Liceale

E genuflesso il canticchiante

messaggio subliminale,

le marchette della sera,

stese adagiano l’atmosfera,

un fuoco lento per riscaldare

i risparmi e le sottane

dell’antro ditirambico

del tuo sogno mai così desto,

immagini che scorrono sul video,

mangiucchianti pac man anni ottanta

e le camice col risvolto

che tanto o poco ti hanno sedotto,

poi tanti saluti su cartoline

dal ripiego così carino,

così impresso come big babol,

continua e coglie nel segno

l’erba che invade e sbaciucchia

la zona e i baretti del centro

nervoso, un po’ l’accumbens nucleus,

di svolazzare come lingua

tra le tue labbra raddolcite

dal video gioco

con polso deluso e slanciato.

Ma che bello!

un ricamo ad occhi chiusi

per altre vie,

sul condiscendente astruso furetto

che ti ha delusa,

manca la dolcezza

nella pecunia verbis,

nella piscina stesa

o forse più eccitante a galleggiare

inversa sulla banchina,

dici sì, dici no

caricatura buffa,

dolce immagine animata

virtualmente realizzata.

Ma gli anni sono ormai chiusi

mentre apri rovistando

quei cassetti,

ti frughi poi la borsetta,

ancora segni di tabacco

e le cartine per altri mondi

sconosciuti asciutti

eppur districati

tra i tuoi contorti discorsi

allo specchio temendo

ciò che c’è in te più puro e oscuro,

e che bello domani mi nascondo

tra i rami come usignolo

dal bel canto,

poi il viaggio in treno

ed il ripasso svelto in fila

tra le mattine d’aprile al sole

a rincorrere come vignetta

il disciplinatore

per non essere avvistata

dalla torre di guardia,

io che premo il tuo nasetto

sulla spiaggia.

Magari poi da confusione

e da diniego il manto levato

e poi l’occhiolino,

il mastichio che si fa più intenso,

dai vieni a cena,

non fare tardi,

dai ricordati,

o resti o parti,

rassicurata dalle maree

e dai delfini in circolo a guizzare,

corteo da mille forme.

Ah che poi farò,

l’auto da fé dei miei pensieri

autocondannati ed imposti

come se fosse neve,

il tuo silenzio il tuo ricordo

che ormai più non c’è,

la fretta che ti invade

l’albero della vita

dal frutto colto e rinfrancato

dai tuoi continui giri

e destinato a viaggi ad occhi chiusi.

Incartucciata un po’ avvilita

imbacuccata

la voglia viene,

è d’obbligo il saluto,

un cenno o solo il miagolio

di te arruffata e un po’ attizzata,

mi graffi già come se avessi voglia

di imprimere il tuo marchio

sul mio braccio e sulla fronte.

Eppure muove un alito

di cuoricini, il tuo diario indotto

allo scribacchio da incunabolo

amoroso,

da vorrei a gaudio dei.

Ecco è arrivata la luna sola

e sondi il meticoloso intorno,

delimitato il tuo fiato sul vetro,

in cartongesso il nadir

è già svuotato e incappucciato,

sguardo e testa bassa,

sul pavimento il corpo teso

a goccia precipita,

inclinato a destra

dal tuo occhio.

La fluorescenza sulle mani

dell’evidenziatore iniziatico

e diretto,

lo tracci il colpo di netto,

passerà anche stanotte,

la tele spenta e sfocate

le tele che non hai mai avuto

il coraggio di trinciare

da tritacarne la tua brama negoziale

e non contraddittoria

né compromissoria.

E poi continua la tua folle

impresa da ragazzina

contro valanghe e nubi

e contro te,

contro ogni destino

ed ogni tempo,

ma lui dov’è?

Più non c’è la voglia

se non puoi sfiorarlo,

non puoi.

Lascia un commento