Sulla necessità di parlarne
Argomento poco trattato dagli esperti ed ammiratori del maestro Lucio è quello dell’aspetto esoterico-ma neanche tanto e vedremo perché, è qui l’interesse- degli ultimi anni, ovverossia quelli che lo vedono collaborare con il poeta e paroliere Pasquale Panella-Lino d’ora in poi, ed è interessante vedere anche perché-. Non che nella precedente collaborazione, con Mogol prima e con la moglie Grazia Letizia Veronesi, in arte Velezia, mancasse tale componente, le canzoni di Lucio erano e sono, vivendo, sempre state pregne di spiritualità, di valori, arrivando a sfiorare un panismo quasi panteista già dagli album scritti con la collaborazione del Rapetti. Una sete di sperimentazione, un toccare corde e valori che hanno non solo musicalmente ma poeticamente rivoluzionato il modo di fare canzoni. Sperimentalismo, dunque, sincretismo, Dal Canto Libero ad Anima Latina, cogliendo uno spiritualismo quasi anarcodecadente tipicamente spagnoleggiante, e prima, raccontando l’amore introducendosi in pieno in una prospettiva della rimembranza, parlo ad esempio di Mi ritorni in mente, 7 e 40, 29 Settembre, Pensieri e Parole, e dopo, tracciando quadretti di vita quotidiana, giungendo però ad un moarmorizzato esaurirsi lirico che lo portò ad altri lidi. L’illuminismo e la new age anglofona del E Già con Velezia, sino, dopo l’esperimento Pappalardo, a tessere terreni autenticamente inesplorati, dadorfosurrealisti, della collaborazione con Lino, Don Giovanni, L’Apparenza, e potremmo finirla qui, ma poi c’è stata la Sposa Occidentale, CSAR ed Hegel, e non l’abbiamo finita. Battisti è uno, non si può dividerlo in periodi in base alle collaborazioni, ma in periodi in base alla sua evoluzione artistica. Il periodo con Mogol ne conta tre, poi Velezia, e due con Lino, unitari quest’ultimi e quest’ultimi indagherò. Ed in particolare gli ultimi due lavori. I lasciti, i testamenti, l’aspetto esoterico “che si manifesta ed è”.
Interessante sarebbe un lavoro più composito, che analizza testo per testo, album per album, i venti più l’inedito-aneddoto, o almeno gli ultimi Cinque. Ma mi riservo di farlo, altrove, o qui, e mi soffermo sugli ultimi due, come detto, CSAR ed Hegel. Lavori della maturità che guardano alle origini, come nel celebre dialogo di Plutarco sulla “E” di Delphi, citazione non casuale. Di qui a breve vedremo. E per parlare di Hegel è necessario parlare di CSAR, brevemente, perché La Sposa Occidentale spalanca le porte a questo, e CSAR ad Hegel. Punto centrale-o finale dunque- l’analisi dell’ultimo video, “Hegel”, come chiusura e quadratura del cerchio.
E perché parlarne? Perché commentare? Semplicemente per rendere omaggio, non per altro, semplicemente per pubblicare ciò che le tessiture di Lucio hanno scosso nel mio cuore. Un omaggio gratuito a lui, parlarne, un omaggio che è un ringraziamento a chi ha rivoluzionato il modo di fare canzoni, a chi ha vissuto per la sua arte. E ci ha saputo, come solo i Grandi sanno fare, ridere sopra, scherzarci prendere in giro sé e la sua sublime arte. Prendere in giro persino un esoterismo dal retrogusto di segreto di Pulcinella immergendosi dentro con passione, dedizione ed impegno.
Un grazie sentito Lucio per tutta la tua Opera, “oltre la natura e che come tutti portenti tende a scomparire, più cerchi di tenerla a mente e nelle spire dei ritrovamenti portentosi”. E sì perché, tutto sommato, siamo pur sempre esseri umani.
CSAR, la donna, la Maddalena. “Sono io quella ragazza, infatti è lei”.
Brevissimi cenni all’album religioso. Me ne sono occupato tempo fa, scrivendo un articolo per “Il Gazzettino Vesuviano” uscito il 29 settembre del 2015 e di cui riporto il testo integrale, riproposto e virgolettato, aggiungendo subito dopo con qualche debito accrescimento e qualche precisazione postuma.
<<Oggi 29 settembre… E’ l’inizio della celebre canzone degli Equipe 84, gruppo capitanato da Maurizio Vandelli, ed editata nel 1967. Scritta da Mogol-Battisti, da quest’ultimo magistralmente reinterpretata quando iniziò la sua carriera di cantante oltre che musicista.
Il 29 settembre è anche la data di uscita dell’ultimo album del maestro Lucio Battisti, siamo nel 1994 ed “Hegel” uscì rompendo come sempre il ghiaccio del sedimento musicale italiano a colpi di martello ma con delicatezza e rivoluzione, sentimento e dolcissime assonanze, richiami evidentissimi alla filosofia, all’arte, alla storia, spiazzanti arzigogoli musicali e perfettissime melodie squadrate e dissonanti.
Il periodo dei dischi “bianchi”, quello delle parole scritte da Pasquale Panella, detto Lino, che va dall’86 al ’94, cinque album in tutto, usciti a cadenza regolare ogni due anni, per l’esattezza “Don Giovanni”, “L’Apparenza”, “La Sposa Occidentale”, “Cosa Succederà alla Ragazza”, “Hegel”.
I testi, definiti criptici, orfici, ermetici, non furono sempre accolti con piacere da critica e pubblico, ma sono stati e stanno essendo riscoperti negli ultimi anni, segno evidentissimo della capacità di avantgarde che Lucio ha sempre avuto, istruendo e facendo crescere il suo pubblico, modellando i gusti, nel breve e nel lungo periodo, del fruitore, senza mai asservirsi ad esso, ma ponendo in essere le mode e non seguendole, miscelando sonorità e parole.
Dalla sua morte, il 9 di settembre 1998, il periodo “panelliano” ha suscitato forti interessi tra giovani e non. Complice la diffusione di internet, sono esplosi sin da subito forum, poi blog, gruppi su facebook e via discorrendo, a secondo dell’evoluzione dei mezzi di comunicazioni. Lo scopo uno: cercare di capire, di penetrare musiche e testi di quello che può sembrare, e a detta di molti lo è, il periodo “oscuro” del Nostro. E diversi libri, altresì, sono stati editati, con i medesimi intenti, da “Specchi opposti. Lucio Battisti gli anni con Panella” del giornalista Ivano Rebustini, sino a “Battisti Panella da Don Giovanni ad Hegel. Analisi e spiegazione di tutte le canzoni” di Alexandre Ciarla- storico esegeta dei predetti testi sui forum a Battisti dedicati-.
Giusto per farci una idea della ricchezza espositiva di Lucio Battisti negli ultimi periodi, dell’estro e della creatività che lo hanno contraddistinto sin dagli inizi della carriera, vorrei sommariamente analizzare il suo album del 1992, “Cosa Succederà alla Ragazza”. Lo scopo uno, trarne il significato mistico, raffinato, ovviamente solo in parte intuibile, in quanto aspetto straordinario del periodo bianco è proprio la pluralità di significati convergenti in una unica ottica di significato, non giochi di parole ma parole e frasi arricchite di sfumature e definizioni che non divergono ma si immettono in un percorso studiato con precisione matematica e mai casuale. Il causale che sfrutta il casuale per modellare il perfetto dall’imperfetto ed esaltarlo nella sua dissonanza armonica.
L’album, la cui copertina è una semplice acronimo scritto a mano da Lucio stesso (nella foto), è un concept album, narra l’intera giornata di una donna, dalla mattina alla notte, ma al tempo stesso è ricco di riferimenti religiosi. Cerchiamo di vedere e capire. Tanti i riferimenti biblici, dicevo, sia vetero che neo testamentari, presenti nei testi di Panella. Per elencarli alcuni: in “Ecco i Negozi” la pioggia di rane, piaga che Jhavè invia agli Egiziani che hanno schiavizzato gli Ebrei (“vengono giù gelati poi rane”). Aggiungo io, i gelati non è detto siano gli ice cream, ma può benissimo essere la grandine, (piaga che concorre con quella della pioggia di rane), o meglio sono l’uno e l’ altro, la quotidianità di una donna miscelata a rimandi alti, biblici, trascendenti, che, come tra un po’ vedremo, riguardano proprio la figura femminile. Operazione che ha dello straordinario. Battisti-Panella hanno, con quest’album, ridato una dignità “storico-teologica” ed in parte “filosofica” alla donna ed al femminile, spazzando via centinaia d’anni di maschilismo dottrinale, il tutto, ovviamente, solo da un punto di vista artistico, quello prediletto da Lucio e quello che egli poteva utilizzare essendo il suo punto di forza, il suo talento, il suo carisma. E scusate se è poco.
“Per lei un sovrano avrebbe rinunciato a nascere un cammello si è lanciato in una cruna d’ago smascherando l’acrobata di sabbia in sé sopito”. Canta Lucio in “Però il Rinoceronte”, alcuni commentatori, a riguardo, ritengono che l’acrobata di sabbia sia Mosè. Mi sento di discordare da tale ipotesi. I sostenitori del “Mosè-acrobata” concordano che il passo cui si rifà Lino è l’episodio della cruna e del cammello, quindi la critica alla ricchezza. Gesù dice “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”. Con ciò mettendo in discussione parte dell’impianto legislativo di Mosè e del Vecchio Testamento.
A mio avviso il riferimento è esatto, si mette in discussione il vetero ma nella prospettiva dell’amore.
Il passo cui si riferisce Lino, ovviamente in maniera criptica e secondo una scrittura “a Sandwich” è il passo della Maddalena. L’amore è la molla che ha portato al perdono? Non esattamente e non solo, l’amore è la molla che ha portato a sovvertire la Legge farisaica ed ipocrita.
Cerchiamo di capirci riportando il passo. Gesù è interrogato circa il comportamento da tenere nei confronti dell’adultera colta in fragrante (la Maddalena). Essi, per metterlo alla prova, gli dicono che, secondo la legge di Mosè avrebbero dovuto lapidarla. Gesù che fa? Mentre loro parlano scrive sulla sabbia. Il vangelo non ci dice cosa scrive, i Teologi sono discordi, le due dottrine dominanti sono:
Non uccidere, Non commettere atti impuri-ovverossia, meglio, adulterio-. Io propendo per la seconda, infatti Gesù scrive sulla sabbia un comandamento previsto da Mosè, un comandamento che, se interpretato alla lettera, in maniera ipocrita, come fanno i Farisei, non è altro che nulla, suscettibile di cancellarsi allo spirare del vento.
Poi il fatto che l’acrobata di sabbia sia in sé sopito riprende chiaramente l’immagine di Gesù che scrive quasi annoiato. L’amore vince, è la vera ricchezza, per questo il cammello passa per la cruna di un ago, l’amore rende possibile l’impossibile.
Sorge a tal punto un quesito legittimo, perché Gesù, l’acrobata di sabbia, è smascherato? E qui c’è un errore di fondo: Lino fa una inversione: per lei un sovrano (Mosè) avrebbe rinunciato a nascere (a divenire Faraone, come ci racconta la Bibbia) e un cammello si è lanciato in una cruna d’ago (riferimento neotestamentario) e qui c’è una bella virgola, anzi due, è un inciso il “smascherando”, l’acrobata di sabbia smaschera la legge vecchia, e un po’ conformista, quasi da ribelle stanco delle applicazioni letterali.
Ovviamente può apparire un po’ forzata e magari è più convincente che Gesù (l’uomo in sé sopito) smaschera l’acrobata di sabbia (cioè i farisei, che da buoni giuristi erano scaltri, acrobati nell’applicare la legge a loro favore o a favore dei più potenti).
Continua “E per lei qualche atleta contenzioso (o portentoso?), si è battuto, smantellato da solo, crollando coi talenti e i gusti intatti”.
In primo luogo è chiaro il riferimento alla parabola dei denari, all’epoca chiamati talenti e che sono proprio la rappresentazione delle nostre capacità (da allora in poi talento ha assunto tale accezione).
Beh, io credo che la parola sia contenzioso e non portentoso, sebbene contenzioso non è un attributo ma un sostantivo, magari lo usa per riallacciarsi alla Legge, il significato giuridico di contenzioso è noto. “Si è battuto smantellato da solo”, per trovare lei (su chi è questa lei vd infra) cioè senza far fruttare le sue potenzialità, coltivare i talenti.
“Così gli dei sarebbero”, altro pezzo stupendo dell’album. Centinaia di riferimenti alla divinità, ed è interessante constatare come il sacro è posto in rapporto alla quotidianità. Tale canzone è la chiave di volta, le divinità associate alla vita di tutti i giorni da parte di una ragazza, diciamolo, all’apparenza anche un po’ superficialetta.
Ma passiamo al significato, mi sia passato il termine, seppure improprio, “esoterico”, intendiamolo nel senso etimologico.
“Cosa succederà alla ragazza”, pezzo che dà il titolo all’LP poi CD: un commentatore ha argutamente intuito che Lino abbia concepito questo testo facendosi la barba. Parlando di sé, ma in un modo tutto suo, non di sé così com’è ma bensì com’è…il suo nome. Pasquale.
Riferimenti l’alba la barba etc…per supra; “gli uccelli appostatissimi sui rami” ( i corvi, sul Gûlgaltâ), “come chiodi senza quadri alle pareti”…i chiodi, riferimento alla croce? Se facciamo una interpretazione un po’ troppo pindarica e riteniamo i quadri le rappresentazioni religiose, magari, ma è azzardato, proseguiamo ”le corna curve sono due ferventi trafficanti” (le corna, ispirati dal male?) ma chi sono questi trafficanti, ce lo dice subito dopo, “a bassa voce, sotto la croce, sotto la croce”, i soldati romani che si contendono la tunica, azzardato? Proseguiamo “nel loro dialetto antico” aramaico o latino, forse aramaico, perché il latino, sebbene antico, non è un dialetto, perché i soldati romani parlano la lingua del posto? Semplice sono soldati, non generali o tutt’al più centurioni, quindi sono assoldati tra la popolazione locale, ma potrebbe anche essere un latino miscelato e dunque dialettico, essendo il latino, come noto, di facile commistione con le lingue locali, ed ancora, potrebbe essere dialetto perché la lingua colta dell’epoca, anche a Roma, era il greco. Prosegue “nel loro diletto pratico” quale è questo diletto? Il gioco dei dadi, con i quali, pensano di spartirsi le vesti di Gesù, pragmaticamente.
Poi c’è una presenza femminile, ma prima leggiamo altre sfaccettature che ci riportano alla Pasqua (ad esempio “la vogliono ricoprire di cioccolata”).
Chi è dunque la ragazza? La Maddalena. “La vogliono un po’ scoperta per accertare”, per accertare cosa? Che sia donna? Che una donna possa essere apostolo e possa aver dato una progenie, come narrano alcune leggende praticamente dalla notte dei tempi? Ricordiamoci che la Maddalena assieme a Giovanni e alla Madre di Dio sono gli unici esseri umani che non lo hanno tradito, e sono stati con lui fino alla morte, fin sotto la croce. Poi la questione Giovanni Maddalena è nota, e alquanto strana, c’è magari un riferimento a “La celebre cena e gli invitati” (Cenacolo di Leonardo Da Vinci) di cui discutono in “Estetica”, pezzo del successivo album “Hegel”?
“Che cosa le tocca? Sentire che cosa?” “Gesù, Gesù, che non se ne parli più” “La vogliono servire in bocca” e soprattutto perché inizia con la barba. Perché lo scopo di CSAR è esaltare il femmineo, fare cioè la Barba alla Gioconda, (vd Dadaismo, etc…), ridare dignità alla donna.
Su Cosa succederà alla ragazza, comunque, c’è molto ancora da analizzare, tipo “la gloria all’ottavo”, che significa, gloria esponenziale, troppo banale, gloria all’ottavo, cioè all’ottavo ed ultimo pezzo, “Cosa farà di nuovo” dove la donna è “corpo del suo corpo e sangue del suo sangue”, cioè le si concede finalmente ciò che le spetta, il suo giusto ruolo, nella storia?
Ecco i negozi, riferimenti a Circe, Cleopatra, etc…sin troppo evidenti, donne della mitologia.
Ancora “Però il rinoceronte”. Fa riferimento alla tradizione esoterica osiridea, dell’adorazione della parte femminile di Dio “I riti, i riti, ma che riti d’Egitto?”, buffo, dire ma che […] d’Egitto, significa ma quali riti, eppure dice proprio riti accanto ad Egitto, e che cos’è il rito egizio lo sanno tutti. “Sono io quella ragazza? Infatti è lei” la Maddalena. Su questo punto occorrerebbe una analisi più puntuale. La bellezza sta nel fatto che egli canti “la parola chiave è Rosmarino”, rosmarino che, nel significato esoterico egizio e non solo è simbolo di rigenerazione, resurrezione, immortalità, altro richiamo alla Pasqua. Insomma, Battisti e Panella aprono artisticamente il Mar Rosso per corrodere il muro di maschilismo ideologico, la donna riacquista dignità, ha accesso a tutto ciò che la sapienza, e con essa la religione, le ha da sempre negato. L’arte si serve dei termini dottrinali usandoli come allegoria del riscatto, un riscatto che usa termini esoterici ed atmosfere urbane ma è tutt’altro che esoterico, quasi giuridico.
Infine “Cosa farà di nuovo”, pezzo della gloria?>>
Ecco riportato l’articolo. Alcune precisazioni ed accrescimenti:
in primo luogo la Maddalena “sono io quella ragazza, infatti è lei”, è importante come lo canti Lucio. Dice “infatti è lei” in tono quasi annoiato. Prende di fatto in giro un segreto di Pulcinella, che la Massoneria eleva a cardine, ma che in realtà è una summa idiozia nella sua evidenza. Non appartiene alla laicità l’esaltazione della donna, non appartiene ai Massoni ma ai Cattolici. Lucio prende sempre brillantemente in giro l’esoterismo, spesso ridendo, o scocciandosi, seccandosi nel tono di voce. E prende in giro i poteri forti e massoneggianti. E in Lucio nulla è casuale. “Infatti è lei”. Sì, lo sappiamo, abbiamo fatto la barba alla Gioconda essotericamente ma parlando per enigmi, enigmi di cui si è appropiato un pensiero che non è.
“Che la vogliono servire in bocca/ad una bocca sterminata di forno/che cosa le tocca/sentire che cosa” ma sì, riferimento al vero Graal. La transustanziazione, il corpo ed il sangue di Cristo che ci custodisce per la vita eterna, l’Eucarestia. Alla donna cosa le tocca, sentire che cosa? La progenie divina? La discendenza, il sangue reale, le linee di sangue, o il calice che dà l’eterna vita terrena e mondana. Quante favole tocca sentire alla povera Maddalena, quella vera, prostituta, adultera, redenta, Santa. Il vero Santo Graal, è l’Eucarestia e non le favolette. “La gloria all’ottavo” ovvero all’ottavo pezzo dell’album, Cosa Farà di Nuovo, dove la donna “si sente il sangue del suo stesso sangue/ e corpo del suo corpo/in un bel giro d’edera intorno a sé”. L’edera simboleggia l’immortalità, la resurrezione, la vita eterna, come il rosmarino essendo le foglie dell’Edera perenni . Ma a differenza del rosmarino l’edera ha anche natura invasiva, incarna la contaminazione del bene da parte delle forze del male. Nell’antichità greca, l’Edera era consacrata a Dioniso, rappresentato sia con la fronte cinta di una corona di Edera, sia con in mano un bastone adorno di Edera. Ecco, Nietzsche in Ecce Homo dice: sono stato inteso?/Dioniso contro il Crocefisso” ovverossia la resurrezione. Il mito di dioniso che muore e risorge è simbolo della divinità che risorge, del Cristo. Ma l’Edera va maneggiata con cura, è anche un simbolo sessuale-veniva usata come stimolante afrodisiaco in forma di strofinio- ed è, come detto anche invadente, come il male che si insidia. La donna è esaltata per la sua grazia, come Dioniso è un simbolo positivo nella sua valenza di colui che vince la morte ed il dolore ed il peccato e la caducità risorgendo (Dioniso contro il crocefisso) è anche simbolo dell’eccesso e della perversione. Si avverte, dunque, il pericolo del travisamento del ruolo della donna con le favolette e fandonie massoniche. Ma perché Lucio non ha pubblicato i testi degli ultimi cinque album negli LP e poi nei compact? Semplicemente perché apre alla molteplicità di significati “La gloria all’ottavo” è anche la gloria all’ottava” e vedremo.
La donna ha la stessa dignità dottrinale, teologica e filosofica. “Mulier taceat in ecclesia” paolino non è farisaico, perché Santa Phoebe è diaconessa, e lo dice lo stesso Paolo nella I epistola a Timoteo.
Un’ultima riflessione su CSAR. Riguarda il pezzo “Così gli dei Sarebbero” e non è mia ma l’ho letta in un commento su youtube alla canzone di un certo Riccardo Cavalli, commento pubblicato da lui due anni orsono e che sposo in pieno e di cui riporto il testo integrale, perché merita ” Lucio , che era molto credente, non avrebbe mai cantato un testo contro la Chiesa. Il testo è interpretabile come la visione del mondo in chiave massonica. E la follia che porta in sé: la natura è bella come è creata, e l’uomo la distrugge con schifezze (bitume). Gli dei sono gli idoli, e il maestoso è l’ordigno scientifico! La scienza, che è diventata il “Dio” dell’uomo, ha fatto perdere il senno (vedi le frasi nonsense successive). Merce, mercato, l’economia regola questa visione; il cetaceo è un uomo arricchito panzuto che vive di tutto questo. E poi la guerra (lanciafiamme) e le frottole raccontate per giustificare la “pipa” universale (doppio senso che significa “fumo negli occhi” e ” balla”). Ma la gente comune vive normale, tra la spesa e un dentista super tecnologico (la tecnologia che ci invade sempre più). La frase clou è: tutto questo è mancante della Verità, e questo errore di presunzione infantile di saper far tutto bene, è come un piccolo che tenta di dire “nessuno” e dice “nettuno”, il falso dio mondano viene giustificato come un innato difetto incorreggibile dell’uomo. Il testo torna a spiegarci con giri di parole sublimi che dove passano i membri di quella congrega si fanno le cose più folli, inguardabili ( una balena con fontana inclusa, allusione a certi monumenti orrendi nelle città sfigurate da questi infausti “artisti” ) e si fan passare le mode per principi morali e di costume ( cocomeri per occhi a tutti quanti e alberi spioventi dalle orecchie). Ma spiega che ci sono persone che vanno contro il coro mondano (le voci emerse) che contrastano (sulle) i massoni e le loro porcherie (teste a delta). I mignoli simboleggiano la Mafia (altra massoneria) e tutto condito dal doppio senso dei martelletti che possono essere sia i rappresentanti corrotti della giustizia che i martelletti di un pianoforte, allusione di un uso della musica a fini commerciali e per far passare tutte queste ideologie. Questa impostazione quindi è libera di passare la barriera delle menti ( così lei può passare di là) con l’idea che se loro desiderano fare una cosa comunque la faranno senza guardare in faccia a nessuno”.
Hegel. La “E” di copertina è quella che si trova nel Tempio di Apollo a Delphi? Plutarco “De E Apud Delphos”
Riporto per intero “De E Apud Delphos” che sarà pezzo per pezzo commentato con riferimento a Lucio.
È un dialogo della maturità, che riporta una conversazione di giovinezza, avvenuta nel 67, anno in cui Nerone fu in Grecia. Plutarco, in là con gli anni, scrive all’amico Serapione che alcuni giovani gli avevano chiesto il significato della lettera e lui racconta questo episodio di gioventù, quando egli stesso era ragazzo. Non a caso Hegel è un concept che, come in CSAR si ha un significato emerso, la giornata tipo di una ragazza, e uno sotteso, quello religioso, contiene una parte emersa, che è il ricordo di un amore adolescenziale in età matura ed una sommersa. Che vedremo. Che cercheremo di vedere.
LA «E» DI DELFI
<< 1. Recentemente ho letto, mio caro Sarapione, dei versi tutt’altro che brutti, che, secondo l’opinione
di Dicearco, Euripide avrebbe rivolto ad Archelao:
“Io, povero, non voglio far doni a un ricco:
o sarei giudicato stolto
oppure col mio dare sembrerei chiedere.”
Chi, infatti, dalle sue povere sostanze fa piccoli doni a coloro che hanno molte ricchezze non si
rende affatto gradito, anzi è sospettato di non dare così per nulla e si procura la taccia di basso calcolatore
e di servo.
Considera, invece, quanto tali doni di esteriore e venale concretezza restino indietro, per libertà e
bellezza, ai doni dello spirito e della sapienza, i quali è nobile dare e, dati che siano, è pur nobile
chiederne simili in contraccambio da chi li riceve. Io, pertanto, mandando a te, e per tuo mezzo agli
amici di costà, alcuni dei discorsi pitici, a modo di primizie, confesso di attenderne da voi altri più
ampi e più belli, dal momento che voi potete avvalervi di tutti i vantaggi che provengono da una
grande città e avete più agio di scambiar libri e conversazioni d’ogni sorta.
Ed ecco che Apollo, il nostro dio, da un lato, dando oracoli ai consultanti, rimedia e risolve le
difficoltà della nostra vita pratica, dall’altro, in materia di dubbi intellettuali, li suscita lui stesso, direttamente, e li presenta a chi è per natura filosofo, ispirando lo slancio dell’anima che spinga alla
verità: il che si prova con tanti esempi e specialmente con la consacrazione della E.
Certo né il caso né la sorte fecero sì che, unica fra le lettere, la E occupasse un posto d’onore
presso il dio e assumesse la dignità di una offerta sacra e di un oggetto di contemplazione. Anzi, o
perché ne osservarono il particolare e straordinario significato o perché se ne avvalsero come di un
simbolo per qualche altro valore di ricerca, i primi antichi teologi la collocarono così in alto.
Ebbene, già molte volte io avevo fatto cadere quietamente l’argomento, che, in varie circostanze,
ci si offriva dinanzi nelle nostre riunioni, ed ero passato ad altro; recentemente, però, vi sono stato
costretto dai miei figli, a gara con alcuni stranieri sul punto di partire da Delfi; non sarebbe stato
amabile sottrarmi ancora e deludere completamente persone vogliose di ascoltare. Così, li feci sedere
vicino al tempio e, mentre si avvicendavano ora la mia iniziale ricerca ora le loro domande, il
luogo e i discorsi stessi mi suscitarono il ricordo di quanto avevo udito una volta in tempi passati, e
precisamente all’epoca della visita di Nerone, da Ammonio e da altri, che proprio qui discorrevano
della medesima questione sorta similmente in mezzo a loro.>>
Poco da dire su questa premessa introduttiva se non quanto già detto, la reminiscenza, il ricordo in anni maturi di un discorso di giovinezza è per Lucio il racconto della sua intera attività compositiva, di artista, un sunto del suo intero lavoro. Nel brano “Estetica egli si pone in ambito dialogico-diatribico e l’intero pezzo è avvolto dalla memoria di un discorso a più voci, mai tenuto, ma che è sintesi del sé artista, un discorso in cui due persone ascoltano una lezione annoiati e, nascondendosi, “secernono puro spirito”, pur essendo non ufficiali, pur essendo una semplice “distilleria abusiva”, non accademica.
<<2. Ora, che il dio si riveli a un tempo filosofo, non meno di quanto si riveli profeta, era pacifico
per tutti: in riferimento a questa comune convinzione, Ammonio, per ciascuno dei nomi, proponeva
le seguenti interpretazioni: Apollo è Pizio per coloro che s’iniziano all’apprendimento e alla ricerca;
è Delio e Faneo per coloro ai quali già un po’ di verità appare chiara e luminosa; è Ismenio per coloro
che possiedono la sapienza; è Leschenorio allorché la sapienza sia già tutta in atto e chi usa conversare
e filosofare con altri ne trae profitto.
“In verità, la filosofia – concludeva Ammonio – ha il suo punto di partenza nella ricerca; e la ricerca,
alla sua volta, l’ha nella maraviglia e nell’incertezza: è giusto, quindi, che molte cose che riguardano
il dio siano come avviluppate di enimmi ed esigano un loro perché razionale e una spiegazione
di causa: ad esempio, sul fuoco immortale, il fatto che bruci qui solo legno di abete e che l’alloro
si bruci come incenso; il fatto che qui siano erette solo due statue alle Moire, mentre universalmente
si crede che siano tre; il fatto che a nessuna donna è dato accostarsi all’oracolo; e poi il significato del tripode; e tante altre particolarità, suggerite a persone che abbiano un minimo di logica e di sensibilità, fanno da esca e invitano a riflettere e a udire e a conversare su di loro. Osserva, inoltre,
qui, le iscrizioni: la famosa ‘Conosci te stesso’ e l’altra ‘Nulla di troppo’: quante ricerche hanno
provocato nei filosofi; e che folla di argomentazioni è germogliata da ognuna di esse, come da un
seme! Tra esse, poi, nessuna è stata così feconda di discussioni come l’oggetto della nostra attuale
ricerca”.>>
Ecco spiegare il parlare in enigmi per l’ascoltatore stupefatto, per il fruitore dell’opra, degli ultimi cinque in particolare, dei “Bianchi”, un ascoltatore che ascolta e non comprende, che rimpiange il Lucio dell’Acqua Azzurra Acqua Chiara che comunque è esistito. Un pubblico che ascoltava e capiva, un pubblico che come nel primo pezzo dell’album in oggetto, “Almeno l’Inizio” chiede e vuol comprendere, come una volta. Un pubblico per cui le Parche sono tre e non due, manchevole il taglio, corto e netto. Un pubblico che comunque si arrende a questa nuova rotta battistiana e chiede di essere reso partecipe dei misteri/canzoni misteriose/misteriche, chiede l’accesso. È un pubblico del futuro, quasi, che chiede di essere “iniziato”-almeno l’inizio- che vuole comprendere, la famosa ragazza che, come scrive Alexander Ciarla fa girare il piatto e vuole essere resa partecipe della vita dell’autore, e “se non tutto”, se non tutto, “almeno l’inizio” vuole comprendere, almeno vuole, come in A Portata di Mano, pezzo introduttivo de “L’Apparenza”, si chiede “se cominciassimo/se entrassimo nel vivo”. Vuole iniziare, vuole capire, almeno un po’. Ecco, dunque, entriamo nel vivo.
<<3. A queste parole di Ammonio, seguirono quelle di Lampria, mio fratello: “Eppure, la spiegazione
che abbiamo udita è qualcosa di semplice e di un’estrema brevità. Si dice, infatti, che quei famosi
sapienti – da taluni chiamati sofisti – erano, precisamente, cinque: cioè Chilone, Talete, Solone,
Biante, Pittaco; dopo che Cleobulo, tiranno dei Lindii, e poi Periandro di Corinto, non già perché
avesser virtù e saggezza, ma sol perché, avendo potenza, amici, e favor popolare, forzarono l’opinione
pubblica, usurparono il titolo di sapienti e lanciarono e diffusero, in Grecia, pur essi, qualche
sentenza e alcune massime simili a quelle pronunziate dai cinque, questi ne furono indignati. Tuttavia,
non vollero confutare la loro pretesa né aprire una contesa clamorosa per la gloria né contrastare
con quei potenti tiranni. Essi si limitarono, invece, a riunirsi qui, da soli a soli e, dopo uno scambio
di vedute, consacrarono tra le lettere quella che è la quinta nella successione e significa appunto
il numero ‘cinque’. Così essi invocavano per sé la testimonianza del dio, che cioè erano solamente
cinque; e rifiutavano e rigettavano, come indegni del loro consorzio, il settimo e il sesto.
“Tutto questo non è detto a caso; è dato persuadersene, ascoltando i ministri del tempio, i quali
chiamano la E d’oro quella di Livia, moglie di Augusta, la E di bronzo quella degli Ateniesi, ma la
prima e più antica – ch’è fatta di legno – tuttora essi la chiamano la E dei sapienti, appunto perché fu
un dono votivo non di uno solo, ma comune di tutti loro”>>.
Ecco la storia dei cinque e degli altri due che son tiranni, ecco un graziosetto aneddoto “noi dietro una colonna ridevamo per l’aneddoto”. E sì perché tale aneddoto dei sofisti è di per sé sofistico in quanto aneddotico, favoletta, racconto. Cosa a ben vedere non da poco. Racconto dal quale dipanare una conversazione, dal quale entrare effettivamente nel vivo. Allo stesso modo come si parte da una cosa reale et apparente e se ne passa ad una trascendente. Ove per trascendenza, qui, intendo il tessere il discorso effettivo e che più interessa. Dal raccontino, dalla heideggeriana chiacchiera da comare si assurge al discorso filosofico sulla E, spinto da autentica curiosità. Discorso trascendente di cui magari ridere, poi, per la semplicità ed evidenza, ed a sua volta, dunque, nel riso riportarlo tra le brame del vero et reale, vero immutabile, reale perché tastabile “umana/pelle umana/ e la realtà finiva/ e il vero cominciava/ certo imbruniva/ ma imbruniva fuori/ all’interno i colori/ erano luci spente/ umiliate dalla/tua bocca ponente”. Su ciò torneremo. Proseguiamo.
<<4. Apparve, allora, un quieto sorriso sul volto di Ammonio, il quale sospettò che Lampria avesse
esposto una sua opinione personale, e avesse inventato invece, di sana pianta, questa storia e, per
non assumerne la responsabilità, l’addossasse ad altri, per sentito dire. Un altro dei presenti la paragonò
a una certa storia di cui recentemente andava cianciando uno straniero Caldeo: che vi sono,
cioè, sette lettere nell’alfabeto le quali danno un suono proprio (le vocali); così come vi sono sette
astri nel cielo i quali hanno un loro movimento, compiuto in se stesso e indipendente dagli altri (i
pianeti); che la vocale E occupa il secondo posto a cominciare dal principio (dall’alpha) e che, parimente,
il sole è il secondo dei pianeti a cominciare dalla luna: ora, che il sole s’identifichi con Apollo
è credenza universale, per così dire, di tutti i Greci. “Ma questa è roba da ciarlatani che vendono
la buona sorte ai crocicchi” concluse.
Lampria non si accorse, sembra, che le persone del tempio protestavano contro la sua spiegazione.
Ciò che egli aveva detto era ignoto a tutti i Delfi, i quali, invece, proponevano sempre l’opinione
comune e ormai ufficiale attraverso le guide, ritenendo cioè che non l’aspetto né il suono, ma solo il
nome della lettera serbava il suo significato simbolico>>.
Eccoci. Nell’aneddoto che per aspera ad astra conduce, rimanendo del volgo. Ecco La Voce del Viso, il pezzo conclusivo dell’album in oggetto. “Tutto sta raccolto sopra il tuo bel volto/ lingua/che sei straniera/ e non so se vuoi che io ti distingua dalla mia/o se mia lingua ti finga”, e sì si passa dal raccontino del volgo, ridendo, alla questione delle vocali e delle pronunce, alla E seconda vocale, delle sette, che segue l’alpha che è la luna, principio femmineo, il sole, mascolino e splendente. “Quella fessura è un dissuadendo/le svariate forme/labili d’espressione”, e sempre “per tentativi ed approssimazioni”. Ma come suona tale ardita metafora ancora figlia del popolo! E come non si capisce se sia estranea al volto, divino, al volto di dio, estranea e straniera, eppure familiare, della gente del posto. Un cianciare ardito! Come quello massonico, che cela lapalissianità velandole di segreto, pulcinellesco. Gli accostamenti segreti che tanto sono risibili in quanto popolani. “Ridendo dell’aneddoto”. Un aneddoto sofistico, un paragone sofisticato, bello, grezzo, sofistico. Ciarliero per troppo dire. Violante il “Nulla di Troppo”. Suono vocalico. Ma “Sul viso la sintassi/ non ha imperio/ non ha nessun comando”. È l’ultima voce di Lucio, che prende in giro tale teoria vocalica, sonante e del suono.
<<5. “Si tratta, certo – come credono i Delfi e come, prendendo per loro la parola, sostenne il sacerdote
Nicandro, – della figura e della forma dell’incontro col dio; ed ottiene il posto principale nelle
domande dei consultanti, ogni volta ch’essi domandano se (εἰ) vinceranno, se si sposeranno, se è il
momento buono per navigare, se conviene far l’agricoltore, se è meglio partire. Quanto ai dialettici,
i quali credono che dalla particella ‘se’ con la congiunta protasi non sorga un bel nulla, il dio, che è
la saggezza in persona, li manda a far benedire, poiché egli, invece, considera come realtà tutte le
domande subordinate a questa particella e le ammette al responso. Ancora: per quanto interrogare
Apollo in qualità di profeta si addica a noi come qualcosa di appropriato, pure il pregarlo nella sua
essenza divina è cosa quanto mai comune e diffusa: ond’è che la particella ‘se’ serba il valore sia di
congiunzione interrogativa, sia di congiunzione ottativa: ‘oh se mi fosse dato’ sospira ognuno che
prega. E Archiloco:
“oh, se a me fosse dato toccarla,
la mano di Neobule!”
Quanto a ‘eithe’ si sa che la seconda sillaba è un suffisso superfluo, come il ‘then’, per esempio,
che è in Sofrone:
“anche vogliosa di maternità”.
Aggiungi l’omerico:
“Ecco ch’io spezzerò pure la tua forza”.
Insomma, l’uso ottativo dell’ ‘ei’ è così bastevolmente attestato”.>>
Ei, c’è qualcosa che cade. Se questionante e se ottativo. “Non un riso/un pianto/non una smorfia/densa d’oracoli/ ma dà senso quella voce a un solo volto/ che è sotto il mio”. C’è praticamente tutto in pochi versi. C’è una visione orante conciliata a quella profetica. Come interrogare per responsi e come lo sperare. E miscelando questionante ad ottativo il risultato non cambia, chiedere se si vincerà è sperare ah se potessi vincere. Come a piegare l’arbitrio fissandolo e marmorizzandolo, rendendolo servo e non libero. “Quella voce dà senso a un solo volto/che è sotto il mio”. Volto come voluntas, una sola volontà che è la mia per raggiungere qualcosa che c’è sopra. Attenzione “Ma dà senso/ quella voce/ a un solo volto/ che è sotto il mio/ rotola si ferma e freme/ alle mie mani preme”. Ovverossia al desiderare interrogare per responsi c’è un altro interrogare, l’unico che dà senso, il “rotola si ferma e freme alle mie mani preme”, ossia la prospettiva orante. Maraviglia! E mistero. Il libero arbitrio, la volontà umana, la forza della preghiera, la volontà umana che sotto la divinità prega. Vero responso, vero sondare il futuro che è in noi, vero contemplare al posto del desiderare sondare il proprio futuro attraverso risposte facili. E dal se questionante et ottativo si passa al se orante et ottativo. Fede, speranza, carità.
<<6. Tale, la spiegazione di Nicandro. Ed ecco che Teone, quel mio amico che tu pure conosci,
domandò ad Ammonio se fosse dato alla dialettica, che si era sentita così oltraggiata, di rispondere
liberamente. Avendolo Ammonio esortato a difenderla: “Insomma – egli insorse – che il dio sia dialettico
al massimo grado non c’è oracolo, quasi, che non lo provi! Certo è che è proprio una prerogativa
di lui e porre e sciogliere gli enimmi. E ancora: a proposito dell’oracolo che prescriveva di raddoppiare
il volume dell’altare di Delo – problema geometrico di suprema difficoltà – il dio, secondo
la interpretazione di Platone, non tanto si preoccupava dell’esecuzione dell’ordine quanto piuttosto
di imporre ai Greci anche lo studio della geometria: parimente, spargendo oracoli ambigui, il dio
mira a innalzare e a consolidare l’arte dialettica, necessaria com’è a quanti vogliono comprendere il
dio con esattezza. Evidentemente, nella dialettica, questa nostra particella congiuntiva ipotetica ha
una suprema funzione, in quanto configura un valore logico per eccellenza. Infatti, come non avrebbe
questo valore la detta congiunzione, dal momento che, mentre agli animali è data solo la conoscenza
della semplice esistenza delle cose, all’uomo invece sono stati dati, da natura, la facoltà
teoretica del nesso logico e il giudizio? Mi spiego: che ‘sia giorno’, che ‘la luce brilli’, l’avvertono
senz’altro e lupi e cani e uccelli; ma ‘se è giorno c’è luce’, nessun altro lo comprende eccetto l’uomo,
il quale, solo, possiede l’intelligenza che esprime i rapporti dell’antecedente e del conseguente, e i
mutui legami tra cosa e cosa e le figure logiche e le distinzioni concettuali; da tutto questo le dimostrazioni
traggono il più saldo punto di partenza.
“Orbene, poiché la filosofia si volge alla ricerca delle verità, e la luce del vero è la dimostrazione,
e il principio della dimostrazione è il legame logico, giustamente la particella capace di esprimere
e produrre questo legame fu consacrata dai saggi al dio che ama il vero insuperabilmente.
“Di più, il dio è indovino, e l’arte divinatoria si volge all’avvenire, partendo dal presente o dal
passato. Nulla, infatti, sorge senza causa ed è predetto senza ragione. Anzi, poiché tutto ciò che accade
ora segue ciò che è già accaduto; e le cose che accadranno seguono ciò che accade ora; e tutto
è collegato secondo un trapasso che porta le cose da un principio a un termine: colui che sa collegare
le cause tra loro e intrecciarle, naturalmente, in una identità, costui sa e presagisce
le cose che sono, che saranno, che furono.
“E Omero pose prima il presente, poi il futuro, e infine il passato, appunto perché il ragionamento
muove dal presente per virtù di nesso logico di questo tipo: ‘se c’è questo, quest’altro è accaduto
prima’ e ancora: ‘se c’è questo, quest’altro accadrà’. In realtà, l’arte della logica, com’è stato detto,
non è altro che conoscenza del nesso di consequenzialità, mentre la sensazione presenta alla ragione
la semplice aggiunta. Ond’è che io, anche se è inopportuno dirlo, non desisterò dal pensare che il
ragionamento è il tripode della verità. Esso, infatti, fissando prima il nesso del conseguente rispetto
all’antecedente e, poi, aggiungendo la constatazione dell’esistenza, porta al compimento della dimostrazione.
Così, se il Pizio, per via della musica, si diletta della voce dei cigni e delle toccate della
cetra, che c’è da sorprendersi se, per amore dell’arte dialettica, è affezionato a questa particella del
discorso e l’ama, dal momento che i filosofi ne fanno un uso sì largo e incessante?
“Heracles non aveva ancora sciolto Prometeo né sapeva nulla della conversazione filosofica, che
aveva maestri in Chirone e in Atlante, ma, essendo giovane, da vero Beota, faceva getto della dialettica
e derideva il ragionamento ‘se c’è un primo, segue un secondo’; perciò svelse violentemente il
tripode e combatté con il dio per la conquista dell’arte mantica: soltanto con l’andar del tempo, anch’egli,
sembra, divenne ugualmente esperto nell’arte mantica e nella dialettica”>>.
“Un bel poligono al posto della stella/ e nel quadrato il tondo/andando bene/nel coraggio di Achille le rotelle/per fare l’orlo alle pastarelle”. Ecco la geometria in Tubinga, terzo pezzo dell’album in oggetto, la quadratura del cerchio, “nel quadrato il tondo/andando bene”. La geometria e il problema del tempio di Dedalo. La conseguenzialità della dialettica. Si parte dal presente per andare al passato e giungere al futuro. La logica del ragionamento sovverte e contesta palesemente la logica del reale, il nesso di causalità. Non c’è prima il passato poi il presente e poi il futuro, ma è il presente che genera il passato giungendo al futuro, quadrando il cerchio. Orbene il quadrato è l’essenza della linearità e della caducità, della percezione profana del reale, profana e popolare del nesso di causalità, della logica galileiana e newtoniana del reale. Il cerchio è la perfezione, ove si carpisce che il tempo non esiste, caduca essenza mondana, vile percezione baalica et kronica. Quadrare il cerchio significa capire l’essenza di Dio. E il ragionamento galileiano non vi riesce, non vi riesce la logica e la ragione se scarne. Ma paradossalmente il pensiero umano nella dialettica e nella argomentazione agisce secondo le regole del cerchio e pur tuttavia parla secondo le regole del quadrato. Il reale et vero quadratura del cerchio, il reale quadrato, il vero cerchio. Somma aporia e mistero dell’umano pensiero et ragionamento. La conseguenzialità. “Al posto di cose/ ci sono le cose/ poniamo le cose/ esaurite le stesse/ e dopo le stesse/ mettiamo le cose/ se le medesime vanno esaurendo”
<<7. Allorché Teone cessò di parlare, fu Eustrofo l’Ateniese, credo, che si rivolse a me con le seguenti
parole: “Non vedi con quale ardore Teone si batte per la dialettica, vestito quasi quasi di pelle
leonina ? In questa situazione, noi che riponiamo nel numero le cose tutte, in blocco, e nature e princìpi di cose divine e umane a un tempo; noi che pensiamo il numero, soprattutto, quale antecedente
ideale e fermo di quanto vi è di bello e nobile al mondo; noi non possiamo, dignitosamente,
tacere! È giusto, anzi, che noi facciamo risalire al dio i primordi della nostra cara scienza matematica.
Noi crediamo che la E si distingua, in sé e per sé, dalle altre lettere, non per il significato, non
per la forma, non per la pronunzia, ma che è onorata a preferenza di tutte, in quanto è segno di qualcosa
di grande e di sovrano, in rapporto all’universo, cioè del numero ‘cinque’ dal quale i saggi hanno
tratto il verbo ‘pempazein’ ‘contare per cinque’ come sinonimo puro e semplice di ‘contare’”.
Questo ci disse Eustrofo con grande serietà, o perché in quel momento io mi ero dedicato con
passione alle matematiche o, forse, perché, appartenendo all’Accademia, voleva in ogni circostanza
rispettare la massima ‘Nulla di troppo’>>.
Diciamo semplicemente, data la brevità del passo e dato che analizzeremo il seguito della quaestio matematica dopo, che, non a caso, Hegel, ultimo dei bianchi ed ultimo edito dal Nostro, è il quinto di Lucio scritto con la collaborazione di Lino.
<<8. Splendidamente, – e lo dissi – Eustrofo risolveva la questione, con la tesi del numero. “In verità
– precisai – ogni numero si classifica in pari ed impari: l’unità è partecipe, in potenza, d’entrambi
(e perciò, aggiunta che sia, rende pari il numero impari, ed impari il numero pari); il due, si dice, è il
primo della serie dei pari e il tre è il primo della serie degli impari; il cinque, poi, nasce dall’addizione
del due e del tre. A buon diritto, quindi, il cinque ottiene onore, essendo il primo numero costituito
dal primo pari più il primo impari.
“Il cinque è altresì chiamato ‘numero nuziale’ in virtù dell’analogia del numero pari con il sesso
femminile e del numero dispari con il sesso maschile. Infatti, nelle divisioni dei numeri in parti uguali,
il numero pari, ripartendosi perfettamente, lascia in certo senso un principio recettivo in se
stesso, e uno spazio vuoto; invece, nel numero dispari che subisca la stessa operazione v’è sempre
un resto di mezzo, un residuo parziale della divisione stessa. Perciò il numero impari è più fecondo
dell’altro; e, nella mescolanza, domina sempre lui e non è mai dominato; poiché in nessun caso dalla
somma dei due nasce un numero pari, ma, in ogni caso, un dispari. Inoltre, la differenza tra pari e
impari si rivela ancora di più quando l’uno o l’altro si somma e si compone con se stesso: poiché
nessun numero pari, convenendo con un pari, può produrre un dispari, e così evadere dalla sua propria
natura, poiché è, per sua propria debolezza, infecondo e incompiuto; invece i numeri dispari,
mescolati con dispari, producono molti numeri pari, poiché spingono la loro fecondità in ogni direzione.
Ora però non è il momento buono di passare in rassegna tutte le altre proprietà e discriminazioni
dei numeri. Limitiamoci solo a dire che il cinque, sorto com’è dall’unione del primo numero
maschio e del primo numero femmina è stato chiamato ‘nuziale’ dai Pitagorici.
“C’è anche da ricordare che il cinque è stato chiamato altresì ‘natura’ per il fatto che, moltiplicato
per se stesso, termina sempre con se stesso. In realtà, come la natura si riprende il frumento nel suo
aspetto di seme e lo chiude nel suo seno e lo assoggetta frattanto a un’infinità di trapassi, in figure e
forme attraverso le quali conduce l’opera al suo termine, ma, a coronamento di tutto, fa spuntar fuori
di nuovo il frumento e restituisce al termine di tanto travaglio il chicco primitivo; così, mentre i rimanenti
numeri, allorché si moltiplicano con se stessi, vanno a finire in altre cifre, il cinque e il sei
soltanto, quante volte siano moltiplicati per se stessi, altrettante volte si riproducono e si serbano.
Infatti sei moltiplicato sei dà trentasei; e cinque moltiplicato cinque dà venticinque.
“Osserviamo ancora, quanto al sei, che solo quando esso è elevato al quadrato, produce se stesso;
invece per il cinque, oltre al fatto che si comporta allo stesso modo per moltiplicazione con se
stesso, ha una sua particolarità di addizione: di produrre cioè alternativamente o una decina o un
numero terminante per cinque. E questo si verifica sino all’infinito. È un numero che imita la causa
prima che ordina il cosmo.
“In realtà, come tale causa, traendo per via di mutazioni da se stessa il mondo, partendo alla sua
volta, dal mondo, approda di nuovo a se stessa; e come, al dire di Eraclito, il fuoco si trasforma in tutte le cose e queste ritornano in fuoco, simili a lingotti d’oro che si trasformano in monete e a monete che si trasformano in oro, così pure l’incontro del cinque con se stesso, non produce nulla naturalmente che sia imperfetto o estraneo; ma serba dei mutamenti determinati; e genera così o se stesso o la decina, vale a dire o qualcosa della propria natura o un numero perfetto.>>
“Misurarti la vita/mi pare proprio che sia/ tutto quello che posso” è il pezzo La Bellezza Riunita, attacchiamo non geometricamente, misurare la vita, le linee di essa, è tutto ciò che si può fare. Eh sibillina spiegazione, ma vediamo “Era una lotta/contro la Natura/ che è dimessa al vento/succube alla furia” e sì, il reale finito e soggetto alle maglie del tempo, la mondanità quadrolineare di cui abbiamo paralto. Ma lei, la donna, pari e completa ma mancante di qualcosa “che se ci fosse è come non avesse nome” a differenza del dispari che è completo perché chiuso, ma essendo chiu8so, sommo mistero, non è completamente pieno di sé. Ha termine ma manchevole, come possiamo benissimo illustrare mettendo i puntini, pitagorici, credo ci siamo intesi, per chi sa di numerazione pitagorica. Quel puntino mascolino centrale che completa le coppie allineate e pari, quel mascolino dispari è completo, ma manchevole perché non si chiude. La donna è completa in sé ma manchevole di imperfezione concludente e l’uno dunque bisognevole dell’altro. Nel pitagorismo c’è un interessante analogia con i cromosomi XX femminile, XY maschile, che dispari e dispari produce pari e pari e pari solo pari, e così pari e dispari solo produce dispari. Ma torniamo a La Bellezza Riunita, la Natura, ovverossia la realtà mondana e quadrilineare è soggetta alla furia del vento e dimessa al vento stesso, ovverossia il fuoco che arde della molteplicità che tutto muta costantemente. Tra breve leggerete nel testo di Plutarco la questione degli elementi. Molteplicità, mutazione, mutevolezza e la donna, la bellezza “Ma tu non soccombevi/eri impennata/sulla tua forma finita/e creata”. Dunque la donna pari impennata su sé stessa, moltiplicata per sé si sottrae alla furia ed alla caducità, ma resta impennata appunto su sé stessa. E dunque finita. Ed ecco il cinque, la E primo numero nuziale, combinazione di mascolino e femmineo. Dialogica di dispari che cerca pari come l’Amore cerca la Bellezza. Dialogica dialettica della perfezione compiuta ed in divenire armonico e non finito e non molteplice nemmanco, tuttavia. Infatti “E la tua finitezza superavi/sapendo di te stessa/non solo di convessa di concava/ di cava”, la piena consapevolezza della donna, Bellezza, la sottrae alla mutevolezza ed alla narcisistica marmorizzazione impennante. L’Amore e la Bellezza assieme! Non di convessa, di concava, di cava. Sappiamo di che parliamo, maraviglia! Convesso in figura, concavo fuori di essa, cava la donna contenente, cava ovverossia è la figura. La quadratura del cerchio. La perfezione della E, Amore Bellezza Armonia, contenente, eccedente, contenuto e contenitore. Armonia, dunque, convesso, concavo, cavo!
<<9. “Uno potrebbe domandare: ‘Che c’entra tutto questo con Apollo?’. Ma per me, tutto questo
c’entra benissimo non solo con Apollo, ma anche con Dioniso, il quale partecipa non meno di Apollo
alle cose delfiche. Basti udire i teologi che, in versi o in prosa, inneggiano e insegnano che il dio
è, sì, per natura incorruttibile ed eterno, eppure è soggetto, in forza di una fatalità e di una legge ineluttabile,
a trasformare se stesso; a volte arde, in fuoco, la sua essenza, e assimila tra loro tutte le cose;
altre volte entra nel divenire trasformandosi in forme d’ogni sorta, in condizioni e potenze diverse
– ed è l’attuale situazione – ed allora si chiama ‘mondo’, per usare il termine notissimo. Ma i saggi,
per nascondere alla folla il loro pensiero, dànno al fenomeno della trasformazione in fuoco il nome
di Apollo per la sua unicità, e il nome di Febo per la purezza e incorruttibilità; ma quando il mutamento
del dio trapassa in aria e acqua e terra e stelle e nascita di piante e di animali e si esprime in
ordinamento cosmico, i saggi parlano per enimmi di questo accadimento e cambiamento come di un
certo spasimo e smembramento; e fanno i nomi di Dioniso, di Zagreo, di Nyctelio e Isodete, per esprimere
questo divenire; e parlano di morti e sparizioni, e poi di resurrezioni e rinascite: tutti veli e
favole, che celano le suddette trasformazioni. Cantano, anzi, a Dioniso, i ditirambi, canti colmi di
passione e frenetici di contorcimenti, che esprimono il vagabondaggio e lo sviamento. Ond’è che
Eschilo dice:
“A Dioniso s’addice il ditirambo
che l’accompagni ognora tripudiante.
“Ad Apollo, invece, è dedicato il peana, musica ordinata e sapiente.
Mentre Apollo è rappresentato, in pitture e sculture, immune da vecchiezza ed eternamente giovane,
Dioniso, invece, si presenta in molteplici aspetti e forme.
Insomma, Apollo è considerato uguale, ordinato, attento, puro; Dioniso, per contro, disuguale e
irregolare con una punta di scherzo, d’insolenza, di serietà e di follia, è invocato
Evoé, Dioniso fiorente di rito orgiastico, che eccita le donne.
“Così è colto l’elemento caratteristico e proprio dell’una e dell’altra trasformazione dell’unico dio.
“La durata dei periodi di tali trasformazioni non è uguale: ma la durata di quel che chiamano ‘abbondanza’
è maggiore; la durata della ‘sterilità’ è minore. Perciò qui si serba tale rapporto per cui
cantano, ai sacrifici, il peana per la maggior parte dell’anno; ma, al cominciare dell’inverno, svegliano
il ditirambo e fanno tacere il peana per tre mesi e invocano Dioniso in luogo di Apollo. Ora, ciò
che è tre in rapporto a nove, quello è, si crede, il tempo del mondo organizzato in rapporto alla conflagrazione.>>
Ecco un interessante contrapposizione, la mutevolezza e la perfezione come unica essenza del dio, assieme alla purezza febica. Bene. Dioniso è la resurrezione ma è anche la in-carnazione ed è anche la perdizione ed è anche l’eccesso ed è anche l’eccitazione, ed è anche lo smembramento e la moltitudine del reale et apparente. Il dio uomo et ebramente umano, troppo umano, troppo nell’eccesso e troppo nella bellezza apparente et mondana. Ma essendo moltitudine e molteplicità è anche dolore e fuoco ardente, dolore passionevole ma che resuscita liberandosi dal dolore ed accedendo alla perfezione apollinea. Il tre dionisiaco è mondano, il cinque perfetto, l’unione è nove, il mondo e la conflagrazione. Ed il sei è numero d’uomo, ripetuto tre volte ed incompleto, ed è anthropos. La Moda nel Respiro “”E dici è molto comoda/se esclude/sempre di presentarsi in figure/in tagli forme e positure/immediatamente tutte nude/così che quando passa questo eccesso/ci pare non avere perso nulla/ci pare non avere perso il tempo/che la nudezza sbriciola e maciulla”. Ecco, il mito di Dioniso e l’umanità nuda e cruda del peccare figlio della caducità mondana, della moda, che è mondana, della nudità l’eccesso dionisiaco, quando passa, finisce si concretizza e trascende perdendo inconsistenza e finitezza umana e non si perde il tempo che la nudezza sbriciola e maciulla, fuoco mutevole ed ardente molteplice et moltitudinoso. E i riti orgiastici, i misteri carnali che tanta ala danno ad alcune iniziazioni massoneggianti o massoniche sic et simplicer divengo spiegabili “Dici la via di mezzo/ecco la via/quella percorsa dai ragazzi alteri/che vanno a divertirsi nei misteri/spiegabili perché non intralciati/dai cupi sedimenti dei passati”. Misteri come segreti di pulcinella, spiegabili, comprensibili perché figli della finitezza e perché transizione e umanità, non intralciata dalla mondanità, dal baalico tempo, divengono riti “frenetici in un ballo/senza scopo”, fine a sé stesso. E come superarlo, tramutandolo in spirito, pneuma, soffio vitale. Ridendo di tale orgiastica ritualità “noi nella stanza accanto/e la moda cambiò nel respiro/il nostro che cambiava ogni tanto”, e la finitezza mutevole diviene eternità, spiritualità. Noi nella stana accanto, come a dire nella strofa accanto, distanziati, distanziati da tali segreti misteriosi ma che di misterico null’hanno se non la loro ritualità fine a sé stessa.
«10. Veramente, in queste considerazioni, io mi sono dilungato più del dovuto; ma è chiaro che
Delfì scorge un’affinità tra il dio e il numero ‘cinque’; il quale ora riproduce se stesso, in aspetto di
fuoco e, di nuovo, produce, da sé, il dieci, in forma di mondo. Passando, poi, a ciò che è supremamente
caro al dio, vale a dire alla musica, non crediamo forse che questa partecipi del ‘cinque’ ? Infatti,
lo studio dell’armonia, nella sua totalità, per così dire, verte su gli accordi. Ora, che questi siano
cinque e non più lo prova il ragionamento anche a chi desideri rintracciar tali cose, in modo alogico,
solo sul fondamento della pratica sensibile, con le corde e i fori del flauto. Poiché tutti gli accordi
trovano la loro origine nei rapporti numerici: c’è il rapporto sul tipo ‘uno più un terzo’, che corrisponde
all’accordo di quarta, c’è il rapporto sul tipo ‘uno più un mezzo’, che corrisponde all’accordo
di quinta; c’è il rapporto sul tipo ‘due unità’ che corrisponde all’accordo perfetto (l’ottava); c’è il
rapporto sul tipo ‘tre unità’ che corrisponde all’accordo di ottava più cinque semitoni; e c’è, infine, il
rapporto quattro unità, che corrisponde all’accordo della doppia ottava. Se poi gli studiosi di armonia
introducono l’accordo detto di ottava più quattro, che è ipermetra, non è giusto accoglierlo, poiché,
in tal caso, si soddisfa il piacere irrazionale dell’orecchio, contro la norma razionale, e lo si innalza
a legge. Così, per tacere delle cinque posizioni del tetracordo e dei cinque primi toni o modi o
frequenza acustica che dir si voglia, i quali trapassano, per virtù di tensione o di rilasciamento delle
corde, da un più a un meno con le polarità opposte del grave e dell’acuto, non è forse vero che, mentre
gli intervalli di suono sono molti, per non dire infiniti, solo cinque, però, sono melodici e musicali,
vale a dire l’intervallo di diesis, il mezzo tono, il tono, il triplo mezzo tono, e il doppio tono; e
non c’è, nell’ambito dei suoni, nessun altro grado, né minore né maggiore, che abbia valore musicale
e stia al confine tra il grave e l’acuto?».
Eh. Qui ci addentriamo nel campo compositivo, tema più caro a Lucio. “La gloria all’ottava”, accordo perfetto, “Dirigi una quinta qualsiasi”, la quinta è uno più un mezzo, vale a dire la sezione aurea, la conchiglia “E non te l’aspettavi/ecco cose così/raggianti e tristi cose di burro/in forma di conchiglia”, cose mondane esposte in forma metrica perfetta. Il raggiungimento dell’armonia, la voce di Lucio che è come strumento, e ne La Voce del Viso ciò è emblematico. Non mi dilungo oltre, ci sarebbe da analizzare le modulazioni etc., mi riservo di farlo in altra sede. Ho dovuto, per essere esaustivo, rifarmi anche ai pezzi di CSAR, ricordandoci che gli album sono comunque collegati, i Cinque Bianchi, e non solo, ma soprattutto questi, nella nostra analisi.
<<11. “Ma, anche a voler trascurare tante altre considerazioni di questo tenore, – continuai – io posso
sempre rifarmi all’autorità di Platone: questi afferma, sì, l’unità del mondo; ma se oltre a questo
ve ne siano altri e questo non sia il solo, questi mondi devono essere cinque, per Platone, e non più
di cinque. D’altronde, anche se questo nostro mondo sia unico nel suo genere, come pensa anche Aristotele, anche quest’unico è costituito in certo senso, e formato di cinque mondi: dei quali l’uno è
quello della terra, l’altro, dell’acqua, il terzo e il quarto, rispettivamente, dell’aria e del fuoco. Quinto
è il cielo. Chi lo chiama ‘luce’, chi ‘etere’, e chi ‘quinta essenza’; questa sola, tra i corpi, è dotata di
un movimento circolare, per natura non per costrizione né per casualità. Ond’è che Platone, avendo
osservato le cinque figure più belle e perfette tra quante ve ne siano in natura, cioè la piramide, il
cubo, l’ottaedro, l’icosaedro e il dodecaedro, fece rientrare in ciascuna di tali figure, in modo appropriato,
un singolo mondo.>>
I cinque mondi paralleli, e i cinque mondi di questo mondo, vale a dire i cinque elementi “Le mani, la terra, la carne e il terreno” e nella dialettica mutevole “Sembrerebbe il sussurro dell’acqua”. Hegel e Tubinga. Platone ed Aristotele. Su l’aria La Moda del Respiro, sul fuoco e la mutevolezza, già si è detto, ora la quint’essenza, il cielo, la luce, ovvero l’etere. La luce che si spoglia del tempo ed è etereisticamente perfetta. Etera. Sublime. Nella dimensione luminosa si perde la mutevolezza mondana, si va oltre essa e la si trascende, è questo il segno, etimologicamente il carattere, la E, che sottrae alla mutevolezza “E al posto del carattere/ e al posto del carattere mia cara/poniamo una tempesta/un caso esterno/un alto mare che i giorni i mesi e gli anni/ inseguono e non possono afferrare”. Un alto mare è come dire cielo-come gli astri influenzano le maree sineddoticamente è per ciò l’alto mare il cielo- e nel cielo il tempo non ha imperio, essendo mondano, la caducità malevole e maligna può inseguire il nostro segno, che è impresso in noi, il carattere, che se si sostituisce e trascende, diventa un alto mare, un cielo e coì, congiunto ad esso, è sottratto alla caducità.
<<12. “Non mancano altresì quelli che mettono in correlazione le facoltà dei sensi – che sono ugualmente
in numero di cinque – con quei primi elementi: essi vedono che il tatto è qualcosa di resistente
e perciò, per così dire, terrigno; il gusto accoglie le qualità dei sapori, in virtù dell’umidità;
l’aria percossa diviene suono e rumore nell’udito. Dei due restanti sensi, l’olfatto – cui venne in sorte
la percezione degli odori, poi, i quali sono esalazioni emanate dal calore – è qualcosa di igneo; la vista,
infine, risplendendo per la sua affinità con l’aria e la luce, risulta una combinazione di entrambi,
ed è soggetta alle medesime influenze poiché ne ha la stessa compagine. I viventi non hanno altri
sensi, fuori di questi cinque; e il mondo non ha altri elementi semplici e puri, oltre le cinque essenze:
e non vi san forse di prodigio tali ripartizioni e collegamenti tra l’una e l’altra forma del cinque?”.>>
Interessante correlazione tra i cinque sensi ed i cinque elementi, il tatto e la terra “le mani, la terra”, il gusto “L’umido della parete nella mano/s’asciuga sempre più/parete che d’acciughe sale su” l’umidità, Fatti un Pianto, vero e proprio ricettacolo rosa, o anche Per Altri Motivi “A come sono triste/mi mangerei oltre il pasto/le liste dei vini” la liquidità lacrimosa et liquorosa. L’aria, la Moda del Respiro e La Voce del Viso, pezzi uno dello spirito, l’altro delle vocalità, del suono, “Le svariate forme/labili d’espressioni”, labili come se fosse labiali, allo stesso modo che in Per Nome, in quei “Sequenze di palmi” è come a dire sequele di palmi. Ed Almeno l’Inizio che parte dall’udito e ci spiana la strada all’olfatto “Alla fine ti fu chiaro perché quel gran parlare/ della tua bella conchiglia auricolare/e quel solleticare/eccoli i padiglioni/i disimpegni/la chiocciola/i vestiboli/ecco la stanza”. Bene, tanti riferimenti all’udito ed all’anatomia, evidenti, ma poi si spalanca la porta all’olfatto, ecco la stanza, legandovi ad esso con un altro pezzo, Stanze Come Questa. Vediamo. L’olfatto e il calore, l’odore della carne “Il Sistema della Carne a Fuoco” apparirà nel video Hegel che nel prossimo paragrafo analizzeremo. Correlazione tra l’olfatto, il senso primitivo, quello della rimembranza, anatomicamente parlando, è collegato al calore, a ciò che arde, all’energia. Ma qui occorrerebbe una analisi più puntuale ed interessante, che riservo, per ora. alla vostra intuizione e che mi riservo di trattare più compiutamente in altra sede -Quinta Verde e Calore-. Diciamo però qualcosina, Stanze come Questa, dunque, “Il posto è qui/è qui quel lavorio/dell’erba simile al pensiero/che contiene nel vello/quell’orma del tuo corpo/ed uno stelo sconvolto/dal tuo gomito che avrebbe/dimenticato d’essere carnale/per non dimenticarlo in generale”. Si percepisce quasi l’odore dell’erba fresca su cui, in un prato si poggia il gomito, carnale e focoso, caldo, e l’odore è rimembranza, dimenticando la caducità carnale ignea per non dimenticare tutto, la sua essenza, la sua Bellezza, dimenticare la carnalità per ricordare la perfezione del discorso completo. E la memoria olfattiva è selettiva, dimentica talora”Ahi c’è qualcosa che odora/una profumo non ha”, ovverossia ippocampo ed amigdala, ricordo odoroso nella amigdala perché pregno di sentimento, ricordo dimenticato perché privo di esso, non senza odore, ma senza profumo. La vista è luce ed aria, è il senso ultimo, quello più compiuto e perfetto, quello che ci permette di accedere a realtà eteree attraverso il sommo grado evolutivo. “Abbiamo visto le regge/dietro le inferriate/e le foreste nere/e le campate/non so di quanti ponti/ho visto la tua nuca ad Alessandria/e poi me lo racconti/se ci sei mai stata/se ti senti/ti sentivi osservata” la potenza della vista come sintesi dell’aria e della eterea luce. Questi versi sono la luce, irrompono e viaggiano come la luce, seguono le sue leggi, riflessive e rifrattive: vedere insieme vedere da soli ed essere visti. Anche qui Almeno L’Inizio pone un collegamento, “Alla fine ti trovasti in un bel posto/ e li capisti perché t’erano stati chiesti/gli occhi in prestito per il loro particolare colore/fai tu quale che ora è/l’iride delle finestre”. Bellissimo! Attacco altro a Stanze Come Questa. Tutti i luoghi, ciò che si vede come in un viaggio, sono un bel posto, dalle foreste nere ad Alessandria e la relativa nuca, lei vista di spalle, biblioteca e sfinge, sapienz ed enigma, foresta nera, natura, opra umana, regge, campate, viste da dietro le inferriate, come prigionieri dei sensi.
<<13. Mi fermai, a questo punto, ma fu una breve pausa. “O Eustrofo, – esclamai – guarda che cosa
mi capita! Quasi quasi dimenticavo di citare Omero, come se questi non fosse stato il primo a dividere
il mondo in cinque parti! Egli assegnò ai tre dèi le tre parti centrali, e le due restanti – le estreme,
l’Olimpo e la Terra, che segnano il limite, l’uno verso l’alto, l’altra verso il basso, – egli le lasciò
comuni e indivise.
“Ma è il tempo di ‘risalire all’argomento’, come dice Euripide. Coloro che han per sacro il numero
‘quattro’ insegnano, a ragione, che ogni corpo trasse nascimento in virtù di un rapporto con esso.
In realtà, per ottenere un solido qualsiasi, occorre prendere l’altezza e aggiungere a questa la larghezza
e la lunghezza; ora la lunghezza presuppone un punto, il quale rientra nell’ordine dell’unità;
la lunghezza senza larghezza è detta linea e corrisponde al ‘due’; il movimento della linea in larghezza
produce la superficie: eccoci al ‘tre’; aggiunta che sia a queste l’altezza, il processo approda
al solido, attraverso quattro elementi. Così, è chiaro a chicchessia che la tetrade spinge la natura fino
a questo punto, ma non oltre, cioè sino a che i corpi siano completati e presentino una massa
tangibile e ferma, ma poi li lascia privi di ciò che più importa. Mi spiego: l’inanimato è, per esprimerei
semplicemente, orfano, un figlio di nessuno e imperfetto e incapace di checchessia, quando
l’anima si rifiuta di avvalersene. Ma il movimento o la disposizione, che introduce l’anima nei corpi
e ne perfeziona così la natura, si attua nel trapasso al ‘cinque’. E così, il ‘cinque’ acquista un valore di
tanto più importante del ‘quattro’, di quanto il vivente si distingue per dignità dall’inanimato.
“Inoltre, il cinque, in forza della sua analogia e del suo valore, non consente che l’essere animato
proceda moltiplicandosi in infinite specie, ma presenta solo cinque tipiche classi, in tutto, di viventi.
Dapprima vi sono, s’intende, gli dèi; seguono, poi, i dèmoni e gli eroi; in seguito, in una gradazione
inferiore, gli uomini, che sono la quarta specie; l’ultima, ch’è la quinta, è l’irrazionale e il ferino.
“Ancora: se tu distingui, nella sua intima natura, l’anima stessa, trovi dapprima la facoltà vegetativa,
ch’è la parte più umile, poi, seconda, la facoltà sensitiva, poi la facoltà del bramare, ulteriormente
l’anima irascibile; giunta che sia alla facoltà raziocinativa e attingendo in questa la perfezione
della sua natura, essa si riposa sul ‘cinque’, come su di una vetta.>>
Eh, bellissimo! A dir poco. “Un bel poligono al posto della stella” ed ancora ”Nel coraggio di Achille le rotelle/per fare l’orlo alle pastarelle”, ecco le quattro dimensioni, quelle quadrolineari di cui parlammo, dunque caduche et mondane et finite, e la quinta quella circolare, che è il Sator Arepo Tenet Opera Rotas, che è la ruota, cioè il movimento, che è il circolo, non perfetto ma perfettissimo, vale a dire il tondo, non il cerchio, ma l’ellisse. E poi sulle cinque facoltà umane e sui cinque esseri esistenti c’è tutto il dialogo di Estetica, che sintetizza, come E l’intero discorso di Plutarco, ovvero di ammonio, e degli altri. In particolare “su aria, fiato e facoltà vitale,/su brio d’intelligenza,/sull’indole e sull’estro,/soffio, refolo, vento e venticello,/sull’essenza e sulla soluzione,/sul volatile e sulla proporzione,/sul naturale e sul denaturato” ed ancora “su verde, rosa e viola del pensiero,/su mente giudicante,/su lampo e riflessione,/e sul limpido e il cupo e il commovente,/su coscienza e su allucinazione”
<<14. A tali e tante proprietà di questo numero va aggiunta altresì la sua nobile formazione: non
quella, già esposta, originata dalla somma del due e del tre, ma quella originata dalla somma del
primo quadrato con l’unità primordiale. Infatti, l’unità è il principio di ogni numero; la tetrade è il
primo quadrato: da queste deriva il ‘cinque’, come dalla unione della forma e della materia attingenti
il loro termine. Anzi, se alcuni, a ragione, pongono anche l’unità come quadrato, in quanto elevata
alla seconda potenza risulta ugualmente se stessa, il ‘cinque’, allora, nasce altresì dalla somma dei
due primi quadrati, senza perdere, così, la superiorità della sua nobile origine.>>
Poco da dire che non si sia già detto. Il reale quadrolineare sommato all’unità primordiale, il numero uno. Quindi come a dire il reale sommato alla genesi, alla genealogica origo delle cose. Ma qui il discorrso regge poco e si basa, comunque, su realtà mondane. L’unità originaria è intesa come fattore primigenio e lko si somma al mondano verrebbe da dire, dunque “E la reale/e doppia fisionomia nostra/spariva via/come una coppia annoiata di/visitatori da una mostra/noi dietro le sue spalle/ridevamo per l’aneddoto2. A parte la non condivisione del principio, c’è il quattro reale, la loro doppia fisionomia più la metaforica coppia annoiata, sommata all’unità primigenia che secerne il racconto, aneddotico e quindi ancorato al reale. Fantastici versi!
<<15. “Quanto all’argomento supremo – continuai – temo che, una volta detto, esso violenti il nostro
Platone, per usare il termine che egli stesso usava: che Anassagora, cioè, ‘era stato violentato’ su
l’argomento della luna, allorché egli presentò, quasi tutta sua particolare, una teoria sulla sua luce,
ch’era invece antichissima. O non dice così nel Cratilo?”.
“Sì, certo – consentì Eustrofo -, ma non riesco a vedere in che cosa è simile la loro situazione”.
“Ma tu sai bene che cinque sono, nel Sofista, i principi categoriali additati da Platone, cioè l’ente,
l’identico, l’altro e – quarto e quinto dopo questi – il movimento e la stabilità. Ma, usando di un criterio
diverso di distinzione, nel Filebo, Platone afferma che uno è l’infinito, l’altro è il limite, e che il
divenire consiste tutto nella mescolanza di questi due principi. Alla causa che produce tale mescolanza
egli assegna il quarto posto tra i principî; e poi lascia a noi il congetturare la quinta categoria,
per cui il mescolato di bel nuovo presenta una distinzione e una separazione. Io argomento che questa
seconda divisione non sia altro che una figura della precedente, in quanto il divenire corrisponde
all’essere, l’infinito al movimento, il limite alla stabilità, il principio di unificazione all’identità, il
principio di separazione alla alterità. Ma, se queste corrispondenze non valgono, sempre però, sia in
questa seconda sia in quella prima divisione, egli stabilì cinque generi e distinzioni fondamentali
della realtà.
“Taluno, a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la E,
segno e simbolo del numero che esprime la realtà.
“Del resto, Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme: prima è
la moderazione; seconda, la proporzione; terza, l’intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni
vere su l’anima; quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il
dolore. A questo punto, egli si ferma con la citazione orfica:
“con la sesta età, fermate il bel canto”.>>
Diciamo semplicemente, oltre a ripetere che tale somma è mondana comunque, e quindi vale quanto detto subito prima, che interessante è qui il verso orfico “con la sesta età fermate il bel canto”, gli album sono cinque, più il sesto che è l’inedito famoso di Lucio, di cui si sussurra l’esistenza. Un album muto, perché inedito e non ascoltato, inedito-aneddoto. Reale et inesistente. Alla sesta fermate il bel canto. La voce del Viso termina proprio facendo preludere un aggancio al sesto album silente, finendo il canto “Sul viso la sintassi non ha imperio/non ha nessun comando”
<<16. “In aggiunta a quanto or ora vi ho detto – conclusi – ‘io accennerò un brevissimo canto per gli
iniziati’ al seguito di Nicandro.
“Nel sesto giorno del nuovo mese, allorché tu conduci la Pizia al Pritaneo, ha luogo tra voi il
primo dei sorteggi per i cinque nomi: per mutila intesa, la Pizia ne trae tre, e tu, due. Non è così?”.
E Nicandro: “Così è – consentì -, ma è vietato dirne la ragione ad estranei”.
“Ebbene, – risposi io sorridendo – fino a quando il dio non m’avrà concesso di sapere il vero, dopo
la mia consacrazione sacerdotale, ecco che s’aggiunge un altro elemento, a quanto ho detto, sul
numero cinque”.
Così, a quanto io ricordo, ebbero termine i discorsi di elogio su le proprietà aritmetiche e matematiche
della E.>>
Termina il discorso aritmetico, e lo ripetiamo, termina come quella vocalico e quello congiuntivo. Lo ripetiamo i ripetiamo dunque i versi conclusivi “Sul viso la sintassi/non ha imperio/non ha nessun comando”. A questo punto parla Ammonio, dando risposta definitiva. Dunque l’analisi sarà non paragrafo per paragrafo ma, data l’unitarietà del pensiero ed onde evitare dispersione, descriveremo ed interpreteremo alla fine tutti i paragrafi restanti, ovverossia quelli dal 17 al 21, dopo averli letti d’un fiato.
<<17. Ma Ammonio, che considerava, lui pure, non di poco conto il contributo della matematica alla
filosofia, si compiacque dei discorsi fatti e si limitò a dire: “Non conviene contrapporci con rigore
critico a quanto hanno detto questi giovani.
“Osserviamo solo che ciascuno dei numeri potrebbe presentare non poca materia di lode e di celebrazione
a chi ne abbia voglia. E che senso avrebbe parlare degli altri numeri? Basterebbe il numero
‘sette’ sacro ad Apollo, ad esaurire la giornata, prima di passare in rassegna, ragionando, tutte
quante le sue proprietà. Senza dire, poi, che dovremmo avere il coraggio di denunziare i saggi, i
quali, ‘in contrasto’ con l’opinione comune e con ‘la remota antichità’, deposero il ‘sette’ dal posto
d’onore, per consacrare al dio il ‘cinque’, come un valore che gli si addicesse di più! Ecco, non si
tratta, per me, né di un numero, né di un grado, né di una congiunzione, né di qualsiasi altra particella
incompiuta. Nulla di questo è indicato dalla lettera in questione! Si tratta, per contro, di un
modo, anzi del modo più compiuto, in sé e per sé, di rivolgersi al dio e di salutarlo: pronunziare
questa sillaba significa già installarsi nella intelligenza dell’essere divino. Mi spiego: il dio, quasi
per accogliere ciascuno di noi nell’atto di accostarci a questo luogo, ci rivolge quel suo ammonimento
‘Conosci te stesso’, che vale indubbiamente ben più del consueto ‘Salve’. E noi, in ricambio,
confessiamo al dio: ‘Tu sei – Ei’ e così pronunziamo l’appellativo preciso, veridico, e che solo si addice
a lui solo.
- “In verità, a noi uomini non compete, rigorosamente parlando, l’essere. Tutta mortale, invero,
è la natura, posta in mezzo com’è, tra il nascere e il morire; ella offre solo un fantasma e un’apparenza,
fievole e languida, di sé. Per quanto tu fissi la mente a volerla cogliere, gli è come se stringessi
con la mano dell’acqua. Più la costringi e tenti di raccoglierla insieme, e più le stesse dita, che
la serrano tutt’intorno, la fan scorrere e perdere. Parimente, la ragione insegua pure, a sua posta, la
piena chiarezza di ogni cosa soggetta alle varie influenze e al cambiamento: essa resta delusa, sia
volgendosi al suo nascere, sia al suo perire poiché non riuscirà mai a cogliere nulla di stabile, nulla
che esista realmente.
Certo, non è dato immergersi due volte nello stesso fiume, al dire di Eraclito, né quindi è dato toccare, due volte, nella stessa situazione, una sostanza mortale.
Al contrario, pronti e rapidi mutamenti ‘la disperdono e di nuovo la radunano’ o, meglio, non
‘di nuovo’, non ‘più tardi’, ma ‘a un tempo’ ella si costituisce e vien meno, ‘entra ed esce’.
“Ond’è che tale sostanza mortale non porta a termine verso la via dell’esistenza tutto quanto in
essa entra nel divenire, per il semplice fatto che proprio questo divenire non conosce tregua o riposo,
mai. Così, dal germe, essa, in una trasformazione incessante, produce l’embrione e poi il poppante
e poi il bimbo, in seguito, l’adolescente, il giovane, e poi l’uomo, l’anziano, il vecchio, distruggendo
via via i precedenti stadi dello sviluppo e le varie età, per far posto a quelle che sopraggiungono.
Eppure noi – oh, che cosa ridevole! – non temiamo che una sola morte, mentre, in realtà,
abbiamo subìto e subiremo infinite morti! Perché, non solamente ‘la morte del fuoco – al dire di Eraclito
– è nascita per l’aria, e la morte dell’aria è nascita per l’acqua’ ma la cosa è ben più chiara nel
caso nostro: l’uomo maturo muore, quando nasce il vecchio; e il giovane morì per dar luogo all’uomo
maturo; e così il fanciullo per il giovane; e il poppante per il fanciullo. L’uomo di ieri è morto
per l’uomo di oggi; e l’uomo di oggi muore per l’uomo di domani. Nessuno persevera, nessuno è uno;
ma noi diveniamo una moltitudine: intorno a non so quale fantasma, intorno a un sustrato comune
di argilla la materia circola e sguscia via. Del resto, come mai, supponendo di perseverare in
una identità, noi ci rallegriamo ora di cose diverse da quelle che ci rallegravano prima? Come mai
oggetti contrari suscitano ora amore, ora odio, ora ammirazione, ora biasimo? Perché usiamo parole
sempre diverse e siamo soggetti a diverso sentire? Perché non sono mai uguali in noi né l’ aspetto,
né la figura, né il pensiero? Senza cambiamento, certo, non si spiegano questi stati ognora diversi; e
chi cambia, quindi, non è più lo stesso. Ma se uno non è lo stesso non è semplicemente, ma diviene
sempre nuovo e diverso dal diverso di prima, proprio nel fatto che cambia. Sbagliano i nostri sensi,
per ignoranza dell’essere reale, a dar essere a ciò che appare soltanto.
- “Ma allora che è l’essere reale? L’eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui
neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo
con la materia in movimento; qualcosa che scorre perpetuamente e irresistibilmente, come
un vaso di nascita e di morte: ecco il tempo! Persino le parole consuete, il ‘poi’, il ‘prima’, il ‘sarà’, l’
‘accadde’ sono la spontanea confessione del suo non-essere. Infatti, è ingenuo e assurdo dire ‘è’ di
qualcosa che non è entrato ancora nell’essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere. Le nostre
espressioni consuete, su cui fondiamo per lo più la nostra nozione di tempo, cioè ‘esiste’, ‘è presente’,
‘adesso’, ci sfumano tutte, allorché il ragionamento le investe sempre più da presso. Il presente,
infatti, distanziato com’è necessariamente dal futuro e dal passato, si dilegua come un lampo a coloro
che vogliono coglierne il guizzo. Ma, se la natura misurata si trova nella stessa relazione col
tempo che la misura, nulla v’è in essa che sia stabile, nulla che sia esistente; ché, anzi, tutto è soggetto
alla vicenda della nascita e della morte, sul comune ritmo del tempo.
Ond’è che dire, dell’Essere vero, ‘Esso fu’ o ‘Esso sarà’ è quasi un sacrilegio. Tali determinazioni,
invero, sono flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell’essere.
- “Ma il dio (occorre dirlo?), ‘è’; è, dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell’eterno,
ch’è senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette né prima né dopo, né futuro né passato,
né età di vecchiezza o di giovinezza. No, Egli è uno e nell’unità del presente riempie il ‘sempre’:
ciò che in questo senso esiste realmente, quello ‘è’ unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò,
non finirà.
“Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e l’invocazione: ‘Tu
sei’ o anche, per Zeus, come alcuni antichi dicevano: ‘Sei Uno!’. Poiché la divinità non è moltitudine,
come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio plebeo di infinite ibride passioni. Al contrario,
l’Ente vuol essere uno, come l’Uno vuol essere ente. Se l’essere ammettesse un altro, questi, naturalmente,
differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere.
“Perciò sta bene al dio il primo dei nomi e così pure il secondo e il terzo: Apollo, infatti, per così
dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; Ieios vuol dire che è uno e solo; quanto a Febo, è certo
che gli antichi così chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto, come, oggi ancora, credo, i Tessali
applicano il verbo ‘febonomizzare’ ai loro sacerdoti, allorché costoro, nei giorni nefasti, se ne
stanno straniati e isolati. Ma solo ciò che è uno è limpido e puro; poiché dalla mescolanza di cose
diverse nasce la contaminazione, come anche Omero in qualche luogo dice che l’avorio, tinto in rosso,
è contaminato. Perciò i tintori dicono che i colori, mescolandosi, si alterano e chiamano ‘alterazione’
tale mescolanza. In conclusione, unità e semplicità sono attributi costanti di ciò che è incorruttibile
e puro.
- “Chi crede che Apollo e il sole siano tutt’uno merita affettuosa accoglienza per la sua nobiltà
d’animo, in quanto ripone la sua concezione del dio in ciò che egli, tra le sue conoscenze e le sue
brame, onora al più alto grado. Eppure noi abbiamo ora l’obbligo di svegliare costoro che, immersi
nel più bello dei sogni, sognano il dio! Esortiamoli dunque a spingersi più in alto, a contemplare la
realtà e l’essere. Onorino pure, se vogliono, anche questa immagine, adorino la fecondità ch’è in essa,
poiché, per quanto una sostanza sensibile e in movimento può essere figura della sostanza intelligibile
e ferma, la figura del sole fa trasparire in qualche modo alcuni riflessi e ombre della benevolenza
e della beatitudine ch’è in Lui.
“Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasformazioni tali che il dio si risolverebbe in
fuoco con l’universo intero e poi, di bel nuovo, si contrarrebbe, quaggiù, e si distenderebbe via via
in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose dei viventi e delle piante: tutto
questo, anche a udirlo, è empietà! Oh, il dio, allora, varrebbe meno del fanciullo omerico: e, come
questi si diverte ad ammucchiar sabbia e a disperderla di nuovo, sotto il suo sguardo, per gioco, così
il dio si comporterebbe eternamente con l’universo e lo costruirebbe dal nulla e poi, appena sorto, lo
farebbe ricadere nel nulla.
“Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell’esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine
e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, alla distruzione. Per me, anzi, è proprio
ordinata a testimonianza contro l’opinione suddetta la interpretazione ‘Tu sei’, rivolta al dio, nel
senso che per lui non si dà giammai scardinamento dall’essere e trapasso. Soltanto a qualche altro
dio, o, meglio, a un dèmone preposto alla natura di ciò che nasce e muore, conviene entrare in tale
giro di azioni e di passioni. La cosa è chiara anche a partire dagli stessi nomi i quali, sembrano a
primo sguardo, per così dire, antitetici di senso e di concetto. Poiché l’uno è detto Apollo (unico),
l’altro Plutone (multiplo); l’uno Delio (chiaro), l’altro Aidoneus (tenebroso); l’uno Febo (brillante),
l’altro Scotio (oscuro). Aggiungi, poi, che fan corteo al primo le Muse e la Memoria; e al secondo
l’Oblio e il Silenzio. L’uno è Visione e Splendore, l’altro, invece,
principe della Notte buia e del Sonno inerte
ai mortali è il più odioso tra tutti gli dèi;
mentre Pindaro, con tanta dolcezza, ha detto del primo:
fu giudicato il più benigno ai mortali.
Custodire le leggi di Febo.
2 Iliade, IV, 141.
Così pure Euripide si espresse giustamente:
Libagioni e canti di morti ormai consunti
Apollo dalla chioma d’oro non li accoglie più.
E, prima ancora di costui, Stesicoro:
Danze, giochi e canti: ecco ciò che Apollo ama soprattutto!
Pianti, invece, e singhiozzi trasse in sorte Hades.
Che persino Sofocle assegnasse all’uno e all’altro dio il suo proprio strumento, è chiaro da questi
versi:
Né l’arpa né la lira amano i lamenti.
“Gli è che tardi e solo recentemente il flauto ardì esalare la sua voce ‘per i desideri ridenti dell’amore’.
Nei primi tempi, esso era tratto ai lutti e alle cerimonie luttuose e perciò non aveva tanto prestigio
e splendore. In seguito tutte le distinzioni caddero e si confuse ogni cosa. Soprattutto la confusione
tra dèi e dèmoni gettò scompiglio tra gli uomini.
“Comunque, il ‘Tu sei’ e il ‘Conosci te stesso’ solo apparentemente, a mio credere, contrastano tra
loro; in una certa interpretazione le due massime concordano ancora. Infatti, la prima, col senso di
timore e di venerazione che include, è un’alta proclamazione al dio come a Colui che esiste eternamente,
la seconda è un memoriale, per l’uomo mortale, su la sua natura e la sua fragilità”.>>
Eccoci splendidamente ricollegati al primo album dei Bianchi, Don Giovanni: il penso dunque sono che diviene “non penso quindi tu sei”, ovverossia penso dunque sono è il conosci te stesso che è un memoriale della fragilità e caducità umana ed il non penso quindi tu sei un atto di devozione al divino. “Tu sei” significa la E. “Tu sei” ossia “Ei”. Noi esseri umani vediamo le cose reali come una apparenza, L’Apparenza, e l’apparenza che percepiamo è reale e moltitudine, “dimessa al vento/succube alla furia”, ovvero “umana pelle umana /e la realtà finiva”. L’acqua è il nostro guardare il reale con la ragione e con gli occhi, senza tener conto di Dio e dell’intuizione, seguendo il ragionamento newtoniana, galileiano, il metodo scientifico “osservazione analisi esperimento”. L’acqua è metafora dell’apparenza, ed è la linea che conduce da Don Giovanni ad Hegel, tutti gli album. In Tubinga si percepisce a pieno la liquidità del reale, liquoroso e quindi destinato a mutare, falsa percezione. “Ahi!/c’è qualcosa che cade/e una cosa sta su/Ahi!/c’è del chiaro e del bruno c’è,/c’è una chiusa cosa in sé/fa un rumore un po’ tacito./Sembrerebbe il sussurro dell’acqua./Ahi!/ C’è qualcosa che odora,/una profumo non ha./Ahi!/c’è del grande e del piccolo./una c’è fintantocché ce n’è un’altra che mormora./Sembrerebbe il sussurro dell’acqua./Ahi!/c’è qualcosa che chiude,/una schiude, una resta dov’è; c’è/dell’asciutto e dell’umido/nelle cose, cosicché piatte l’une altre ripide./Sembrerebbe il sussurro dell’acqua”. Ecco il reale sembra come l’acqua trasparente ed è non una voce ma un sussurro “sembrerebbe il sussurro dell’acqua” è un verso che prende tutti i sensi nel descrivere il reale, tutte le sensazioni, tutti i modi. E noi nel reale chiamiamo cose le cose e cose diverse altre cose, Le Cose Che Pensano “son le cose/che pensano/ed hanno di te/sentimento/esse t’amano e non io/come assente ripiangono te/son le coe prolungano te”. E sempre in Tubinga “Al posto di cose ci sono le cose/poniamo le cose/esaurite le stesse/ e dopo le stesse/mettiamo le cose/se le medesime vanno esaurendo”, il nostro sforzo da nomoteti, di nominare, chiamare le cose, le cose del reale e figlie della caducità del tempo e della moltitudine sono cose, finite, sempre cose e tutte uguali e noi soli ci sforziamo a definirle, a definire il reale, che è fuoco ed eterno mutamento e che non è essere ma semplicemente non è. Il reale “non è”, non ha proprietà dell’essere, proprie di Dio, ma è non essere, e non essendo è divenire, succube al tempo, non essendo è moltitudine. Dio, invece “è”. Egli è essere, non divenire, egli è non tempo ma eterno, essendo il tempo proprio del reale e della caducità mondana. “Tu sei”, solo tu, Dio, sei, noi non siamo se non per te. E tu sei equivale a dire, tu Dio sei uno. Sei Uno. Uno e trino, ma unico, trino come gli appellativi del Dio, Apollo, Ieios e Febo. Anima corpo e spirito. Padre, Figlio e Spirito Santo. Una sola cosa. Limpido e puro è Dio, di un solo colore eterno, essendo i colori miscelati propri del reale, propri della molteplicità mondana, propri della contaminazione e della alterazione “colori/che divorano colori”. Il Dio è onorato come l’icona dal popolo, ed è giusto così, perché il Dio deve essere onorato come il sole, pur non essendo proprio del reale. Come dal sole promanano i raggi da Dio promana lo Spirito, trinità. Ma non emanazione da emanazione, ovverosia reale da reale, bensì sostegno alla debolezza umana che sola, senzaa dio, sarebbe moltitudine e desolazione, sarebbe distruzione e divisione nelle maglie. Tra le maglie mondane del tempo. e dio non è come i demoni che sono nel mondo e sono causa della caducità dello stesso, dell’oscuro di una musica tirica, a base di vermi, a differenza dll musica purissima del Dio, armonia somma. Somma Armonia. Quindi “Tu Sei” è devozione “Conosci Te Stesso” memoriale della fragilità umana.
Interpretazione del video “Hegel”
ecco il video da youtube:
Il video della canone Hegel, prodotto dalla Sony BMG, è un video divertente, quasi che sfiora il ridicolo, di quelli trasognanti e spensierati. Ma è un video fatto così per prendere un po’ in giro certa “Sapienza” massonica, quella dei segreti di pulcinella, ovvero segreti che segreti non sono. è un video che esalta la figura femminile ma al tempo stesso che prende in giro chi taccia ciò come conoscenza arcana, esoterica. Poiché è molto composito, con scritte e libri che appaiono su muri e a terra, con immagini, con ombre, lo analizzeremo per gradi, descrivendo prima la scenetta. Poi passeremo a scritte e simboli ed altro.
Nella scenetta cade da cielo un nome Hegel, che può essere benissimo una manifestazione di dio, della icona sua, ovvero la E di Delfi e quella che campeggia, ovvero anche un messaggio, un vangelo, che è colto da una donna. ci sono infatti due uomini ed una donna, che lavorano in una galleria di tale Vincenzo La Crosta, che li espone. Loro sono lì a preparare il tutto per l’arrivo dell’artista che dovrà fare gli ultimi opportuni aggiustamenti prima che la mostra stessa cominci. La donna pulisce, ii due uomini, uno più anziano l’altro più giovane sistemano i quadri, spostandoli qui e lì. E negli spostamenti si divertono ad essere padroni di quel messaggio utilizzando la loro ragione, limitata. Con gesti ridicoli, come la ridicolità delle forme di Picasso, che tuttavia apre varchi, mutando la forma stessa, i quadri sono in un continuo divenire. Bello anche il fatto, a tal proposito che i quadri siano di La Crosta, ora crosta artisticamente è un quadro di scarso o pochissimo valore. Ciò a testimonianza della vacuità iconica spoglia del suo senso trascendente, della vacuità delle forme senza sostanza, del reale senza vero, dell’uomo senza Dio, della materia senza anima e spirito. La donna è lì, non interviene nel ragionamento/spettacolo. Assiste. Ad un certo punto i due girano il quadro prima di aprirlo e scoprono una figura femminile, poi androgina, poi di nuovo femminile, col bimbo in braccio. Il più anziano grida alla blasfemia, il giovane è e sembra annoiato, capriccioso. È annoiato per il lavoro e le istruzioni date dal più anziano che dirige i giochi, le sistemazioni. La donna, solo quando si vede la sua immagine dietro, contenta si avvicina, ma poi indietreggia quasi silenziosa e delusa quando i due mettono in esposizione il dritto del quadro, raffigurante appunto Hegel. Ciò è emblema dell’icona divina, la E di cui sopra. Si inchinano e scompaiono. Ad un certo punto riappaiono, assieme ad una schiera di persone, che noi vediamo dall’alto e che imprecano contro il cielo, come sotto la croce o come contro il cielo stesso, gli altri imprecano, loro no, restano a guardare seri, il più anziano è come accecato, a mo’ di paolo, ma riprende subito la vista. Un accecamento che sembra come se cadesse dell’acqua dall’alto. C’è poi la crepa che diventa crêpe, francese, e la fama, che diventa fame, famae, come appetito, invece di fortuna. Bello anche il fatto che suona tutto come la femme che in francese significa la donna, la femmina. Subito dopo vediamo infatti i due in pausa pranzo che divorano un panino ed osservano il quadro che nuovamente si muove. Campeggia la scritta Hegel e loro sono perplessi, si tolgono il cappello in segno di devozione, la scritta Hegel si muove e suscita in loro riso, e suscita in loro riso altresì il fatto che la “G” divenga da numero sei numero nove e poi tutto il nome si sposta a destra. Una chiara prea per i fondelli alla massoneria, la G massonica che muta e si trasforma, loro ridono di ciò come fosse un mistero, ma è ilarità, segreto non segreto, il sei che è uomo si accosta al divino, nove, la musica torna a Dio, alla destra si colloca il nome di dio, il suo figlio. La donna nel frattempo resta in disparte e mentre mangia legge un libro. Essa è la Sapienza. l’accesso ad esso, tramite la Bellezza. Il tutto avviene nel pragmatico reale, mangiando. Gli uomini sono come scimmie e così la donna, il divino li colora d’assoluto. Dietro i due c’è una scritta sul muro “Risorgeremo”. Loro attendono la resurrezione della carne. Il vero mistero promesso, l’unica realtà che appare quasi di sfuggita (nel video apparirà tre volte, all’inizio, sotto la parola Lazio, ora, e verso la fine, quando l’anziano bacia la mano dell’artista). Ecco ora la scritta La Tempesta La schiuma, con una chiocciola, una conchiglia disegnata. La conchiglia simbolo della sezione aurea, della perfezione, la tempesta e la schiuma, ovverosia “Dopo di noi/il diluvio”, ovvero ancora ed anche la mutevolezza del reale, acquatico, contrapposto alla perfezione della chioccia. A questo punto appare come se sorgesse, l’artista, ed è una festa, tutti attendevano che venisse. La donna è quella che, reverente, si scompone di meno. Il giovane lo incensa, tanto da recargli disturbo ed inurlo a tossire, l’anziano gli bacia la mano, poi fa tre volte ok, come ad indicare il seicentosessantasei, l’anthropos, l’uomo senza Dio. E come ad indicare la perfezione, ossia la mutazione in nove, il segreto che custodivano e che avevano intuito guardando le forme trasformarsi. È l’ora della foto, tutto viene sistemato, l’artista firma un dipinto, ma mentre la polaroid scatta ecco che il quadro cade, come se si scardinasse l’intero sistema di credenze farisaico. E sulla foto compare la scritta le mani, la terra, la carne. Ora poco prima era comparsa un’altra scritta: il sistema della carne al fuoco. Richiamo all’olfatto (vd supra nella spiegazione alla E di Delfi), e segno di come la carne, che è la realtà umana sia soggetta al tempo, alla mutevolezza, proprio perché reale et non vera, figlia del fuoco, come abbiamo esposto egregiamente sempre supra, nella spiegazione alla E di Delfi, la stessa E che campeggia sulla copertina di Hegel. Quando sistemano il quadro per fare la foto lo fanno sopra la scritta “Non Scritto Ma Cavalcato a Pelo”. Ovverosia, il primo e primitivo scontro tra le popolazioni, i primitivi, che non conoscevano l’uso della scrittura, che cavalcavano senza sella, come gli indoeuropei della prima migrazione verso ovest. Infine la foto, come una macchina del tempo torna indietro e sul finale campeggia una scritta nera a fondo rossiccio Hegel e Lucio (cancellato) Lina Jena 29 settembre 1994 seduto in quel caffè. Il 29 settembre 1994 è la data di uscita dell’album ed è la celebre canzone, una delle prime del Battisti con Mogol, “seduto in quel caffè/io non pensavo a te”. Canone che narra un tradimento in cui la donna è vista come oggetto, spesso sarà tacciato di maschilismo il Battisti-Mogol. Qui, il Battisti-Panella, fa la barba alla Gioconda. In tutti e cinque i Bianchi la figura della donna è centrale, si onora e lode la stessa, che non è più oggetto, come nelle canzoni scritte con Mogol, ma diviene soggetto attivo della canzone stessa. Un modo per dare, artisticamente, una dignità alla donna. da oggetto a soggetto attivo, del pensiero, della storia, della filosofia, persino della teologia. “Non penso quindi tu sei”, in questi cinque album, in queste mie ultime quaranta canzoni sei tu, donna, che vivi e non io che ti uso, ma io che ti contemplo nel tuo essere.
Abbiamo già passato in rassegna, per forza di cose, alcune scritte e simboli, quelli finali soprattutto. Passiamo ad analizzarne gli altri. Si comincia con “Introduzione (ad) Hegel”, e va be’, come a dire, si inizia. Tutta la prima parte musicale, l’intro, è fluida, avvolta nella apparenza acquosa et liquorosa, nel reale, come saranno, dopo, le tele in trasformazione, in movimento, in rotazione, tutto è mutevole. Infatti c’è proprio la pioggia, gocce d’acqua. “L’arte è una parte”, appare scritto in rosso, come a dire non è tutto, artisticamente parlo per dire e raccontare l’assoluto, ma il vero è altrove, l’arte è un mezzo d’intuizione dell’assoluto, ma non è l’assoluto, è sublimazione, è varco d’accesso alla verità, che si ottiene non tramite speculazioni fredde ma con l’amore che contempla la Bellezza divenendo Armonia. Ma è solo intuizione del divino, il divino “non è dipingibile/né descrivibile” è l’h muta che c’è dietro la E, che è solo una icona. “Lucio e Lino uniti a Berlino”, suona un po’ ironico, quasi ridicolo, ricorda Totò e Peppino divisi a Berlino; questo è collegato alla parte finale Hegel e Lina, l’ultima scritta, di cui abbiamo parlato. Lino, paroliere, dà assieme alla conchiglia, alla musica di Lucio, dignità alla donna, spogliandosi della sua natura di uomo e scrivendo di essa, contemplandola, lodandola, vivendola. “Hegel al bar”, anche qui, Hegel che è icona ma di un divino mascolino, seduduto in quel caffè, anche questo è collegato alla parte finale. Una visione di dio vista solo con occhi di Uomo, incompleta ed incompiuta, senza la Pizia di Delfi. Quell’uomo che seduto in quel caffè si scorda dellaa propria donna e la tratta come oggetto, così, della stessa guisa con cui l’uomo non può contemplare il divino se non ne coglie la prospettiva femminea, altrimenti la su visione è erronea ed incompleta. “L’estetica a Est” e “L’Etica Etilica” analizziamole insieme, Etica Etilica, bel gioco di parole, come la “distilleria abusiva che/goccia a goccia/secerne puro spirito”, si parla di spirito, nel senso sia di pneuma, di promanazione dell’anima, ma anche nel suo significato volatile, alcolico, forse scegliere Hegel non è un caso, come non è un caso il video neoplatonico, che si atteggia a racconto similplatonico, a fabula per rappresentare qualcosa d’altro, come exemplum, come è il mito, ed a questo mi collego ad un’altra scritta “D’altronde d’altro canto”, cioè con il mito racconto altro, cose più elevate, la canzone, le canzoni nel loro vestigio esterno sembrano il racconto di amori adolescenziali in Hegel, ma raccontano altro, parlano d’altro. Infatti accanto al d’altronde d’altro canto c’è un microfono, la cnzone, una farfalla, un uccellino, il canto, l’arte, che ci trasforma in farfalle, ci spoglia della nostra condizione reale di larva, della mutevolezza infante, bambino, adolescente, giovane, adulto, anziano, vecchio, tipica del reale mutevole per condurci all’eterno, ricordiamo “trasvola sopra l’ultima papilla/la farfalla/e la lingua/la spilla/e ripeschiamo l’oh/dello stupore/col quale incorniciamo/il fragile leggero di quel che non diciamo”. E la scelta di Hegel non è un caso non solo perché è il filosofo idealista della modernità, quello della Fenomenologia dello Spirito, ma anche perché è un idealista ma colosso mascolino e quasi aristotelico. Colui che dice “tutto ciò che è reale è razionale”, cioè il contrario di quello che si dice a Delfi, il contrario di quello che si dice nell’album, il contrario di tale visione pragmatica e mascolina. Altra scritta “Tu”, chiaro il collegamento “Non peno/quindi tu sei”, ovvero l’“Ei” di Ammonio, il “Tu sei”. C’è poi tutto in vendita ed in mostra, con riferimento all’arte che diviene merce ed alcuni libri che citiamo: Vita di Hegel di Karl Rosenkranz, Storia della canzone italiana di Tullio de Mauro di G. Borgogna, Letture Filosofiche dal rinascimento a Kant di E. Paolo Lamanna ed il Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Tralasciando Giorgio ama Lory, che probabilmente fa riferimento alla leggenda di San Giorgio, a San Lorenzo, a Selenio ed ai miti sottesi ed interessantissimi, ma che necessitano di un lavoro approfondito, e che comunque è faciloe, date queste indicazione di santi e miti, lasciare alla vostra personale ricerca ed intuizione passiamo all’ultimo enigma: “Dietro a ogni [chiave] m a con bi c’è [foglia] sempre un acca”. Be’ il riferimento all’acca muta dietro la E ed al sei del canto orfico l’abbiamo detto, cxome anche l’acca muta è la donna che tace nell’ecclesia, che sta in disparte, che è messa in disparte, ovvero contemplare l’icona solo mascolina non conduce alla completezza. Ma, inoltre, componendo appare anche la parola “bacca”. La bacca è quella che troviamo nell’alloro, quindi nuovo riferimento a Delfi ed agli oracoli di Pizia, così come a Bacco/Dioniso.
Per concludere
In questi giorni, con l’avvicinarsi della solennità Pasquale, sento di voler concludere il presente breve scritto , che non ha pretese di austerità né tanto meno di verità ma resta una mia interpretazione, spero condivisa, nella coscienza che “L’arte è una parte”, con un mio articolo comparso su “Il Gazzettino Vesuviano” il 20 dicembre del 2015, in occasione dell’appropinquarsi delle festività natalizie, e che qui riporto interamente.
“Hegel di Lucio Battisti: l’arte come luce d’amore che ci conduce a scoprire la bellezza
Il Natale, giorno in cui la Cristianità tutta celebra la nascita del Cristo, redentore dell’umanità dal peccato, coincide non a caso, con la celebrazione del Sol Invictus, ossia del sole invincibile, che con la sua potenza arde gli spiriti, pieno tutto di misericordia dona il fuoco ai mortali, per misericordia e non per furto come avvenne per Prometeo, ricorda a tutti noi che la fiamma della salvezza non è conquistabile con le nostre sole forze, ma con la sapienza, e per giungere alla sapienza è necessaria l’umiltà, diveniamo fiamme del divino solo se siamo consci della nostra pochezza innanzi al divino stesso.
Ed il Natale è redenzione quindi, redenzione dal peccato, dalla sofferenza, dal tempo umano, è il saper trovare la Rosa nella Croce, la luce nell’esistenza tenebrosa e asservirsi a quella luce senza perdere il bagaglio della nostra oscurità, ma purificarlo con la volta del cielo, col variopinto zigzagare dei risvolti cromatici.
In un precedente articolo, del 29 settembre, analizzai sommariamente e da un punto di vista quasi “teologico” il penultimo album di Lucio Battisti, “Cosa Succederà alla Ragazza” (C.S.A.R.), notando come in quel disco l’interprete e musicista, assieme all’autore, abbiano ridato una vera e propria dignità dottrinale alla donna, per secoli relegata ai margini di ogni pensiero e sempre inibita all’accesso alla cultura. D’obbligo, a Nostro avviso, è non tacere l’ultimo album di Battisti-Panella, del 1994, testamento spirituale, artistico e filosofico del massimo musicista italiano.
L’album è un capolavoro assoluto, letto come gli altri “bianchi” ad intarsio, con canoni interpretativi complessi e molteplici, letterari, allegorici, morali, teleologici. Si presta a diverse letture, quindi, potrebbero sembrare a primo acchito degli arabeggi dadaisti tardo liceali di una coppia di amanti tra libri e viaggi sognati e vissuti, talora dei meri esercizi di stile, talaltra dei residuati eraclitei ed orfici ad un tempo, qualcuno ci ha visto persino una satira al precedente paroliere di Lucio, Mogol, individuato a suon di beffa come il terzino roccioso dell’idealismo. E sì, perché, è bello dirlo a discorso iniziato, l’album in questione ha un titolo impegnativo “Hegel”. Nessuna di queste interpretazioni esposte sembra sbagliata, forse perché nessuna è esatta o, semplicemente, come spesso è costume dei critici distratti censire, perché non vi è un vero senso, ma basta farsi cullare dalla musica. Tuttavia non si può e non si deve, la musica è lì, posta proprio dove deve essere, non a caso, e le parole sono proprio lì, ove la musica se le aspetta, e nemmanco questo è un caso, ed ancora, il suono delle parole è la musica di Lucio, anche negli intervalli e nei silenzi, di ciò che manca, “e se ci fosse è come non avesse nome”, nome no, ma etimo sì, suono sì, etimo sonoro d’assoluto, certamente. Ed è così, miscelando i sensi, che voglio leggere l’album, come l’ultimo dono di Battisti, un dono natalizio che ci pone nel mezzo di una essenza, che ci definisce proprio perché ci disciplina, attraverso canoni e precetti in noi insiti ed intrinsechi nelle parole, che non sono solo quelle del testo, ma le nostre e che attraverso questi testi e questa musica impariamo maieuticamente a capire. E Lucio, nel definirci, o meglio nel definire l’arte e per transitorietà noi, senza mai prendersi sul serio ma ragionando seriamente, ci illumina, ci riempie di magia, ascoltando la musica vibrante delle sfere celesti la sua magia ci rende maghi, maghi che col Natale si preparano a consegnare i loro tesori, i loro talenti, umilmente innanzi all’Epifania del Cristo, vero Re del Cielo, vero Re della Terra, vero cosmocrate.
L’attacco, il primo pezzo, sembra ricollegarsi a C.S.A.R., al “Cosa Farà di Nuovo”, erano le quattro meno un quarto della notte, ora a lei tutto è chiaro. Alla donna sono chiare le ragioni della sua lode, della lode che da sempre i poeti, gli aedi, tessono, lode alle iridi, ai padiglioni auricolari, tutto rinchiuso in una stanza, vale a dire in una strofa. E a lei, beh certo le fa piacere, lei in tali lodi, da Fedeli d’Amore, entra volentieri, perché c’è tutto, e tutto è esagerato, tutto è “ad oltranza”, “comportamenti, reazioni, presenze ed abbandoni”, splendido chiasmo d’assonanza! Lei vuole continuare lì a leggere, lei donna, vuole essere ancora al centro dell’arte, ma c’è una amarezza “è tardi”, è tardi perché forse la donna, oggi, si sta svestendo della sua bellezza in cambio di una libertà che non è vera libertà ma baratto, barattare la perfezione coll’uguaglianza formale, non è libertà, l’uguaglianza sostanziale è per e nella donna, passare da ragazza a donna ma nell’emancipazione non perdere la grazia, non mascolinizzarsi. E dentro di lei c’è tale conflitto, tale “contrasto di forze contrastanti”, ancora un po’, voglio restare al centro del pensiero, “Almeno l’Inizio”, almeno l’inizio voglio restare al centro del pensiero umano, ed almeno per un altro po’ voglio, nel diventare pensatrice, non cessare di essere l’oggetto del pensiero, nel ricercare non cessare di essere ciò che l’uomo cerca, l’idea, il femmineo etimo del sapere. Almeno un altro po’, non cedere la grazia in cambio della godereccia mondanità. Si prosegue col secondo pezzo “Hegel”, pezzo della memoria, una certa Hegel Tubinga che si prende il nome a caso dai libri, come a copiare di nascosto o a soffiare sul fuoco, alimentando l’arte, che è accrescimento e citazione, l’artefice, il plasmatore, non crea dal nulla, ma plasma e rende propria, aggiungendo ed accrescendo, la sua opera. E la morte, l’arte sopravvive ad essa, “quando tutto è perduto non resta che la cenere e l’amore”, la materia si dissolve ma la fiamma viva dell’amore è l’arte, l’araba fenice arde e risorge dalle ceneri del corpo, l’amore è arte, l’arte un gesto d’amore e l’amore stesso la vera molla che guida gli umani, gli essenti e la Natura tutta. E poi non è importante chi sia “il governato e chi il governatore”, chi comanda e chi obbedisce, chi il servo e chi il padrone, come il Natale ci insegna il padrone è nulla senza il servo e chi serve si innalza, “o risplendente sole cosa mai saresti se non ci fossi io qui giù su cui risplendere”, fa dire Friedrich a Zarathustra, cosa sarebbe infatti la potenza della Natura se non ci fosse chi la canti. Ecco il vero potere, l’arte, che scioglie i lacci dell’oblio, ed è amore, è amore immenso per ciò che si canta e diviene immortale. Il Cristo, nato povero e morto povero e maledetto, ha donato con un gesto estremo d’amore l’immortalità al genere umano. Cristo è il sommo artista, il sommo servo, colui che ha plasmato il mondo col suono della voce, con la sua musica che è il Verbo, che ha reso l’uomo sua simiglianza perché artista e sua immagine perché stupendo, dolce, bellissimo, misericordioso. Il punto è l’amore ardente “il punto era l’incendio”. Ma “l’arte è una parte”, la molla della vita ma è la vita che deve divenire l’opera e colmare l’altra parte. Si prosegue con “Tubinga”, in cui si neutralizza il senso del tempo, la contemporaneità, si scopre che la bellezza, oggetto ricercato dall’amore nell’atto artistico, così come nelle scienze e così come nella nostra stessa vita, rifugge i cambiamenti fugaci che nulla mutano, la vera bellezza è una continua riscoperta alimentata dalla fiamma d’amore, un mutamento statico e per ciò stesso rivoluzionario, come da titolo del quarto pezzo è “La Bellezza Riunita”, la bellezza che va al di là del corpo, non imbrunisce, ma parte dal corpo per giungere all’anima attraverso lo spirito, così come l’immago della bellezza vista dal poeta che è amore parte dall’alma per manifestarsi lucente nel corpo perfettissimo nella sua imperfezione per tramite e grazia imposta dallo spirito divenendo ancora amore. Il tempo umiliato da un bacio, da una “bocca ponente”. “La Moda nel Respiro” e “Stanze come Questa” esprimono un concetto analogo, la moda si rinnova, per farci scordare le nostre nudità imperfette, ma l’amore si innamora proprio della imperfezione, e chi tenta di occultare ciò occulta la sua alma stessa, l’amore va al di là della superficialità e punta diretto all’apparenza, alla dolcissima apparenza che è essa stessa specchio del nostro essere. In “Estetica” il concetto è portato all’apoteosi, le varie declinazioni della bellezza raccontate di nascosto da due innamorati che, occultati dietro una colonna ridono della tradizione, come complici di un segreto, ridono della pragmaticità, ridono della realtà, nella loro amabile discussione sono innamorati e la realtà, in quell’istante, scompare, non ha senso, e si svela la verità, “la reale e doppia fisionomia nostra spariva via”. La bellezza dell’innamoramento nato sotto base intellettuale, da un lato la tradizione che insegna rigorosa, dall’altra i due innamorati “che alle sue spalle ridono dell’aneddoto” e si contrastano amabilmente su tutte le sfumature della bellezza “aria, fiato, facoltà vitale, brio, intelligenza, indole, estro, soffio, refolo, vento, venticello, essenza, soluzione, volatile, proporzione, naturale, denaturato, verde, rosa, viola del pensiero, mente giudicante, lampo, riflessione, limpido, cupo, commovente, coscienza, allucinazione, cena ed invitati, colori che divorano colori”, ognuna di queste parole richiederebbe una speculazione diffusa, un trattato per descriverla, ma se la tradizione, a mo’ di guida turistica non ci riesce, agli innamorati questa enciclopedia del sapere è notissima nello sfiorarsi la mano, nel bacio, e nel sorriso. Loro sono una “distilleria abusiva”, non sono la cultura ufficiale, tradizionale, ma tale distilleria “goccia a goccia secerne puro spirito”, ossia verità. E’ il concetto espresso all’inverso ne “La Moda del Respiro” sopra menzionata, i due innamorati, qui, trovano la verità estraniandosi non da un ragionamento canonico e tradizionale ma da una moda sempre nuova, tecnologica, da giovani che si rifugiano in “misteri”, cioè in quelle esperienze per loro esaltanti ma che risultano “spiegabili perché non intralciate, dai cupi sedimenti dei passati”, e finiscono col fare una rivoluzione, che in realtà è una rivolta di gruppo “frenetici in un ballo senza scopo”, ma gli innamorati scoprono sé altrove “noi nella stanza accanto e la moda cambiò nel respiro, il nostro che cambiava ogni tanto”, verso che lascio interpretare, il respiro d’assoluto dov’è? Sempre nell’amore. L’album termina con “La Voce del Viso”, vale a dire il suono delle parole, testamento artistico di Battisti, ma la musica ricorda un po’ il crogiolarsi festoso di una campana, come se Lucio cantando la superiorità dell’arte e dell’artista, voglia lasciar intendere, come descritto in “Estetica” ed in “La Moda nel Respiro”, non prendetevi troppo sul serio, la vera arte ed il vero amore sono soprattutto divertimento, ma non come bisecazione o trastullo, bensì come il saper ridere, assieme, di tutto, la luce della rosa, la rosa nella croce.
Questa interpretazione, spero gradita ai lettori, è un omaggio, per quanto balbettante, dell’arte di Lucio, in occasione delle feste natalizie. Non dimenticando che l’arte è ciò che salverà il mondo, l’arte deve essere presente in ogni disciplina e scienza empirica, in ogni professione e mestiere, perché ingloba amore, passione, l’ironia del non prendersi sul serio e il riso, il sorriso di quanto l’uomo si affanni alla ricerca di qualcosa che in realtà è a portata di mano. E l’arte è soprattutto ricerca, amore che cerca bellezza, e quando la trova c’è l’opera d’arte, la scoperta scientifica, il capolavoro. Vale anche per la vita quotidiana.”
dottor Giovanni Di Rubba
Complimenti
Mi auguro, un giorno, di incontrarla e condividere con Lei altrettanti “segreti”! Mi inchino davanti a tanto sapere! Con immensa stima! Sergio Capogreco
“Nell’ambito della discussione CSAR-CAESAR avevo, ed ho tutt’ora, intenzione di pubblicare un altro articolo. Lo farò quando analizzerò gli altri tre bianchi. Per ora, in linea con lo scritto di cui supra, e seguendo la mia tesi “religioso-esoterica” collocata nell’ambito ed a completamento di componimenti che descrivono il quotidiano e parallelamente il metafisico –miscelandoli in ogni pezzo sapientemente-, do alcuni cenni. Caesar è a mio avviso Nerone, l’imperatore. Che aveva sul banco la quaestio “cristiani”. Fino al ’64 analizzata con l’ausilio di Seneca e quindi stoicamente, poi da un punto più squisitamente artistico, successivamente. Nerone è l’imperatore poeta-musico. Si avvicina ad una conoscenza più approfondita del culto cristiano nascente ed è spettatore, se non ideatore, della disquisizione sulla “E” avvenuta presso Delfi nel 67. Poi raccontata nel dialogo tra Plutarco ed Ammonio come ricordo “adolescenziale”. “Chi fosse la provincia e chi l’Impero/non è il punto/[e laconicamente nda] il punto era l’incendio”. Insomma nella composizione e collaborazione con Panella c’è tanta ala del dialogo delfico, ed anche negli altri bianchi. Orazio, pitagorismo, platonismo, sezione aurea, rapporto arte- fruitore, arte epifania del divino.”
Un unico dettaglio,nell’immagine “le quattro meno un quarto della notte”,le lancette dell’orologio appaiono a formare il simbolo della “coppa”.Eterno femminino…Credo che questo dimostri la genialità di questi brani…Tutto è in sintonia…
Senza parole.
Grazie
Esegesi sbagliata , chiave di lettura errata.
Battisti ha sempre cantato il rapporto tra maschio e femmina, ed è ciò che hanno in comune i testi mogol-panella.
Frequentando da oltre trent’anni lo studio delle varie tradizioni esoteriche, soprattutto occidentali, non mi era sfuggito il collegamento con i “bianchi” di Battisti/Panella. Anche se ho sempre pensato che troppa analisi vada a discapito proprio di questo tipo di fruizione dei suddetti album, che dovrebbe essere più di tipo noetico, come d’altronde mi sembra abbia ben chiaro anche lei. Certo, non avevo pensato mai al dialogo Plutarcheo, che tra l’altro ho pure riletto un paio di anni fa per un articolo sul mio blog. I miei complimenti!
Francamente tutto questo parlare,questo interpretate i testi panelliani come un qualcosa di misterioso fuori contesto canzonettistico ..lo trovo esageratamente sopra valutato .
Sono testi ermetici punto ,che ci sia dentro religione, estetismo , esoterismo ecc riferimenti vari ..lo si capisce ma non siamo ne teologi ne professori di estetica ne culturi di esoterismo …i più ascoltano la musica l’interpretazione dare un significato ad ogni canzone non è compito di chi ascolta …per me ascoltare battisti ..( è già ) un bel ascoltare …comunque come disse lui stesso leggendo i testi ,disse se non li capisco vuol dire che vanno bene …come dire se li capisco tanto valeva restare con Mogol.