponente dell’Oltrismo, realizza, manifesta ed espone il concreto e l’altrove. La sua opera, talora associabile al naïf, talaltra ad un neoprimitivismo, ne va oltre, cogliendone l’essenza in una pullulante vivacità. Neoprimitivismo, arcaismo, onirismo, fusi per produrre una immagine compatta e scissa. Come sciamano il suo andare oltre è un porsi nel reale, cogliendo il pragmatismo della etereità. Un pragmatismo semplice e surreale, un etereismo pungolante e terribile, ravvivato dalla speranza. Chi è lo sciamano se non colui che passa dalla grezzezza alle alte sfere e non solo ascende in una realtà iperuranica e perfetta ma coglie l’essenza pura della imperfezione. Lo sciamano parte dalla realtà in cui è immerso, la osserva, e la stessa man mano si mostra nella sua vera essenza. Più in là coglie l’etereo, coglie il divino, coglie lo spirito, l’ altrove. Infine, poi, scorge quanto di divino c’è nella realtà così come gli appare e solo alla fine di tale percorso scorge la Verità, un frammento di essa, un frammento che è ciò che chiede alla Natura e la Natura risponde a profeti ed a poeti, la Natura vibra nelle mani artefici dell’artista. Ed è così che si apre il dipinto.

Una speranza, dicevo, ma una speranza  sovversiva e che sovverte, una speranza che è in paradosso cromatico manifesto. Il dipinto mostra il materiale, il nostro mondo sensibile nell’intensità dodecacromica delle sfumature. Ciò che viviamo, è un circolo squarciato ed imperfetto, ma coloratissimo, di quei colori forti e vivaci  che noi quotidianamente percepiamo. Colori tanto concreti da passare inosservati, tanto vividi, intensi e possenti da somigliare al caos spasmodico e rumoroso della contemporaneità. L’eccesso sonoro che diventa rumore. Urla fortissimo il nostro Mondo imperfetto e dai contorni imperfetti e nella sua vivacità si mostra così com’è.

Tale rappresentazione è scissa in tre realtà, l’esistente, che è ciò che vediamo e che conosciamo e che nel dipinto è assente, l’esistente così come appare in contemplazione, ossia come si manifesta realmente senza sovrastrutture scientiste, e intorno, da cornice, l’empireo, le stelle fisse, lo spirito che come Madre avvolge la nostra realtà. La avvolge, la protegge, ma soprattutto la soccorre, non si pone epicureamente in una realtà olimpica disinteressata, ma si presenta, flebile e possente, a soccorso del respiro delle piante, dei minerali, degli esseri animati, dell’uomo immagine perfettissima di Dio nella scelta. Per tali motivi il commento non può essere a compartimenti stagni, non può descrivere ora l’una ora l’altra realtà, perché nel viaggio artistico non esiste spazio né tempo, e perché ciò che è non è una serie di essenti e di utensili ma è un tutto armonico, è un balzare incessante da una dimensione ad un’altra, cogliendone l’unicità armonica e diversissima.

Ed ecco al centro del dipinto ergersi l’emblema del potere, del danaro, della sottomissione. La personificazione di ciò che divide, di ciò che crea guerre e discordanze tra gli umani, di ciò che ha reso uno stupendo giardino terra brulla. E questa oscura potenza, purpurea ed infuocata, emerge dagli abissi e seduce gli uomini usando il loro arbitrio. Svuota l’uomo, lo rende conscio di essere perfetto in quanto uomo, padrone e dominatore, libero di cadere in tutto ciò che lo richiama alla materia. Attratto dalla mano tesa del Re del Mondo, nell’illusione di soggiogare, guadagnare, essere Dio, perde la sua spiritualità. E la mano tesa del Padrone conduce ad un illusorio benessere momentaneo che ha un prezzo carissimo, far rotolare l’uomo nel fango. E l’uomo avvinto da tale illusorio paradiso dai risvolti infernali, che è l’attaccamento alla materia, finisce intrappolato nelle sabbie mobili della terra. Di una terra viscida, sguazzando come automa del consumo nella sua stesa materialità indotta. Ma c’è la Madre che avvolge e protegge, La Madre che è Terra, la Madre che è Acqua. Nell’etereo c’è il candido, la grazia, l’innocenza. Tre stelle cadenti in cima, fuggevoli, sono le aspirazioni dell’uomo, mobili, sono l’ideale e l’idea, sono la ragione vera di vita, l’inseguire un sogno purificando sé e nobilitandosi, eroi dai mille volti, noi umani, cui il compito è custodire il creato, ricreare un giardino dalla terra brulla cui siamo stati condannati per la nostra libertà. Ma la libertà senza l’amore  è la forma più atroce di prigionia, è rendere la bellezza e la grazia inutili e dannose. L’uomo plasmato dal fango per accedere all’assoluta bellezza attraverso la grazia, con la sete di soggiogare l’altro ritorna a sguazzare nel fango, allontanandosi dallo spirito. Lo spirito che solo col corpo può realizzarsi pienamente, lo spirito che investe noi stessi creando un’anima, potentissima e divina, e che agisce nei gesti illuminando tutto e fondendoci con l’infinito.

Tale trinità emerge dall’etereo delle acque su cui aleggiano tre figure angeliche eteree in una mano benedicente che irradia il reale, ed in corrispondenza la Terra stessa si ribella a tale soggiogo umano ed emerge a sua volta da essa, con sguardo severo rivolta verso una edenica realtà. Quest’altra mano non è collocata nella sfera divina ma è qui ed ora, ci mostra una cascata, un giardino, dei monti. Un paradiso in terra, che è nostro compito preservare. Ma lo spirito, da solo non può nulla. Difatti alle figure angeliche ed eteree corrispondono due figure angeliche corporali. L’una seduta su una bolla, che ne indica la provenienza da altre ed impercettibili realtà, e che prende per mano un azzurro serpentello dal volto antropomorfo. L’altra, che è la stessa, è un giovane con ali dorate che soccorre l’umanità dal fango in cui è caduto, rispondendo agli ordini della mano naturale e terrena, che agisce a sua volta per volere della mano trina in atto benedicente che emerge dalle acque eteree.

I due angeli eterei sulla sinistra hanno in mano un poppante, simbolo della purezza di spirito, ed una bolla, miniatura di quella su cui è seduto l’angelo terreno.

E qui c’è la grandezza, la libertà, l’amore, la misericordia e la fiducia che il divino ripone in noi. Gli angeli giovani e materiali sono esseri umani, esseri umani nobilitati dallo spirito, esseri umani umili e ricolmi della grazia proveniente dalle sfere eteree. E con il candore seduti sulla sfera del divino afferrano il serpente simbolo di sapienza, il quale non osa attaccarli, ma viene anch’egli nobilitato e soggiogato dall’uomo, che sotto i dettami divini, accede alla sapienza e la usa non per furti e ruberie, non per sottomettere, non per essere servo del danaro, ma per compiere le più alte volontà. Per far avvicinare all’acqua purificatrice, alla cascata zampillante l’uomo, purificarlo, come nel Lète, e fargli capire  che la purezza è la forma di accesso alla sapienza, come nell’Eunoè, che la grazia sola può glorificare . E, forte dello spirito, con due ali dorate, soccorre l’uomo sperso nelle sue debolezze, ritornato al fango, e lo conduce alla destra del dipinto, verso il mondo che l’uomo può e deve realizzare. Ma potrà farlo solo utilizzando la materia per rendere manifesto il suo spirito secondo i divini dettati dell’anima che Dio ci ha donato. L’uomo, proprio perché ha il corpo, è persino superiore ad angeli e demòni, è l’unico che può ascoltare la luce dell’alma e scegliere, far parlare gli uni, messaggeri di grazia e bellezza, o far parlare  gli altri messaggeri di distruzione e conflitto.

dottor Giovanni Di Rubba

 

Golfo Napoli; Pach

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Golfo Napoli; Pach; acrilico su tela; 2016; Oltrismo

 

Con l’opera “Golfo Napoli” del Maestro Pasquale Chiaramonte, in arte PACH, il paesaggismo partenopeo sembra tornare con una connotazione tipicamente Oltrista. Si fonde una triplice tradizione artistica, che assapora con gusto ed assorbe con grazia la luminosità, proiettata nelle acque del Golfo, tipica della tradizione della Scuola di Posillipo, da Giacinto Gigante ad Antonio Pitloo, ma a ciò non si limita, né la visione di insieme del dipinto a ciò ci conduce. I colori nell’insieme sembrano, infatti, colpire l’opera come dall’esterno e refrattariamente investire il fruitore, alla maniera dei Macchiaioli, se la triplicità congiunta e stratificata cromatica e di aree e sezioni non andasse al di là, portandolo in una dimensione altra, nuova, parallela. La dimensione delle sensazioni, del sentire, in un ricco frammentarismo decadente ed emotivo, che riscopre le vedute denotando da una apparente semplicità stilistica una intensa e profonda riflessione dell’artista su sé prima che sul paesaggio, risplendendo in esso variegata e ricca.

Il cielo in frantumi e vivace posto sulla sommità dell’asse Somma-Vesuvio è uno statico implodere di colori, come se fosse percorso all’inverso e sviluppato nell’inviluppo il warholiano “Vesuvius”, non attivo, a riposo, dipinto come una allegra montagna ocra che tuttavia riversa il proprio potere non in sé, nella propria apparenza, ma fuori di sé, o meglio su di sé, su un piano divino, celeste, multiforme, della volta che quasi protegge l’intero dipinto sotto la sua egida, lo difende ponendosi sopra, abbracciando la veduta, quasi a dire che la potenza del vulcano non è a sé limitata ma la sovrasta ed è la potenza e l’anima di un popolo che è lì, e che nessuna opera di violenza, barbarie, deturpazione, potrà annientare, perché ponendosi sopra del Golfo, sopra di Napoli è di Napoli ed in Napoli, nel grande assente, nell’apparente assente nel dipinto. L’uomo, l’essere umano, il napoletano. La sua anima scintillante come il cielo, divina come la sovrannaturale bellezza, quella somma.

Il Maestro Chiaramonte, all’interno dell’Oltrismo, con quest’opera ne coglie la sua essenza pop, di un pop estatico e metafisico, di un esoterismo che si apre attraverso l’arte al popolo e ad esso rempaira puro e semplice, riducendo la complessità sottesa del discorso ad intensità emotiva che non può e non sa lasciare indifferenti. Una veduta letta e riletta ricostruita in una nuova ottica, aprendo un mondo misterico con la chiave della essenzialità, con la forza dei colori vividi ed immediati ma posizionati con maestria.

La sezione aurea divide i monti e il cielo dal mare e dalle abitazioni, i monti sono il limite e la risorsa. Il cielo il divino, l’anima, l’essere. Al di sotto la nostra realtà, quella sensibile, il mare e le abitazioni, dunque. Ed il mare riflette in un pullulare di colori il divino ed il reale ad un tempo, è il frammento multiforme e policromatico che ci è a portata di mano, le acque generatrici del reale conservano in sé la memoria di esso, preservano in sé la scintilla del cielo divino, ci comunicano il vivace altalenare ed il vivido, complesso, plurisecolare carattere polimorfo dei partenopei. La memoria è calma, statica, regina protettrice della Natura e del Tutto. La memoria è nel mare, il mare che preserva il reale e dà traccia, percezione della allegria ardente ed inestinguibile del cielo, è specchio il mare della vivacità dell’assoluto.

Il complesso Somma-Vesuvio, i monti, sono il punto mediano tra realtà sensibile e quindi tra Natura e perfettissimo pullulare festoso e superiore del cielo. E nel mare, al centro della sezione del dipinto in perpendicolo ed in parallelo, c’è la sfera, nascosta, il nutrimento misterioso della Natura, l’orma dell’assoluto che dà colore al mare. Essa è nascosta nell’isolotto di Megaride, Castel dell’Ovo, la sfera alchemica, la congiunzione divina, l’Athanor, l’uovo filosofico, caro a Lucullo, a Virgilio Mago, ai Basiliani Alchimisti. Il nutrimento di questa terra, l’anima di questo popolo

dottor Giovanni  Di Rubba

 

Homo Sapiens +Ignosco

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Autore: Sarossa (Salvatore D’Auria)

Opera1: Homo Sapiens

Opera2: Ignosco

Comparazione e commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

Interessante il confronto tra due opere del maestro Sarossa, “Homo Sapiens” ed “Ignosco”.

Le stesse possono essere lette in maniera conseguenziale e sembrano tra loro imprescindibili, come un continuum creativo, una sequela di immagini e di pensieri che scaturiscono dalla lettura complessiva delle stesse. E già i colori sono segno di ciò, non può non apparire una costanza, una similitudo cromatica, una opacità in entrambi i lavori che, tuttavia, è sapientemente interattiva e progressiva nel confronto. Grigio, ocra, smeraldo.

Stuzzicante mettere l’una accanto all’altra e notare come nella costanza cromatica vi sia una evoluzione, una tensione, un ascendere dell’essere umano, che nella staticità del suo esser sé in divenire illumina quasi quella sfumatura opaca, ma senza rinnegarla, soltanto potenziando il massimo di ciò che ha per divenire, finalmente, consapevole di sé e raggiungere un tassello superiore, una luce che già vivida era, ma che attraverso la meditazione e ciò che vedremo di qui a breve si potenzia. Non evoluzione, ma presa di coscienza, e nella consapevolezza acquisita mutamento statico ed armonia. Essere armonico, ovverossia essere al proprio posto nel mondo e poter così contribuire alla grandezza del creato.

Si parte da “Homo Sapiens”, albeggia di lontano una nuova aurora, partendo da destra il cielo subisce una sfumatura crescente e variabile, da un ocra più oscuro ad uno più chiaro, quasi limpido, con una complessità genealogica, al centro una luce, il bianco della trasformazione, come fulmine evolutivo, come scintilla primordiale della ragione, del sé e dell’amore, del prendere le redini della propria vita. Il paesaggio è brullo, una tipica savana del Pleistocene e al centro, quasi in prossimità della luce creativa celeste e luminosissima, un ominide, ancora scimmiesco ma in atto pensante, quasi contemplativo, come se rimuginasse della luminescenza vivida di cui è investito senza tuttavia riuscire a capire, ma con un’aria non perplessa, a tratti serafica. Egli è illuminato ma non ancora ha raggiunto la consapevole sapienza, non ancora ha raggiunto l’armonia, la luce divina è uno sprono, ma l’atto conoscitivo deve acquisirlo in pienezza valorizzando i propri talenti, non rimanendo inerte. La teofania è intuito che non può però prescindere dal continuo pensare, creare ed innovare. E questo lo si trova alla sua destra, in sezione aurea del dipinto, è la sfera. Il simbolo oltrista della conoscenza. È lì, a due passi, lì per liberarlo dalla prigionia dell’ignoranza. È lì eterea e sospesa, è lì il monolite sapienziale. È lì, ma il maestro Sarossa cattura l’attimo, abilmente, in cui riceve l’illuminazione ma non si volta, ancora, a rimirare quella sfera di conoscenza. È lì nell’attimo prima, è lì pronto ad utilizzare gli utensili, ad agire comunitariamente liberandosi dai sui individualismi, che, come gli alberi a guisa di giunco, sembrano tenerlo prigioniero.

E prima di voltarsi verso la vibrante perfezione armonica della gnosi a cosa pensa questa figura scimmiesca in atteggiamento da filosofo, in meditazione sciamanica? Ecco fa la sua comparsa il secondo dipinto. Ignosco. Ignosco che in latino significa perdono, ma che ha anche una chiara derivazione greca, conosco, ed al tempo stesso essere, quindi sono. Ignosco: perdono, conosco, sono. Consapevolezza. La scritta compare in verticale ed alla destra c’è una figura femminile, statuaria, quasi monolitica ma non reificata, vivente, vero e proprio idolo che sostiene una imperfetta e rosea sfera, a guisa di palloncino con laccetto che cade tenero. La scritta è sullo smeraldo ed è d’oro, è preziosa e custodita su muro prezioso e sempre eterno, sempre vivo, immortale rosmarino. Un muretto che custodisce, dunque, come cofanetto, quella parola, quella gioia, quella trinitaria affermazione unitaria, Ingosco. Perdono, conosco, sono. E’  ciò che pensa e ciò a cui giunge l’homo sapiens prima di voltarsi verso la sfera, ed è ciò che il divino lucente, apparso fulmineo nell’ocra del cielo gli dona subitaneo, teofanicamente.

La donna. Che è vibrante e statuaria, che è fissa e mutabilmente perfetta nel suo apparire come un idolo marmoreo del tutto peculiare, a gambe incrociate, nell’atto del movimento, con la sfera eterea rosa vividissimo a mo’ di leziosia. Che campeggia su delle nubi, essere divino. Con l’amore che è imperfezione. È questo il dono. La donna. Il mezzo di accesso alla sfera del primo dipinto. Non possiamo voltarci, non possiamo essere consapevoli senza questa messaggera divina, senza questa portatrice di grazia. Colei che ci innalza e ci fa rimanere comunque coi piedi in terra, che ci fa spiccare il volo solo se comprendiamo i nostri limiti, che ci libera da ogni prigionia solo se capiamo che sapere non è potere, che conoscenza non è perfezione, che la vera armonia sta nelle nostre piccole imperfezioni, nel nostro umile dire, sussurrando, perdono, conosco, sono. la donna qualifica e dà vita all’homo sapiens che può finalmente voltarsi ed evolversi. Ma che mai dovrà dimenticare tale teofania, che mai dovrà dimenticare l’essenza femminile delle cose e di sé se non vuole divenire un mero individuo dotato di raziocino, un cinico calcolatore, uno sfruttatore degli altri, se non vuole cadere nella superbia, nella cupidigia, fino alla lussuria, al considerare l’altro merce, cosa, non persona, a considerare la donna oggetto. L’illuminazione divina e subitanea, ecco la riflessione! L’homo accede alla sfera, può voltarsi, ma mai deve dimenticare tale immane immagine di umiltà. La donna generatrice e salvatrice. Essenza stessa del tutto. L’Ignosco, nelle sue triplici sfumature.

dottor Giovanni Di Rubba

Urlo Divino

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: Urlo Divino

Misure: 80×120

Materia e Tecnica: smalto ad acqua e colori ad olio,  cartapesta su tela

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera l’”Urlo Divino”, del maestro Ferdinando Todisco colpisce subito gli occhi del fruitore per la particolare tecnica utilizzata. Egli crea sulla tela un bassorilievo con delle figure, tre in questo caso, ricoperte poi di colore, dando così una realtà dinamica al lavoro, che cambia a secondo della luce e delle ombre che si creano ai bordi delle figure.

C’è nell’opera un predominio cromatico di verde intarsiato da un prismatico multiforme fascio di colori, quelli dell’iride, che fungono quasi da accompagnamento al “verde primordiale”. Un colore, questo che pone in luce l’arcaicità del lavoro. I bassorilievi sono collocati in una realtà aliena e primordiale, in un mondo pre-edenico, prima dei tempi, ma parallelamente in assenza del tempo stesso. La mutevolezza dei giochi di luce, infatti, unita dall’ambiente rappresentato,  dà carattere eterno alle figure ed alla situazione.  Ci si pone in una realtà che trascende se stessa, e per questo consente alle figure primitive ed ataviche, alla rappresentazione primigenia, di collocarsi in una attualità, attualità che addirittura, nell’annullamento cronologico, è proiettata al futuro.

D’altronde la genesi è sempre l’epilogo, e l’alfa l’omega. La staticità movente, la semplicità da schizzo rupestre, ci riporta in parallelo ad una essenza primordiale dell’essere che come nell’esplodere di un pavesiano “grido taciuto”, di un urlo muto, si doglia di una violenza, di una sopraffazione, di un oltraggio.

“Urlo Divino”, questo il titolo e questa la sofferenza, questa la misericordia, questa la compassione, questa l’amarezza di un dio che non è iperuranico e disinteressato, ma dolente con noi, piangente come padre e madre premurosa nei confronti dei suoi figli. Questa la rappresentazione di quella giustizia divina che è differente da quella terrestre e lontanissima dalla nostra sete di vendetta. Il giardino affidatoci, il nostro mondo, la natura di cui siamo custodi, è stata da noi violata con ferocia, con desio smanioso di arricchirci e di distruggere, con la voglia di autogiustificarci e far scendere la natura stessa a patti con noi, portandoci il dio dalla nostra parte, come complice più che come padre, ignorando il suo sterminato amore ed additandolo come causa di disastri naturali, terremoti, naufragi, eruzioni vulcaniche. Come se avessimo, per un attimo, dimenticato la nostra spiritualità, meglio, che la nostra spiritualità ed il nostro agire inevitabilmente influisca sulle opere naturali, imponenti e splendide, affidateci. Affidateci da un padrone che non è padrone e che si fida di noi e che con noi soffre, e che ci dona talenti, intelletto ed amore tali da consentirci di vivere nella grazia, di raggiungere l’armonia. Ma noi tacciamo, per saccenza, per ingratitudine più ancora che per ignoranza, per una ignoranza, forse, colpevole, esimente scarna di chi sa ciò che ha nell’animo ma lo ignora, non vuole prenderne consapevolezza.

Dio, rappresentato come volto, in tipica tradizione cristiana e gnostica, di volto sublime e degno di contemplazione e lode, urla e si lamenta, ma non è un urlo umano, non è disperazione munchiana, non è decadentismo ed anima spersa. È un urlo taciuto, che esprime tale grazia proprio in una sofferenza che gli è propria e che nasce nella sua intimità divina e che si esprime e manifesta palesemente nel suo essere smorzata. È l’urlo tacito della sofferenza, l’urlo del padre, della madre, del fratello, dell’amico.  Alla sua destra due angeli stilizzati, di fattezza rupestre anch’essi, che ricordano molto le stilizzazioni delle civiltà precolombiane. Tali figure hanno le mani volte in alto, come in segno di preghiera, e dalla loro espressione, molto più umana del Supremo Volto, emerge una emozione, un frammento che distrugge la perfezione dell’assoluto riportandola alla concretezza, ai sentimenti che più familiari sono a noi esseri umani.

In tale dimensione primigenia ed apocalittica il verde, colore delle grandi acque, è anche la speranza per il futuro, il lamento è un monito, una scossa fortissima che non esclude anzi, come i fasci iridei intarsiati mostrano sapientemente, contiene in sé la sicurezza di una evoluzione, di un perfezionamento dell’uomo. L’arcobaleno accavallato è incisivo e rappresenta il ponte tra divino ed umano, unico appiglio, unica salvezza per noi essenti, viventi e per il mondo e l’universo tutto.

dottor Giovanni Di Rubba

Acrilico su Tempera e Cartoncino

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Autore: Antonio Marchese

Opera: acrilico tempera su cartoncino

Materiale e tecnica: acrilico tempera su cartoncino

Dimensioni: 50X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’oramai quasi costante ambientazione siderea del maestro Antonio Marchese ci immerge in una dimensione del tutto, in una allocazione spaziotemporale statica ed eterna. La percezione è quasi musicale, un aggraziato vibrare pitagorico, un silente e prolungato suono ci pone in una realtà meditativa e di quiete.

I colori sono pacati, siamo nell’universo rappresentato staticamente, come dicevo, ma che è al di là e dinamico proprio grazie alle variazioni cromatiche. Dividendo in due il dipinto notiamo uno spazio siderale ambivalente, il classico universo così come lo immaginiamo, a destra, un ammasso di stelle e nebulose, fisse, immobili, alla estrema sinistra, a destra e per gran parte del paesaggio, un pullulare di colori sì siderei ma quasi vividi, dinamici, che sorgono illuminati da una sfera, collocata alla estrema destra in alto, che campeggia. Una luna bianchissima, una essenza femminea che dona amore, brio all’etereo, che dà vita alla ragione, non frutto di mero raziocino ma nemmanco da esulare, da collocare come contorno, come elemento essenziale ma non sufficiente per il raggiungimento della armonia. C’è, insomma, l’essenza apollinea e gran parte di quella dionisiaca nell’intero contorno. Contorno su cui si appoggia il punto focale ed essenziale, al centro del dipinto, l’essenza sintesi delle due, quella ermetica, la sfera.

La sfera simbolo di conoscenza. Monolite etereo, eterno e mutevolmente perfetto, luminosissimo. Il verde che sembra quasi connotare una dimensione a noi conosciuta, quella dello spazio terrestre e sublunare, come a formare i continenti purissimi, smeraldini, verdi, emblema della natura, del sospiro panista. La natura di cui siamo custodi, la natura che nasce dall’azzurro primordiale e primigenio, genealogico del tutto, che domina la sfera e che si estende intorno, come a formarne un’aura, un respiro divino, un’aura che non è mero contorno ma che sembra condurre la sfera stessa in una dinamica in cui ciò che genera è al tempo stesso generato, ciò che avviene e si manifesta promana dall’essere e al tempo stesso lo crea, modella, accompagnandolo in un lieto navigare.

Tale sfera che, come è costante nell’Oltrismo, rappresenta la conoscenza, il bagaglio donato dalla divinità all’uomo per giungere attraverso la grazia all’armonia facendogli riscoprire le sue potenzialità e la scintilla che in esso alberga,  annulla il tempo e viaggia nel tempo e nello spazio, alla stessa guida del nostro bagaglio conoscitivo, sensibile, razionale, e che si dona all’altro per scoprirsi e che si dona allo stesso tempo all’universo di cui siamo parte e che è parte di noi e che è tutto di noi, custodi di un frammento d’assoluto che è il tutto, custodi dell’oltre, dell’immanente e del trascendente.

Naviga la sfera sapienziale nell’universo con lo scopo di fecondare gli spazi eterni e illuminare ogni essere, ogni cosa, in un gioco di specchi e di scambio reciproco di sapere e di amore, congiunti nella bellezza dell’esistente.

dottor Giovanni Di Rubba

Fiori di Carciofo

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Autore: Antonio Marchese

Opera: Fiori di Carciofo

Materia e tecnica: mista nitro su legno

Dimensioni: 60X120

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Antonio Marchese, “Fiori di Carciofo” ben si colloca nell’Oltrismo per messaggio e funzione, con la peculiarità che gli è tipica, quella di rappresentare un astrattismo primigenio, etereo nel suo manifestarsi, pulsante, genealogico. Il Marchese tende alla armonia oltristica collocandosi in dimensioni atemporali ed ataviche, il suo simbolismo si estrinseca in rappresentazioni di una profondità primitiva ma pulsante, che ci colloca al centro di rappresentazioni cosmiche in cui intuiamo l’essenza stessa, il suo nascere ed il suo promanare. E la profondità è qui, nello schematismo che ci induce a riflettere, ad ammirare l’istante creativo, il pneuma, il soffio vitale ed a renderci conto che ciò che fu in principio, prima dei tempi, è impresso in noi, orma del divino. Tale opera, infatti, ci induce a superare i nostri limiti riconducendoci ad una realtà che ci accomuna, che accomuna noi sensienti, l’essere simili, sostanzialmente eguali per origine comune, per avere in noi, impresso, quel soffio creativo, il respiro di Dio che era è e resta impresso come un sigillo, lo spirito che ci dà vita e che conserviamo in eterno, apprestandoci al passo successivo, comunicare agli altri ciò che gratuitamente ci è stato donato.

E tale semplicità non può non esulare da  un breve racconto, da un mito, quello della bellissima ninfa Cynara, chiamata così a causa dei suoi capelli color cenere, dagli occhi stupendi e profondissimo, tra il verde ed il viola, tra speranza e grazia e rimembranza. Bellissima ma orgogliosa e volubile. Il re degli dei, Zeus, se ne innamorò non ricambiato ed in un momento d’ira trasformò la dolce ninfa altera in un carciofo verde e spinoso come il carattere della ragazza. Tuttavia al pungente e belligerante ortaggio, guerriera amazzone corazzata, resta il colore verde e violetto dei suoi occhi profondi, ed il cuore  tenero. La sua spinosità nasconde il sentimento, l’amore, la poesia.

L’opera è stata realizzando soffiando sui colori, creando questi spiragli di essere, questi fiori di carciofo. Fiori dai pulsanti colori giallo a sfumature blu, come macchie, come sorpresi frammenti adagiati sul cosmico sfondo nero e che lo irradiano, come maravigliati di aver destato l’attenzione della divinità che gli ha dato vita con un soffio, che gli ha dato senso, che lo ha reso essere amico e non suddito.

Fiori che rappresentano l’essenza dell’uomo, dell’essere umano, prima della chiusura dello stesso in sé, nelle sue ostilità, nella sua smania belligerante, nella sua paura dell’altro, nell’odio, nell’invidia, che è solo una corazza. Una corazza che si formerà quando il fiore avrà prodotto l’ortaggio, quando l’essere umano, per scelta, avrà rinunciato alla sincerità ed alla semplice ed umile consapevolezza di essere creatura che ha destato l’attenzione del creatore, che ha nell’alma il sé divino. Così come racconta il mito di Cynara, per superbia l’essere umano ha voluto ribellarsi ed ha indurito il proprio essere.

La corazza resta e quest’opera vuole ricordarci le nostre origini, spingerci ad andare oltre non rinnegando ciò che abbiamo nel nostro tenero animo, ciò che eravamo.

dottor Giovanni Di Rubba

Ho sognato il mio cuore

cuore

 

Autore: Giuseppe Pollio

Opera: Ho sognato il mio Cuore

Materia e tecnica: olio su tela

Dimensioni: 40X50

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

“Nel mio quadro, i simboli  descritti, sono la sfera, che racchiude segreti personali, il rubinetto che dispensa le gioie e i dolori che questa vita ci dà. La donna simbolo dell’amore che ognuno di noi ha conosciuto e che porta ancora gelosamente custodito”.

Con queste parole esordisce il maestro Giuseppe Pollio nel descrivere la sua opera.

Essa rappresenta una visione onirica avuta dall’artista, una visione che imprime in sé particolari che esulano da una visione eterea ed impalpabile, una visione materialissima, concreta, contornata dalle immagini fantasiose ed elaborate ma che sono, sebbene irreali, fortemente protese ad una visione positivista e macchinistica. Il dipinto ha delle intense velature da scienza esatta. Il cuore, che fa bella mostra di sé al centro dell’opra,  è rappresentato con una precisione quasi anatomica, valvole e ventricoli. Il sogno avuto è vividissimo, il suo cuore uscito fuori dal corpo a rappresentare se stesso e la sua funzione. Anima pulsante materiale, nuova veste dell’oltrismo sarossiano, un materialismo onirico ma corretto, perfezionato, pienamente non esaurito in sé e pienamente ribelle al meccanicismo.

Il cuore diviene qui intruglio di valvole trascendenti e punto di partenza per partire dal materiale ed andare oltre, cercando di raggiungere l’armonia. Una armonia che, però, nel dipinto in questione, non si è ancora ottenuta. L’opra mostra la fase iniziatica di accesso alla perfezione armonica, il tassello di entrata, l’iniziale tenue luce che sorge, l’attimo di illuminazione che ci avvia all’equilibrio cui mira l’oltrismo. È un sogno, ed il sogno è quasi sempre un punto di partenza. E dove si posiziona il cuore? In un deserto, in una ambientazione quasi scarna ma piena, profondissima. Il deserto è il topos iniziatico, il liberarsi di sé per riscoprire o scoprire sé, il luogo di meditazione, silente, con in alto un cielo neutro ma presente e che sfuma all’orizzonte.

Solinga l’ama qui si colloca come il cuore ed è il cuore, l’organo che pulsa la linfa vitale, il sangue, il muscolo che batte ardentemente e che è l’artefice delle nostre emozioni, dei nostri amori, delle nostre passioni.

La visione scientista vuole essere superata, la allocazione del cuore in tale ambiente scarno, onirico e meditativo si ribella all’organicismo e diviene da tassello creativo, non più presenza materiale. Lo stile rappresentativo lo tramuta in un essente di escheriana memoria, un oggetto freddo che ricerca il suo calore e la sua trascendenza. È una vera e propria stanza, cui si fa ingresso tramite delle scale poste sulla sinistra e dalla destra esce l’immago di una donna nuda. Non ci è dato sapere cosa avvenga all’interno del cuore in tumulto statico, è lì che sono conservati i nostro segreti, le nostre gioie, i nostri amori, le nostre passioni, sappiamo però cosa ne esce, una donna, l’emblema di una sapienza, di una armonia e di una bellezza superba e superiore. Non è solo l’amore per l’amata o per l’amato, è un amore per l’universo. Il cuore, come purifica il sangue scambiando ossigeno per anidride carbonica tramuta noi, il nostro personalissimo vissuto in qualcosa di puro e sublime. E’ cosi che il maestro Pollio rappresenta l’uomo che supera se stesso e raggiunge l’armonia.

Tutto ciò, comunque, sebbene sia un percorso interiore non esula l’altro, anzi lo sublima e lo prepara a che questo processo evolutivo sia condiviso. Processo che promana da una sfera, simbolo di conoscenza razionale ma avulsa al sentimento, posizionata sulla sommità del cuore e, poiché priva di amore, di colore scurissimo, ma che donandosi si perfeziona, insegnando, da oscura e sterile, simile a mollusco senza passioni, migliora sé. Dal rubinetto, infatti, promanerà un fascio grigiastro, come espulso, ma è una fonte iniziale. L’oscurità si prepara a sublimarsi ed il grigiore sembra dirci che l’oscuro più tetro non si smorza subito, ma sfuma e si colora con il tempo e la pazienza. Per intanto, sparsi intorno al cuore, come parte di questo grande ingranaggio catartico, frammenti di noi, rossi come il generatore. Piccoli gesti di dono all’altro.

dottor Giovanni Di Rubba

Esseri in bilico su varchi dimensionali

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: Esseri in Bilico su Varchi Dimensionali

Materiale e tecnica: cartapesta su tela e smalti ad acqua

Misure: 80X60

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Ferdinando Todisco “Esseri in Bilico su Varchi Dimensionali” ben si alloca nelle atmosfere oltriste e possiamo considerarla, al pari di altre opere, come un percorso iniziatico con palesi peculiarità stilistiche, tipiche dell’artista.

L’opera presenta una varietà intensa e quasi visivamente assordante di colori. Un pullulare cromatico che si colloca in una dimensione opposta, ad esempio, a quella del maestro Marchese, il quale nel rappresentare la transizione pluridimensionale accompagna spesso visioni sideree, buchi neri, varchi cosmici. In questo caso il passaggio dimensionale è tracciato in una ottica più interiore, psichica, in cui appare come porta di percezione l’intensità cromatica accennata, la presenza vividissima, una percezione esponenziale che supera l’iride. Tali fasci cromatici lasciano il fruitore quasi sperso, incantato dallo psichedelico varco d’ingresso. Un varco che purifica il loro essere, che predispone la loro anima al raggiungimento dell’armonia.

E qui fanno ingresso tridimensionale varie figure, che vengono da mondi lontanissimi, portatori di pace e di armonia, esseri in bilico su tale varco dimensionale. In bilico perché l’artista, sapientemente, cattura l’immagine della transizione, del loro approdo sapienziale prima dello sbarco nella nostra realtà. Esseri che recano in noi la speranza della armonia, della pace, dell’amore, della vittoria –finalmente- della grazia e della bellezza sulle barbarie e sulla violenza.

Ma tali esseri, fuor di metafora, sono già in noi, sono i nostri talenti e le nostre potenzialità, sono i nostri coscienziali spiriti che ci indirizzano sulla via maestra, che ci spingono al ripudio della violenza in ogni sua forma, dello squallore del dominio su troni fangosi. In noi alberga la verità, in noi lo spirito di ricerca dell’armonia. Una armonia che questi “esserini misteriosi” ci porteranno.

La nostra anima che si manifesta è qui raccolta nel momento in cui stiamo per riacquisire la coscienza di noi, guidati dalle nostre esperienze, stanno riemergendo in noi, oramai purificati dall’arcobaleno che fa da sfondo, le forme  amiche di sapienza e d’amore.

dottor Giovanni Di Rubba

Intrecci

intreccio

Autore: Giuseppe Pollio

Opera: Intrecci

Materia e Tecnica: olio su tela

Dimensioni: 30X40

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

Il maestro Giuseppe Pollio rappresenta a tutti gli effetti una delle diverse angolature, diramazioni , sfumature dell’Oltrismo, movimento che declina, sotto il vessillo della ricerca dell’Armonia attraverso un attento lavorio interiore, la contemplazione della Bellezza e nella Grazia, insita nell’Universo e che tramite l’arte si rende palese manifestandosi.

In “Intrecci” ci troviamo in una ambientazione paesaggistica brulla, desertica, un deserto racchiuso in sezione aurea verticale, tranciato da una linea orizzontale che lo separa dal cielo. Il deserto meditativo è il luogo da cui compare il centro propulsore, l’immago mistica del dipinto. Un albero, una serie di alberelli a guisa di albero unico e ben saldo nella nostra interiorità, nella nostra ricerca, nel deserto dell’annullamento volitivo e della prova, del principio, del primo fattore, del primo grado attraverso cui ci è consentito raggiungere pienamente noi stessi, la nostra armonia, il nostro ammirare l’intero universo, contemplarlo stupiti e mai sazi delle meraviglie ad esso sottese, dei doni che ogni giorno ed ogni notte ci riserva, dai fiori che sbocciano solo per noi, alle stelle che sono lì per essere da noi ammirate, alle verdure, agli animali, alla madre terra, alla volta celeste, alla silenziosa luna, allo splendore del sole. Un albero inamovibile, ben saldo, dunque, e ben piantato, ma da cui emergono rami a mo’ di radici, in una inversione estasiante ed estatica. Le radici puntano al cielo, massima parte del dipinto, somma dello stato iniziatico di primordine e desertico, travalicano e puntano in alto, braccia protese verso l’infinito ardore celeste. Ben piantati e ben pronti aspiriamo al cielo, nella speranza di raggiungerlo, di piantare lì le nostre radici, non prima di averle ben piantate qui in terra, saldi.

Il groviglio, l’intreccio, rappresenta non una nostra ascesi individuale e solinga, egoistica, ma sono allo steso tempo immago della umanità tutta, dei legami nascosti e sottesi all’uomo. Sono i fili invisibili da dipanare che legano tutti i popoli, tutti gli uomini, tutti gli individui connotandoli come persone che travalicano la società per giungere alla comunità, alla reciprocità dialettica univoca e trina, alla contemplazione del profumo dell’esistente. Sono lo junghiano inconscio collettivo, le nostre comuni origini, dalla polvere, dal deserto, che si diramano verso l’alto, i nostri archetipi sono un tronco ritto e saldo, roccioso, solido, il comun denominatore delle umani genti. Archetipi nati dalla polvere, dalla terra, sorti così, che ci hanno generato alla guisa degli altri esenti non umani, vegetali, animali. Nati dal nulla eterno, dal caos primordiale statico, nati dal tutto armonico ed alla ricerca di armonia. Le nostre anime percorrono come i tronchi-radici talora, spesso ed anzi sempre, strade diverse, ma il risultato è il medesimo, così come il principio.

In solitudine scopriamo noi stessi e ciò che ci lega a tutte le umane genti e poi raggiungiamo l’estasi mistica, strade diverse che si intrecciano, come incontri, come i  nostri incontri che di  frequente ci accompagnano per brevi istanti o per la vita intera. Ma che in ogni modo restano sempre vividissimi, parte di noi. E noi che ambiamo tendendo, rami-radici, al cielo non ci estraniamo dal mondo, ma doniamo ad esso i nostri talenti, le nostre passioni ed il nostro sapere ed ancora soprattutto il nostro amore, uniti qui, in un solo abbraccio, tendenti all’assoluto, per poi raggiungere lo stesso ed essere finalmente unici perché uniti agli altri ed alla Natura tutta, ed a ciò che non è visibile, coperto dal velo di Maya ma che si svelerà e mostrerà un giorno.

Noi doniamo, doniamo agli altri parte di noi, a chiunque incrociamo nella nostra vita anche solo con uno sguardo, ed agli sguardi che mai vedremo ma che spesso si raccolgono in uno sguardo solo, contenente l’umanità e la natura ed il cosmo e l’universo tutto. Noi doniamo parte di noi e germogliano, nel deserto brullo, fiori, come le ginestre vesuviane ed al tempo stesso come i girasoli che ci guidano verso la luce.  Germogliano floreali qui, sulla terra, per non dimenticare che anche nella solitudine o nella disperazione, un odorosissimo soffio divino ci accompagna. I nostri piccoli attimi che ci conducono all’eterno e che non sono solo speranza, ma manifestazione vivida, viva e reale. Qui ed ora.

dottor Giovanni Di Rubba

La disperazione e la consolazione degli angeli

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: La Disperazione e la Consolazione degli Angeli

Materia e Tecnica: smalto all’acqua su pittura a olio

Dimensioni: 80X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Ferdinando Todisco “La Disperazione e la Consolazione degli Angeli” è collocata in una ambientazione cromatica di rosso pullulante ed intenso, colore vivo, che traluce imponendo la forza dell’amore, la pulsione dell’eterno desio di fratellanza insito nell’alma umana. Un desiderio vivo, presente. Ma allo stesso tempo  la smania d’amore è smorzata dalle figure che abitano tridimensionalmente il dipinto.  Il rubino intensissimo diviene senso di smarrimento, quasi in maniera subitanea, osservando nell’insieme  il tutto. Un colore vivace che colpisce e che si rattrista dopo pochi attimi di osservazione.

In ginocchio un essere umano, in atto implorante, quasi a chiedere venia all’assoluto, quasi a chiedere una giustizia ultramondana, eterna, divina. Un personaggio posto al centro del dipinto e per ciò anima dello stesso, del tormento umano innanzi alle molteplicità di doni offertici ed alla impossibilità di essere felici. Una figura che si innalza ad emblema dell’umanità tutta, contornata da una intensità abbagliante, che è amore, che è sangue, che è disperazione.

Chiede venia, dunque, chiede un aiuto alzando il capo con le mani protese al cielo, in questa dimensione monocromatica e statica che lo induce alla monotonia, alla banalità delle sensazioni, al desiderare qualcosa in più, quasi a stridere per l’abitudine in cui è rinchiuso, racchiuso nel suo dolore chiede un’illuminazione, chiede quale sia la ragione, quale il motivo, quale la causa delle umane sofferenze. E il cielo gli appare umano, gli appare terrestre, gli appare sua stessa realtà. Non c’è distinzione tra i colori, tutto è racchiuso nell’intensità statica dell’esistente.

In alto due occhi, posizionati in sezione aurea nel dipinto, l’emblema di Dio. Di un Dio veramente trino, rappresentato, caso unico, non con un solo occhio che tutto vede ma con due occhi, come fosse egli steso scosso, come fosse egli stesso conscio del dolore, perché incarnato, perché fatto uomo, perché nato generato di carne umana. Non occhio onniveggente ed onnisciente solo, ma visione umana binoculare, visione che reca in sé l’uomo ed il Dio, la divinità e la corporalità. Occhi di un vividissimo nocciola, quasi colore di terra pura, di madre terra, quasi odore incantevole del terriccio genealogico, contornati da altre forme tridimensionali a mo’ di ciglia, a mo’ di aura. Dio misericordioso che invia sprazzi di colore che fanno comprendere all’uomo l’essenzialità delle piccole cose, quelle linee, segmenti di giallo, di ocra e di verde consentono all’uomo di non abbagliarsi pel troppo amore, e di non cadere, per troppo desio, nella concupiscenza o nella violenza, altri accidenti del medesimo colore. l  fasci rettilinei che emanano da un Dio fatto uomo ridimensionano l’egoismo umano e Dio stesso invia i suoi emissari, le sue spirituali promanazioni . Gli angeli, i suoi messaggeri, contornati di aureole mosse, scosse e sapienti, non circolari, ma imperfette, come l’altalenare del sentimento umano, come le ciglia del Grande Artefice d’Amore incarnato. E questi soccorritori sono la forza propulsiva, lo spirito che è in noi e che ci rende partecipi alla essenza divina pur senza comprenderla appieno. Intuendola, senza pretendere di avere in sé l’immenso rosseggiante amore che, per nostra finitezza, potrebbe essere stravolto.

E qui, come nel clima natalizio, si scorge il vero significato di questo amore, di questo rosso che non abbaglia, della disperazione e della maledizione umana che si redime, che raggiunge l’equilibrio, che tende all’armonia, all’armonia di sapersi imperfetto, incompleto, e sempre necessitato di accrescere la sua spiritualità.

dottor Giovanni Di Rubba

Rione Terra

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Autore: Giuseppe Pollio

Opera: Rione Terra

Materia e Tecnica: olio su tela

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Giuseppe Pollio “Rione Terra” prende il nome dalla famosa colonia stanziatasi nei pressi di Pozzuoli intorno al 529 a.C.,  a seguito della migrazione degli esuli Sami che, perseguitati in patria dalla tirannide, quivi costituirono una Dicearchia, ovverossia un governo di Giusti, basato sull’equilibrio, la moderazione, la libertà e l’armonia.

Nel dipinto appare in primo piano uno stralcio di una piccola imbarcazione, una navicella insediata su di uno sdrucciolato porticciolo, uno stralcio che rappresenta a tutti gli effetti il nostro presente cosmico, il nostro essere qui ed ora nella attualità ma, allo stesso tempo, il nostro presente interiore, il nostro essere qui, situati in un tassello evolutivo statico, come la navicella che è sul porto pronta a salpare ma non è ancora insediata nell’acqua. Il nostro essere noi stessi presenti ci spinge a guardare di lontano la costa, che assurge a limite da varcare, una costa verdeggiante e speranzosa, che è il nostro per aspera ad astra e che tanto ricorda i monti allegorici delle rappresentazioni sarossiane.

Noi, in questo frammento evolutivo, siamo pronti per immergere la navicella del nostro ingegno e del nostro ardire in mare, a che prenda il largo, vivi la propria vita nella pienezza, nella coscienza, nella consapevolezza e nell’amore. Ma il passo tarda, l’illuminazione nostra interiore necessità di uno sprono, ha timore di temperie, è lì, a metà, sul porticciolo, con la prua propendente ed il proprio passato, la propria poppa, alle spalle. E senza passato, per quanto arditi, non raggiungeremo mai le rive dell’assoluto, non raggiungeremo mai la nostra consapevolezza.

Tuttavia ecco che dal mare si erge una sedicciuola, piccola, familiare, ma possente a mo’ di scranno. Ed è quello il nostro vero passato che può proiettarci verso il nostro mondo interiore. Lo scranno in cui è assiso il Rione Terra, il vecchio porto romano preostianao, il segno della cultura e della giustizia, della libertà assoluta. Della nostra Armonia. È quel pensiero, quell’attimo, quella vista superba perché avvolta dalla candidezza e dalla possenza del passato, ma al tempo stesso umile perché sceglie non un trono dorato, non un amplissimo altare, ma un oggetto comune, a simboleggiare che il nostro ancestrale essere collettivo, il nostro mondo interiore ereditato dagli avi che ci rende partecipi di ciò che è davvero nostro perché assiso su ciò che a noi è chiaro, evidente, conosciuto, familiare. Il nostro passato remoto, lontanissimo, gli albori stessi della civiltà sono impressi nel nostro DNA e, nascosti nella nostra interiorità, appaiono palesi, senza necessità di attentissime analisi ma con una presa di coscienza che parte dal nostro mondo, dai nostri piccoli, umani e densissimi segni umili, gesti sinceri, dalla nostra sedia domestica ed amica.

Questo passato porterà l’intellettuale navicella, colma della sapienza antica, dell’umiltà del nostro presente e della pienezza dei nostri affetti a prendere il largo, ritta in prua.

dottor Giovanni Di Rubba

Red Sprite

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Autore: Salvatore Parisi

Opera: Red Sprite

Materia e Tecnica: olio su tela;  tecnica mista pennello / tampone

Dimensioni: 60X60

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Salvatore Parisi “Red Sprite”, ovverossia spiritello rosso, prende spunto da un fenomeno atmosferico elettrico che avviene negli alti strati della atmosfera, anche fino a 80 km di quota, più precisamente al di sopra di fenomeni temporaleschi, ed è  associato alla ionizzazione dell’aria. Raramente è osservabile a occhio nudo, dura in genere non più di dieci millesimi di secondo.  In buona sostanza i fulmini scaricano a terra l’elettricità statica partendo da una massa di materia satura mentre gli spettri rossi la scaricano da una massa posta sopra a quella stessa che ha originato il fulmine e verso essa. Tale fenomeno si pone in essere quando la scarica di un fulmine ha una elevata intensità di corrente, al punto che a terra sprigiona una massa di materia rendendola  “recettiva” e provocando un afflusso di elettricità verso essa dalla massa sovrastante, in forma appunto di “spettro rosso”.  A causa della diversa densità, composizione o temperatura il loro fenomeno è ben diverso da quello dei fulmini pur se similare il fenomeno, ovverossia la scarica elettrica.

La loro colorazione, tipicamente rosso-blu, è dovuta alla forte presenza nell’atmosfera terrestre di azoto  avvicinandosi al terreno, la pressione atmosferica aumenta a causa della gravità e con essa la concentrazione del gas nell’aria provocando una graduale variazione di colore degli sprite, che dal rosso passano al viola e poi al blu in prossimità della troposfera.

Nell’opera del maestro Parisi è rappresentato magnipotente un abbagliante sole, una luce immensa che sovrasta e domina il dipinto, in cui si distingue una sfera, il sole accecante contornato da piccoli raggi di colore ancora più intenso ed avvolto in una ulteriore sfera gialleggiante e psichedelica, a tratti ipnotica. Si tratta dell’abbaglio provocato da due sfere simbolo, come costante nell’Oltrismo, della conoscenza. Una prima forma abbagliantissima e che risalta agli occhi, quella solare, è l’empireo gnostico, l’involucro conoscitivo sommo, che l’occhio umano impreparato rischia di non sopportare. È un abbaglio possente, simbolo di intensa forza conoscitiva. E risalta, come dicevo, subito al fruitore che, quasi investito da una forma conoscitiva all’apparenza irraggiungibile, sposta lo sguardo d’intorno, ove il giallo e la luce si fa più fioca, ove quasi si inizia a capire l’essenza stessa del sapere, la via maestra della armonia che non è tuffo immediato ma va appresa a gradi.

Nella parte sottostante il dipinto, infine, l’occhio si sposta, e qui emerge il descritto fenomeno sprite, che l’autore immagina come varco verso l’essenza conoscitiva, come la mescolanza armonica cromatica che va dal rosso al blu lasciando nell’intermezzo il viola, come se passione rubinea, conoscenza blu d’abisso, si fondessero in una frazione mediana e mai conclusiva, ma sintesi delle due, che nascono e si rigenerano in un processo dinamico di tensione armonica. Il maestro Parisi ha curato il dettaglio accompagnando per mano il fruitore nel percorso del dipinto, ponendolo subito innanzi all’abbaglio della sapienza, per poi condurlo nel più tenue sentiero, ed infine al varco, allo sprite, al follettino, allo spiritello, che è il mezzo d’accesso. La prima evoluzione dialettica umana di tesi, antitesi e sintesi che ci consentono di aprirci verso mondi conoscitivi e potenzialità  immani dell’umana specie e della natura tutta.  Processo che per noi è un accesso dialogico ma che è anche un dono, perché ricettivo di una intensità lucente fortissima ed attenuato come lo sprite per consentirci il varco.

Guardando l’opera percorriamo una Commedia dantesca all’inverso, ma col medesimo monito e con un avvertimento ulteriore, per ammirare l’immenso, l’assoluto, il bagliore eterno della luce solare invincibile, occorre percorrere la strada a gradi. Il fruitore lo scopre, assaporando sulla sua pelle, tramite l’osservazione del dipinto percepisce  cosa avviene a chi salta gradini e vuol comprendere senza predisporre il proprio animo alla comprensione. Una connotazione, questa, non solo da guida ma soprattutto pedagogica.

dottor Giovanni Di Rubba

L’Addio

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Autore: Giuseppe Pollio

Materia e Tecnica: olio su tela

Opera: L’Addio

Dimensioni: 50X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Giuseppe Pollio “L’Addio” è un lieto saluto al passato e si proietta, in una dimensione onirica, verso il futuro.

Dividendo il dipinto in due parti con una linea orizzontale notiamo la sezione aurea che descrive sapientemente, in basso, delimitata da un muretto la realtà nuda e cruda, un passato che è quasi tormento ma al tempo stesso speranza, rappresentato da una donna nuda stessa di dorso, lunghi capelli neri e fascino mediterraneo, dolente e spoglia del suo ero e con braccia protese verso il muricciolo, per tendere alla dimensione superiore, quasi abbracciarla, arrampicandosi sul limite ultimo del confine, sul varco, delimitato dal muretto. La donna è l’umanità, la donna è la madre terra, la donna è la natura, la donna è la nostra dimensione terrestre e sublunare, la donna è il nostro nudo vestigio reale. La donna è la nostra dimensione, la donna è la sete di libertà, la donna è la nostra disperazione e le nostre aspirazioni. Una donna Parthenope, una sirena, una bellissima immago alla ricerca dell’amore, per giungere all’armonia.

E questa è la parte superiore del dipinto, i due terzi, una visione marina, un paesaggio costiero ove di lontano una caravella salpa per nuovi mondi. È il nostro pensiero, la nostra creatività, il nostro talento, la nostra sete di ricerca, la nostra propensione al viaggio, un viaggio per scoprire ignoti mondi, nuovissimi mondo, mondi che sono la nostra sublime interiorità. La lieta navicella alza le vele verso un’altra essenza femminea, verso la luna, verso la sfera che come costante dell’Oltrismo è simbolo di conoscenza, e che qui, nelle vesti seleniche, mostra quanto la gnosi sia sublimazione femminea, quanto per raggiungere l’armonia dobbiamo salpare verso nuovi approdi, silenti spiagge lunari, ove raggiungere il nostro ricercato equilibrio, il nostro abbraccio sperato. Il mare, deserto meditativo, è il mezzo, la navicella/caravella il vettore, la sfericità selenica la meta.

Così nella nuova armonia di un nuovissimo mondo il viaggio non sarà periglioso, per aspera ad astra ma non siamo soli, non siamo soli nella navigazione, non siamo in balia di flutti e marosi. In soccorso giunge un gabbiano, o forse un albatros che con le ali da gigante fa fatica a camminare ma che è anche simbolo dello spirito, giunto per nostra salvezza, giunto per liberarci dalle prigionie e dal dolore, giunto per accompagnarci verso l’assoluto, verso la scoperta armonica di noi stessi. Il gabbiano accorre non solo per la salvezza della donna, emblema nostro ed emblema composito universale, ma nel tornare indietro dà un messaggio di libertà e di forza, di spinta vitale, anche al fruitore. È lì, ben collocato, al di sopra della sfera ma diretto verso noi, verso la donna. è al tempo stesso primo soccorso dell’alma spersa e risultato finale della ricerca.

dottor Giovanni Di Rubba

L’amore e l’uguaglianza il futuro dell’umanità

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: L’Amore e l’Uguaglianza. il Futuro dell’Uomo

Materia e Tecnica: smalto all’acqua cartapesta ovatta su tela

Dimensioni. 80X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Ferdinando Todisco “L’Amore e l’Eguaglianza, il Futuro dell’Uomo” si proietta in una ambientazione cromatica primordiale e rupestre, dal sentitissimo gusto ancestrale. E per due ragioni. La prima, che è ormai pressoché una costante nelle realizzazioni del Todisco, è la visualizzazione che emerge ictu oculi al fruitore, una realizzazione fatta plasmando le figure, come nella genesi il Grande Artefice, il Creatore, il Dio Sommo Amore, fece con l’uomo, modellandolo a sua immagine e simiglianza. La seconda è di carattere più schiettamente cromatico, l’utilizzo di colori primigeni quali il rosso e sfumature di giallo pone la realizzazione delle figure umane come fossero incise nelle grotte abitate dai nostri lontanissimi discendenti. E ciò è posto in risalto ancor più dalle increspature ed avvallamenti, dalle imperfezioni di contorno che ci conducono nel buio delle origini, nel varco profondo delle caverne, ravvivate da incisioni eccentriche e vividissime.

Emergono due figure adamitiche al centro, due esseri umani, un uomo e una donna, che si tengono per mano, ma i tratti sessuali sono incerti, come a definire un amore che supera ogni limite e barriera. Ipotesi questa confermata dal diverso colore della pelle degli umanoidi. Un amore che tutto vince, perché rende eguali perché simili e non perché individui, macchine, automi, ma proprio perché persone, animali comunitari, che tenendosi per mano rompono ogni sorta di pregiudizio. In basso, a destra ed a sinistra, due feti, simbolo della rinascita e simbolo della rigenerazione, ed emblema del nostro futuro, un futuro tinto di speranza perché nato dall’amore, e che per ciò stesso va oltre. Le figure sono avvolte nella calda placenta materna, che li protegge e ne preserva lo sviluppo, proiettandoli verso un mondo nuovo di cui saranno artefici, creatori, eredi. Una placenta colma di tale materno amore, di un rosso intensissimo, caldo, pulsante, cordico, collocati in basso non per importanza minore ma prorpio perché rappresentano ciò che sarà e, dolcemente avvolti, sembrano essere in una nuvola, quasi come fumetto, perché pensiero, progetto, della coppia.

Il maestro Todisco prospetta una speranza, dà voce alla rigenerazione, alla rinascita, al progresso umano, all’embrione che è il nostro futuro e che è ciò che saremo, e che rappresenta in maniera intensa ed ineluttabile noi, il nostro sigillo, in ogni nuova vita c’è parte di noi ed al tempo stesso c’è novità. La imperfezione della riproduzione! Non generiamo esseri perfettamente uguali a noi ma esseri che conservano parte di noi, e vanno oltre, vanno oltre dando un contributo all’universo con la novità insita nella loro esplorazione del cosmo, del tutto, della natura. Noi siamo parte di noi, e loro sono i veri oltristi, le future generazioni. Coloro che andranno oltre. E nel dipinto è espresso in maniera chiarissima la molla generatrice, il massimo fattore che plasma essenti, li modella, come ha fatto l’artista  con questa opera, ma li lascia in qualche modo liberi, malleabili, a che la forma rimanga ma non sia statica e si modifichi con l’esperienza e con il contatto con gli altri essenti. L’amore genera tutto, come nella stretta di mano tra i due soggetti  e come nell’immago degli embrioni.

Il rappresentarli di colore diverso mostra un elemento aggiuntivo e forse essenziale, cardine, al concetto di eguaglianza. Che il nostro futuro, gli embrioni, ciò che lasceremo, ciò che rimarrà di noi, si modellano accrescendosi in perfezione e migliorando il mondo proprio grazie alla mescolanza di razze, come espresso egregiamente dalla coppia. Più c’è diversità nell’amore più c’è evoluzione, più c’è modificazione, più c’è “errore creativo”.  Vale a dire che l’evoluzione è possibile solo se il corredo cromosomico è vario, più è vario più l’intelletto ed il corpo sono perfetti. Questa la ragione della fallacia di ogni ideologia che propende per un nazionalismo esasperato o per una superiorità.  Esseri troppo simili per caratteristiche genetiche se uniti tendono alla estinzione, a generare abominio, staticità, morte. La mescolanza etnica genera la vera eguaglianza, perché è ella stessa eguaglianza e l’eguaglianza diviene generatrice di esseri  eguali ed evoluti, parzialmente imperfetti e per ciò stesso perfettissime creature. Creature che vanno oltre, verso l’armonia.

dottor Giovanni Di Rubba

Migranti

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Autore: Laura Luperini, poetessa ed artista

Opera: Migranti

Materia e Tecnica: acrilico su tela

Dimensioni: 60X50

Poesia di: Laura Luperini

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

“Là ,nel mar di Lampedusa

gente inerme va incontro all’ignoto.

Nel buio barconi solcano l ‘onda.

S’odon lontani pianti e lamenti,

bimbi strappati a un cuore di madre,

donne violate senza ragione.

 

Poi una luce illumina loro.

Il loro viaggio forse è la fine

Sperano tutti che arrivi l’aurora.

 

Laura Luperini”

 

Questa la poesia di commento della pittricia e poetessa Laura Luperini alla sua opera “Migranti”. Parole dense, pregne di significato; ognuna delle tre stanze rappresenta un attimo, come se fosse un piccolo dipinto che cattura l’istante e che, nel catturarlo, imprime una emozione, la partenza di gente inerme, privata amaramente di ogni dignità, che prova paura per l’abisso, che va incontro all’ignoto, al non conosciuto, all’incertezza, attraverso un mare vorace che divora. Nella seconda stanza il dolore, dolore di bimbi strappati al cuore, all’amore delle loro madri, donne violate senza alcuna ragione, violate, private della loro grazia, della loro intima femminea essenza, soffrono soggetti deboli, i bambini che non splendono in un sorriso come sarebbe giusto che sia, né le donne, siano esse madri premurose oppure giovani sperse ed oltraggiate senza motivo alcuno. Terza stanza, la speranza, il riuscimmo a riveder le stelle, l’uscimmo a riveder le stelle, ma il buio permane, ed il viaggio non finisce. Tutti, taciti, muti, attendono che sbocci l’aurora.

Nell’opera pittorica l’autrice esprime egregiamente questo concetto puntando sulla variabilità cromatica, variabilità che è un arzigogolo, un caotico effluvio di sensazioni, di pensieri, di silenzi, coacervo cromatico che rende al meglio la disperazione, la mancanza di futuro, l’inadeguatezza dei migranti in questo mondo escludente e spesso categorizzante. Loro non lo sanno bene, lo intuiscono, lo intuiranno. Ma sanno comunque che l’ignoto è un abisso, come il mare che solcano.

In fondo a sinistra, dai colori, emerge una figura come imbarcazione, adagiata su un mare calmo, si è giunti alla riva, calmo nei flutti ma guardando attentamente di lontano si scorge l’oscurità, come nube terribile e divoratrice, come terribile Cariddi. Ma comunque nell’estrema sinistra, in questo scorcio, il cielo è limpido, si è sbarcati, i brutti ricordi sono solo una macchia oscurissima ma passata. Al centro un caos quasi schizofrenico, emergono figure umanoidi, come ombre, fantasmi, fantasmi del ricordo, fantasmi delle loro splendide terre dimenticate e colme di spiriti. È una vera e propria confusione totale, è il migrante al varco, tra questo mondo ed il suo, disperato e quasi malato, certamente malato in quanto sperso, in quanto non riesce a miscelare i mondi, ci prova, e nella miscela emerge il caos della inumanità, gli schizzi ed i graffi della indifferenza. Alle sue spalle c’è una luce, l’approssimarsi dell’aurora, la speranza, ciò che spinge i migranti ad andare avanti. Non è inquadrata nello sguardo delle centrali orme stanche, ma c’è, ed un giorno arriverà, loro lo sanno, “sperano che arrivi l’aurora”. E questa speranza è un sogno, un sogno di armonia e pluralità culturale, un sogno di raggiungimento della serenità, della felicità e della dignità, andando oltre preconcetti e pregiudizi, oltre la rozzezza della violenza per poter contemplare, pregni d’amore, la bellezza che è in ogni essere umano. E questo sogno, proiettato nel futuro, è alla estrema destra del dipinto, non ancora avverato, è una grotta lucente, colma d’acqua e di vita, colma di un’acqua diversa dagli ignoti abissi solcati, un’acqua serena, un varco azzurro, un’acqua generatrice, materna, che attende di essere raggiunta, quando l’uomo saprà mettere da parte odi e rancori, indifferenza e vanagloria, voglia di sopraffare l’altro. Una dolce grotta armonica e celestiale e di speranza attende il nostro mondo, il nostro universo, da tempo in evoluzione.

dottor Giovanni Di Rubba

La sofferenza nel mondo

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: La Sofferenza del Mondo

Materia e Tecnica: cartapesta, ovatta, e smalto all’acqua

Misure: 50X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

“L’arte vera è quella che si inventa, come tutte le invenzioni che ha fatto l’essere umano, un vero artista è colui che va oltre se stesso, è colui che trasforma in materia tutte le sue emozioni e sensazioni, è colui che va oltre ogni immaginazione, è colui che entra in un’ altra dimensione, non ha importanza la bellezza, ma è importante quello che ha voluto rappresentare, e ogni artista è unico nel suo genere, […] la cosa più importante per me è quello che Dio mi ha donato, il suo dono è ciò che sento e ciò che vedo, quando mi siedo e guardo una tela bianca chiudo gli occhi ed entro in un’altra dimensione. È  come entrare in un mondo parallelo al nostro. Questa è l’arte, è ciò che abbiamo ognuno di noi, nel nostro profondo, che aspetta di essere trovata.”

 

Con queste parole il maestro Ferdinando Todisco dà una definizione di arte, in relazione al suo lavoro “La Sofferenza nel Mondo”.

Un’opera cruda, nuda, terribile ed incisiva, come le sue parole. Un grido taciuto ma eloquentissimo, che emana da uno sfondo rosso quasi sbiadito, cartapesta disillusa, velo di maya infrangibile, trappola mortale. È così che si sente l’essere umano chiuso nella sua dimensione, incapace di uscirne, avviluppato tacito nel suo sconfinato dolore. Noi che osserviamo il dipinto ascoltiamo sinesteticamente questo dolore ma tacciamo sordi innanzi al silenzio. Alla incapacità comunicativa, ad un groviglio di esseri chiusi nelle loro maglie, stretti come tra vortici assordanti, tra gironi infernali, tra gorghi senza via d’uscita. È l’urlo dei dannati, che bramano la luce. E noi, che non li ascoltiamo, vediamo l’emergere di questi esseri dal dipinto, dall’involucro invalicabile. Tanti volti inespressivi ed inorriditi, spauriti ed arrabbiati. Ma non siamo all’inferno, l’inferno di questi esseri, l’inferno degli umani rappresentato dal Todisco, è qui, sulla terra, nella sofferenza patita, nella gabbia del dolore. E della violenza, del sopruso, della povertà, dell’indifferenza. Langue l’uomo, si ribella. Come a chiedere giustizia. Emergono le teste, teste non maledicenti e mefitiche, teste umane che chiedono giustizia, che chiedono libertà dal giogo terribile, dal covo di serpi, dall’intarsio di rovi che il mondo, a noi affidatoci come giardino, è diventato.

In alto ondeggiano come creste sonore le grida. L’abilità del maestro Todisco nel rappresentare un dolore muto è qui, se nella dimensione inferiore i volti sono spersi, se le loro grida sono impercettibili, in alto, nella metà superiore del dipinto, il loro silenzio è ascoltato, anche chi non trova parole adatte per ribellarsi al sopruso dell’esistenza è decodificato in una essenza superiore, che accoglie ogni richiesta, flutto sonoro increspato. C’è una dimensione superiore, di speranza, che ascolta il tacito lamento umano, le grida di rabbia ed impotenza. Non occorrono parole giuste, espressioni esatte. È ciò che abbiamo dentro  che ci salva, non gli arzigogoli di parole, non la retorica fine a sé. Dalle tante grida poche sono le increspature, poche e serene, accolte in un abbraccio divino. Purificate dall’inutilità del troppo e misericordiosamente comprese, nella loro essenzialità, che è ciò che abbiamo nel profondo dell’alma, che è ciò che davvero siamo.

dottor Giovanni Di Rubba

Teniamoci per mano, l’armonia dell’universo

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: Teniamoci per Mano. L’Armonia dell’Universo

Materia e Tecnica: smalto all’acqua su tela

Dimensioni: 70X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Ferdinando Todisco “Teniamoci per Mano, l’Armonia dell’Universo” esprime appieno il senso unico della vita, il principio e l’origine, l’essenza ultima, la molla generatrice. Il dantesco “amor che move il sol con l’altre stelle”.

Di spalle, come fossero osservatori ad una mostra, fruitori dell’opera, fanno la loro comparsa nel dipinto una coppia di innamorati che si tiene per mano. Abilmente il Todisco rappresenta come soggetto colui che contempla l’opra, colui o coloro che la osservano. Estraniati quasi, al di là del mondo, pellegrini d’universo, che ammirano la grandezza del creato e viaggiano in atmosfere suvraterrestri. Un’ambientazione cosmica quella dell’autore che si colloca nella dimensione tipica di un altro oltrista, il maestro Antonio Marchese, che fa dell’universo e dei buchi neri, della materia cosmica, l’oggetto e il soggetto del suo lavoro e della dimensione trascendente dell’arte. Ma mentre l’uno delimita e segna varchi evidenti, passaggi per raggiungere mondi nuovissimi, veri e propri wormhole ove lo spirito cerca e trova transizione, qui il varco si apre nell’istante in cui gli amanti si tengono per mano. Vanno oltre, al di là, contemplando l’armonia coeli, l’armonia del creato.

Lontano un pianetino giallo sulla sinistra, sulla destra minuto e rosso come spia cosmica, pianetini abissali, collocati in fondo al dipinto e quindi distanti da noi ed anche tra loro stessi distanti, perché la fine del quadro è il punto di partenza dello stesso, è la lontananza inenarrabile che si colma, completa e supera negli amanti stretti per mano, che sono il principio e che trovano nell’al di là estremo ciò che erano e ciò che sarebbero divenuti senza quell’amore, colto in un gesto semplice ed assoluto.

Avvicinandoci ancora un pianeta celeste, come la terra, colmo d’acqua, linfa vitale, l’acqua che fa avvicinare esseri distanti, che generando ammira l’amore manifesto, contornata da un satellite, il nostro, lunare ma vivido nel colore non pallido, come scosso dal terremoto amoroso. Ancora più giù, sulla sinistra, il passaggio successivo, una sfera che inizia ad assumere non più forme cromatiche omogenee ma inizia a colorarsi grazie alle prime parole ed ai segni, ed ai gesti degli innamorati. Per finire, alla destra, in un tripudio cromatico estasiante, un coacervo di colori dolcissimi, che leziosi illuminano gli amanti.

L’excursus appena fatto questo delle sfere, contenitori di sapienza, rende evidente un processo evolutivo che culmina nell’amore tra uomo e donna, tra fidanzati estraniati e contemplanti, i quali, stretti per mano e proiettati in una dimensione ultramondana contemplano l’universo dagli antipodi ai pianeti più vicini, ripercorrendo la loro storia, all’indietro, come in una evoluzione in cui, oramai, le distanze iniziali, seppur fondamentale punto di partenza, sono lontane, e il tripudio di colori è l’amore della gioia presente.

dottor Giovanni Di Rubba

La Fonte

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Autore: Giuseppe Pollio

Opera: La Fonte

Materia e Tecnica: olio su tela

Dimensioni: 40X50

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Giuseppe Pollio, “La Fonte” è la prima del nuovo anno, 2017, e si collega direttamente all’ultima del trascorso, “L’Addio”.

Sul limite del mare vi era una donna, emblema della umanità, della natura, di noi stessi, che da dietro un muretto attendeva il soccorso di un gabbiano, carico di speranze e conoscenze, ponte tra la navicella/caravella sul mare diretta verso la selenica sfera sapienziale, e noi, ponte tra un tempo ed un altro.

In “La Fonte” il discorso sembra continuare, disteso di traverso e di spalle vi è ora un uomo, emblema dell’umanità che si sveglia come quando scossa da un nuovo tempo che arriva. Una umanità destata dal futuro, da ciò che ci riserveranno e porteranno questi giorni, questi mesi. In alto un cielo annuvolato su cui fa bella mostra di sé un astro, rubicondo ed azzurro. La sfera simbolo di sapienza qui non è la luna ma la nostra Madre Terra, il nostro Mondo, il pianeta azzurro, si scorgono continenti e distese d’acqua. È la donna de “L’Addio”, è il nostro passato, ciò che ci riserva la memoria, le nostra azioni, i nostri propositi.

Si chiude la volta formando una sorta di “V”, un archetipo, un simbolo, la rappresentazione dell’incontro tra cielo e terra, il ponte, il varco tra essi, la congiunzione temporale, la rimembranza. E da tale varco sgorga acqua sorgiva, una fonte che scende lieta in un muretto ove è coperto il sonno dell’uomo, di muschio, di colori silvani, di speranza ed anche del nostro essere noi nascosto, del nostro essere più profondo.

L’acqua scende a mo’ di sorgente ed ha già compiuto parte del suo percorso, collocata come letto statico del dormiente. Continua nel suo inesauribile corso e disseta, fiumiciattolo che è l’avvenire, si rinnova. E l’uomo è catturato nel momento in cui sta acquisendo coscienza di sé, sembra quasi si stia alzando, scosso dal dolce gelo dell’acqua sorgiva, pronto e ristorato dal frullio acquoso, riprende vita, è il momento di iniziare questo nuovo percorso. Ha con sé un bagaglio conoscitivo, che è il suo passato, ha il ristoro dell’acqua, che è la vita pullulante, può incamminarsi per i sentieri del mondo seguendo il suo sentiero, costeggiando il fiumiciattolo, può trovare la sua armonia, la sua felicità. Può rinnovarsi, andare oltre.

dottor Giovanni Di Rubba

Vittoria, ode alla libertà

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Autore: Ferdinando Todisco

Opera: Vittoria. Ode alla Libertà

Materia e Tecnica: smalto all’acqua, ovatta, cartapesta, su tela

Dimensioni: 70X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Ferdinando Todisco “Vittoria, Ode alla Libertà”  rappresenta una ambientazione ormai tipica e caratteristica del contributo artistico all’Oltrismo dell’autore che scova la ancestrale ricerca di armonia in raffigurazioni arcaiche e quasi rupestri, le quali proiettano il fruitore ai primordi della civiltà conducendolo al primitivo ma attualissimo desiderio umano, attualissimo perché scava negli archetipi sepolti dell’essere umano, in simboli insiti nella natura stessa dell’anima.

L’opera è divisa in due, una parte terrestre ed una sovraterrestre, quella in basso fatta di riti e preghiere, rappresentazione vivida della speranza e che ha come sfondo un policromatismo genuino e pullulante, stralci di colore a mo’ non di frammenti ma di veri e propri tasselli quasi puntiformi che ravvivano, evidenziandola, la molteplice varietà delle aspirazioni umane, tinteggiando il reale di fantasie che si manifestano con una silente prepotenza, la ribellione pacifica dell’ama.

Emergono tridimensionalmente tre figure, due maschili di lato, con braccio proteso in senso orante ed una femminea centrale, a mo’ di adorata. Un rito che rimanda al culto di Nike, di Vittoria, di Bellona, una vera e propria “Fetiales”. Un congresso in cui l’umanità, rappresentata dalle figure maschili, si rivolge al trascendente, o meglio a divinità angelica, a messaggera, a quella che è la giustizia. Ma tale convivio orante è ribaltato nell’ottica oltrista. La preghiera è per la pax, ma per una pax sine bello, un’ode alla pace senza violenza, alla concorde e pacifica convivenza tra essenti. Riprendendo un rito antico lo si attualizza e si va oltre, lo si rende preghiera per la divina concordia, per l’umana collaborazione, per il vivere in comunità e non in belligerante società, per consentire la realizzazione di ogni individuo rendendolo persona.

Nella parte superiore, infatti, la divinità della vittoria, della giustizia, diviene angelico ed atavico messaggero di tale concordia, e le preghiere del e per l’umanità tutta laniata e sofferente a causa di guerre, terrorismo, battaglie senza senso, litigi per sete di dominio, vengono accolte; dal capo della femminea figura si inarcano splendide ramificazioni che tendono all’eterno, al cielo. Ramificazioni di verbena, di erba pura, herba sacra, di ulivo, di alloro. Ramificazioni quindi di candore, di pace, di gloria, che per essere tale non è soggiogo dell’altro ma condivisione con l’altro. Ramificazioni che sono tripartite, da un lato l’auctoritas, ovverossia l’anima dell’umanità, che candidamente plasma, dall’altro la potestas, ramificazione che promana dalla prima e che estrinseca sé tramutando l’umiltà candida e leziosa, la dolcezza, in pace armonica, infine, ultima ramificazione, il corpus o status, che rende effettivo quello che è manifesto, concretizzandolo, e che è la gloria di vivere uniti in un abbraccio universale, che è la gioia propria nel riflettere la gioia altrui, che è dunque estrinsecazione del vero scopo dell’uomo, della propria missione.

La libertà che si raggiunge con tale lento lavorio, con tale loquentissimo  ed umile desio, con l’essere umano libero dalle catene della schiavitù per mezzo dell’amore che incessante ricerca la bellezza nel raggiungimento di una soave pace, che diviene armonia e non soggiogo.

dottor Giovanni Di Rubba

Cosmos

cosmos

 

Autore: Ember Canada

Opera: Cosmos

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

“It all begins with a journey, stepping out of the darkness and into the Light. This painting represents the call of Eternity. […]Humanity is too lost in the darkness of the world, too distracted by the meaningless to see the signs and beauty of a God who calls them from beyond time and space.”

Queste le  parole della pittricia Ember Canada nel descrivere l’essenza  della sua opera “Cosmos”.

L’essere umano è collocato in uno scenario apocalittico ed è rappresentato in una prospettiva pluridimensionale, ove la Natura si manifesta nella sua essenza più intima e omnicomprensiva. L’omino, in perfetto stile inglese, con bombetta, abito, borsa alla sua destra e giornale alla sinistra è l’emblema di tale umanità. Egli non a caso è rappresentato di spalle, da osservatore, di modo che il fruitore dell’opra possa identificarsi appieno con lui. Scorgiamo tuttavia, pur non vedendolo in viso, una sorta di “attonismo”, una perplessità languente, uno stupore. Egli è ancorato alle sue certezze quotidiane, sulla destra la borsa, che rappresenta il lavoro, il suo, ciò che fa per guadagnarsi da vivere, in una ottica spietatamente consumista, un lavoro che lo ancora nelle sue convinzioni, nel suo mondo, nel suo orto privato da coltivare, nella concezione liberista del lavoro stesso che renderebbe l’uomo libero. Sua certezza, nostra certezza. Alla sinistra un giornale, rappresenta ciò che lui crede al di là dell’orticello privato, della sua proprietà. Ciò che lui crede del mondo. Tutto ciò che gli è propinato dai media, dalla cultura dominante. In un attimo innanzi a lui, attonito, si squarcia il velo di Maya ed egli vede il mondo, l’universo, così com’è, nudo e crudo, è proiettato in una realtà quasi fantastica, quasi immaginifica, ma che è ciò che è, ed è ciò che ha dentro, ed è ciò che abbiamo dentro, ed è il nostro livello percettivo. L’omino è rappresentato nell’attimo stesso in cui innanzi a lui si aprono le porte, nell’attimo in cui sta per guadare il varco. E le certezze propinate precipitano, cadono, i media, internet, la tv, la radio, il senso comune, crollano. Crolla il giornale che aveva alla sua sinistra, crolla ogni certezza.

Ed eccolo lì, sul limite di un continente, sul mondo, sulla Terra, una terra primordiale, quasi una pangea che sta lì per spandersi gettando alla deriva la staticità dell’ancoraggio saldo umano. Su un continente come su di un’isola, con una ramificazione, un sentiero, un ponte terrestre su cui si diramano gli antipodi, ed al tempo stesso gli estremi superiori, come a dire nella Terra di Prete Gianni etiopica, o nella Tule, o nella Mu, o in una nuovissima Atlantide, o ad Alessandria tra libri polverosi e sapienti, o nel Castrum Lucullianum tra alchemici sensi celati, vitriol umano, athanor. Questa realtà sommersa, questo etereismo cosmico , questo esoterismo delle cose, preme per uscire allo scoperto, preme in questa epoca cibernetica, in questa epoca della spiritualità, dell’Acquario, del senso ultimo delle cose. Preme per essere svelata, per mostrarsi rapida e repentina, per esplodere in tutta la sua valenza armonica. Ed è questo il vulcano, il monte gentile, il Vesuvio dell’essenza nostra, il monticello che libera attraverso lo spirito tutto ciò che c’è nell’alma umana. Ed i misteri, e la nostra profondità, ed i segreti. Tutto prorompe, si squarcia in una elegante esplosione. Esplosione che è la nuovissima frontiera, la caduta del passato impolverato e la sua riscoperta nell’autenticità, riscoperta che è anche la nostra autenticità. Noi siamo noi, quindi lo diveniamo. L’omino guarda chi è, chi è davvero, non costretto nelle maglie sociali e propinate, ma ciò che è dentro di sé, che proviene dall’alto ma è comunque in sé, esplode in un furore ritmico. Esplodono tutte le verità. Esplode il senso intimo delle cose.

Questa esplosione da una nostra archetipa Agharti, dall’anima nostra, dai nostri simboli e fantasie e desii autentici esplode. Ma non così, alla rinfusa, con eleganza ed armonia, perché è una esplosione sapienziale, prima ancora intellettiva, prima ancora sensuale, cordica, prima ancora figlia dell’umiltà, la nostra. L’omino ammira l’esplosione di verità intima che è la sua solo perché dà lo sguardo all’universo, così com’è.  In alto infatti è rappresentata la ianua, il varco, il wormhole, l’accesso ad altre dimensioni. Il cosmico etereo costrutto che ci fa andare oltre, oltre noi stessi, oltre i pregiudizi, oltre le certezze, oltre la nostra stessa paura. Un varco che ci conduce al di là di noi ed in noi, l’omino contemporaneo e cibernetico che ascende il Monte Ventoso per raggiungere la sua essenza, per scoprire la sua spiritualità, per scoprire la spiritualità. Per rispondere alla chiamata del divino, che pullula in lui, che pullulava in lui e di cui ora è conscio, di cui ora è consapevole, di cui ora è cosciente. E questo varco, questo wormhole lo apre alla vera concezione del tempo, lo pone innanzi ad una evidenza, l’evidenza della vacuità cronologica, l’evidenza della staticità dinamica, dell’ellissoidità delle cose, di materia e di energia e di ciò che la produce, lume misericordioso, grazia manifesta, bellezza da contemplare, amore smanioso ricercatore di tale bellezza e di tale armonia raggiunta. Andando oltre. Ed il tempo scompare, scopare finalmente, non è relativo. Si apre la vera dimensione cosmica fatta di luce e materia e di organo promanante divino, scintilla vivida in noi perché donataci. Il tempo è smascherato, Saturno divoratore dei suoi figli, dei terrestri lasciati in balia della caducità, ovverossia Krono o Kronos, posto ai margini del dipinto. La maledetta caducità illusoria, l’esistenza stessa del tempo, queste inesistenze che percepiamo crollano. Come l’attualità ed il già stato, come il sarà. L’uomo, l’essere umano, rappresentato dall’omino liberista, non è più un tassello nelle mani della società, è libero, va oltre, al di là, e diviene non ingranaggio di un meccanismo ma persona vera e propria, liberissima, si erge al di sopra di sé per riscoprire l’altro.

In tale scenario quasi apocalittico, dunque, come afferma la pittricia, maestra Ember Canada, “The man is in the process of dropping. He will leave them behind to answer the call of Eternity. A soul transformed by Light, Love and Life”.

dottor Giovanni Di Rubba

The eyes of God Nebula

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Autore: Ember Canada

Opera: The Eye of God Nebula

Materia e Tecnica: Oil on Canvas

Dimensioni: 30X40

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

“ Honestly, it’s hard for a photo to capture the intense colors of this piece. This painting was inspired off of the actual nebula in space. I love outer space a constant reminder that we are very small and He is so awesome. The fact that He loves us so much!”

Queste le parole della pittricia Ember Canada circa la sua opera “The Eye of God Nebula”. Parole da cui traspare una difficoltà, specchio delle difficoltà umane nel definire l’assoluto, la meraviglia dell’infinito, del creato, dell’altrove. L’Oltrismo è un movimento artistico che cerca l’armonia, la cerca nell’andare oltre. L’uomo è in bilico sull’assoluto e si pone, nel momento in cui fa arte, nella prospettiva contemplativa. Come in questo dipinto. Dipinto che cerca, riuscendoci, non di definire ma di far scorgere un infinito, una presenza divina ordinatrice, un varco verso una dimensione altra ma immanente allo stesso tempo, una prospettiva che va al di là, in un divenire cosmico, in una congiunzione. Ecco, il dipinto intuisce questa congiunzione, questo varco, questa luce, scintilla divina, che si colloca al centro, luminescente ed inesatta ma grandiosamente magnifica, grandiosamente possente nella sua lucentezza siderea. Un astro al centro del varco celeste.

Di contorno sfumature tra il rosso ed il giallo, al centro il celestiale cromatico varco. La luce dei colori, il suono metafisico del cromatismo, che come in un punto altissimo di una sinfonia, all’apice, in sfere altissime, nella inudibile kandinskyana  musica contemplativa raggiunge il punto armonico, ove parole e suono e colore si concretizzano nell’inenarrabile, nell’indipingibile, nell’indescrivibile. L’occhio di Dio, il mistero della sua presenza è il dono fatto all’umanità, quella scintilla siderea in prospettiva armonica nell’auditorio dell’empireo celeste.

“The Eye of God Nebula” è un’opera musicale, dove dal rosso delle passioni si procede ad una ascesa verso colori più tenui, sino a raggiungere le alte sfere del blu e l’occhio di Dio. Dal rosso al blu si si ottiene un viola non presente ma che è l’essenza stessa dell’opera, il tempo, la memoria. Un crescendo che termina con l’esplosione pacata di un armonioso suono, una melodia mai scritta, mai dipinta, mai raccontata. Il fruitore la scorge ma non arriva a comprenderla. Tuttavia si illumina ed accresce, nell’estasi, la sua essenza, il suo essere. Nel momento in cui si sente un granellino sperso d’universo comprende la sua unicità, la comprende nel dono divino, nella scintilla siderea. Comprende il privilegio divino e non è più ingranaggio di un meccanismo, non tassello di un mosaico, ma trasfigura esso stesso nel mistero dell’infinità dell’universo e tende ad esso stesso, all’universo, e scopre, finalmente, che l’intero universo è in lui. Sommo mistero, l’intero universo è in lui, ma lui è solo un granello del suo stesso universo. Scopre l’agostiniano “In interiora homine habitat veritas”, scopre la dolcezza dell’amore, del dono. Scopre che nella “vanitas vanitatum et omnia vanitas” c’è la sua essenza.  Scopre come Petrarca sul Monte Ventoso il passo biblico, e diviene nulla, e si sente nulla, ed al tempo stesso sente nelle sue vene che il tutto è in lui. Una vera opera poetica, una ascesi dantesca, dalle passioni e dalla bestialità umana, in gradazione, verso l’illuminazione.

dottor Giovanni Di Rubba

 

Natura Invincibile

la natura invincibile

Autore: Giuseppe Pollio

Opera: La Natura Invincibile

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

Del maestro Giuseppe Pollio “Natura Invincibile” declina perfettamente il concetto di superamento e di conoscenza così come tracciato dall’Oltrismo, temprandolo con contenuti simbolici interessanti che, attraverso richiami religiosi, non eludono una critica attuale di matrice ambientalista.

L’opra è divisa in sezione aurea, essa è delimitata dalla parte finale del tronco dell’albero della conoscenza. La parte minore, collocata in basso,  rappresenta il nostro mondo, la maggiore, collocata supra l’eden dai cherubini protetto e, più su ancora, le alte sfere celesti.

Nella parte superiore notiamo due alberi: il primo, è l’albero della conoscenza del bene e del male, il secondo, che lo sormonta, quello della vita che propende verso le alte sfere. Attorno all’albero della conoscenza vi è un doppio parallelepipedo aperto a designare, il maggiore le conoscenze metafisiche, il minore quelle fisiche. Tale parallelepipedo forma una “U” rovesciata, una sorta di “N” che designa la Natura ma, divisa dall’albero, diviene una “M” primordiale, simbolo della maternità, della fecondazione, della Madre Terra che dona frutti, della rigenerazione, del giardino sempre rigoglioso. Prima del peccato originale la conoscenza non era preclusa agli uomini ma si trattava di una conoscenza ancestrale, aperta alla natura, ad essa simbiotica, protettiva ma libera e liberatrice, liberante, che sempre germoglia e germogliando sempre si accresce. Sormonta l’albero della conoscenza l’albero della vita, in perpendicolo con quello della conoscenza. Tronco ritto a due foglie che si biforcano a forma di “V” come braccia protese al cielo in aspetto orante, aperte al vero sapere, il sapere come contemplazione del divino, culmine della conoscenza e vera conoscenza.  Più su un cielo sereno, il divin Padre, sulla destra una sfera, la Madre Celeste, sede della sapienza, in forma di luna che compare color metallo sfumato, in pieno giorno, a mostrare l’eternità della stessa che mai si sopisce e che, nelle sfere alte come nel cuore dell’uomo, è sempre presente, anche se talora invisibile, come accade il dì.

La parte bassa della sezione rappresenta il momento successivo al peccato originale, l’albero della conoscenza promana le sue radici rendendo il terreno quasi come un deserto, biancheggiante arido, poco fertile, coltivabile con la fatica così come la donna dà nuova vita col dolore. Sulla destra due mele, dal latino malum, una a metà, già assaporata, l’altra intera, a simboleggiare la memoria di ciò che era prima del peccato originale. Da sottolineare che è punita non la ricerca della conoscenza che mai era stata preclusa all’uomo, come designa il doppio parallelepipedo aperto e l’albero della vita slanciato verso il cielo. Ciò che è punita è la superbia, il voler essere come Dio senza seguitare il divino ed i suoi dettami che rendono libero. È punita la superbia e l’egoismo, l’uomo che rinnega Dio e si crea una sapienza ed una conoscenza a sua misura.

A prolungamento del quadro il giallo si intensifica, diviene sabbia, deserto arido, il culmine della superbia e dell’egoismo umano, l’uomo che guarda ai suoi interessi calpestando gli altri e la natura, inquinando, deturpando, sfruttando la terra oltre ogni limite e necessità.

dottor Giovanni Di Rubba

L’Aura

l'aura Todisco

Autore: Ferdinando Todisco

Opera: L’Aura

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Ferdinando Todisco  “L’ Aura” si colloca in una dimensione in bilico tra materialità ed energia  proiettando l’ideologia oltrista all’interno ed all’esterno dell’essere umano in un tutto armonico che coinvolge gradualmente l’uomo, la Terra, l’Universo. Una sintesi dell’Oltrismo energetico del maestro Granito e di quello cosmico/sidereo del maestro Marchese che si inseriscono nel primitivismo oltrista tipico dell’artista.

L’aura, dal greco “alos”, ovvero corona, e dal latino “Aura”, ovvero soffio, è un labile campo di radiazione luminosa che investe e ricopre non solo gli esseri umani ma qualsiasi essente, dagli animati alle clorofille ai minerali ed agli utensili. Spesso invisibile può essere scorta in particolari situazioni e attraverso determinati atteggiamenti del soggetto osservante; scientificamente essa è invisibile alla retina ma visibile ai bastoncelli. Una nube a forma d’uovo, che richiama l’uovo cosmico, una protezione, presente già nelle raffigurazioni ataviche, compare nei Veda, nel Dzyan, nei geroglifici egizi, nelle incisioni rupestri del primo oligocene e persino del pleistocene, sino a exurgere nella simbologia cristiana che ne coglie la sua vera essenza e funzione. Varie sono le rappresentazioni di Santi o Beati ricoperti da un’aureola attorno al capo, una “corona” appunto, o più raramente da un fascio che ricopre l’intero corpo, simbolo del Santo Spirito che su loro discende, promanazione del divino, illumina coloro che sono guide per l’umanità, conducendola lungo la via maestra per giungere alla contemplazione di Dio.

Il Todisco nella sua opra rappresenta in pieno il processo di chi riesce a percepire l’aura. All’interno della figura notiamo diramazioni neuronali che si estendono per tutto il corpo, bianche, e circondate dal celeste. La medicina tradizionale parla di aura come fenomeno antecedente l’emicrania o in altro caso, l’attacco di tipo epilettico, nomandola scotoma. In ambedue i casi le reti neuronali subiscono una scossa nella sfera occipitale o in quella temporale o altresì extratemporale. Il celeste candido che avvolge le reti neuronali designa lo scuotimento interiore cui segue uno stato confusionale, alterazione non solo visiva ma anche disturbi del linguaggio, parestesie che si estendono all’olfatto. Queste ultime, in particolare sono le più interessanti, il naso è il luogo ove ha sede lo spirito e nella parestesia olfattiva c’è un diretto coinvolgimento dell’amigdala e dell’ippocampo, le aree coinvolte nella memoria storica ed in quella emozionale. Lo spirito è pneuma, è vento, respiro ed ha una azione diretta sulla percezione, percezione che all’apparenza modella la memoria ma in realtà influenza direttamente la stessa. Lo spirito plasma. Per di più il coinvolgimento delle aree deputate al linguaggio, in particolare il Broca, e la parafasia fonetica, a guisa di altri malesseri,  pongono il soggetto percepente in una sorta di estasi. Essenziale è notare, altresì, che in caso di coinvolgimento dell’area temporale i disturbi sono di carattere epigastrico, nel caso extratemporale  visivi e gustativi. Capiamo bene la varietà e le potenzialità dell’essere umano di andare oltre, di percepire l’impercepibile, di bilocarsi persino, nello spazio quanto nel tempo, di superare ogni barriera o ostacolo fisico grazie alla divina illuminazione. Presunti disturbi scotici sono presenti in diverse figure di Santi e Beati, di mistici, che vanno al di là delle barriere sensoriali, dei sei sensi carnali, raggiungendo una  dimensione eterea, illuminati illuminano e guidano.

L’artista nello stesso tempo in cui rappresenta questo scuotimento interiore che è del fruitore e più in generale del soggetto percepente, si arresta, accovacciando l’alma celeste, rendendola materna protezione divina che impedisce la follia in uno stato mistico di tal guisa. E poi, paradossalmente, rappresenta all’esterno il contorno corporale di una persona che emana l’aura, abilmente e in una ottica universale che accomuna l’uomo che vede la luce con quello che la emana in una unica realtà, essendo l’illuminazione destinata all’illuminato. Di più, il malessere del percepente è il medesimo dell’emanante, ma l’emanante è accolto dal manto celeste e materno, come dicevo, ed il percepente, illuminato è guidato dall’emanante.

L’aura che avvolge l’emanate è di cristallo, la tipologia del guaritore, del guaritore d’anima quanto del corpo, del taumaturgo che sana le membra partendo dall’interiorità.  Attorno c’è uno sfondo castano, a designare la Terra, il nostro mondo, il mondo abitato dagli esseri umani, la Materna Terra che, fuori dal corpo, getta il suo manto sanante all’interno dell’essere umano. Tale sfondo è costernato da diverse sfumature, l’universo, il Dio Padre che è energeticamente rappresentato come Spirito, lo Spirito che chiude in un abbraccio, che è l’origine di questa forza interiore umana e che ha in sé le sfumature delle diverse auree che corrispondono a diversi temperamenti umani. È il Santo Spirito che discende e tutti noi emaniamo uno spirito, un’aura, che tale Spirito divino, plasmando l’alma, ci consente di promanare attraverso il corpo, a seconda dei nostri talenti ed a che gli stessi fruttino. Indaco, lavanda, viola, verde, giallo, magenta, arancio, rosso.

dottor Giovanni Di Rubba

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Tre opere di Linda Granito a confronto: “Tunnel di Luce”, “Esplosione di un fiore energetico”, Trasmissione energetica Madre Terra donna Dea

Autore: Linda Granito

Opere Commentate: Tunnel di Luce; Esplosione di Fiore Energetico, Trasmissione Energetica Madre Terra Donna Dea”

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

L’opera del maestro Linda Granito si colloca a pino titolo nella corrente artistica dell’ Oltrismo, in particolare, pur senza eludere una originalità propria, è molto vicina all’oltrismo cosmico/sidereo del maestro Antonio Marchese, che esplora e rielabora nebulose ed ammassi interstellari, ingenerando una realtà che va oltre alla mera osservazione empirica, innescando interessanti rimandi allegorici alla vacuità esistenziale che si apre, tuttavia, alla speranza di noi, spersi nel cosmo, ma la tempo stesso suoi figli e quindi ad esso appartenenti, come ad una famiglia. La pittrice Granito, a ciò, aggiunge una rappresentazione energetica e fluttuante, ove da ammassi fluidi promanano significati altri, esplorando energie cosmiche, le sue rappresentazioni, in verità, descrivono la nostra dimensione interiore da una angolazione oltristico/tralucente.

Quivi analizzerò tre delle sue opere, scelte perché rappresentano, così come posizionate in sequenza, una vera e propria evoluzione spirituale ed interiore. In particolare saranno commentate:  “Tunnel di Luce”, “Esplosione di un Fiore Energetico”, “Trasmissione Energetica tra Madre Terra e Donna Dea”.

 

Tunnel di Luce

tunnel di luce

“Tunnel di Luce” è una vera e propria esplosione, esplosione che chiude in sé una varietà cromatica ed allo stesso tempo una dualità di colori, il blu con le sue differenti sfumature, ed il giallo, ora vivido, ora lucente, ora trasformato in bianca luce cosmica. È d’uopo analizzare il dipinto dal basso, nonostante l’attenzione del fruitore sia subito catturata dal suo centro prospettico, sorgente viva di tralucenza. In basso è tracciata una  foresta frastagliata di un oltremare oscuro, è come terra incolta e oceanico abisso, un abisso che incatena, periglioso. La nostra esistenza meramente corporale che ci inghiotte irretendoci nelle sue trame, nelle sue pungenti fluorescenze che sono piante ingannevoli, aculei vorticosi. C’è perfino, mediana, una traccia cadmio, orma della sofferenza. Attorno qualche speranzoso sprazzo violaceo, di un viola cobalto. È la rosa nella spina, la speranza della sofferenza, della prigionia, il dolore esistenziale che si fa catarsi esistenziale. E dunque si ascende, l’oltremare inizia a farsi sereno celeste per poi divenire cobalto viola che esplode  come macchia d’inchiostro. Questa speranza cromatica tutto trasforma conducendoci al centro del dipinto, finalmente, ove da una sferetta appena appena accennata, e del colore redentore, si apre una bianchissima luce sovrannaturale, da cui emerge quasi, sulla sinistra, una figura umanoide, forse angelica, una guida. Tale luce termina nel cadmio chiaro, solare, emblema del Dio Padre. E termina ove essa stessa è generata, è tale misericordia divina che ci irradia dall’alto e infonde luce e trasmuta il cadmio oscuro della sofferenza in violetto cobalto della comprensione del dolore, lieta assistenza. Tutto intorno, da quell’irradiata luce, nella parte alta del dipinto, a destra come a sinistra, il periglio clorofillico d’oltremare oscuro si acuisce e cristallizza, non scompare ma si fossilizza, gelido come ghiaccio ed è come una antartica caverna, che placa dunque il dolore, quasi si riscalda e la nostra vita è nella luce ed il gelo placato qualcosa da osservare immersi nell’infinità di un raggio divino.

ESPLOSIONE DI UN FIORE ENERGETICO

esp2

In continuità  con l’opra appena commentata è ”Esplosione di un Fiore Energetico”. Anche in quest’opera si analizza una fase interiore, una fase successiva a quella della illuminazione, la fase di presa di consapevolezza di sé, meglio, la fase in cui inizia a esplodere in noi il noi stessi. Ed è un pullulare di energie.

Sullo sfondo il blu, a destra più intenso a sinistra sfumato, di un chiarore che sfiora il bianco. Il fusto, il gambo, è smeraldino, il suo colore è impreziosito come gemma rara e simboleggia le nostre radici, le nostre origini, ciò da cui siamo partiti e che permarrà sempre in noi, quella che è la nostra famiglia, la nostra patria il nostro Dio. Luccicante, tesoro da preservare ed allo stesso tempo da coltivare per la nostra crescita. Salendo, infatti, il fusto si apre ad imbuto per contenere il fiore, la nostra anima, più in generale il nostro essere, ed il verde è più caldo, accogliente, grembo materno di quel tripudio cromatico che sono i petali, dipinti come flusso energetico. Flusso inarrestabile, fiamme multiformi ma adagiate con garbo nel grembo da cui promanano. Giovanili ardori ed eroici furori, guizzanti. Domina il rubino sanguigno, sfavillante come logos, parola, mai spenta e mai sopita come le nostre azioni furenti, la nostra vitalità inarrestabile. Ma non può non notarsi che al centro delle petaliche fiammelle del nostro essere vi è la luce gialleggiante che nasce dal grembo e come corolla è il vero cuore di questo ardire, il cuore che pacato, nato dal grembo, dirige e dà armonia a tale tripudio, altrimenti in balia di sé. Luce divina che dà ordine al nostro caos, luce armonica. Attorno ai petali scoppiettanti un rosa temprato, che è il risultato dell’azione eroica quanto del furore interiore pacato dalla luce cordica clorofilla, un rosa che quasi sfocia nell’incarnato perché il risultato di tale tripudio vitale non è la violenza ma l’immenso amore, la dolcezza, il darsi agli altri, l’aprirsi al mondo. Aprirsi come promanazioni rosee per diffondere la pace e la concordia.

Interessante un altro aspetto, a destra ed a sinistra del fiore abbiamo due realtà completamente diverse, a destra una realtà energetica, spirituale, dipinta sfumata, sia nel verde delle diramazioni del fusto che nel blu che fa da sfondo. La nostra dimensione d’energia è anche quella di pensiero e di sogno, di immaginazione, di evasione, di creatività. Sfuggente, smossa, fluttuante. A sinistra invece il blu quanto il verde sono fermi, di un colore deciso e sicuro, a designare la nostra sfera pragmatica, razionale, riflessiva. Ambedue non sono in contrapposizione ma sinergicamente dirigono il nostro agire quanto il nostro non agire, favoriscono il  nostro essere nel mondo rosea promanazione armonica di ciò che abbiamo dentro, del caos e dell’ordine, dell’istinto e della ragione.

 

TRASMISSIONE ENERGETICA TRA MADRE TERRA DONNA DEA

trasmissione energia donna Dea Madre terra

L’opera “Madre Terra Donna Dea” è l’ultimo stadio di questa analisi del trittico floreale della pittrice Granito. Le immagini sono qui indefinite, hanno qualcosa che ricorda le radici e sono grigie radici. Rappresentano un istante arcaico, primordiale, il momento esatto in cui il divino con il suo dito michelangiolesco sfiora l’umano in segno di alleanza, di più, il momento in cui Dio soffia, dona il pneuma, docile vento, agli esseri umani, rendendoli animati e, realmente, veramente e fattivamente a sua immago.

In quest’opera, tuttavia, il tutto è visto in una ottica femminile e c’è un che di biologico in questa trasmissione energetica. Le ataviche radici sono di un magma grigiastro dalle diverse sfumature che ricorda un po’ il brodo primordiale, un po’ un varco, un wormhole, un varco cosmico ed al tempo stesso esistenziale. Qui non vi è corporalità come nella “Creazione di Adamo”  ma ciò che è rappresentato, mobile,   è lo pneuma stesso, lo spirito. Lo spirito nella sua femminea essenza che la Madre Terra, sulla destra, dona alla Donna Dea, sulla sinistra, cioè alla donna che diviene simile –ma non uguale- a Dio, al divino. Quindi queste radici fluttuanti ed arcane rappresentano il momento stesso del passaggio pneumatico e parallelamente il pneuma stesso che viene trasmesso. Di più essendo come radici la corporalità mancante è sanata da questa Madre Terra che dona e, mentre dona, come possiamo constatare al centro del dipinto, viene quasi a formarsi un cerchio. È lì, che si sta definendo, ma non è ancora ultimato. È la sfera della conoscenza in fieri, è la corporalità in progress. Questo dono energetico, questo pneuma che viene trasmesso plasma l’interiorità dell’essere umano che era stato precedentemente plasmato dal Creatore proprio dalla Terra, dal fango. Per questo emanando il soffio vitale viene a compiersi la plasmazione non solo nella dimensione corporale, come statua, icona senza anima, ma in quella spirituale, lo spirito dà vita all’anima che inizia a modellarsi, a divenire una sfera o una elissi. Ed è così, in questo stesso istante, che la terra non è più fango ma diviene Madre, in questo istante creativo l’uomo, la donna, riconosce la terra come madre, ma nel momento stesso in cui essa diviene Madre, per volontà divina. Dio soffiando nell’argilla corporale il suo pneuma dà vita all’essere umano e dà contestualmente dignità, consistenza alla terra, la eleva a Madre dell’uomo. È una sincronia retroattiva e difficilmente immaginabile ma ben realizzata dall’artista che tenta di cogliere questo preciso istante trasformativo, di definizione e di presa di consapevolezza.

Lo sfondo è il solito rosa pacato, quello che sta a designare le nostre azioni figlie dell’amore, è rosa perché fa da cornice ad una situazione creativa che non può non essere tipicamente femminile. È la donna che fa nascere i figli –di qui il motivo del titolo Madre Terra Donna Dea-,  ma è un rosa che designa anche le nostre azioni, come dicevo, ed essendo in un attimo formativo non è ancora rosso ardente come il fuoco, ma più pacato, più dolce, di una leziosia genealogica tipicamente femminea.

dottor Giovanni Di Rubba

La Forza e la Grazia

la forza e la grazia

Autore: Giuseppe Pollio

Opera: La Forza e la Grazia

Materia e Tecnica: olio su tela

Misure: 40 X 50

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Giuseppe Pollio “La Forza e la Grazia” si pone nella dimensione simbolico/onirica dell’Oltrismo e supera la staticità apparente del dipinto ravvivando le immagini con significati dinamici che, in questo lavoro in particolare, non eludono una critica di carattere sociale alla condizione dell’uomo in questa epoca di Grande Recessione.

C’è una duplice dimensione, quella più spiccatamente istintuale e terrena, la forza, rappresentata dal cavallo e quella divina rappresentata dal volatile, in bilico tra gabbiano e colomba. Il cavallo tuttavia trascende la dimensione mondana essendo simbolo del sole ma allo stesso tempo conserva in sé le più basse ed ancestrali caratterizzazioni dell’essere umano, la forza bruta, indomabile, l’energia pulsionale, il temperamento focoso/sanguigno, la potenza sine regula, la paura che si trasforma in ceca ribellione, l’individualità manifesta, l’uomo solo contro il mondo e contro tutti. Ma c’è il Santo Spirito che è colomba e discende dall’alto e che è gabbiano e rende liberi. Scende dall’alto e quasi lo cavalca e doma, quel volatile che è la grazia lo monta non salendo a galoppo ma irradiandolo e trasformandolo. Trasformandolo in ciò che egli realmente è, un messaggero, azzardando un angelo, un combattente. Messaggero e combattente, il ruolo ed il servizio che il nobile animale ha reso all’uomo, nelle guerre, nelle ambascerie. Ma la potenza di questa colomba che rende gabbiani è un po’ come l’arcangelo Gabriele nella sua impercettibilità e nella sua fuggenza ed il destriero diviene emblema a sua volta di un altro arcangelo, Michele, colui che combatte  il male, che utilizza la forza non in maniera dispersiva e contro il mondo ma per il mondo e per la sua salvezza. Ecco che qui si rendono percettibili le due dimensioni della vita umana quella attiva, il cavallo, e quella contemplativa, più alta, la colomba e solo con la contemplazione può placarsi un ardore distruttivo rendendolo  funzionale. La grazia è anche quella trascendenza femminea, quell’ideale per cui si battevano i cavalieri, la donna, grazia per eccellenza, grazia che dà senso a ciò che invece sarebbe mera violenza bruta; donna, guida dell’umano spirito, placatrice degli impulsi distruttivi, colei che trasforma violenza in amore attraverso la bellezza, le dame che non solo domano  la rozzezza ma che colorano cortesemente ideai quali l’onore, la lealtà e la prodezza riempendoli cordicamente e trasformandoli da meri codici freddi e razionali in valori, ossia la liberalità, la magnanimità e la virtù.

Il cavallo è tuttavia nero, funesto, sembra simboleggiare il male, a differenza del celebre e principesco bianco destriero. Ed il colore ricorda il terzo equino della giovannea rivelazione, quello che porta fame e carestia nel mondo. E qui il maestro Pollio in un certo qual modo attualizza figure ancestrali, va al di là dell’archetipo e spalanca le porte alla critica sociologica e storica. Il nostro presente. Quello della Grande Recessione che da più di dieci anni stiamo vivendo. Il terzo destriero dell’apocalisse che annuncia la precarietà, “un tozzo di pane per la paga di un operaio”. Ma la grazia della colomba che lo sormonta gli fa chinare il capo e dà spazio al cavaliere, assente nel dipinto ma dalla cui assenza viene denotata una maggior presenza, il cavaliere ha in mano una bilancia, a simboleggiare la giustizia, la giustizia che ritorna, una giustizia che sarebbe svuotata di significato se intesa meramente come legge, legge serva dei potenti, dell’economia, della politica, del liberismo sfrenato, del capitalismo austero e spietato, della sete di guadagno, che rende l’uomo schiavo e servo. Arriva il cavaliere colmo di grazia, la salvifica giustizia di danielica memoria. E quella giustizia non è solo razionalità che crea menti produttive e serve ma soprattutto proviene dal cuore, dal femmineo sorriso, dal palpitio d’assoluto.

Da sfondo un cielo annuvolato, emblema del Dio Padre, un cielo annuvolato che una pallida ma luminosa luna, la nostra Madre Celeste, finisce per schiarire, in sommità si fa terso, vince la misericordia.

Il dipinto, in sezione aurea, nella parte minore, che è quella bassa, ci rappresenta il nostro mondo, un deserto ove cavalca il destriero, un deserto che simboleggia fame e carestia, crisi economica. Ma quel destriero poggia le sue zampe nella parte bassa e il resto del corpo in quella maggiore ed alta, ove sono situati la colomba/gabbiano, la luna, il cielo. Ed illuminati da tale grazia, i sassi che sono sulla terra brulla, simbolo della durezza di cuore oltre che gli ostacoli alla nostra crescita, sembrano animarsi, farsi paglia e quindi frumento, smossi da un vento silenzioso e gentile. E si apre una nuova speranza. Un mondo da costruire, con le nostre forze, con la nostra mitezza, illuminati dalla grazia e dalla misericordia divina. Un mondo che potrà divenire, nuovamente, un giardino meraviglioso, rigoglioso verso cui incamminarci liberi.

dottor Giovanni Di Rubba

Il pensiero nasce dal Caos

il pensiero nasce dal caos

titolo

Particolare

Autore: Linda Granito

Opera: “Il pensiero Nasce dal Caos”

Materiale e tecnica: acrilico su tela

Dimensioni: 30 X 40

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Linda Granito ”Il Pensiero Nasce dal Caos” esplora la dimensione eterea dell’esistente senza tuttavia accedervi, stazionando nel punto mediano della percezione.

La pittricia si situa in un dormiveglia cosmico oltrista che è una implosione di colori i quali, ritorcendosi su sé, appaiono al fruitore promanare dall’alto. Dividendo, infatti, il dipinto in sezione aurea emerge una parte maggiore, bassa, che è promanazione della minore, alta. Nella alta sfera del dipinto avviene una metamorfosi dell’alma che si irradia nella dimensione maggiore sottostante. Tuttavia il rapporto non è tra sfera terrestre e sfera celeste ma l’intero dinamismo dell’opra si realizza in una solo punto cosmico adimensionale che viene catturato nella sua fluidità.

Partendo dalla metamorfosi dell’anima, che avviene nella parte alta, comprendiamo l’intera essenza fumosa, sfuggente, ectoplasmica, del dipinto. Tutto è come percepito in bilico, l’essenza corporale manca e l’artista si sofferma solo su anima-parte alta e minore-e sua promanazione-parte bassa e maggiore. Notiamo l’ombra di una pantera, un fumo nerastro da cui svetta una siderea lucina, un’iride chiara che denota l’essenza ferina dell’alma  al suo primo stadio evolutivo. Quella luce che è caratterizzazione dell’anima al primo stadio è al tempo stesso il punto di partenza per la sua evoluzione, iniziando già ad irradiarle i contorni. Il nero, scendendo nella parte bassa, ossia nella promanazione dell’anima e quindi nello spirito avvia una sfumatura di verde appena percettibile cadendo poi in un vorticoso imbuto/formichiere oscuro da cui si accende improvvisa la luce che trasforma il restante in smeraldino aureo, il colore dell’inizio, della natura animalesca, che si apre verso nuovi sentieri. Proseguendo nella parte alta avviene quivi la prima metamorfosi, la pantera diviene uomo, fumoso e grigiastro con ancora sul capo la natura animalesca e oscura che coesiste con quella annebbiata. Tra la nebbia si scorge un tenue languore violaceo, che, nella parte promanante, spirituale, proromperà inarrestabile come fiume su cui svolazza un’orma di volatile palustre,  di un viola più scuro, tendente al nero, da cui sembra  sorgere tale corso violaceo. Viola, colore del connubio, della spiritualità, sintesi si materia e spirito, dell’oscuro e del rubino, rappresentato dal volatile, viola che discende fluente e lieto come a mostrare anche l’altro aspetto della evoluzione, la temperanza e la astinenza, intesa come momento essenziale, mediano, della propria metamorfosi interiore. E il viola sfocia nello smeraldino e poi nell’aureo, inondando anche la promanazione dello stadio precedente, come a mostrare che l’evoluzione è un divenire statico, una sembianza di divenire, una maretta, un pullulare ai nostri sensi, ma una unica sostanza nel suo insieme, senza un prima né un dopo, hic et nunc.  Ed interessante è notare, al centro di tale violaceo corso, uno squarcio che sembra un caverna, un umano rifugio, quasi una cittadina, un paesino montano visto da lungi. Ciò a simboleggiare il nostro vivere, il nostro contenitore, il vero assente in questo dipinto: il corpo. Il corpo che è rappresentato come una cittadina operosa, una fucina, un uovo cosmico, l’athanor che è il tempio della nostra trasformazione e gli utensili stessi di essa.  Infine, paradossalmente più vivido e chiaro, l’ultimo stadio trasformativo, quello che dovrebbe essere più sfuggevole ma è qui più vivido, quasi tastabile, facilmente visibile, essendo in un dormiveglia cosmico.  L’angelo chinato ed orante con le ali che svettano all’indietro, di un verde pallido e agalmatico, è una effige, ciò che c’è di più pragmatico nell’opera, come icona, statua. Al di sotto di esso, in promanazione spirituale, il manto viola, poi il chiarore fino ad un argenteo fiume, statico perché eterno, dal color di roccia. E qui salendo sopra dell’angelo vediamo che si propaga il verde nella parte ancora più alta del dipinto, quella al di là dell’uomo stesso, quella celeste, andando a ritroso a partire dall’angelo si arriva ad un rossiccio sfumato, l’amore come pulsione verso il nostro perfezionarci, che è l’inizio. Subito dopo l’angelo, ed al di sopra di esso, un’immagine come di croce, color roccia. Immutabile, eterna, come l’amore divino che dona sé e che punto finale nella misericordia è un nuovo nascere che è la nostra origine e pulsione a perfezionarci, in maniera ciclica, per ogni uomo, per ogni donna.

Il maestro Granito, nel suo dormiveglia cosmico, intravede l’akashico, scorgendone l’essenza e superando l’arcaica visione vicina alla metempsicosi, come già aveva intuito Nietzsche con le sue tre metamorfosi dello spirito-cammello, leone, bambino-. È interessante notare, infatti, come nella parte bassa del dipinto, quella di spirito, la promanante, la patera irradi il tutto, che viene assorbito, l’essere umano irradi il violaceo, che è agguerrita temperanza, connubio spirituale, vita corporale, sofferenza e lotta e lavoro, fucina; l’angelo una roccia perenne, che è la nostra sorgente, il nostro risvegliarsi bambini.  Così la pittrice scopre o riscopre che tutto parte da dove comincia e che l’angelo è il nostro ultimo stadio ma il tutto si dischiude in questa vita terrestre, che è la nostra unica, e che ci conduce ad un’altra eterna, come la roccia promanante in spirito e da cui tutto promana che è il Cristo.

dottor Giovanni Di Rubba

Il mio sogno di libertà

Il mio sogno di liberta' olio su tela plastificata 55x75

Autore: Giuseppe Pollio

Opera: Il mio Sogno di Libertà

Materia e Tecnica: olio su tela plastificata

Dimensioni: 55X75

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera “Il Mio Sogno di Libertà” del maestro Giuseppe Pollio denota e caratterizza la dimensione onirica dell’Oltrismo. È quasi un sogno mistico, regna una pacata atmosfera di quiete e serenità.

Dividendo il dipinto in sezione aurea notiamo che la parte minore termina in bilico tra la fine del corso d’acqua, aperto prospettico verso il cielo, e la luna/sfera, di cui vedremo il significato. Il fiume è emblema, in prima istanza, dello scorrere della vita ma ha inizio con una cascata con acqua statica, statica come i nostri cuori chiusi, un’acqua che non precipita ma immolizza. In una dimensione quasi magica c’è una inversione gravitazionale, un loco in cui tuffarsi. Il fiume scorre all’inverso, in reverse, partendo dal cielo; la foce è l’inizio della nostra vita, la sorgente la dimensione celeste e divina da cui essa promana.  Non è un caso che il fiume, che delimita assieme alla luna la parte alta da quella bassa della sezione aurea, non divide però il dipinto in parte bassa –mondo reale, terreno- e parte alta –mondo celeste, alte sfere-. In questa voluta imperfezione stilistica vi è la traccia della perfezione, come la Venere strabica che apre il suo fascino, nella sua essenza eterea e concreta ad un tempo, così che il corso sfori nella parte alta, sfera celeste, da cui, come detto, trae sorgente. il mondo reale è oniricamente un prato, un giardino verdeggiante, che sta a designare la Natura che ci circonda. In essa vi sono tanti sassolini, essi da un lato sono emblema degli ostacoli da superare, a guisa delle montagne sarossiane, ma dall’altro rappresentano anche le nostre di esperienze, i nostri errori, le nostre paure, finanche le nostre amicizie ed inimicizie. Pietrine adagiate oniricamente su un edenico prato, un giardino scevro da ogni scempio umano. Nella sfera alta si declinano le vere dimensioni della libertà. In media res, tra detta alta sfera della sezione aurea e la bassa, in un cielo muto e bianco, candido, silente, e su cui tracciare come su di un foglio i nostri sogni, si adagia una sfera.  Emblema della luna e della Madre Celeste, ma al tempo stesso rappresenta il primo cerchio del paradiso dantesco. Simbolicamente mostra coloro che non hanno potuto adempiere a voti e promesse nei confronti del Signore non per loro colpa. Questa la linea difensiva della Celestissima Madre innanzi al Suo divino Figlio. Una madre che, come tutte le madri, si cala nel primo cerchio a mostrarci la sua vicinanza. La luna, inoltra, designa anche la sapienza, in quanto sfera, ed è la Madre della divinità, Regina di Sapienza, che essa ci dona.

La sfera alta non in sezione aurea, quella che comincia ove termina il prato, è divisa a sua volta in quattro parti. Della prima, lunare, abbiamo parlato. Nella seconda c’è una mano tesa, di un rosa limpidissimo, che spunta da una tunica. Essa rappresenta il figlio di Dio e Dio egli steso incarnato. Da Egli , e si passa alla terza di parte, dalla mano tesa, promana un volatile. Esso, per volontà stessa dell’artista, è simile a colomba ma anche a gabbiano. La colomba rappresenta lo Spirito Santo paraclito, da cui tutto promana, pneuma vitale degli essenti e della materia tutta e che tutto ci investe se sappiamo umilmente accoglierlo e seguirne la voce, rendendoci candidi ma soprattutto liberi in volo, come gabbiani. Nuvole circondano questa parte del dipinto ove la colomba sta per spiccare in volo. Ma tuttavia, in inversione apodittica ed allo stesso tempo in sincronia atemporale, se da un lato sta per spiccare il volo verso l’ultima parte della sezione aurea, ove il cielo è più limpido, a simboleggiare Dio Padre, dall’altra, con abilità stilistica del maestro Pollio, sembra, e lo fa, scendere verso di noi, verso il mondo reale, reale in senso hegeliano di razionale, ma di più, meramente ed esclusivamente razionale. La sola ragione che non può illuminarci né renderci liberi né mostrare la via. La colomba/gabbiano è nata dalle mani del logos incarnato e logos essa stessa protesa verso il Dio Padre celestissimo ed allo stesso tempo discendente verso di noi al fine di donarci la vera libertà.

Nel mondo reale il corso d’acqua, che è la nostra vita, è coperto da un guscio, nasce da un muro possente e guscio duro rappresenta il nostro corpo. Esso in sommità, lungo il corso, è frastagliato, ad indicare le nostre cadute, le nostre confusioni, la nostra umanità e finitezza. Le nostre paure, le false libertà mondane, color noce come tronchi d’albero ed il nostro corpo è un albero che contiene quel flusso vitale, quella linfa, che è il nostro spirito, uno spirito che, per renderci liberi, non deve farci ergere a padroni a priori di noi stessi. Le libertà mondane, infatti, recano limiti e velleità, come quelli della foce, foce che se noi rendiamo con superbia sorgente, ponendola come origine del nostro castano corpo nocetico lì, all’inizio, diviene di una sfumatura più scura, violato e colmo di sassi, i nostri limiti, i nostri vizi che acuiscono l’oscurità cromatica. La vera libertà non può che provenire dall’alto, dalla luna/Madre Celeste, Regina di Sapienza, nostra difensrice, dal Figlio di Dio, logos che illumina, parola manifesta, fonte di Spirito Santo, che è il volatile dalla duplice forma e che, discendendo e salendo e dall’alto, alimenta la nostra vita, il nostro percorso, che è il fiume, posto al centro, tale Spirito , tra la miracolosa mano del Figlio e l’insondabilità dell’Elyon, dell’Altissimo, del Celestissimo Padre. Questa la sorgente della nostra vita, tale Trinità, tale Madre, sorgenti che davvero squarciano il muretto irto di sassi, limiti e vizi, vanagloria e paura, ostacoli, facendosi tuffare liberamente e liberi per vivere con un obbiettivo, raggiungere le sfere celesti e nel frattempo rendere un giardino rigoglioso il nostro mondo, la natura, gli essenti animati e minerali, gli utensili ed i nostri rapporti con essi e soprattutto con i nostri simili, esseri umani.

dottor Giovanni Di Rubba

Mondo reale e mondo surreale

mondo reale e surreale le dimensioni dell'oltrismo

Autore: Sarossa-Salvatore D’Auria

Opera: Mondo Reale e Mondo Surreale

Materia e Tecnica: olio su tela

Dimensioni: 50X70

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera del maestro Sarossa “Mondo Reale e Mondo Surreale” segna un duplice superamento ed è peculiare per soggetto e contenuto.

Adagiato in sezione aurea, possiamo dividere il dipinto in due, una parte bassa minore e la parte alta superiore, a sua volta perfettamente divisa, ad immagine della prima, in due parti superiore, parte alta I e parte alta II. La parte bassa rappresenta il mondo reale, la parte alta il mondo surreale, le alte sfere cosmiche che trovano nella surrealtà la dimensione della trascendenza.

Nel mondo reale fa da sfondo un placido, chiaro e cristallino corso d’acqua, non vi è violenza, non vi è deturpazione dell’ambiente né altra scelleratezza umana sull’esistente. Vi è pacatezza. Pacatezza generata dalla figura che campeggia a sinistra del fruitore, fruitore la cui attenzione subito è catturato da questa insolita presenza. Il Santo del Gargano, San Pio da Pietrelcina, beneventano. Una immagine che fa il suo ingresso radioso e domina il dipinto, ma se il busto è qui, nella dimensione del reale, il volto è posizionato nella prima parte aurea della sfera superiore. Quivi sono presenti i simboli tipici dell’Oltrismo di Sarossa, i monti, che rappresentano gli ostacoli da superare, ostacoli che conducono alla parte più alta della sfera celeste. L’intera sfera superiore inizia ove termina il placido corso d’acqua della realtà ed è di un blu intensissimo, non il blu abissico ma quello fluttuante di immensità e mistero, di amore pullulante come le pennellate dell’artista che, creandolo, dà un senso di movimento che si contrappone alla staticità, seppur pacata, presente nel corso d’acqua della parte inferiore/reale. Altro simbolo dell’Oltrismo presente nella parte inferiore della sezione alta, accanto ai monti, quasi costeggiandoli in volo, è la sfera, sfera che simboleggia la conoscenza. Attraverso la conoscenza l’essere umano va oltre, concepisce il bello, lo contempla e, per ed attraverso l’ amore, raggiunge l’armonia. Purtuttavia quivi il Santo del Gargano va oltre ancora, il maestro Sarossa nel dipingerlo con fare umile dipinge l’al di là dell’Oltrismo stesso quanto dell’arte, comunicando al fruitore che l’arte è una parte ma non il tutto. San Pio col suo busto ed i suoi abiti di frate minore irradia di sana mitezza e dolcissima umiltà la sfera del reale, rendendola placida. Il busto rappresenta la dimensione umana del Santo. Il suo volto, invece, è nella parte bassa delle alte sfere e dà senso della provenienza di tale mitezza, di tale tranquillità, dell’amore eterno. Col volto dà le spalle ai simboli dell’Oltrismo non come a rinnegarli ma imponendo con santa umiltà il volto stesso, comunicandoci che la conoscenza è importante tanto quanto l’arte ma da soli non bastano per farci accedere al divino. Egli infatti scrive “non gli uomini di scienza ma gli uomini di cuore si salveranno”. Dunque la dimensione gnostica è portata a compimento dall’esempio, dalla vita attiva e da quella contemplativa. Il suo volto termina nella parte inferiore delle alte sfere perché egli è soltanto uno strumento nelle mani di Dio, Dio collocato nella parte più alta, al di sopra dei monti, fluttuante d’azzurro, non tracciato come immago dal maestro Sarossa, quasi a rispetto della sua innominabilità ed irrapresentabilità. Egli è lì anche se il fruitore non lo vede, ma promana il pneuma ondeggiante d’azzurro, promana il soffio vitale, il Santo Spirito. E tramite Esso il Santo ce ne fa pregustare la presenza già nel mondo reale. In primo piano vi sono le rose, simbolo mariano, quei profumi che, si dice, emanava il Santo stesso. C’è la candida rosa, l’empirea rosa, c’è la Madre del Creatore, dunque, nostra intermediaria presso Dio, come intercessore nostro è padre Pio. Egli, umilmente in primo piano, ci fa pregustare gli intimi odori, sapori, la leziosa musica divina, perché Egli stesso pose la Santa Vergine e Dio al primo posto, per amore del prossimo e del creato. Così, come seguitando le beatitudini, il mondo reale si placa e la conoscenza, una conoscenza scolastica, patristica, agostiniana, ma che racchiude anche i nostri studi liberali, assieme all’impegno artistico, solo attraverso tale umile volto ci consente di varcare i monti, superare i nostri ostacoli.

In quest’opera, dunque, l’Oltrismo supera sé stesso, silente innanzi al mistero, rispettosissimo innanzi al misticismo ed alla santità e, con Pio da Pietrelcina, il surreale diviene trascendente, come accennato supra, ed il trascendente stesso placa i subbugli del reale, asprose guerre, rovi tra i giardini, malevolenza umana, divenendo riflesso del trascendente.

dottor Giovanni Di Rubba

Final Message: 2003

final message

Autore: Sarossa-Salvatore D’Auria

Opera: Final Message 2003

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

L’opera “Final Message, 2003” del maestro Sarossa, fondatore del movimento artistico dell’Oltrismo, fa parte del “ciclo dei concerti” e si pone in bilico tra misticismo e concretezza, una concretezza simbolica che fotografa dinamicamente un periodo storico di transizione, quello dei primi anni del nostro secolo, del nuovo millennio.

Il dipinto è diviso in sezione aurea, scindendo una parte bassa, la minore, ed una alta, la maggiore, divise da un muretto. Siamo in un deserto, terra brulla, un deserto non meditativo ma d’attesa, una attesa che è quella dell’umanità innanzi alla nuova epoca, quella dello Spirito, dell’etereità, dell’etereismo che va aprendosi, quell’epoca dell’Aquario che inizia a svilupparsi con la cibernetica, l’età cibernetica di cui il 2001 ha segnato lo spartiacque di quella che gli storici inquadrano come epoca contemporanea. Domina l’ocra, colore scarno, distesa rude e rada a simboleggiare la mancanza di riferimenti e valori cui si trova sperso l’uomo del 2000. Il fruitore è subito colpito dalla parte bassa, in cui un busto femminile, che rappresenta la storia, sta a guardare un palchetto di blu intensissimo , una sorta di anfiteatro in cui sta tenendosi un concerto. La storia guarda, osserva, inespressiva ma presentissima, osserva come donna, padrona quel piccolo anfiteatro, piccolo ma vivissimo per i colori. Osserva novella Pallade ed il suo silenzio è un fracasso. Osserva la dimensione musicale che è moda, guarda impassibile come Moira, statica come Fato, questo cambiamento epocale, questo ribaltamento, conscia che nel 2003 l’essere umano inizierà a percorrere sentieri mai prima toccati. Ribaltamento epocale, di lì in poi saranno sovvertiti i significati delle tre parole che connotano la storia stessa. La contemporaneità, che è un soffio ed un eterno presente, che è mero racconto cronistico di ciò che accade in un giorno o in un’ora assurgerà, di lì in poi, a dimensione esistenziale della persona, regredita ad individuo. L’attualità che è il messaggio storico, l’orma dei grandi del passato, ciò che li rende ancora vivi per le loro opere immense, per le loro gesta grandiose, per i loro intramontabili scritti, di lì a poco sarà obnubilata da questo eterno presente che andrà a formarsi, dall’oblio della vacuità. E, paradossalmente però, un’ancora di salvezza c’è, un’apertura, una inimmaginabile apertura, il modernismo, nella sua declinazione come moda. Quel concerto designa la potenza che salva dall’oblio, dall’eterno presente vacuo, la moda attraverso l’arte, e nel caso di specie la musica, diviene la nuova dimensione universale. Salva, salva perché è apparenza, apparenza intesa come manifestazione dell’essere, apparenza che è la via da seguire in questa brulla realtà esistenziale ancora in embrione nel 2003 ma che, profeticamente, è quasi compiuta ora, nel 2018. L’apparenza dell’arte, dunque, che manifesta e rende essente l’essere in contrapposizione con l’etalagia della contemporaneità, dei selfie, dell’immortalare ogni attimo della nostra esistenza finendo per non immortalare alcunché, l’essere umano nella sua etalagia divenuto vetrinetta dell’eterno presente e nell’eterno presente distratto dal tutto e percepente il nulla, la brulla e desertica vacuità esistenziale. L’arte, la musica, sono la via, la trasmutazione dell’etalage in apparenza.

Ciò avviene con l’arrivo di un aeroplanino rosso, rosso come il cuore, l’amore, l’Hermes cordico che come un colpo d’ascia invia il suo messaggio, la musica, l’arte come eros, ossia pulsione che ci spinge alla ricerca del bello spalancandosi nell’agape alla via della contemplazione e, quindi, al raggiungimento dell’armonia. Un aeroplanino/Hermes, come quelli fatti dai bambini, dagli adolescenti distratti, semplice, umile ma colmo di una forza indomita, quella forza delle future generazioni, quella forza plasmata dalle future generazioni, l’aeroplanino come evasione nella forma ma nella sostanza ricco d’amore, di passione, una passione tracotante che non sa celarsi ed anche nella esteriorità è intensissimamente di fuoco. Il fuoco che brucia e che mai può sopirsi. il fuoco che è nelle aspirazioni dei ragazzi, quel fuoco che è l’unica speranza per il futuro, per non divenire scarne menti produttive. L’aeroplanino squarcia dunque la vacuità della brulla terra, apre gli ostacoli. Dal muretto su cui atterra, e che simboleggia i piccoli ostacoli da superare per raggiungere sé stessi, spalanca un sentiero che però non conduce sino ai monti, le asperità maggiori della vita. È monco, si arresta. Nel suo fracasso anima l’anfiteatro pulsante ed azzurro ove si ascolta uno splendido concerto, una misteriosa e salvifica melodia, non raggiunge i monti ma tramuta il loro blu, che simboleggia qui l’abisso, la difficoltà del valico in un colore più tenue, celeste. I due monti mantengono il colore d’abisso ed il periglio, ma sinistra, ove ci si incammina per l’ascesa, sono acque tenue e non burrascose. Ed anche il cielo, giallo come il deserto, si fa attorno alle cime dei monti bianco, limpido come uno sprazzo di luce, come una pagina da scrivere, che i ragazzi dovranno scrivere con le loro mani, col loro cuore. La musica, il messaggio artistico plasmato dalle mani di un ragazzino, semplice ma possente ha aperto una via nel deserto rendendo meno periglioso il viaggio. Tuttavia l’arte è solo il punto di inizio, sta a noi, sta alle future generazioni proseguire, scrivere, cantare, suonare, dipingere, modellare, creare, seguitare la giusta via che è nel loro cuore perché non c’è giustizia senza amore. La musica apre un varco, il nostro lavorio, il lavorio delle generazioni future, il lavorio interiore, spirituale, deve comporre questa magnifica melodia di cui l’aeroplanino è solo l’overture, overture che senza paura le future generazioni dovranno completare, seguitando tra le note della vita, i suoni della natura, il respiro rigoglioso del proprio essere che riempirà di fiori il deserto, in cammino verso l’assoluto che è in loro e che è in noi, inseguendo la bellezza ed amando per raggiungere l’armonia nella brulla terra esistenziale che è la nostra e la loro vita. La sterile terra diverrà uno splendido giardino, ritornerà un magnifico eden, se i ragazzi sapranno coltivare l’immenso amore che hanno dentro.

dottor Giovanni Di Rubba

Trillium Road

trillium road1

 

Autore: Matthew Palmo

Opera: Trillium Roads

Materia e Tecnica:  acrilico su tela

Commento a cura di: Giovanni Di Rubba

 

Con l’opera “Trillium Roads” il maestro Matthew Palmo declina in pieno l’aspetto arcaico dell’Oltrismo, un arcaismo da cui emerge pullulante l‘intima essenza del nostro essere, l’aspetto etereo del mondo in una visione personalissima eppure universale, figlia della sua terra, Buffalo, e di una dimensione mistica in cui si colloca la fisicità, la natura.

È un percorso, una strada, intrisa di luccicanti spiriti, di lucciole, che guidano il cammino dell’essere umano tanto quanto quello del fruitore, che si immerge nel dipinto incamminandosi verso l’ignoto, accompagnato da queste luminescenze, da queste guide invisibili, i trillium, puri come gigli. Si incammina l’uomo lungo questa via che converge prospettica verso un punto luminoso ma al tempo stesso è assediato da forze opposte, è ignaro della destinazione, quella luce è sbiadita perché vista in lontananza e la strada è ricolma di riflessi sfumati, domina un colore azzurognolo, come di corrente, di corso d’acqua, di fiume, ma l’inizio del percorso è già di per sé periglioso, una giallognola figura apre la strada ed i colori sono di un azzurro intenso che sembra quasi avvolgere il viandante. Il principio del cammino spaventa e spinge quasi ritrarsi, ritrarsi per la paura di essere inghiottiti dall’abisso.

 

La strada termina dividendo in due parti il dipinto, in sezione aurea, la prima, la maggiore, che simboleggia il nostro cammino su questo pianeta, l’altra la meta, le sfere alte. E l’attenzione del fruitore è paradossalmente attratta subito, per il periglio iniziale della fluente via, a soffermare la propria attenzione lì, nella dimensione alta, come a voler conquistare un premio, godere di un traguardo, di una vittoria, eludendo il percorso, che è la vita. Ed in alto c’è un sole arancio, collocato non al centro ma leggermente a sinistra, un sole che simboleggia Dio, un Dio non rosso fuoco ma arancio appunto, e non centrale ma spostato a sinistra, scostato come a dire all’essere umano non affrettarti a contemplare, percorri prima la tua strada. Ma è un sole magnifico nelle promanazioni, facendosi un po’ in disparte, verso sinistra, vuole anche  aiutarci, indicarci in che modo percorrere questa perigliosa via, col cuore a sinistra, andando al di là, senza farci incantare da un canto di sirene malevole che ci spingono a bramare la meta senza sofferenza. Senza lavorare, come i coleotteri che assediano i trillium per impedire alle laboriose formiche di farli riprodurre, ovverossia risplendere. Ma è, dicevo, un sole magnifico nelle promanazioni, tra il celeste ed il rubino, sopra di lui una forma verde ed ocra, simile a civetta, che è sapienza, e che è in opposizione alla figura informe che le corrisponde all’inizio della strada. E così il fruitore errante è spinto a tornare indietro, incoraggiato, ed iniziare, finalmente, il cammino.

Ed ecco che la via divide la parte bassa in due parti, destra e sinistra. Sul lato destro basso c’è il mondo così come ci appare , nella sua immanenza, così com’è, empiricamente, un abisso nero accanto alla strada, emergono forme che danno la consistenza di un acquitrino al paesaggio destro, rada e rara la vegetazione, l’ocra domina. Un mondo deturpato, inquinato, violato, sterile. Ma anche nel lato destro luccicano le luminescenze, i trillium. E c’è un albero, un albero che ci indica l’irraggiungibilità di tale lucentezza, del trillium, che quasi ci viene concesso da un potere ignoto ed arbitrario. Tuttavia, come il Dio/sole ci indica, guardate a sinistra nel percorrere la via, squarciate il velo di Maya. Ed è così, a sinistra c’è il mondo nella sua trascendenza, un fuoco da cui promana come vapore una figura eterea dalle sembianze femminili o angeliche è posta in corrispondenza dell’albero, e ci mostra la verità, sta a simboleggiare lo Spirito Santo, che è fuoco inestinguibile e da cui promana luce, i trillium. Che ci dona e senza arbitrio. E di lì quel vapore divino ci viene incontro, fa ingresso nella strada come nella nostra vita. Una figura angelica femminea con una aureola sferica che la avvolge. La nostra guida, la nostra speranza, la nostra luce. Subito dopo, non a caso, sul lato sinistro emerge una figura femminile ancestrale, da madre primordiale, vergine gravida, raffigurata in maniera arcaica, come le dee madri primitive dal seno pronunciato. È la madre terra, è la vergine Maria che ci assiste e protegge, è lei e quel fuoco che è Santo Spirito che ci irradia di trillium, di luce, la vera fonte, che ci invia la luminosa guida, colma di grazia. E questa immagine è talmente alta e possente che col corpo è nella parte bassa del dipinto e col volto, invece, va nelle alte sfere. Ha un volto umano arcaico, quasi sofferente, ma è la nostra avvocata e la nostra difensrice, lei con quella sofferenza impresa sul volto richiama Dio, il sole, che si fa a sinistra, come abbiamo detto, per indicarci la via da seguire, richiamato dalla madre sua che è madre nostra e protettrice. Da lei promana grazia, sapienza, speranza. Sempre sul lato sinistro, nella parte bassa, c’è infine una figura luminosa in croce, il Cristo, che si fa uomo e che nel sacrificio è luminoso, radioso, come il trillium, puro e risplendente, come il giglio. La parte destra è illusione, è degrado, è brama di potere, alto come albero che concede per arbitrio e che ci fa credere che dal suo potere promanino i trillium, le luci. Come l’antico serpente ingannevole. La parte destra è scempio all’ambiente ed alla natura, è terra brulla, acquitrino. La parte sinistra è la verità, è lo Spirito Santo che dona, è la nostra Madre Celeste, è il nostro Dio fatto uomo. Sono le vere fonti del trillium, del giglio, della luce, degli angeli, delle nostre guide. E sta all’uomo scegliere come percorrere il sentiero che è la vita se guardando a destra facendosi ingannare dall’illusorietà, o a sinistra seguendo la verità, per poi giungere alla fine, della via come della vita, così come ci mostra quella strada che prospettica si chiude con il trillium finale, la figura luminescente che ci accoglie nelle alte sfere, circondata da un rosso intensissimo, che è l’amore di Dio, promanante dal sole. L’amore infinito, misericordioso che guida il nostro cammino, il palpitio del cuore che se in sintonia con i nostri passi lungo questa strada che è la vita ci conduce alla eterna felicità. Seguendo invece le illusioni che sono nella parte destra saremo distratti e spersi ed alla fine del sentiero non vedremo altro che quello che si vede nella parte alta a destra del dipinto. Un cielo così come si osserva empiricamente da un telescopio. Nulla di più che la freddezza di un immobile cielo stellato ma senza trillium, senza luce. Seguendo la sola ragione cadremo nelle maglie dell’illusione, nei vortici dell’abisso, ascoltando il nostro cuore giungeremo verso lo splendore inenarrabile, la luce d’amore inestinguibile.

dottor Giovanni Di Rubba

 

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