Astarte Syriaca; Dante Gabriel Rossetti; 1878
Imbacuccata dal caro foulard
Imbacuccata dal caro foulard,
capelli mossi e sbadati,
nello specchio da trousse
immersa, gigli intrepidi
sbucano qui e lì,
iato di verità
evitato nell’antichità,
con sincerità atarassica
ed orgiastica, spuma in cielo
ammiccante, protesa.
L’encomio profuso
sembra tardare,
sibillino e scostante,
una croma perduta,
una glossa diffusa,
un parere bartoliano,
un consulto citando Quintaliano,
non crede che la donna
sia quel che sia,
sublimità,
e lei che fa? Si distrae!
L’attimo genealogico
perde intensità,
allora ammicca e si ficca
tra vocali spurie e spore
precambriane orribili da ascoltare,
impronunciabili, da cestina’!
Allora purifichiamoci, dai,
slinguettando diamo fiato
alla dolcezza,
le prebabeliche lingue germaniche
dai suoni rudi, esuliamole,
esiliamole.
E inizia una nuova era,
l’era della purezza vocale
e del silenzio consonantico.
Ti vedrò
Ti vedrò,
giuro che un giorno ti vedrò,
cara mia carta vincente,
non esiterò,
per passione
ed intanto un rombo sonante
impenna, mi dirai,
so che le parole giuste
quelle sì in silenzio sussurrerai,
adesso che ti attendo
come fossi ultima luce.
Vieni,
so che tu sei l’essenza
della mia vita,
l’unica ragione di esistenza,
l’unica molla intensa,
(l’ondeggiamento della penna sdrucciola sul foglio).
Vieni,
attendo le tue note
di stupore,
mi sembra di scorgerti
tra la folla, il tuo riccettino,
l’ombra del mascara,
ma mentre l’ombra sfiora
il tuo corpo
ti dissolvi.
Verrai o no? L’illusione avvampa,
chi lo sa se l’attesa
è l’ennesima follia,
sarà l’ultima occasione
o forse il nulla,
prigioniero del mio sogno
e naufrago barcollerò.
Vieni,
ti prego le mie mani
stan tremando,
l’albeggio è forse il traguardo
l’inevitabile speranza
che già geme e implora.
Vieni,
i tuoi inverni saranno anche i miei
lo sai,
è sempre pronto l’ermo viaggio
ma non so,
non so più se resisterò.
L’attimo scivola via,
di nuovo trasparente ti fai.
Vieni,
mia cara l’intimo sussulto
attende, attende già lo sai
il cenno delle tue soffici mani,
la cenere aumenta
e dal silenzio cinereo
l’anima risorge.
La pulzella di Lorena
Demoni in tumulto
sussurrano in te,
c’è un’aria gelida,
l’inflessibile decisione
è stata presa,
arderà la paladina stolta,
la santa introversa e ammaliatrice,
la meretrice battagliera,
sole invincibile punirà
chi d’ardore è spenta ormai.
Prega pur se vuoi,
brucerà il demonio che è in te,
inchinati alla croce
o morirai nel dolore.
Hai osato fanfare diaboliche parole,
la tua follia è finita,
non hai speranze
orribile ingannatrice,
fiamme per l’anima e pel corpo,
non ascolteremo più la tua voce,
astuta donzella, la vendetta
assedierà le tue membra,
brucia pulzella,
non darai più retta
alla possessione che t’invade.
Urla,
gemiti,
urla
e sputi.
E tu
in quell’istante
chiudi gli occhi,
ripensi alla luce
che invase i tuoi occhi
genuflessi in cattedrale,
rimembri d’un tratto
il sogno di femminea
pace universale,
matrona e ragazza
della congiunzion paonazza.
La provincia geriatrica
ostenta leggi infami,
i tuoi sostenitori
e i vostri sogni svaniti e vani,
la ciocca rossa cade ai tuoi piedi,
il boia gode da belva infetta,
gli occhi cobalto
tra l’invidia della folla
che inventa un misfatto,
ed il sacerdotal ricatto.
I soldati d’ Orleans
non saccheggiavano,
i dardi si piegavano,
diana,
daino e
dannata.
Un altro urlo c’è,
il braccio armato freme,
il temporale preme,
non purificherà le loro colpe,
le streghe torneranno,
vendicative Erinni,
non esorcizzate
e non intimorite.
Arriva l’effige,
putrida contadinella,
volevi far la santa,
generalessa unta e diabolica,
il re l’ha spuntata,
non ci sarà pietà,
sognavi libertà,
eccoti la realtà.
Passano gli anni,
il tuo volto giovane,
non dimentica l’uomo
che ti era affianco,
chi non ti ha tradito,
senza farsene accorgere
si avvicina a Thanatos
corrucciato e in sé assorto,
l’asta e la falce si spezzan,
come cristalli in frammenti
la lama del pugnale di Ares.
Anello del potere sul fondale!
Un urlo metallico
Un urlo metallico,
sinfonico maneggio
da manovella attenta,
mandria valvolare,
veemenza sentimentale scarna,
sentore d’ atomi tomistici,
scolastiche profusioni,
vaneggi santi e macchinosi,
interpretazioni autentiche,
relatività suadente,
nulla,
morte,
tempo ed essere.
Brume viandante,
cogli il frutto distante,
tra laudari stridenti,
scansa i fendenti.
Senti il cuore che batte?
Sogna!
Cosa c’è
nel vespro alessandrino?
Solo l’incubo di uno spritz vitale,
di un cocktail virale,
dadaismo intenso,
metafisica del soprano,
surreale ad uso corale
e baritono dantesco.
Spasmo notturno. Cattedrale bianca
e pleonastica ridondanza.
Vedi l’inizio?
L’inizio dello scisma.
Atonale,
attonito,
attratto
e allitterato.
La paura è una nebbiucola,
sale trasudante,
inversa e danzante.
Esca per il refrigerante
liscio della mente,
come palpito stimolante
l’idea fugge in volo,
termine di paragone poliglotta,
rovina scadente,
morale teleologica e canonica,
anagogia figlia dei lupi.
Barbarici farfugli,
lotte preedeniche,
miscele di terriccio,
materia plasmata e non creata,
in principio fu,
poi era,
ora è,
infine sarà.
Congedo in concreto
le tue parole
e arrivederci.
Fruscio intenso!
Come pioggia
Come pioggia
che bagna i sorrisi
accennati
le note misteriche indugiano,
l’ingresso alla soglia
del silenzio, l’aria si schiude
e il pensiero va altrove,
sei già qui? Ti attendevo
tra i volumi e le colonne,
specchio mio d’acqua dolce.
Dimmi se hai conservato
le missive, i sigilli, le piume,
se sei rimasta marmorizzata
sulla sponda del letto,
se il dolce sciupio del frullio
ti ha sedotta ancora,
petalo fucsia meticoloso tra i rovi,
le strade di Tubinga sorridono
al tuo sguardo tra i vetri,
il cofanetto dei segreti
scandisce il motivo,
sbiadita l’immagine,
vai verso i quadretti ondeggianti
e luminosi,
gli occhietti persi nel vuoto,
nel sogno vivido l’intento,
tre fuochi accesi
impostando il rimasuglio,
la cera livida sul foglio
scribacchiato, e poi un bacio al vento,
accenni un sentimento.
Naufraga l’anima idealista,
mio spirito, mio viso, mio pallido
segno.
E fiammette scaltre sul fiume,
la città è un barlume,
incontro intarsiato tra le idee,
le forme divine,
le scappatoie empiree,
stringi le mani alla ringhiera,
sporgente il corpo,
sacro il fiore ottagonale,
guarda lì lentamente
il dardo scinde le passioni,
nostalgiche effusioni.
L’argento silvestre,
non voglio perderti amore.
Sei in me stivaletta,
sei in me anfibia principessa,
stretti in semiotica promessa,
filologica valenza,
stilistico orizzonte.
Tre gocce purificano il mio capo,
lo sgocciolio dal tetto spiovente,
grottesca pietra nascosta,
potente e vorticosa,
laccetto e pendente
con le scritte impresse,
regina, i miei onori,
regina, i nostri errori.
Immagina le distese sconfinate
dove alberga il tuo esercito
allerta armato di brezze,
sembra già inchinarsi
al tuo portamento,
al tuo celestial volteggio,
le forze immani dell’est,
terre inesplorate non temi,
sostanza altera e rubiconda,
espressiva imperatrice
il tuo regno ti attende,
la pace universale
il tuo cenno porterà.
Vespro seducente
Entra il vespro seducente,
sfoglia le tue mani
nude infreddolite,
le risate, le giocate,
le valide occasioni beffate,
valige senza tempo
sul ripiano serale,
l’incanto di un protendersi
verso il notturno corale,
l’albore lunare.
Penombra fiera,
vista acuta,
falco librato federiciano,
manuale sadico posizionato,
i cinici sputano sul galateo
cerberati,
l’arietta prosegue allegra
ma sinestetizzata,
più può il panistico flauto,
l’armonica fisiognomica e slava,
organello sottile,
vai ondulata, sciolta e scaltra,
piccadillica, cattedratica,
oppiettizzata,
canone cannabinoide,
etica etilica,
estetica ad est,
vistosa la collanina,
fresca la fronte refrigerata,
scende la temperatura,
parte fredda eclissata,
conico l’antro sibillino,
sotterranea la cella,
secondino da barba caprina,
cellerino d’abbronzatura,
pomata reclusa e profusa,
lode al soprano,
la viola maggiore è distratta,
scala discendente darwinista,
zoologia simbolica tardo medioevale,
ciclope, gigante e sciapode,
liocorno, furetto, chimera,
centurione-centauro,
in piazza Ipazia tra una sigaretta
e l’altra,
al bar Hegel paonazzo e ingrassato
per falso rapporto di Venere,
alpina lucertola gigante dei ghiacciai,
impressa nel rullio del rullino estinto,
caro viscido sarcofago,
mummifica il portamento,
rendilo edotto.
E va sbiadita,
stringi quelle labbra,
poni un intatto cielo cobalto,
limite del mare,
l’onda sale ripida,
l’acqua sgorga e casca,
filmino straripato,
magica quiete invernale.
Ma che solfeggio altezzoso,
che diadema putrido
da belva del mare,
quella che lentamente sale
e trascina rovinosa
un quarto di stelle,
ma la lancia ferendola la umilia,
non sopravvive al taglio di spada,
non ci inchiniamo,
la ribattezziamo inutile violenza
intesa come qualcosa che manca,
che meschinamente lambisce
l’inutile di uno spasmo,
spasimante del nulla.
Ed è ripieno farcito,
l’essere, l’esserci,
le diverse declinazioni tedesche,
le congiunzioni mediocri,
l’asperità, la vacuità,
il fine a sé stesso ambito,
vai valica il monte Ventoso
petrarchianamente o da tour de france,
in ciclica vendetta esule,
in pagina vandalica,
voglia sopravvissuta,
stirpe ottusa,
priva di mandorle e d’incenso,
sapore ortodosso, giusta icona,
santa tunica, imponente toga,
dito all’infinito collegato,
non dimenticato.
Wiesbaden
Ametista e opale
congiunti sulle scale,
ascende dolcemente
colei che protegge
il dono divino,
la misericordia,
carminio il vestitino.
Ok, pian piano,
druidetta furbetta
guarda i tuoi occhi.
Che bello,
scartiamo i ricordi,
che bello,
manteniamoci ai bordi,
bellina stridente,
visino invitante,
seducente.
Appoggiamoci su quel muretto,
hai le labbra che non so risolvere,
ponenti, ardenti e vezzeggiate,
l’ albatros è un po’ inutile,
diciamo manca in concretezza,
meglio il vino se vuoi Baudelaire,
dai si ubriacamoci di qualcosa,
tè corretto e sciupaletto,
fraintendimento e capitale
del tuo Land,
ti manca l’università,
due giri in terma,
scientifico aforisma pliniano,
ansia anzi panico
dimenticato.
Andiamo su per monti,
giù per ditirambi stolti,
che freddo stringimi un po’
anzi mettiti di lato,
obliquo e un po’ svogliato,
sulle scogliere dei ricordi,
calcare sulle rocce bianche,
voglia di gabbro, di basalto,
oh ti garba! Parla a tu per tu,
ah l’hot dog! Così non l’ho mai mangiato!
Uh Abat-Jour ! Diffondi il cardigan.
In scivoli e altalene,
mania d’elevazione,
paura dell’abisso in discesa,
ondeggiamento, buttiamoci sul letto!
Che stupida,
ed io ti do anche ragione,
specchio dell’oblio, pluripersonale,
immotivato, gioia impersonale,
collera e desiderio.
Astuta e quasi perfettamente
sconosciuta, amica arresa,
io bitume ignorato,
vai brucia ‘sto straccio,
benzina e cherosene.
Camice e saccarosio
nell’assenzio, squallido silenzio.
Facciamo un tuffo,
trattieni il fiato,
leggi o fingi,
sei stupenda uguale,
il primo passo lo fan i capelli,
sfiorano astuti bombardamenti,
fragore,
fervore
e fragrante frasca,
l’albero nasce dal frutto,
ricorda il fine è più importante
del generatore, ciliegina ibernica
e squisita,
io non posso far altro
che ammirarti, fossilizzarmi
nel guardarti, restare muto
ore ed ore, il tuo nome
è un rimando,
quattro semiminime, una croma
e due biscrome,
ricotte, precotti, biscotti,
scegli tu la direzione,
l’intrusione,
l’effusione eventuale,
bellina al sapor di semplice
grandezza, magniloquenza e speranza.
E il rapporto servo padrone,
dimmi un po’ chi è più importante,
l’amata, l’amante
o forse lo sguardo intrigante,
lode a sé, per sé e di sé,
uh che fiorellino,
freschezza del mattino,
uh lo dico ancora,
per te.
Musica indimenticata
Passeggi tra la nebbia,
già immagini il motivetto,
lo ripassi in fretta,
ed esplode il discorso.
Sai bene cosa vuoi,
ritratto accennato, sbiadito,
in filigrana, lucido sol,
e tu malandrina,
cosa vorrai ancora,
vita mia, non dimentico
e non dimenticar
le nostre assurde follie
incomprese,
gli sberleffi, le tue manie,
in un minuto avvisti già
le schiere d’ elfi armati di lance,
le nostre spiagge abbandonate,
sfiorate appena le note.
E precipito già,
guardami trotto,
mi spoglio, vivo di te.
E sognami stanotte,
le ombre che fuggono
ritorneranno come un inciso,
sbalordito il tuo viso.
E parla un po’,
magari da sola,
col gatto,
guarda che faccio,
sorrido un po’,
vibro sospeso
come te nella mia mente.
E poi i pastelli,
le sfumature impresse,
i nostri sogni, guarda,
ridi, beffarda amica,
non dai scampo,
nocciolo spoglio e fruscio.
Per te si apron i fiumi,
la purezza invade l’animo
e poi ancora brulica pace,
vai vivace,
audace cappellina,
tessuto prezioso.
E poi mia cara,
mia dolce scarpetta
non senti l’aria
che scorre nelle vene?
non percepisci il calice
della vita eterna? questa musica
indimenticata, riscritta,
riamata, formula dello spirito,
dell’azione, dell’intenzione,
ciao amore!
Scariche magnetiche
L’intimo rimorso
è dolore che mi assale,
l’estro nel silenzio
si spegne piano,
la cera del tempo
lenta dissolve,
con noncuranza sigilla
il ricordo.
Furtiva la notte piange lacrime,
sciupate dal vento
le ultime foglie.
Sembra ieri eppure
è già domani oggi,
il cambiamento epocale
sembra sempre più tardare.
Fuggi rapida
vita dissipata,
ai bordi del fiume
l’anima sorride dell’ardimento
che sgocciola passione
riflessa e genuflessa,
si arresta soltanto alla mano
che sospende il vento,
l’aria, il fiato,
il corso.
Poi lamenti lontani.
Scariche magnetiche
sfiorano i nostri corpi,
l’attrazion fatale
da concretizzare,
nell’astratto bosco
il rifugio è perso,
la contemplazione resta un’illusione,
e le menti rozze e stolte
bramano il potere
come svelte scimmie,
e io qui mi acquieto e riposo,
in te cerco ristoro.
È così difficile trovare le parole
mentre l’attimo sguscia
tra le mani inumidite,
la parete è ultimo sostegno
del sogno infranto.
Vai, accompagna la vettura sbrigliata,
in balia di sé,
sorprendimi,
le saette non potranno
mai colpirci, ferirci.
L’incauto misterioso
intrepido non congelerà,
non distruggerà la corazza
di cartapesta, non piegherà il gesso
di semplicità,
si arrenderà,
le armi esausto deporrà.
Poi sentieri sinceri
aperti dinanzi a noi.
Poi la tua presenza
sbiadita chiara apparirà.
Brigith
L’imperatrice
Era novembre
Era mattina inoltrata,
sdraiato sul letto fissavo la finestra,
i pensieri vagavano sonnambuli oltre il monte,
desideri di ascese verso verità celate
ed inesplorate.
Chissà se mai sono
nella tua mente,
nel candore della tua pelle,
vorrei vederti di nuovo intorniata
di perline e maestosa,
mi sfioreresti il viso?
Vorrei davvero abbracciarti
ancora, vorrei che le tue mani
guidassero i miei gesti,
vorrei planare nell’aere
e seguir i miei pensieri,
non ha ormai più senso
la mia volontà ed il mio agire,
intorno alberga il vuoto
e dentro un mondo esplode in sé.
Era novembre e nulla cambiò,
resto attraccato al molo
in attesa di improbabili maree,
noi
improbabili eroi d’altri tempi.
Canto cadenzato
Parlume di bitume
mascherato di amianto dorato,
sentimento scarno e bazzicato,
destinato al silenzio
ed al fermento stupito.
Damigelle ai posti d’onore,
flauti magici,
incantevoli corpi nudi,
masticanti profusioni,
ardori assunti e meticolosi,
forse scialbi piatti decorati,
leccornie carnali sui tuoi fianchi,
animali graziosi poggiano
le rime altrove e miro te,
lì dinanzi a me,
docile fermento mattutino.
Cade il canto cadenzato,
poni assenzio mandorlato,
atomo perso nel vuoto,
ogni parola si arresta,
il tuo sguardo resta,
i tuoi fuochi inestinguibili,
i tuoi braccialetti fruibili,
pelle dolce da assaporare,
da lodare,
contemplare in estasi,
il fiume di verbi.
Lenta poi ed improvvisa
una viola distoglie il pensiero
e tu come fosse solfeggio intonato
volteggi, spiazzi e spazzi
con le partiture, un basio,
slinguetti dispettosa,
sbatacchi l’anima
secernendo spirito,
grazia etilica
e valente effige impressa,
mai dimenticherò la voglia
e la volontà di te.
Riprendi l’opera di sensi
sviliti ma rigenerati dalla tua passione,
che labbra vivide, intense,
pure sentinelle in guardia
e pronte a sfiorare l’etereo clamore,
a soggiogarlo, renderlo servo,
al guinzaglio, purificarlo e girarlo,
rivoltarlo,
poi chiaro consolarlo.
Attimo di suspence,
entrano i cortigiani.
Cortesi direi i tuoi servi,
le tue soluzioni,
in trono dirigi e sorridi,
poi riondeggi come fascio luminoso,
caloroso, inaudito, colorato,
cristallizzato, decorato, declinato,
inviolato, e infine donato.
Sonata
Due bestiole si presentano,
che graziose, che portamento,
che quiete sentir il fermento muto,
l’incanto, il canto tuo, è così sublime
(e sei col libro chiuso).
Sembra quasi la musica
non si percepisca,
solo un lontano bagliore tonale,
è un’arpa rinascimentale,
un inciso spirituale.
Il risveglio fischiettante dei folletti,
con gli intenti furbetti,
dolce fiaba emo,
tra Selene fremo,
Eos avanza, che temperanza,
la giostra gira cara ragazza
nel carillon protetta,
sia benedetta la tua faccetta.
In punta di piedi
tra viali scoscesi
saliamo i gradini,
sfidiamo gli altarini vicini
vicini, scansiamo il nemico
e facciam l’occhiolino
e tu danzi avvinghiata
a te stessa sotto le stelle,
dio mio che splendore!
L’acconciatura francese
ti sfiora la palpebra distratta,
allora oscilli trottolina vorticosa
e scomposta,
dionisiacamente risorta.
Ciclo naturale
e metempsicosi corporale,
batto i tre quarti,
figura perfetta e stellata
da musichetta pitagorica,
le etalage di turno
congiunte in Saturno
hanno la luna storta
e contorta.
Il meridiano divide il limone
in atteggiamento sospetto,
in dolce compagnia sul letto
aspro e strisciante,
la corda pizzica ancora
come formaggio l’asola.
E c’è una festa in piazza,
si sente dalla terrazza,
più altera va la ragazza.
La spola fan tre o quattro
appostati sotto il palco autunnale,
il vento soffia,
l’amplificatore, la spina, le cuffie,
il motore.
E poi gli stralci,
sonetti o minuetti,
il maestro si sbatacchia,
poi vede la ragazza,
non è distrazione
ma entrar nel vivo della questione.
La musica infatti avanza,
avvitamenti,
piroette maledette,
odore di fumo, sbuffa la pipa
all’inverso.
Siamo ancora all’inizio,
ne passeranno di ponti
sott’acqua, archi romani sprofondati
e corrosi dal flusso,
il maestro spettinato
indossa il cirro stonato,
copricapo lodato, disimparato,
frastornato e sciupato.
Vai in re minore,
te lo aspetti,
non sei dodecafonico,
allora l’orchestra sbadiglia,
pastarella e amarena stanca,
vorrebbe inchinarsi per sopirsi,
il pubblico bivacca,
divora le note indigeste,
scucite e scandite
dal ticchettio di novena ripiena.
Eccolo,
entra in scena,
proprio mancava, l’assicurato
impresario che lancia in aria
i tre danari, mette da parte
e investe i talenti
ad uso contadinello ottuso
ed imbevuto di pesticida laureato,
di sandalo arricchito e deluso.
La ragazza sonata si ribella
alla disfatta, gambe all’aria,
è tutta fatta,
affonderà col transatlantico,
vicino mio dio,
l’incubo mio,
tra le fauci del coccodrillo
ossia il serpente antico
riversa sincera la chimera
e le partiture, tutte le arsure
e le violette infine.
Mi alzo dal letto al frastuono,
il pragmatismo ha svilito il suono
docile e contemplativo,
l’anima e lo spirito si ribellano
ad un corpo che non vuole piegarsi
ad essere semplice contenitore
e strumento dell’una e dell’altro.
E scorgo lontano,
la vista aguzzo,
dicevo scorgo un lamento
materializzato di un mondo eclissato,
un mondo lontano e ovattato.
Poi uno scalpitio,
il mendicante ritratto,
armato di bastone,
nell’incedere distrae.
Folle, folle,
folle il venditore,
freme, freme,
freme la bancarella,
fruga, fruga,
fruga sotto il suo velo.
Il nostro cuore è l’ultimo rumore,
il vento ancora più forte respira affannato,
mi hai già dimenticato? Ma dai,
eri sopra poco fa.
Che cosa diresti al mio posto,
fischietti e mi ignori,
padrona dell’oblio notturno.
Cambio di scena repentino,
la ragazza mi riabbraccia,
cade in trance,
cade in estasi mistica,
in un attimo è trafitta dal dardo d’amore,
il fanciullino alato ha di nuovo vinto
e perverso è il seguito…
Va tra le note di nuovo,
godi la musical vitalità,
vai spogliati,
leva le lineette nere,
bianco il foglio dipingiamo
ed annotiamo.
Che carina la mantellina
incrinata sul ruscello,
mi guardi fissa e risplendi,
mi copri il labbro e la tua bocca sfiora
la mia fronte, la mente in refrigerio.
Acustico intruglio
Acustico intruglio nella notte,
lunare influsso sulla soglia del tempo,
poi sonnambuli pensieri,
destrieri rapidi.
Dammi l’attacco,
tra piatto e patto.
Sì.
Sona il bel sì,
d’oc, d’oil, d’oui,
cortese l’arnese,
Paride ed Eva, guanta na mela,
Guantanamera,
Patroclo e Beowulf,
iena, lupo e leone,
indugio burino sbarazzino,
goccia perforante e claudicante,
dissetante, piangente, petalo brinoso
incandescente, borioso, bucolico,
georgico pizzetto.
Vai così,
ancora il sì,
paese violato, masticato,
bile il giornale nomato libero,
l’eurodance, i Gigi di turno
pop, dance e topini,
accigliati al piano, alle tastiere,
alle groviere,
dimmi mai o cosa fai,
la scrivente si arresta e vai a capo,
burumbum cià,
annebbiata scolaretta
nella vendetta,
l’ayatollah torchio di vendemmia,
tutto è ben quel che finisce in mi,
bufera russa o capricciosa,
rivoltosa ottobrina porpora,
zarina, cesarea,
Alessandria paludosa,
stop uno.
Movimento compulsivo,
pensiero ossessivo,
ritmo assordante
ed estatico ondulante,
pentateuco e pentagramma
cabalistico, sufismo
e panpsichismo,
percezione aumentata,
esponenziale mescalina,
astrale vite.
Lento, sh,
lento sh.
Un silenzio lo faran i papaveri,
il cemento.
Riprende, non arrestarti,
ribellati il sistema,
kantiano imperativo categorico
kierkegaardiano calar le palpebre,
recitar, il personaggio,
gioco dei ruoli,
gioco di ruolo,
gioco di parte,
Bercoglioni,
gioco delle parti,
il Vaticano.
Silenzio, ancora.
Bum!
Il pupazzo in viaggio.
Il ritorno etereo.
Il rimorso sulfureo.
Acqua distillata.
Olio e combustibile ligneo.
Classificazione enciclopedica.
Semitica semiotica e semiosi virale.
Attacco micidiale.
Falsificazioni e fornicazioni.
Formiche laboriose,
il sessantotto e le cicale.
Poi le scale.
Trasfert l’Rna.
Mitocondriale il respiro
e il nutrimento clorofillico.
Poi…
Stop et booom
secondo e terzo finale.
Un istante fatato
Un istante fatato,
come un film il passato,
una storia sbocciata,
di passione velata,
sposta due carmini
spiriti felini,
agili le mosse,
le decisioni poste come addii puri,
incontrovertibili sapori dolci,
ed è già mattina sui tuoi occhi,
e te ne ricordi con un sorriso
col quale stringi le mie mani.
Ah sì,
che impronunciabile sentir!
Sposti col favore del vento
l’abat-jour e scendi dal letto,
ti poni alla sponda
il voltaico sentimento,
sei mezza nuda
come mezza luna ricordi
mondi lontani, la penombra
ti invade il volto
e inizi a cantar,
un adagio lieto splende
come viola in primavera,
come nota d’attacco
alla maniera di cattedrali
barocche e nascoste,
novene e filastrocche
sui tuoi umidi capelli,
impronte sul vello,
oh il mantello,
sul percepir il bello,
oh il Metello
che provoca dolori al poeta,
“malum dabunt Metelli Nevio poetae”
sordo l’appello, l’invocazione,
la conclusione dischiusa, assortita,
candita e sì, vai col sospir,
che delizioso l’indice al labbro,
il naso e la manifestazione
di un silenzioso animaletto
porta fortuna quale sei tu,
mia amata rosa, e te lo dico,
ti dico oh, che cristallo candido
e variopinto al tuo riflesso,
al tuo compromesso stabile,
un braccio sul mio corpo,
l’antico modulo scisso
sul tuo libricino, reciti come assorta
l’ultimo verso e poi
l’orma del rossetto
sulla mia bocca.
E poi vetri appannati
Le lenzuola sussultano
nell’attimo di esitazione mi guardi,
già altrove i tuoi pensieri,
l’estasi dell’attimo ti innalza
e vaghi verso mondi lontanissimi.
La foglia tremula pel freddo,
finisci nell’oceano profondo,
Atlantide sommersa dominata
e mai più punita,
nel frattempo sei già sulla riva.
Vai docile, va’,
non ti fermare,
attendo le tue mani zuccherose,
come fossero ultimo approdo,
decoro dei dì passati, sviliti,
la notte riprende a suonare.
Vado verso l’atmosfera d’inverno,
cosa ci fai tra gli spalti beati?
Cosa c’è nel do diesis minore,
forse l’ardore di nebbiucole
che penetrano il corpo,
dissolvono il trotto della mente
intorno al ripiano sciupato.
E poi vetri appannati,
il nostro anelito impresso
come stampo opaco e non dimenticato,
il tempo non si spazza via.
Procede,
magari si arresta qualche attimo,
ma la bottiglia si avvicina già
alla tua bocca, sei sciolta
come bacche desiderose e carnali,
spiriti notturni infestano le braccia.
Così lenta le agiti.
Arpilla
Risveglio in gomito ai bordi
delle radici,
sapienza megalitica
all’aurora.
Parte e ritorna,
in circolo trotta,
rissa dischiusa in petalo verticale,
licenza boschiva, arpeggio arioso,
e poi la luce che eclissa
in compresenza magnetica
lo sguardo.
È già domani tra me e te,
lento moto senese,
accento cortese,
urletto crestese,
spasmo punkettaro,
bestia di fato avverso e maledetto,
morosità del sentimento,
dizionarietto urbano,
l’acume spiazza la principessa,
in dono l’ortensia,
ne conosci la potenza?
L’assurda valenza?
Il do e il sol!
Poi improvviso
adagio allegro,
non troppo disteso ma ripieno,
i richiami di mandorla,
i volumetti cari,
tomi d’alloro ricamati,
e sguscia,
sembra sfuggire
come invito all’infinito,
è subito mattino,
tu già lo sai,
io già lo so,
oppure no, restiamo al limite
del vortice e pendiamo.
Che cosa c’è? Osa la penombra
rivalere, ribelle mia,
la lotta tra i generi,
trittico indoeuropeo,
la valenza plurima cara eredità,
l’infinito sarà indefinito vagar,
tu non ricordi la mandria dei pensieri
inquieti al riposo
ma rimembri la figlia del vetturino,
è un incubo mattutino,
la casupola villosa oscilla
arpilla, fluttuante
dimora nubilosa.
Incanto solforoso,
canto lezioso,
scontro tra Chimera e Desdemone,
la luna celtica difende e sorregge,
magari ostenta l’orpello dialettico
del fermento, astuto frumento,
intensivo furetto diabolico e dispettoso,
innocuo ma fastidioso.
Continua l’asola ad isolare,
volta la carta epifania del giullare,
improvvisa Ofelia, ninfa negligente,
sembra violare il sacro bosco,
entra nel misterioso borgo,
ed è già giorno.
Attracco fugace
Cappa e arsura per il corso,
refrigerio del tuo braccio declinato,
così mi estraneo e ti guardo.
Via Toledo,
metà agosto in trotto con te.
Rinascente,
profumi, saponette e collanine.
D’altronde non c’è la sentinella.
Attracco fugace,
saldato il nasino tuo al mio,
che dolce il viso indaffarato.
E il tempo cavalca senza sosta.
L’alemanna regione
è un volto di disperazione
andantino, l’introito del destino,
l’immobile fattorino.
Attimi persi
o riacquistati infarciti d’assoluto,
l’encomio solenne, l’alloro
corona dalla tua mano.
Minuti atroci
ma così lieti, lievi e indelebili,
l’astuto riguardo delle tue labbra
pende dalle mie.
Candida vita cara,
pura sordina baccheggiante.
Sfiniti sulla panchina,
giriamo ormai da cinque ore,
loquace il mio sentire
e il tuo riflesso è denso.
Ti sfido,
riaccenna il tuo sorriso.
Appoggia i sogni,
di lato come fossero ghirlande,
affidamele saranno impreziosite
col cobalto e colla sabbia,
saranno immortali come coretti.
Ancora più mite il vialetto,
posizionata la tua testa sul mio petto,
non dimenticarmi flebile
sarai filigrana selenica.
Il cielo sfuma nel rossiccio, fenicio
l’incanto dell’occidente marino,
è davvero stupendo ma l’attimo si arresta
e divaghi.
E così finisce
siamo già distanti,
la vela protesa sbanca
e noi sbarchiamo in brecce parallele,
l’estate tra statue e foglie di lichene.
Stendi in aria le mani
Sì, l’invito tra le fronde.
Così l’accenno gregoriano.
La mia vita come tramonto
scorge l’ultimo lamento.
Sì, quel breve cenno.
No, l’inutile attesa svilita
e svilente silente.
Se penso a te
guardo in me
e scorgo i passi
dell’ultimo giubilo danzante.
L’intimo pianto adibito
a fremito spento.
Con i pensieri spuntati
affilo i concetti
in patetici versi d’oblio,
vai tu cauta al confine,
il nome giusto qual è?
Ricordo solo
che per te oscillava
il ciondolo del mio sospiro.
Sì, bramo te.
Si, puro sprazzo
sidereo d’oriente.
Sulla via sono perso,
sonno sperso,
piccola amigdala
il mio canto perde ogni senso.
Sì, ricordo di te.
Sì, emozione d’ultimo fiato.
Ovemai ricordassi
questo naufrago perso
stendi in aria le mani.
Passano stagioni velate
Passano stagioni velate,
le pagine restano offuscate,
le labbra docili e dolci
restano stampo dell’atroce rimorso.
Tu affianco sincera e ridente,
l’attimo assurge ad infinito,
immobile germoglio odoroso,
incanto del sospiro vorticoso.
Il simpatico vestitino alabastrino,
proprio lì, a ridosso del senso,
portamento divino,
e dicevi in concatenazione parole,
l’emisfero oculare inclinato,
ammiccante e vitale.
Sono solo refoli inutili,
dimentica gli attimi indescrivibili,
resteranno apatici intrugli,
sdrucciolo rovinosamente nel nulla.
Cosa vuoi che resti?
I frammenti da rigattiere?
Oppure testimoni scaltri e assenti
perché assente è ogni realtà.
Resta solo l’idillio scalzo e stanco,
parlo ancora a vuoto,
a nessuno
o a te,
qual è il significato di questa attesa?
Una semplice pretesa
tramutata in remissione arresa?
Una docile richiesta
che nell’ombra resta funesta?
Cade la goccia dal viso,
inumidito il libro, è ormai un rito,
la mistura di odori rimembranti
altro non è che un’offesa qualunque.
Il palpito nella penombra,
la luce di un lampione distante,
mi imbacucco sul ciglio in ripicca,
mi scopro di nuovo silente.
L’auto sfreccia,
breccia vetusta,
la sigaretta caducante e caduca,
e un ultimo pensiero, il tuo volto
di soffiata che risplende
nell’ondata di quiete.
Resta un’ora o forse un giorno,
quale sarà il destino non lo so,
un’altra auto passa e credo
che non ci sarà più niente,
che l’illusione bolla di sapone
in sé sopita svanirà.
Paralleli assunti
L’aurora, il volto e tu,
mio testo sconosciuto,
riflesso tra cammei, follia.
Simpatica e sconfitta,
hai l’aria da brivido freddo,
carpisco le intenzioni,
i residui di noi.
Paralleli assunti
tra anfratti di cemento,
vegetazioni, Bastiglie,
all’assalto, l’ombra, la silenziosa
intromissione a dito levato.
A fianco manti da ricucire,
le ultime battaglie sono canti
ormai annebbiati dal tempo
e dal colore, dallo stupore
di riguardo e proustiano.
Implode l’asserzione,
me ne accorgo sol’io
del fittizio sospiro
trattenuto e sopito.
Allo specchio il tuo godimento,
nel solstizio santifichi te stessa,
in vergine il capricorno,
il tropico del ricordo.
Vis compulsiva trafitta
da auctoritas, potestas e mezzo corporale,
sarebbe magari meglio dire
che futuro c’è.
I fluidi in campo
come Rinaldo braccio della furia,
Angelica e l’anello
al vento nel pub,
Orlando violato
e spuma doppio malto audace,
l’ultimo miraggio a dimensione
plurima mostra il coraggio,
nel contenuto circolare d’Achille
il raggio.
Scansati all’ultima conquista noi,
offuscati e rigenerati da un accordo
di quinta partiamo in quarta
nascosti e pronti.
E poi l’effluvio nel tuo giaciglio,
la lingua tua su di me
è una lieve e dolce spilla.
Fuggiasco contemplativo
L’attimo che sgocciola
tra le tue violette che con cura
incanti e spogli, tratti o fondi di bottiglia,
non tutto è stato inutile,
questa storia chiede venia.
Attimi di pioggia e ascesi,
non me ne volere dicevi,
l’annullamento volitivo
l’ho preso alla lettera, guarda.
Porgi l’attimo ora,
la notte è complice per le tue
e per le altre braccia,
resto fuggiasco contemplativo.
L’ombrello cinesino,
l’attimo ancora,
gli spostamenti temprati,
tempere fluide e si innalza
la temperatura.
È un momento di distrazione,
un attimo d’effusione
e la sapienza eremita
scaglia floreali tafferugli
intuitivi e vivi.
Che bello scodinzolio,
trami affabulata i capelli
e ti stendi, aspetto un altro attimo,
estraneo stupore.
Pallina folle come incenso
in un attimo è già qui,
muta silenziosa direzione
e porgi intanto il viso altrove.
E passano gli attimi,
dai senso al trotto,
qual è lo scopo
della nostra intromissione?
Forse solo il tuo sbarazzino
cappellino.
Volta in un attimo
la carta e scrolla la sigaretta
a mo’ di scaltro intreccio.
Arde un fremito di vento
inumidito, attimo d’intenso
incupito, il giochetto dura poco.
L’orologio freme il relativo
attimo d’amore.
A ritroso l’alloro,
al passo il decoro,
foto ingiallite,
pulite le strade,
chiarite le brame
dell’infinito attimo.
Per sempre, un attimo.
Pallida effige
Dopotutto la spiaggia
che hai tra i capelli
è d’intimo verso, inclito scontro.
Dalle miserie scoscese
brulica il piacere.
In borge e borghi georgiche
spauracchi notturni,
la tua pallida effige
soltanto trasmuta
l’assurda viltà cassiopea.
Dove sei vivace mia guida?
Sono sperso!
Dove sei astro femmineo?
Non posso resistere al silenzio.
D’altronde nelle foresterie
straniere aspettavo l’arrivo
in punta di piedi
ma l’unica cosa concreta
era l’intuire l’essenza tua riflessa.
In volti assenti sognavo,
poi schiusa sbocciava l’ultima speme.
In misteriose attese loquace
mi disfacevo, lo sciupio del pensiero
e la breccia del perso sentiero.
Non credo ad altro, forse a poco.
Non credo e basta, tanto aspetto uguale.
D’altro canto la luce un po’ la scorgo,
immagino, fremo.
Respiro dell’aurora
Passa il frullio delle foglie
sopra le coperte,
l’acume spillato in vino
e tu acca accavallata.
Puoi pure divagare,
l’erba è già pronta,
sguscia solforosa,
tralaticia viene e va.
Passeggiamo con la mente,
vetture in lungomare,
dico e sorridi,
respiro dell’aurora,
stendiamoci, va’,
un carino singhiozzo,
sospiro e il bacio è improvviso.
Puoi tralasciare questa vita,
puoi sorseggiare un’altra pinta,
un’ audizione d’amore,
ove alberga una civetta,
lo spirito e l’alfetta,
un invito, un trottolino intatto,
l’alterigia tua vitale.
Quindi scorre vivida e non si interrompe.
Quindi riporto i segni,
pitagorici riporti,
aforismi pentacolari,
spettacolari pantacollant.
Poniamo per assurdo
il pensiero discordante,
allora prendi la chitarra,
socchiudi le ante,
ci divertiamo questa sera,
eccitata ridi di nuovo,
ma è solo un cenno,
un’ipotesi d’attacco
e la mente in desiderio
visibilante va.
Vai avanti ti sento,
percepisco vibrazioni estetiche,
scorgo lo spirito,
se non ricordi le parole
non le dire, è inutile,
ti accompagno, stringimi più forte.
Cinabrico cielo
accompagnaci per sempre,
chiudo gli occhi, li riapro,
sei in fremito sussultante,
avvinghiati ancora sino all’osso,
all’ultimo accordo.
Silenzio! Ultimo verso
Per questo poni il silenzio
come ultimo verso,
piangi in sospiro,
le tracce sul viso.
Orchestri per concussione
concerti di delusione,
sembri ordire complotti audaci
ma privi di vita, direi fatiscenti.
Poni un candelabro
con grazia sul ripiano,
lume da scrivano,
enciclopedizzi gli aforismi
dell’essere come trolli vaganti
su radure d’assenzio,
aspiri possente.
Immagini la scena
portandoti traslata l’attimo alla parete,
mangiucchi la gomma trafitta
con aria somma, l’incudine
ripudiata e maledetta nell’espirazione
pone il verdetto in conclusione.
Allora diventi
la famelica belva
con mastodontici anfibi
trucidanti e borchiosi.
Vaneggi vespri,
li maneggi ancora desti,
li biazzichi in atmosfere
rarefatte e rifatte.
Ti nascondi tra le vetrate,
i lastrichi di serenate,
alberghi solitaria negli altrui
pensieri
ed il domani è dell’oggi già ieri.
Fuggi, deh, vai e ritorna
Pulsante vialetto ambulante,
saraceno viso condensato in alluminio,
spasmodico volteggio attento,
scaltro e comunque frastornato,
sale a mille la dopamina
sprigionata, arieggiata
mesencefalica giornata,
precisamente condensata,
un po’ svogliata.
Fuggi, deh, vai ritorna,
a mo’ d’altimetro cambia e trotta.
Fulgida cambia rotta,
puoi invertire coordinate
adiuvate dal vento
o dall’ultimo intenso senso.
Potrebbe anche suggerire
con riguardo decoroso,
funzioni, secessioni, squallide illusione
o anche l’ermo eremo solitario.
Magari è una silente ondata
di valente dorata vanagloria
oppure una ridente giornata di sole
o forse meglio una novembrina
serata da serenata.
Non capisci l’importanza
dello stupore del vissuto,
dell’intimo dolore che sgorga
a frotte dalle fronde.
Si modifica il verso,
adornata semplicità nell’ardimento,
puro fermento, è un vaso capiente,
testa nicodemica e nicolea!
Fugge ancora il sussulto sussurrante.
Fulge il circolo ritornante e ridondante.
Uh fonte pura! Dell’ultima sventura!
Uh fantomatica ardua salita,
riposo indomito, ozio mediante,
mediana del tempo!
Puoi vedere l’essenza!
All’indomani della presenza,
vive, respira, si sente,
alla vigilia della frontale guerra
un urlo di quiete universale,
pace sesquipedale.
Vai passione, colmati ancor d’illusione,
nutriti di spoglie spirituali,
agisci per il tramite spiritoso,
motto solforoso, arioso.
Qual è la ragione dell’allucinata stagione,
frutto di follie da società regredita,
di branchi famelici di vandali
che salvano gli ultimi testi
e incendiano le rovine dell’ipocrisia,
ma se ti scorgi troppo l’abisso ti inghiotte?
e allora qual è la soluzione?
vivere in intensione e progressiva
espansione senza dimenticare
la polvere e il sale,
nutrimento e fermento,
amore ed unico senso vitale.
Shiaga
Partenza ovattata,
sfilata dolciastra.
Le forbite delusioni
sono attese ed illusioni
(magari involontarie pretese).
Le imprecazioni verso realtà
sconosciute, piogge da granai
e soffusione in mulinelli
e mulinetti, cosiddetti
(contemplazione floreale
ed azione di gemma astrale).
Le mitre indoeuropee trasudanti
(intromissione cadenzata).
Le madornali ondette
ritrasmesse in calce firmate,
mortificate ed imprecanti,
bendate dee nell’adesione
(oh abbracci fugaci).
Potrei poi divagare
ma la scelta è densa
e immensa geme.
Proclama l’adagio
(perverso detto),
proclama il verbo intenso
(vibrazione cordica e scandita),
vorrei dire due parole
( oppure sorge di traverso il sole).
Proteggi genealogicamente
( a due metri da terra)
col tuo nome cacci e resti in piedi
( vitale profusione)
trasvoli e non ti posi,
adesso ti fermo, ti aspetto,
ti ammiro, ti guardo
(prodromo dell’interno conflitto
accarezzato dalle tue labbra).
La luce lentamente
si spande tra i rami,
la tua immagine mi investe
mentre bramo.
Con semplici parole
pensieri remoti,
li condenserei e poi li sgocciolerei
e tutto tuo in inumidite spiagge giacerei.
L’opacità ritorna e desto mi volto
di lato, vicino il tuo viso
in sogno confonde assurde realtà,
ti scorgo tendendo all’infinita verità.
Polvere vischiosa
Polvere vischiosa
nell’accordo di riflesso e schietto.
La stella vistosa all’orizzonte
unica luce come rosa
nel deserto antico, ove assurda
rispondeva alla richiesta del ricordo,
un’edenica pace, un innato amore,
uno stupore per il sapere, la fiamma,
il vento e la goccia
per cinque o sette lettori.
L’attitudine cela l’attributo,
il divino vincerà sempre
sul terreno dannato, non è l’eco
del silenzio ma si alzerà il tramonto
ed in eterna penombra interno
a noi sarà l’universo,
l’eterno circolo infinito
e quindi come tale delimitato
da tre punti, coincidenti
eppure in manifestazione
ed ideazione distanti e spersi,
poi una voce che lenta sussurra,
non tutto andrà perduto.
Mangerai di ogni frutto
di sapienza ma mai la tua mano
si leverà su un essere naturale tuo fratello,
altrimenti ne morrai,
conoscerai l’ignoranza della fine.
E la maledizione terrena
si scagliò silente e dolorosa,
i frutti son di tutti
e si continua a coltivare un orticello
privato privandosi della bellezza
della congiunzione divina
comunitaria ed assoluta.
Chiudi gli occhi e vedrai
in manifestazione di luce
l’amore seme di sapienza,
giustizia, libertà, e fratellanza,
l’eros inerme e potente vince
e soggioga la violenza claudicante,
l’umile nel godimento
schiaccia e distrugge il possesso.
La Torre litigiosa di Varsavia
L’ardore dei tuoi occhi che scende
traluce in illusione ed ascende
spuma marina dalle labbra
intense.
La torre del tuo nome protegge
come silicio possente
e gemma assente
un alito di vento in refolo
vitale.
Selve asprose e tutto tace,
nel silenzio scorgo l’imprudenza
del tuo volto incandescente
e pallido in un attimo
il cenno.
Per le tue soffici gote
l’inverno carezza le fronde
che lievi mutano
in scaglie il sincero
sguardo fulmineo.
Centro inscindibile
Ammiravo in silenzio
i suoi occhi vividi e accesi,
torce lente sul mio polso
i gemiti da sponda concupiscibile.
Nel momento supremo
un inchino vistoso
e le schiuse mani veline
smorzarono l’affiatato
scollamento labiale,
l’intimo tumulto astrale.
Le costellazioni in trotto
scese in questo giorno a contemplarti
in congiunzione al capricorno,
genesi della lode furente,
perversa in dormiveglia,
quasi per metà etilica.
Miscela dello stupore lo sguardo,
occhi portali spalancati
ante e poi stretti a fessura
nel verbo infuocato
scagliano aforismi suadenti.
Le schiere di belve ai tuoi piedi
e tu sulle punte a slinguettare
fior di ciliegia soddisfi soddisfatta
il desiderio in disfatta
e succube a sua volta di te.
Centro inscindibile
di ogni interpretazione
la voglia di afferrarti il volto,
coprirti d’oro velato
e mai più dimenticato,
in assurdi cieli cobalto
tramutati in ere di rame
soverchiato dall’ultimo
tuo denso bacio, oscuro
il medesimo senso occultato.
Lasciavo cadere
la viola del pensiero
e tu mi carezzavi i capelli
e l’attimo assurse
ad unico istante importante,
obbiettivo di ogni sbarco,
stagione unica,
candida perversione eterea ed eterna.
Abat-Jour
Abat-Jour,
allo specchio tu,
silenzio tutt’intorno,
azioni ab intentio
dell’ultima luce che sa di te,
sono discorsi protesi
ad intimo verbo,
oppur intesi in declinazione astrosa
e musicalmente estrosa, asprosa.
Abat-Jour,
silenzio nell’adagio bronzino,
dialettico andantino,
compari tu in dimostrazione scettica,
nostalgica, ultima diesis.
Scorre il vento venoso,
profumo intenso e vorticoso,
parla vespro inspirando
il vuoto gorgheggiato, sciupato,
sprecato, esoterico il senso
essoterico, nostrano,
villa soffusa e profusa,
disillusa e beata,
violata ma incontaminata,
scoperta e increata,
plasmata, creta micenea,
plebea élite giubilante, sognante.
Abat-Jour,
direi discrasia discronica,
bella époque
con l’adolescente che consiglia
ai bordi del nuovo millennio
svogliato, problemi d’amore
algebricamente sottratti,
l’ama tematica, il fumo di sigaretta,
l’ultima orchestra lenta,
magari un motivetto a mo’ di fumetto,
passa la stanza, piede adirato
e cadenzato, cambiamo
e scorriamo scrollando l’encomio,
l’adoro e il j’accuse,
l’entusiasmo da spasmo rotterdamino.
Abat-Jour,
in ultima istanza,
ultimo dirimente rampicante,
sognante, ragazza crudele
e vaticinante, scolastica adiuvante,
l’ultimo accordo lo volli fortissimamente,
patto musicale saldato e incespicato,
inerpicato, travagliato, accartocciato
e saldato al naso,
scapigliato.
D’accordo, sogna
Gira intorno ad un pensiero
l’anima silente ed imprudente,
tu nel letto a scardinare ogni idea
che dirompente si arresta,
l’assurda intromissione
in compromesso ha tolto il velo,
godo dell’immagine e ti afferro,
sei già pronta nella delibazione
sentimentale, passi altrove
in fluida concatenazione corporale
rifletti e gemiti adorante ed adorabile.
Uno sguardo è già passato,
lo sbieco dell’occhiata
è estasi spiritica e possente
come la tua mano contenente
il germoglio del ricordo,
in un colpo scarichi l’etereo,
secerni l’assoluto dalle edere,
tanti passi, invisibili gli stampi,
pure le atroci dimenticanze
sono schiarite da l’ombra del tuo volto
intatto nell’altrove della parete.
Brucia la vivida amalgama stupita,
il certo vive assente nel privato scranno,
in cime tu e l’erbetta è già tradita
dal dito che invia un segnale nel vuoto
dell’essente plasmando l’autentico
dall’inautenticità vitale.
Diffidente sbuffi e strizzi l’occhio,
tre volte grande, magnifica,
somma, cenno creativo,
maestranza inerme e virtuosa,
fremente.
La dualità distrutta dal femmineo
senso trinitario ed unica somma,
gradiente totale dell’invisibile,
risma impressa per sempre.
Il desiderio non si spegne
e riparti audace,
instancabile respiri profondamente,
bellezza al massimo fattore
nel tuo visino carino.
Il segreto non sarà svelato ancora?
Decidi pure se farlo o no,
la sintesi si attiva quando il meccanismo
è ingranato dalla chiave e dalla svolta attesa.
Il bello deve venire
nel momento in cui trasvola
il vento sui tuoi capelli
dando fiato alla materia,
c’è tanto da dire, più da fare,
invadente scoprirai il piede
e il metro ribaltato,
i tre quarti dell’attacco,
ti aspetto.
Puoi dire sette parole,
la formula e trottare,
intimo verso specchio dell’eterno,
due occhietti schegge di ciliege,
labbra fragolina nascosta
nella variopinta collina.
La sabbia segna un solco nella clessidra,
si blocca il tempo e tutto scorre staticamente,
in un attimo incontriamo il divino,
dentro noi sorge un inviolabile destino,
indecifrabile ma sensibile e percepibile.
In inscindibili sentieri fulgidi
passeggiamo e poi improvviso il ritorno.
Sei ora stanca e chiudi gli occhi, d’accordo,
d’accordo, sogna.
Vai tranquilla al dunque
Vai tranquilla al dunque
ma comunque io eludo il discorso.
Tu stringi i pugni allerta,
dici che è per vendetta
che sfiorisce il rimorso decoroso
e intatto ma non basta una parola
a far svanire il sapore della sera
e allora tiri le somme,
addendi riflettenti,
tramuti l’eterna lotta sovrana
in questioncina da sottana,
sembra quasi che l’atomuccio
sia un surplus voluttuario ed incendiario.
Allora ti chiedi se l’essenza
della storia atonica sia etica
da comare o vidimazione risplendente
nelle sale
e l’ente traspare.
Credi che l’indecenza
sia frutto di un ricordo o di coscienza?
pura vacuità? nel refrigerio assurdità? oppur passione per metà? trasognante viltà? infima realtà?
E ispiri con gemiti notturni atroci e bellicosi.
Ti stai sporgendo troppo,
l’abisso chiederà il conto,
salato, privato e disprezzato,
ascesi mistica superiore
nella perdita di dignità.
Credo or io che sia il vuoto
che pone problemi,
vacilla il costrutto,
la medaglia in penombra
e fuori piove.
Lo dici davvero
oppure tanto per dire? Sensitiva
del manto astrale e sincopata
extrasensoriale velleità visiva.
Credi in profetiche brame
e sintomatiche astute trame
ma dov’è la persona? Dov’è la previsione
condizione d’amore?
ti porgo dai la mano,
la penna l’hai posata,
ci omaggiamo a vicenda in incoscienza,
ti aspetto ancora dai.
Ma dimmi che verrai.
Ogni cosa è un pensiero
porto in azioni sepolte,
nascoste,
in particolar modo il tuo cappellino,
i tuoi occhi e il tuo viso.
È un’illusione il tuo volto orbene,
il tuo sorriso.
Ma non è uno stratagemma soltanto
la brina e la voglia che resta.
Striscia l’ultimo rigo
Puoi pure chiudere gli occhi,
fallo, fallo dai, fallo, fallo ancora ed ora la prima volta
così tutto saprai.
Puoi pure tributare un pensiero,
vai, vai, vai, vai, fallo, vai.
Brucia la sincretia,
ascesa la vasta simmetria,
e l’astuta mia mania
straccia i lacci sulla via.
Valida la sorte,
poco più è la morte.
Puoi pure sorridere, fallo, dai,
fallo, dai, fallo, che fai? Te ne vai?
Stereotipo sincero,
nero il cupo sentiero,
puro lo sguardo
che come dissi è altero.
Candida la sfinge,
polvere in soffitte.
Esponi lo sguardo
e traccia su carta
la malefatta.
Comunque l’incanto
svanisce col tempo,
il tuo corpo è tiranno,
la tua immagine persa
ed in un inutile verso
stupito è l’intento,
in un attimo è già
dimenticato il portento.
Placida dalle pareti
principessa senza veli,
cristallina ed introversa,
un po’ dall’azione interdetta.
Si spalanca la finestra,
l’incubo e tu succube.
Puoi pure difenderti,
orazioni e retorica spenta.
E l’antico vaticinio
sta sbrinando in ascesa,
sta intasando i rimai e le scale,
lenta va la sicura
melodia nell’arsura
e il bianco del reale
stranito è regale.
Puoi anche dimenticare
le serate, le risate,
puoi pure… come?
Già lo fai?
Te ne vai?
Spurie verticali,
tropiche tempeste e tu
con un paio d’ali,
alberi che si inerpicano
sulla tua pelle e tu rinchiusa
nel sogno delle stelle.
Porgimi ciò che sai,
ma che fai?
Serio te ne vai?
Con clamore silente
striscia l’ultimo rigo
e il continuo è un ricordo
che neppure più dico.
Hai già dimenticato il nostro segreto
Hai già spento il sospiro di me,
ragazza che cerchi che non sia me?
Hai già acceso lo stereo e riflesso,
ragazza allo specchio
quel tuo sguardo
il mio è spento ormai.
Ogni volta
cambi rotta e fremi
ma ormai hai appena gettato
il tuo straccio e incendiato
il residuo, mai più io e te?
Dove sei?
Amore dove?
Non ce n’è ormai di felicità più per me?
Dove sei?
Amore dove?
Dove sei? Pezzettino sereno,
tremavi un giorno ai miei occhi,
alla mia pelle
ma il gemito è rotto ormai già.
Piccola e dolce,
perversa e austera, sveli te,
mai sei stata così sincera,
te ne vai,
non resta più nulla ormai,
anche il ricordo è svanito,
chi lo sa se tornerai,
se ti ricorderai di me sperso
in questo frammento eterno.
Hai già spento anche lo stereo ormai,
non un solo rimando ti porta a me,
ragazza hai ragione al mondo
non serve ciò che penso e sento.
Hai già dimenticato ogni frase,
ogni intimo sussulto, ragazza
o resto o vado via nessuno se ne accorgerà,
non rimpiangerà le mie dita, è vero.
Adesso è già sorto il sole,
il nostro segreto dov’è finito?
Non ti ricordi nemmeno del mio volto,
delle mie mani, delle mie passioni.
Sono qui,
vivo.
Qui ad aspettare,
fino a che l’ultimo fiato emetterò,
mai la testa abbasserò,
ascoltami se vuoi, amore.
Aspetto scalzo, distratto,
la vita mi cade dalle mani,
e il vento è il mio ultimo sospiro.
Hai già dimenticato il nostro segreto,
ragazza di te mi resta
solo l’immagine impressa della luna.
Io non posso più aspettare
Tic tac,
tic.
Sì.
Parlami ancora,
non salutarmi.
Lenta la luce è altrove
ma io cerco te.
In questo modo
sovvertiamo il destino.
Tutto ai nostri piedi,
sono queste le due tue parole?
Oggi brilla l’eterno,
aspetto ancora,
verrà il magico istante,
ti sento,
non sei distante,
tutto è possibile, fammi accendere,
paf! Scompariamo!
Dammi il verso di traverso,
fuggiamo lontano!
Un’esplosione di colori,
dammi per sempre il tuo cuore!
Fammi venire il brivido dorsale,
parla, sprigiona potenza,
orgetta ad incandescenza!
Fammi sentire l’incanto
fugace,
poi fermati e resta qua!
Luci soffuse e profuse
ed illuse,
ispirami con fascino turbante e gaudente!
Con un bacio
fammi disimparare la realtà!
Spogliami
di indumenti e morale.
Prendimi,
innalzami e innalzati al di là della verità.
Vedrai che l’universo,
la natura e anche tu
(follie sideree)
si muoveranno e ci proteggeranno.
Dammi
il sorriso più dolce,
svelami
la tua volontà!
Dammi
un altro abbraccio,
stringimi for ever
and ever!
Stuzzica il mio entusiasmo,
chiudi gli occhi e continua a cantar!
Portami lontano,
le spiagge inviolate da noi conquistate!
Sei pronta,
dai vieni,
io non posso più aspettar!
Scende già la sera
Parlerai un giorno con me?
Hai voglia di ascoltarmi ancora?
Il tempo passa,
dimmi se un giorno avrò te.
Credo che nulla sia importante
ma io non sono ancora finito,
l’entusiasmo è ancora in me,
freme ed arde l’inestinguibile fiamma.
E te ne prego soffermati,
non dimenticarti di me,
pensami se puoi,
abbracciami se vuoi.
Spero che un giorno tutto cambierà,
ti ricorderai,
stai tranquilla,
comunque mai mi perderai.
Scende già la sera,
va via un’altra giornata,
muto chiudo gli occhi.
Mille pensieri mi affondano,
i dispiaceri sprofondano,
tu dove sei? Io oramai che farò?
Lenta muore l’ultima speranza,
non c’è più luce né rumore
nella mia mente,
non c’è altro che non sia te.
Mia Regina
Mia Regina,
il tempo è inesorabile
e si spegne in me, sai?
Mia Regina,
ti ringrazio,
la paura ormai non mi spaventa.
Lo sai che le cose
spesso migliorano ed io credo
di aver scontato ormai le mie colpe
d’amore
con la tua forza ho studiato,
visto, sedotto e sconfitto l’abisso
ed ora sono meno di nulla e stremato
ma vivo.
Distratto dalla malinconia,
ti ho pensata e amata,
ti ho desiderata,
ed ora poso le mie armi,
hai vinto.
E ti ringrazio sai perché
non ho più motivo di continuare,
e credo che per sempre ti custodirò,
proteggerò e se vuoi taccerò,
sono padrone dell’infinito nulla
che è in me, e non c’è alcuna cosa
che possa distogliere il mio sguardo da te.
Mia Regina,
sono una musica fastidiosa ed inutile,
scompaio e non mi copro,
dissolvo me stesso in silenzio.
Mia Regina,
le parole sono tutto quello che ho,
non è molto, non è niente,
è tutto perso.
Spero non ti dispiaccia
raccoglierle e unirle al tuo cuore.
Nei tuoi occhi l’ultima speranza è accesa,
sei tu la mia forza,
io dal mio scranno disfatto
non ho che te.
E ti ringrazio di tutto,
ti devo la mia vita,
mai ti tradirò,
per sempre d’incanto ti ricoprirò,
le mie parole sono neve tra le tue mani
espandi la luce che ne riflette lieve.
Ed hai tutto ma ti prego,
ascoltami, io ti sto donando
tutto me e ciò che è al di là
di me stesso,
non rifiutare l’ultimo mio sussurro.
Mia Regina,
eccoti la mia eredità,
poche e stupide parole,
il mio umile amore.
Albero Romantico
Cosa farai se un giorno
ti volterai verso di me?
L’albero romantico
e sotto controllo lo sguardo.
Cosa pensi di me noiosa annoiata?
Perdo tempo tra profusioni e illusioni,
immagini tue, parole
ed aliti importanti di vento,
mi nutro di te.
L’inverno tende come le tue mani,
è un’astuta passione incantata.
L’inverno mente e lo sai,
passa l’anno, il fiore sboccerà? Scema,
mi stai guardando,
andiamo sono pronto.
Cosa pensi essenza velata? Il tuo sorriso
è chiaro luccichio intarsiato,
lascia alla porta il senso
e perdi il controllo.
Su letti invernali e silenti
perverse le tue mani sottili e intense,
io penso confuso a te
mentre tu guardi e sorseggi tè,
è al limite il godimento.
Non è descrivibile
allora posa la penna,
stendi le braccia,
muta sorreggi la guancia
e strizza occhi in disfatta,
è l’effluvio del piacere.
Non è concepibile l’intreccio,
tramiamo buffi complotti,
prendiamoci beffa.
Come sei romantica
ricoperta di scaglie d’incenso,
che portamento! Fantastica, stupenda.
È troppo bello, fa silenzio,
getta in aria il fiato e le gambe.
Il cielo volge il gomito
a mo’ d’indumento, muovi lenta
il viso, fa’ vedere l’esplosione
in trepidazione, non disperarti,
gemi, sono nelle tue mani,
scompare ogni pena, ogni dolore.
Dai bellicosa fai l’estroversa,
l’estrella, fai le moine,
che passione indomita,
che conclusione furbetta.
Che carina
indossi la scansata scarpetta
e le perline al braccio.
Ehi guarda che tempo,
mi bruciano gli occhi,
è il nostro inverno, il nostro vento,
il nostro spumeggio tiranno.
Inizia l’infinito stasera
Dolcezza mia preparati
al folle sbarco,
dio mio che sguardo,
quante mute parole.
Mia cara ragazza
suona distratta,
ti penso ancora,
ti guardo e ti voglio,
sempre vorrei
perdermi tra le tue braccia.
Amor mio!
È ancora sera,
candida atmosfera,
palpito celato
da un sorriso offuscato,
l’oscuro segreto che è in
noi scende come pioggia d’aprile.
Amato esserino buffo!
E la nebbia che viola l’anima mia
stende tra le vie il tuo intenso profumo.
Io qui for ever
a credere in te,
ultima lontana speranza,
freme la piazza,
spero che un giorno l’ora giusta verrà.
Tesoro indecifrabile,
protendi e schiudi le labbra,
quale parola potrà volgere
i tuoi occhi su di me?
Inizia l’infinito stasera!
Se il vento soffia
Se il vento soffia
sai c’è solo un senso,
un unico senso possibile e sensibile,
hai ragione potrei anche
risparmiar le parole ma la loro
inutilità è il mio unico rifugio.
Te lo vorrei dire ancora,
ma più il tempo passa
più mi spengo,
non la verità, non la lealtà,
solo un’armata spersa nel mio cuore.
Tutto l’amore, il fervore,
l’infinito che è in me,
resterà occultato e ignorato,
tra le nuvole la speranza sbrina
nel voltar pagina lo sguardo offuscato
si sofferma sull’ultimo rigo
senza la forza di accettarlo.
Cosa resta? Cosa ho?
Solitario tra i flutti del mare
a sollevare assurde declinazioni,
le continue tue intrusioni,
sei un’idea che mai morrà.
Tutto me stesso ed oltre,
te lo dissi,
bramo la tua eterea presenza,
ma tu non ci sei.
Forse un giorno,
l’ultimo senza te…
Io ti vorrei dire di aspettare,
di chiudere per un istante gli occhi,
intanto indifferente la folla guarda e passa.
Smorfietta seducente
Smorfietta seducente,
la tua carta vincente,
il labbro morsicato e fremente,
linguetta scollata.
Batti sul biliardo
le astute metriche
e poi ti dipingi il corpo eccitata,
tutto al suo posto,
le parole e piccole soste
d’amore nei rimandi
e pochi dorsi e pochi accalorati abbracci,
avviluppata sei su te stessa.
E smorza l’attesa il vento
e la pretesa fumo disilluso,
rinchiusi insieme eppur distanti
brilliamo desiderosi
e tu dici sono qua.
Il decolleté fa uno smacco
ammiccante e sognante
in un istante ci innalza
e tira giù la tua spalla,
è misteriosamente una tazza inclinata
ed in un sospiro svelata.
Tre punti,
vai tocca a me,
stasera ci divertiamo
togli pure le converse
e dirama il discorso in un bacio profondo,
il desiderio c’è, è in noi sai
l’encomio profumato
da moralità boschive
e saltimbanchi soli pretendenti
dell’ilarità, della sincera dualità
brutale e oltremondana,
così faccio centro
e tu ti lecchi le dita,
oh yeah!
Incroci e bazziche
non mi riescono ma a gradi
ti sfilo le illusioni perverse,
l’extension è rimandata a settembre
ma adesso pensiamo al qui ed ora,
costellazioni influenti
e virali beffe astratte e sinestiche
le tracci e hai ragione,
tocca a te,
declina in alemanno prebabelico.
Il sole tarda ad arrivare,
le spiagge lasciale stare,
stai meglio avvinghiata in pasta
di miglio fritta e imburrata,
il rossetto mangiucchiato fa stampo
sul campo stordito e i tuoi occhi sbagliano
il tiro centrando me e ridendo.
Ascolti i rumori,
i mercati rionali,
le viuzze serali romantiche
e mai dimenticate.
Pozioncina dolciastra,
imbrattata speranza,
il mondo pone altrove le premesse,
ma son comunque nostre le stesse.
E l’incanto non manca,
scherniti combattiamo,
le stecche stellari battaglie
spade tratte e pungoli sicuri,
colpi audaci al sapor di miele
e d’ambrosia, nettare condito
al maraschino e poi…
Lasciami due tiri,
in tutti i sensi,
dammi il punteggio scaltro
che porge al verbo l’orecchio.
E l’entusiasmo non manca,
non manca la dolcezza né la tenerezza,
le doti e il gessetto violaceo sulle guance.
O boh!
Parla di rinunce
e scalza tra i ricordi spalanca
pure gli occhietti, capelli svolazzanti,
cambiamo taglio per ogni cazzata
nel perfetto istante in cui
il nostalgico finir degli anni ’90 ha esposto
bluff e smacchi,
smack!
Puoi canticchiare,
passa il secolo e l’attesa,
lenta l’atroce clessidra parla
ormai in sordina, puoi vederla
o ignorarla o ignorarmi
o boh!
Anzi no!
Sorge il sole fulgido,
spasmo da risveglio mattutino
e biricchino,
che faccetta da carezza
e da sciupatina stretta.
La chitarra è frastornata,
ridagli fiato e taglia le corde,
suona me.
Che occhietto furbetto
dammi un bacio sciupaletto
e magicamente brucia il tropico
derelitto e sconfitto nel giacere trafitto.
Puoi consolarmi
con il madornale vino da strapazzo,
col sentimento,
col diretto canone inverso,
o no,
o boh!
Ah!
Allucinazione eterea
Il letto disfatto e tu
in preda all’ultimo spasmo,
silenzio perché
la penombra scende su di me,
che ti cerco sai,
un’allucinazione ed un’immagine
persa sei, mantieni tempo
spogliato e maledetto,
che disdetta.
La tua voglia dov’è, dove sei?
I misteri mi sbiancano,
le illusioni fioriscono.
Non credo più,
sono muto ormai,
cosa faccio? Nemmeno più lo so.
Lo sai sei dentro me,
impressa e trasognata,
svilita e ribelle,
un po’ più pallida e sghignazzante.
No, no, no,
non puoi svanire così,
se vuoi mira diritto davanti a te,
cosa vuoi che altro possa perdere,
non c’è più senso,
tutto falso,
anche te.
E il vento mi dà i brividi ancora,
mi eccitano ancora
anche due parole,
e di più i silenzi e gli sguardi intensi.
Cado per strada,
mi rialzo sai,
ma la tua mano dov’è, dov’è il sostegno,
dov’è il reale nel ricordo?
Penso oppure no,
cosa vuoi che cambi,
cosa rimane del nulla
che era solo altro nulla o meno,
verità fasulla, germoglio di betulla.
Dai divina
ignorami un altro po’,
fai pure la ola con le lenzuola
e scordati di chi non sai e non vuoi,
di me, spauracchio della sincerità.
Velata ti volti,
l’essenza è pronta,
pronto il resto,
immergimi e distruggimi,
di più non ho.
Poi flebile suono
tra le tue labbra voluttuarie,
e sì non ci sei,
no.
Vai lontana,
ritorni, ma sì che cambia
d’altronde, ti piace
vedermi come remoto granello
dell’ ultima spiaggia,
spargi il sale sui capelli,
fa come vuoi.
Le stelle e il cielo
già tremano al respiro,
oscillo in declinazione.
Questa mattina
è già uguale all’altra,
è una sera diroccata,
dillo se lo vuoi.
È sì è così,
l’oblio e lo sciupio,
l’ultimo gemito,
i tuoi occhi silvani,
infine l’ultima goccia di pioggia.
Assurdità
Assurdità,
è questo il senso del batticuore,
del lieto rumore,
la regione tedesca col tuo nome
è un ricordo che tu sai
e non cancellerai se nell’ignoto
sprofonderai,
come sei carina,
volti il viso batuffolina,
che eleganza sbarazzina.
D’altronde scorre il sentimento
nel silenzio lì vicino a te,
il ciondolino allibito
pone assunti dolciastri e frastornanti,
mi perderei tra le tue braccia,
ecco:
con noncuranza stringerti ancora
in ultima profonda istanza.
E tu straniera,
occhi dipinti e trapunti
vinti come il cielo blu,
un diadema sei tu,
ho trafitto e combattuto anch’io,
imbellettata sei l’incrocio
dello sguardo e il mio traguardo,
la mia verità.
Assurdità,
le mie parole,
le sue note,
i tuoi spettacolari intrecci,
hai sedotto e frastornato
il vespro antico,
succube anche lui
e tutta la realtà ricoperta
dalla tua apparenza,
dai tuoi colori e dal tempo,
sospesa sei tu come brina viva e fiera,
i tuoi occhi in su,
non capisco nulla più.
D’altronde piove,
la luna è stata mia compagna,
mia cuccagna il tuo sorriso
e l’occhio ora strizzato ,
allora consapiente e intelligente,
un orgasmo d’intelletti,
gli amorosi sensi corrispondenti,
le affini elettività.
Assurdità.
Uh il tuo entusiasmo è lo stesso,
immagino i baci,
migliorati,
un po’ dischiusi, estasiati
ed estasianti,
il libro si sfoglia con il vento
e resti in piedi,
il sussulto è un maremoto
spiegamelo collo sbieco seduttivo,
io sempre ti pensai,
la tua anima mai ignorai,
magari t’amai.
D’altronde l’arcobaleno
è variopinto e disilluso
come me inconcludente e sognante,
dai tuoi pensieri distante,
sono il messaggio sprofondato
in fondo al mare,
raccoglimi e cercami se vuoi
e chissà se la corrente mai
ti raggiungerà.
Assurdità.
La candela si consuma
ma la cera il mio sigillo imprime,
chissà se l’aprirai,
se ti volterai,
se il mio cuore ti rivedrà.
Assurdità.
Musica ancestrale
La descrizione di te
è catturar l’immagine
di un attimo impellente,
d’accordo, d’accordo, divago,
ma con un paio di parole
sembra già tutto più chiaro.
Puoi stendere le gambe
e riscaldarmi col fiato,
col tuo corpo, col tuo vento,
l’abbraccio già mi fa sobbalzare
e lento ti scopro,
che virtù la tua apparenza,
domina su tutto, la tua seduzione
è un sentire i tuoi capelli
quando sei distesa sul mio volto.
Mormori albeggianti fianchi
provocanti e ad ogni sussulto
alimenti il mio tumulto,
quindi desumo
dal brivido fibrillante della tua lingua
un fruscio di sensi e le labbra
perverse assaporate come ciliege etiliche.
Poi sfiori il mio naso ed inspiri,
vuoi prendere il fiato e reggere
capiente il bacio contenente,
un magnetico incrocio attraente,
ormai sono scoperti i gemiti,
profondi i gaudenti lamenti,
sfoggi la tua coda migliore
e riarricci le parole.
E non c’è vita che non sia plasmata
dalle tue dita, non c’è dolore
che sgorghi se più forte
stringerai questo mio corpo
adibito a prisma caro alle carezze
un po’ estroverse in ondulazione fremente.
Ed espandi questo irto barlume trafitto,
d’altronde se condisci con le note
una sensazione
l’armonia stellare ci unisce
in conclusione
e con i fremiti svanisce ogni pudore.
Adesso lo sai,
un’altra boccata della tua essenza
provocante e pura,
faccetta angelica dallo sguardo
stuzzicante e dalla natura magica.
Ora mi copri la bocca con le dita,
poi le spogli di petali
e la sfiori con la tua,
il bello deve ancora cominciare,
vai con il sospiro micidiale,
colla guancia sul guanciale,
infiamma l’altra ed ardi me
poi chiudi gli occhi.
E getti all’aria le palpitazioni
e le illusioni,
il mondo si inchina ai nostri voleri,
siamo noi l’universo e il nulla,
il vuoto e il tutto,
l’infinito e l’ignoto.
Dai è il momento di tacere
perché di ciò che c’è in noi
nessuna metrica
né nota né segno né simbolo
può descrivere lo sai già
ciò che percepiamo
è esso stesso musica ancestrale,
essenza divina,
scintilla primordiale.
Ultimo decennio ovvero nuovo millennio
E il caschetto si impose turbato,
rimasuglio del passato,
che carino, vetrata obnubilata,
fiato mio sul tuo collo.
Un po’ di pioggia,
ci vuole,
novembre nostalgico,
dicembre figlio della genesi.
Il potere abnorme
sprigionò dalle mani possente,
vita ed ordini repentini,
sogni e capelli spazzolini.
Un ciondolo di fumo,
tre grammi rivoluzionari,
rasati ai bordi,
tanti ricciolini spumati
ed ebbri d’oro bianco.
Non c’è scampo,
alziamo gli occhi,
prudenti soffochiamo
il fremito del danaro,
possiamo avere di più
e sfogli i pensieri fissanti
sentieri cavalcati da braccia resinate,
e se ti poni altrove
qualcosa la ottieni
o perdi tutto e rovini a terra,
sei nulla e non c’è pietà.
E quando ormai è scorso il tempo
getti l’ultimo fiato,
inspiri e trattieni secernendo rimorsi,
e sei a bordi,
la tua ultima speranza
è un ciuffo calato sugli occhi
e ti sembra che infondo
non tutto sia andato perso.
Sui bordi di un fiore
Sui bordi di un fiore
piangi e dormi,
respiri bellissima e pura
pensando all’attimo
furbetta fingi,
ogni giorno la stessa storia,
qual è il problema,
l’onirico sistema è scardinato
e sparso incantevolmente,
ami una parte del tutto
infatti sbatti per sempre le palpebre
che ricordi, ricordano me.
Com’è languido il risveglio
stanco, esplode un fremito di pollini
tra te e il cielo sigilli
e suggerisci tre metri
o altre banalità,
vai gira la chiave e gettala
in una pozzanghera di bitume,
sei felice, che ne dici?
Due palpiti
e tre onde violette e clementi
ti porgono ossequi,
mira el sentimento,
como si fuera la ultima vez,
pendi atroce, sei felice allora?
In me preziosa e vorticosa.
È primavera, dunque
e il mondo risponde, tu non hai domande?
Hai comunque il vestitino
comprato ieri dall’antiquario,
sei ancora così precisa
verginella in bilancia,
casta meretrice orgiastica,
prendi me serva di Lilith
dagli occhi cobalto o nichilisti neri,
dall’iride in trasformazione,
hai un paio d’ali madornali
e immisurabili, soggetti solo a capienza
in metriche musicali,
è questo il senso? Sei felice?
Vuoi proprio saperlo dici
e sorridi
poi distruggi e sormonti
la volta turchina di spasmi
e gemiti mattutini,
sempre stai sospesa lì
e scivoli sul petalo,
oh dio, prolunga un po’ la vocale
o fa la dieresi o stroncala
completamente oppure batti l’asticella,
sei felice, dici,
e scarichi bolle di sapone,
sei lì per me sorvegliando
l’ultimo pensiero
e l’ultimo otre di sorrisi,
oltre la vita,
molto oltre ma ancora lì,
e parte il bacio.
Sei sì dialettica sintetica e sinestica,
apri le porte della percezione
e sciogli le catene
e sei ancora felice, felice
consolata da un sorso
di tè selvatico e aromatizzato
da versi intarsiati di miele,
sei lì per questo,
sei lì e tiri su,
sei barlume e ombra,
sei lì distratta e affondi
l’ultima armada possente,
sei vocio interiore confuso
col pensiero ed elettromagnetico,
sei l’aurora del domani,
sei bolla d’aria tra rossetto ed incisivo.