Selenio denso, la luna illumina l’infinito

selenio denso la luna illumina l'infinito

Selenio denso, la luna illumina l’infinito

di

Giovanni Di Rubba

 

Thirassia la cacciatrice

1

Forse non mi mossi mai di qui, non raggiunsi posti diversi, non viaggiai, mai, e soprattutto mai feci quel viaggio, il folle e ardito viaggio, il viaggio che nessuno osò e che proprio a me fu commissionato dal Grande, dallo “Stupor mundi”. Perché proprio a me? Forse gli ero simpatico, gli era simpatica la mia umiltà mista alla voglia di sapere, la scarsa vanagloria, o forse semplicemente di me si fidava, sapeva che mai l’avrei tradito, d’altronde non potevo, gli dovevo tutto e quella missione era il minimo che potessi fare per ringraziarlo. E magari un po’ mi appassionava anche, non ne sapevo, l’esistenza di quel mistero, il vecchio libro trovato ad Alessandria già parlava di lei, dolcissima, sublime, incantevole, superba, effimera, magica. Non c’è dubbio, arabi e cabalisti la sanno lunga, e questo sua altezza lo sapeva bene, si è sempre fidato di loro, li ha sempre stimati ed apprezzati, di sicuro più di quei personaggi per cui anche lavoravo io, quel clero vanaglorioso e chiuso. Mah! Certo, il viaggio non c’è mai stato, come disse il messo, mai. Io sto vaneggiando sulla sabbia, sto delirando, sto incautamente sfiorando il limite della saviezza, devo credere in ciò che mi dicono. Più che una richiesta, una preghiera, è un obbligo: “devo”, altrimenti la fine non sarà certo gioconda, non sarà certo una fine gaudiosa, il mio corpo diverrebbe come è ora il mio spirito, travagliato, dirompentemente afflitto. Devo dimenticare se c’è stato qualcosa, devo obnubilare per sempre la mente, devo lisciare gli umori secernendo la mia parte assente, direbbe il mio caro amico, amico di Salerno. Che fine avrai fatto? Avrai tradito anche tu il Grande? E lei, lei, lei, lei dunque non esiste, è una fantasia, una diceria, una superstizione, e si sa com’è, tanto ci lavori con queste cose che alla fine finisci per crederci anche tu. Quindi grattiamo la mente come legno su tavoletta, tabula rasa, dimentichiamo tutto, se c’è stato qualcosa. Ma visto che quel qualcosa non c’è stato e che lei non esiste dovrebbe essere ancora più facile dimenticare. Anzi, no, più difficile, è facile liberarsi dalla realtà, facilissimo ( basta sognare), dalla fantasia no, da quello non ci liberiamo facilmente, e sì che ce ne vuole, impresa ardua. Ma sì, perché dovrei ricordare? Non ne vale la pena, ormai è finita e di qui non mi muovo, triste esilio, triste sventura pensare ai suoi soffici ricci silvestri senza vederli, senza sentirne l’effluvio superbo. Che leziosità, che suono armonioso il suo corpo, i suoi capelli, evocatori di nascosti sentimenti, profumati capelli, amorevoli capelli, ancestrali capelli. Mossi come il vento e dal vento, piante rampicanti del silenzio. Non possono non esistere. Tutto ciò che è pensabile è esistibile, e a maggior ragione i suoi capelli, e quindi lei, la visione idilliaca della Foresta Nera. Lei, e cos’altro? Nulla. Nulla, solo lei. Lei c’è. C’è, traspare nella mia mente, la sento ora, le onde del mare perfino sono intrise di lei, è ovunque, anche qui, al mio fianco, sul bagnasciuga. Lei c’è, ma non esiste. Non può, (pensa alla tua fine stupido), già non può, (pensa alla fine dell’Imperator), già, senz’altro non esiste, è stato un sogno, lei non è mai esistita e certo mai esisterà.

E se lei non esiste io non devo pensarla, anzi senz’altro non la sto per niente pensando, se non esiste come faccio? Si può pensare una ragazza che non esiste? Lungi da me fare cose irrazionali a tal punto, neanche istintive (se avessi un po’ di spirito e spinta alla sopravvivenza), proprio irrazionali pure. Sì sto perdendo tempo a fantasticare su qualcuno che non esiste, che non c’è, deve essere la Grecia che mi fa tale effetto. “Dannati romei” direbbe il mio precettore, “credono di saper tutto, di essere ortodossi, sono un branco di usurpatori e chiamano noi usurpatori, noi che abbiamo documenti incontrovertibili di discendenza diretta, noi siamo romani, non loro”. Mi sembra di sentirlo ancora, a Napoli, quando si infiltrava nello Studio come allievo e smuoveva le palpebre sognanti pensandola ritorno del veltro, “e se torna occorre esser pronti, prossimi alla fine se siamo, verso il preludio tendiamo”. Sempre ossessionato da questo, limitetti, limitucoli, ma che, più in alto, più lontano sono i sentieri, un giorno verrà, diceva, è scritto ovunque. Poi citava versetti, le Sacre Scritture in primis, poi il Corano. E che biblioteca aveva, rotoli sparsi ovunque, mai ordinati però, mai catalogati, un uomo così austero, un uomo così razionale che odiava l’ordine, proprio non gli stava a genio. I libri vanno vissuti, non conservati, sbottati, come se lui fosse un libro, spostava le sue azioni ai libri, si identificava con loro.

In ogni caso non perdiamoci, purifichiamoci, anche queste sono distrazioni, devo letiziare tramite la ragione, dimostrazione incontrovertibile che lei non esiste né esisteva: niente le diedi, niente mi ha dato, dovrei avere un suo ricordo, una ciocca di capelli purpurei, si dovrò senz’altro avercela, ce l’ho? No, allora non esiste, non esiste. E se l’avessi persa? Non ricordo di averla persa e meglio ancora non ricordo di averla mai avuta, quindi se il ricordo non inganna non esiste. Ma questo ricordo che non inganna sull’inesistenza è un ricordo che inganna sull’esistenza. Paradosso! Anzi paralogismo! Paralogismo uguale delirio. Io uguale pazzo furioso. Un demone è in me, error demonio il demone c’è in tutti. Illustrazione macchinosa, ricordo lei ( che, premessa fondante non esiste) me lo disse, due parole, due parole me le disse, ergo esiste. Ma che ragionamento è mai questo, sei tu che attribuisci queste parole a lei, potrebbero benissimo essere una tua costruzione, un tuo pensiero, non suo, di un ente che non esiste. Non esiste! Ma che ho detto poc’anzi? Tutto ciò che è pensabile è esistibile, e allora santi numi, vergine immacolata, per l’intelletto di apollo, lei esiste. Sì, ma esistibile e allora? Potrebbe essere esistibile ma non esistere ancora e quindi tu non puoi averla incontrata, oppure esistere già e tu comunque non l’hai incontrata. Non stai dimostrando nulla bello mio. Ti basi sul ricordo, il ricordo è fallace, elusivo, rivoltoso nei confronti del reale, filtra immagini, secerne pensieri, pensieri, inaffidabilità, pura inaffidabilità dunque. Il ricordo è tuo, pur sempre tuo, solo tuo. Non è condivisibile con gli altri, o almeno non lo è nel senso che noi attribuiamo alla condivisione. Il ricordo generatore di pensieri non si condivide mica come si può condividere un sandalo, o due soldi. Si condivide se c’è empatia magari il ricordo, filtro del reale già di per sé, tramutato in pensiero, tramutato a sua volta in scritto o verbo, ma in tal caso i meccanismi di trasmutazione sono già diversi, tanti, troppi e il reale sfuma, non è più tale. E poi in ogni caso ognuno capirebbe ciò che vuole, noi scriviamo o parliamo in ogni caso senza renderci conto di ciò che diciamo, sono gli altri che danno un senso a ciò. I nostri principali intenti non sono mai attesi a prescindere che tali intenti non li neanche conosciamo.

Ah! Le onde del mare che si infrangono sullo scoglio d’amore. La sabbia soffice, pura, lieve. Mi avvicino alla scogliera. Oh! Abisso! Stupendo, mi perdo in te, folle volo, voglio te. Abisso io ti guardo, tu ci sei ed io son qui, tra le rive di quest’isola. Abisso io ti amo, sprofondo in te. No, no, non ci sprofondo, no, ma che. Io resto qui. Qui semplicemente a contemplarti mio favoloso abisso, mio infinito. Sì sono intorpidito da te, dallo sguardo silente di ricordi sbiaditi, ricordi tesi nel vento in un istante, sì in un attimo compare la tua figura e sento il sussulto intrepido, vorace e dolente. Lo ricordo questo sussulto, sussulto generato dal tuo sussurro, il sussurro, un tuo unico gesto e poi le mie parole si arrestarono e restò il tuo docile volto, indissolubile. Eccolo! Eccolo, lo vedo, sì lo vedo, lo vedo tra questi abissi, tra i marosi lo vedo. Sei tu. Non posso creare ciò, esisti e ti ho incontrato. Il tuo volto è lì dinanzi a me, dinanzi a questi occhi incauti, mal dimessi, dinanzi al silenzio, loquace, fluido, diluito, tenebroso, i miei pensieri eccoli, eccoli, m’invadono ma si inchinano al tuo apparire tra furie scoscese, in estasi il mio spirito al ricordo. Sì al tuo ricordo.

Non reggo, no che non reggo, devo sedermi, posare il corpo sul tenero, soffice manto silicico e sdraiarmi, rilassato sì, devo riposare, devo. Ignorarla se esiste, ecco cosa devo fare, non calcolare una possibile esistenza, saltare l’addendo e giungere alla somma, ignorarla come si ignora l’abisso e dunque i suoi occhi. Soffermare il mio sguardo sul bagnasciuga, onda avanti, onda indietro, ritmata, non mi invade va per fatti suoi, non mi considera e non devo considerarla, anzi meglio, chiudo gli occhi così ne percepisco il solo suono, ah che meraviglia! Sì questa è beatitudine, pace celestiale, l’onomatopea, mi sfugge, lasciamola ascoltare, non ripetiamola, vai mare.

Ah ascesa contemplativa! Volteggio, mi muovo ciclicamente, sono un pianetino e allo stesso tempo l’universo, miriade di pensieri spazzati via, nulla quindi tutto nella mente, anche il rumore esula da questo accordo, sì trovo venia così, nell’oblio.

E lei finisce preda del mio sentire, sì si avvilisce ella stessa, dunque se percepisco lei avvilita lei è senz’altro me, io sono lei, lei è rimasuglio della mia anima, dell’azione spiritica, lei è quel che resta del mio sapere, una vittima agonizzante che in agonia chiede venia, perché son io che chiedo venia, che non voglio dissolvermi. Così lei lamentosa scompare, lentamente e lenta si dissolve in liquido multiforme e lei, di nuovo lei, lei informe.

Eccolo! Eccolo di nuovo, dannazione! Lo vedo il suo volto, il suo capo, la sua testa da cui germogliano viole del pensiero, c’è, è di nuova impressa, vividissima.. taglio penetrante dello sguardo, lancia superba che sgocciola assenzio, malefico veleno ebbro, o dio mio perseico furore. L’indolenza dei capelli, sembrano tramutarsi in serpi, triskeli sapienti, incubo. Diviene la sua dolcissima essenza figura orribilante, paura, giaciglio del dolore e del peccato, della maledizione. Eccola l’infausta testa, si stacca, si stacca come capo gorgonico dal corpo e rotola, tra piani scoscesi si dirama e mi fissa, intatto il timore, cupo il fragore, folgore da belva. Risvolto immondo.

Silenzio. D’improvviso il silenzio, il sudore sgorga. E la testa che crolla dal corpo, come quella del battista che per la argentea invidia è soggetto a sciupio, si riflette sull’elmo, come tra le inesplorate terre del nord, come mare che si trasmuta in sostanza solida, impedendo la navigazione, vandalica rimessa, arrendevole. Fiamme di fuoco dalla lingua smerigliano e un solo ricordo permane. Bacio. Un bacio. Ecco il tormento! Le nostre labbra si sono sfiorate. D’accordo, va bene. Ma perché tormento? Se fosse stata una qualunque ragazza non mi avrebbe assillato. Sarebbe finito lì, non sarei qui. Ma c’è di più, c’è di più. Insita è una congiunzione astrale, un intruglio sesquipedale. Nelle mie vene il sangue geme, porpora fenicia su imbarcazioni da speroni folli fanno strada. E soffro, bramo, soffro. Sono maledetto!

Compare d’un tratto una figura, sbiadita effige o forse corpo reale, liscia capigliatura figlia del miglio, occhio cobalto, allucinazione forse? Parlerò con lei, alemanna naufraga insabbiata, lei sa, deve sapere, se è ed esiste saprà, se non esiste mi farà ricordare, stuzzicherà l’animo mio, la mia mente, il flusso di ricordi.

Salve alemanna, tu che vieni dalle terre maestose, dalle terre selvagge e possenti, tu dunque dimmi, lei dov’è? Dimmi, come sta? Tu saprai dell’eterea presenza, rendimi edotto, porgi la tua conoscenza a questo tormento di spirito, lei è la fonte più pura e più oscura, tu devi aiutarmi, straniera aiuta chi servì il Grande, lei dov’è? come sta?

Ma il raggio obliquo del sole maledetto, dell’accecante potere sbieca la mia vista e al ritorno non v’è presenza, ulteriore fantasia, ulteriore vaneggio, devo concentrarmi su altro, lei non deve assolutamente entrare più tra i miei ricordi, né nel mio presente, non deve. Dimenticare. Dimenticare. Devo dimenticare il godimento contemplativo la femminea potenza, le mani saette repentine.

Quando la vidi, perché la vidi, quando la vidi dicevo la prima volta, lei non c’era, io non c’ero.

 

2

Tu non credo mi capisca, non credo proprio, e comunque non è detto che debba farlo. Anzi ci rinuncio, sì ci rinuncio proprio io e non tu. Sei viscido oserei dire. Sono stanca di questo giochetto, proprio stanca, esausta, non ce la faccio più. E non ti credo, giuro che non ti credo, non sei sincero, non mi interessa più. Non mi interessa del potere, fottiti tu e il potere, non mi interessa di essere la regina, sono la regina del nulla, perché tu sei meno di nulla. Ti odio e punto. Anzi nemmanco ti odio, sarebbe troppo. Mi sei semplicemente indifferente. Puoi andare pure a quel paese, restarci, fotterti ancora, con garbo, sì fottiti con garbo e buona notte, principessa io? Ma principessa di un beato cazzo. Stronzo.

Tu mi ami dici. Mi ami. Ma si sente, io lo sento, è un amore che ti somiglia, un amore ipocrita, falso, opportunistico, un amore di comodo, di vantaggio. Un amore del cazzo. Ti sembra giusto? Dimmi, ti sembra giusto? Ti sembra giusto approfittarne? Godi, sì godi ancora, fammi sentire. Ma io, io dove sono? Io chi sono? Sono il tuo giocattolino, o no? Illuditi di illudermi ancora con frasette di commiato, coprendomi d’oro, coprendomi di lodi. Lodi striscianti, lodi da rettile, lodi da te. Lodi dipinte su te. Quando mi lodi, lodi in realtà te. Ed è bello? È bello, dimmi? È bello essere lodato? È bello ricoprire di attenzioni il nulla? È bello ricoprirti di attenzione, vai vai.

Chi sono io? Eh? Rispondi pezzo di merda. Chi sono?  Lo sai? Sarò qualcuno io? O forse sono chi dici tu? Ah sì, è così, tu sapresti chi sono io ed io no. Bene! Molto bene! Stronzo, stronzo bis. Non sai nulla, non sai un cazzo. Non ti chiedi se soffro, se sono triste, se sono felice? Non te ne fotte, è vero? A te interessa altro, interessa vedermi così come vuoi. Bene, bene, bene! So di non poter contare su di te se ne ho bisogno. Se non so chi sono io so chi sei tu, una merda su cui non posso contare.

E che vorresti, dillo, che vorresti da me, che vorresti? Sai già, ma di ciò che tu vuoi a me me ne sbatte.

Ti sei imposto come un cane rabbioso. Ricordo, sì ricordo. Io non avevo nulla da perdere perché ero ciò che sono ora: nulla. Ti ho dato tutta me stessa, ogni sorriso, ogni sguardo, ogni sussulto, ogni gemito. Ho fatto ciò che dicevi non perché mi fidavo di te, no mai, mai fidato di un elemento tale, ma solo per curiosità, per divertimento, per spasso, per una fioca speranza che si accendeva in me, la speranza che un giorno qualcosa sarebbe cambiato. Illusa.

Illusa ed ingenua. Ascoltavo le tue parole, le parole di una marionetta, sì una marionetta perché questo tu sei, non hai una personalità, non hai un cazzo. Non ragioni tu, sei dentro una realtà più grande di te e che non sai gestire, sei un mostriciattolo plasmato da te. Non mi interessa se hai ragione, resti un deficiente, un deficiente che per di più è pure bastardo e infame.

Stronzo che mi vieni a dire: bellina devi impegnarti di più. Ma impegnarmi vallo a dire a chi sai tu. Stronzo tris. Non faccio neanche granché, è vero? È così? Ma muori. Chi cazzo credi di essere. Vuoi soggiogare tutto padrone del mondo ma a me no, non ci riuscirai, falli con qualcun’altra i tuoi giochetti, io sono stanca. Stanca.

Volevo cambiare, è vero, ma volevo cambiare la mia situazione. Non certo me. Quello mai. E nessuno ci riuscirà, figurati uno stronzo come te. Fanculo. Cretino di merda. Deficiente. Illuso. Io penserò sempre, sono viva e penso. Punto.

La mia musica, i miei sogni, il mio amore. No quelli non li otterrai mai. Credi di controllare la mente degli altri ma sei tu che sei controllato, sei tu che sei vittima di te stesso.

Mai, mai. Io non smetterò mai di sognare, di emozionarmi guardando un petalo caduco, caduco come il mio spirito, un petalo luminoso ed intenso che non si arrende, che geme ma non muore. Non posso rinunciarvi, no. Mai. Finché emetterò fiato guarderò sempre la volta celeste e la mente viaggerà, la confusione che è in me esploderà, seppur silente sarà assordante. Perché è silenzio vitale. Io danzerò in cima ad una nuvola color del cinabro e gioirò, gioirò perché vivo, e per sempre vivrò.

Non smetterò mai di sognare uno sguardo di passione sul mio corpo. Una voce, un sussurro sul mio collo, un sussulto sulla mia pelle. Una melodia pura che risplende nel mio cuore e che nulla potrà mai spegnere. Io non smetterò mai. Mai di chiudere gli occhi e vedere l’infinito, l’assoluto. Io non smetterò mai di guardarmi allo specchio, nuda. Di ondeggiare sotto le stelle con passione, di dipingermi il corpo di speranze, di sincerità.

Non smetterò mai di godere, di godere nel cuore della notte, di percepire i profumi della primavera in pieno inverno. Di godere ancora, e ancora. Di godere dell’armonia di un corpo in estasi. E vivere mille volte un istante infinito, sentirmelo tutto addosso, su di me.

Non mi annullerò mai, non sarò mai come vuoi tu, un contenitore di nulla, ancora nulla, nulla è la tua parola e ti ripeto, nulla sei tu.

Non smetterò mai di essere me, di scrivere sui muri il mio nome, di gridarlo al mondo, di correre e poi stanca riprendere, di ansimare e non annoiarmi mai, mai, mai di me.

Io ricordo me, e sono ancora io, e sono ancora mia. Non mi distruggerai, dentro me freme un mondo, e sarà quella la realtà non tu.

E lasciati dire ancora un’ultima cosa. Lasciati dire che il tuo potere non mi spaventa. Lasciati dire che il mio silenzio è vita, non è morte, lasciati dire che sei una belva malefica che morirà del suo stesso morso. Non resisterai a te stesso.

Io fuggirò da te un giorno, fuggirò bastardo. La tua luce, la tua verità è vuota apparenza, falso dei miei stivali, sua altezza del cazzo.

Ti distruggerai, ti distruggerai da solo.

 

3

Ogni cosa ebbe inizio tempo fa. E io in preda all’entusiasmo volai, subito in viaggio. Non esitai, non per scarsa umiltà, non perché credevo di riuscire ma perché finalmente stavo dando un senso alla mia vita, era per quello che avevamo lavorato e io dovevo trovarla, dovevamo trovarla. La congiunzione. La congiunzione, l’unica cosa che sapevamo. Se l’avessi vista, convinta e posta al nostro fianco saremmo stati invincibili. Sarebbe stata epoca di pace, prosperità e cultura. Accettai come un ragazzino entusiasta, senza paura di fallire. La paura mi venne dopo.

Scalavo il Monte Ventoso e si inerpicò in me questo oscuro sentimento, fobia, impotenza, io solo, io solo. Pellegrino io ed il mio bastone. Né scorta, né servi. Solo. L’ascesa mistica, passai a posta di lì, si dice che ci si purifichi, che è quello l’unico sentiero per raggiungerla, è quello l’unico modo per riuscire a contemplarla.

Aprii il testo sacro, lo sfogliai, mi resi conto che era lui ad un certo punto a leggere dentro me. C’era una curvatura rosea in cielo, unica, mai vista prima d’ora. Era il primo segno, ero sulla via giusta.

Inizia, inizia. Era già la fine quell’inizio, indizio di qualcosa che magari poteva sormontarmi, di qualcosa di indomabile. Come pretendere di chiedere aiuto all’ineffabile, all’impercepibile, come? Una capiente pietra mi serrò la strada. Conteneva in sé i miei rimorsi, i miei spasmi notturni, le mie ansie, le mie indecisioni. Sollevarla? Sì, ma come? Non si può rimuovere ciò che ci attanaglia, nulla scompare, se proviamo ad eliminare un dolore soffriremo rimuovendolo e diverrà sempre più indelebile. L’unica è conviverci, ammaestrarlo, farne un punto di forza. E fu così che stremato non tentai di rimuoverla, né di aggirarla compiendo un tragitto più lungo, la abbracciai, la baciai, ne percepii peso, odore. Infine seppur distrutto mi ci arrampicai sopra, era un ulteriore catarsi, un ulteriore passo obbligato.

E che bellezza, che estasi improvvisa, immagini, immagini indescrivibili nella mia mente, più che immagini fasci di luce, simmetrie di colori, dolci suoni. Un volto, un volto, un volto che non vidi bene, cioè meglio, non potei vedere, più che altro intuire, intuire in riflessione postuma, meglio ancora, percepire, ci sono cose che i nostri occhi non possono vedere, le nostre orecchie non possono ascoltare, ma ci sono, si sentono, c’è un brivido dorsale che ce lo dice, noi lo sappiamo, ma non sappiamo spiegarle perché sono coperte da nebbia, seppure chiarissime.

Rotolai come sassolino d’amore ad un tratto, non so, il mio corpo lievitò e rovinò per poi salire nuovamente, in modo ondulatorio. Lucido il suolo, sembravo sfiorire e sbocciare, annientarmi e nascere, essere nulla ed infinito. Quando un tempo pregavo  con intensità e concentrazione lasciandomi carpire dal verbo mai raggiunsi stato pari a questo. Sembrava fossi io il verbo, un verbo eloquente che si estrinsecava, si manifestava nel silenzio. Fragore divino, ogni realtà sensibile era me ed io ero estranea ad essa. Un condensato di pensieri e nessun pensiero. Tale estasi che a descriverla non sarebbero sufficienti parole durò un attimo e ricaddi questa volta definitivamente. Ma non ero per nulla fiacco, per nulla spossato, avevo la forza di cento leoni, il desiderio tornò a luccicare nei miei occhio, barcollai retto, sicuro.

Fatti pochi passi un nuovo sussulto, un gemito, un lontano ansimare fischiava nelle mie orecchie. Ci stetti. Era un improvviso godimento cui seguì l’eccitazione. Sembrava che dalla nebbia sgorgassero a fiumi migliaia di livide figure femminili che non mi lasciavano indifferente. Ma non era un semplice istinto concupiscibile, non era lussuria, non erano corpi ciò che bramavo, erano ombre, ombre che si impossessarono di me. Fu un incanto, se l’estasi riuscii a descriverla a fiato corto ricorrendo ad immagini, tale apparizione era più simile ad una melodia. Un crogiolo di suoni crescenti, di diversa intensità e frequenza ma incredibilmente affini, incredibilmente armoniosi. La dispersione apparente era in realtà uno schema composito, con una logica trascendente, uno schema sublime che solo un grandissimo artefice avrebbe potuto plasmare. E nello stesso istante in cui plasmava dirigeva con grazia. Con femminea grazia. Solo delicate mani femminili possono contenere tale entusiasmante orchestruola eterea e, mai come allora, sentivo tutta la potenza della femminilità.

Piansi, ma non era tristezza. Era sfogo, o forse più. Era la diretta conseguenza di quelle emozioni che si susseguivano e che un corpo umano non poteva reggere. Ero lo sciupio che sgocciolava facendo sorgere imponente un paradiso in me, una reggia mastodontica fuori di me, un architrave ben saldo, invincibile. Era proprio ciò che mi serviva. Purificazione! Sentivo ora che avrei potuto senza pena affrontare il viaggio.

Lacrima chiara, scende a tratti, si arresta, la ingoio. Odore del vento, sapore del mare. Via di fuga unica, via di verità unica, via d’arrivo. Fuggire sé per trovarsi. Schizzare fuori dal corpo per potenziarsi e per saldarsi ad esso in maniera inscindibile, moltiplicando le gioie ed i piaceri.

Un’immensa quantità di sogni si pose come ultimo limite dinanzi a me. Era l’ostacolo più insidioso. Puoi scavalcare un sasso per quanto ripido e tortuoso. Ma i sogni. I sogni sono sostanze viscose, melme. Ti ci avvicini e ti si appiccicano addosso, come liberarsene conservandole, meglio come superarli e trascenderli? L’unica soluzione sembrerebbe dirgli addio, ora sì fare il percorso più lungo per scansarli, starci lontano il più possibile per evitare che ti finiscano addosso. Non avvicinarsi a meno di sette spanne, potrebbero per osmosi congiungerti al tuo corpo e sei finito, non si levano più. Ma a ben vedere se li ignoriamo, se crediamo di poterli evitare non pensando loro magari potremmo rimandare il pensiero ma ad un certo punto te li troverai dinnanzi di nuovo, dovrai invertire rotta e cominciare da capo, sino all’infinito. Che fare dunque? Starci, stare anche con loro. Poi si vedrà. Mi inabissai in quel muschio fastidioso e insolente, ero sudicio di fanghiglia, una fanghiglia leziosa e lieta, al sapor di miele. Leccavo le mie mani e godevo, mi trastullavo dei ricordi. Ad un certo punto mi accorsi che non potevo rimanere oltre in quella situazione. Che fare? Lavarsi, il pensiero imminente andò a ciò. E da cielo una pioggia cristallina scese possente, le gocce riflesse al sole erano una miriade di colori, lontano un arcobaleno. Mi spinsi oltre ormai candido. Dovevo raggiungerlo, dovevo raggiungere quel ponte effimero e voluttuario.

Amore, amore. Era questo ciò per cui lavoriamo. La canzone più candida, il sonetto più splendido mai l’hanno carpito come stavo facendo io in quell’istante. Parole, parole, le parole hanno una carica intensa e veemente. Ma è più loro o l’amore. Come? L’amore? L’amore perché è qualcosa di tanto impercettibile che non puoi concepire in pieno, non puoi con le sole parole. Sciocchezze, follie! L’amore è la genesi, il principio, il verbo. E cos’è dunque il verbo. Una singola parola spesso non può esprimere significati, a volte neanche interi trattati. Qualcosa che non può contenere l’infinito non può essere causa di esso, non può essere causa della realtà sensibile se non sa e non può interamente descriverla e capirla. Ma c’è qualcosa di più, c’è qualcosa che in sé contiene il verbo e che noi spesso non notiamo, seppure percepiamo. Il suono. In principio era la musica. È questo l’amore, musica, metrica, ogni parola ha un suono e ogni parola ha due significati, l’uno manifesto, che spesso è univoco, l’altro apparente, musicale, che sempre è infinito, che sempre è amore. Il cuore iniziò un palpito incandescente, mi sentii come colui che morto e risorto muore di nuovo e vede la luce. Una luce lontana. Una luce non reale e bianca, ma più profonda. Una luce apparente, figlia  del tempo e dei colori. Il ponte!

E giù, giù altre lacrime. Immobilizzato non cedevo. Ma i muscoli, loro si ribellavano al palpito. Ora non avevo paura, ma il corpo era vinto dalla potenza ancestrale. E più piangevo più mi scioglievo, più mi avvicinavo. Volteggiava il mio corpo senza muoversi finché non giunse ai bordi dell’arcobaleno.

Fui lì perso e ritrovato. Smarrito conquistatore di realtà velate e per questo essenze pure. La forma vinceva la sostanza e la plasmava. Ecco la verità. Il senso si perse e fuggì e io fui rapito e transitai su quel ponte.

La prova, il tentativo, figlio del vento era ormai il mio destino.

 

4

Lui è andato via. Quiete. E angoscia.

Improvvisa una luce alle mie spalle, luccica il vetro. È una stella, forse. Un barlume, mi avvicino per toccarla, per goderla, per intrappolarla. Entra in me, guidami, dammi la forza. Sono dinanzi ad un bivio, come allora. Ma questa volta l’alternativa è tra lui e me. Devo essere me. O piccola luce, cicala novembrina. Fatina mia, polvere magica, aiutami, possiedimi. Io da sola sono spersa. Aiutami! Non voglio annullarmi, non voglio perire come inutile straccio, usato, masticato, maciullato. Speranza mia unica, ti invoco. Ti custodirei come tesoro più prezioso del mio umile cuore, rosa splendente. Liberami da questa servitù, liberami dalla schiavitù cui mi sono condotta.

Ricordo, due anni fa. Solitaria e piena di vita cercavo una svolta. E arrivò lui, era per me poco differente al veltro. Era lui la lanterna del mio naufragio infausto. Sì infausto, ma io ero felice anche senza di lui, solo qualcosa mi mancava, qualcosa di indefinito, vivevo spensierata ma colma di pensieri, una sensazione difficile da spiegare, era come se sentissi che il mio destino era un altro, un destino maestoso, quell’orma che solo i grandi lasciano. E lui sembrava la manifestazione di questo desiderio occulto, celato in un cantuccio remoto della mia anima. Sembrava lui il maieuta capace di estrinsecare la me stessa più autentica, di rendere immensa la mia anima dinanzi agli altri. Invece mi ha solo annullato, annichilito.

Le uniche parole che mi ha saputo dire erano: aspetta. Ed io sono stanca di aspettare, ho bisogno di qualcosa qui ed ora, non voglio più sciuparmi nell’attesa. Avrei dovuto forse ascoltarlo, subirlo, subirlo muta? No, non sarei stata io. C’è qualcosa di forte che grida in me e non può essere addomesticato, da nessuno. Non aspetto più! Ho bisogno di schiudermi, di spandere letizia. Non posso rimanere una rosa incolta ed ignorata, un fiore di plastica inodore, dal sapore artificiale, dal colore che non brilla di luce propria. In me c’è un mondo che esplode e grida, grida parole d’amore e libertà.

Ho bisogno di emozionarmi, ancora emozionarmi. Ho bisogno di guardare in fondo a due occhi e vivere. Ho bisogno di uno sguardo puro e superbo che mi dia la forza di andare avanti. Umile ma fiero. Ho bisogno di distruggere le catene che mi legano al passato. Ho bisogno di rendere presente il mio ricordo e concreto il mio sogno. Ho bisogno di agire di conseguenza al mio istinto. Ho bisogno di creare, di dar vita all’informe, di moltiplicare le mie gioie esponenzialmente.

Il tempo si è arrestato, le lancette immobili, la sabbia si ingorga nella clessidra della mia vita. Dinanzi ad ogni cambiamento c’è un’attesa. Una nuova attesa. Un’attesa di incontrare finalmente me. Un desiderio di conoscermi ed agire. Di sprigionare potenza dalle mie mani, godimento e sussulto dalla mia bocca, profondità e passione dai miei occhi. Di creare castelli di sabbia con fondamenta solide, poi distruggerli e cominciare da capo. Ma senza di lui. Da sola forse? Questo non è importante, l’unica cosa importante è che nelle mie azioni future, nella mia vita quotidiana, una persona non può mancare assolutamente: io.

 

5

Mi ritrovai dinanzi uno specchio fluente d’acqua, sgorgava triplice da una comune sorgente e finiva su un corso maggiore, tre. Tre erano gli affluenti del mio cuore. Ragione che pacata e quasi lacustre ondeggiava a mo’ di docile ma possente chiarore solare in sé riflesso. Il sole coi sue raggi, tutto nell’immagine di quell’acqua sembrava dominabile, la paura smorzava ed era freno alle passioni, ma un freno che non si percepiva, che esulava pensieri folli senza che me ne accorgessi, li rimuoveva e sembrava quasi non ci fossero. Più imponente l’istinto, travolgeva ogni cosa, contornato di dieci costellazioni e una stella maestra che lasciava incompleto il pensiero. Ma il godimento era immanente. Si assaporava l’impeto e la paura assumeva una forma manifesta. L’abisso. L’insondabile. Gusto gotico e tetro, acque fosche, nubilose, sembrava fossi di nuovo smarrito. Finché non sopraggiunse la graziosa sintesi, il terzo corso, pacato e ardente ad un tempo, dal riflesso selenico, in penombra da un colle scendeva lieto. Cos’era? Un che di strano e piacevole, una scintilla sapiente e sensibile. Indefinibile, inenarrabile.

Piansi immaginando le sue lacrime. Liberazione fluida, singhiozzo tra giulivo e triste.

Luccichio improvviso. Come una bestiola che trascinava la terra sotto i suoi piedi e rifletteva l’Uno e il molteplice. Silenzio rotto da tale scuotimento interiore, frastuono non udibile, interno. Caddi quasi morto e dovetti porre le mani alle tempie per far cessare questo suono che pareva diabolico.

Clessidra contenente liquido. Lì dinanzi a me lo sgomitolare da matti, lo sgusciare del tempo. E lei si manifestò per la prima volta così, ne ero certo, ne sono certo. Lei era il tempo. Rinchiusa in quel contenitore opaco di vetro era prigioniera, e rendeva noi servi. Una prigioniera che sottometteva. Fino a quando non si ruppe il cristallo contenente. E sprigionò potenza somma. Tutti i giorni, i mesi, gli anni e le stagioni mi investirono. Era quello il terzo corso d’acqua. Il tempo, così chiamato, così definibile se lo abbiamo a portata di mano, rinchiuso in un involucro, di modo che ci sia parvenza di dominio. Ma a tenerlo in ostaggio, in realtà, è lui che ci domina. E lei dunque doveva essere liberata, e lo fu. La mia mente atemporale anzi oltre il tempo, era tempo e allo stesso momento lo trascendeva.

Moneta a doppia faccia. Voce bassa. Sembrava dirmi alza gli occhi e guarda, assapora questo suono che diviene quasi un respiro. Io subito volsi gli occhi ed ebbi una sensazione inaudita, vidi il tutto e il nulla senza essere visto da alcuno e senza vedere  alcuna cosa. Scorsi la dimensione di un punto, l’immagine dell’aria, la misura di una linea infinita. Dialogavano gli eraclitei opposti. Non era l’uno mutamento dell’altro, era l’uno l’altro se presente, e l’altro l’uno se questo assente, ma l’assenza richiede astrazione o per lo meno intuizione di una eventuale presenza, e la presenza lascia immaginare l’importanza di sé ponendo la mente ad una eventuale perdita di essa e quindi ad una assenza. E se non esistesse assenza? Sarebbe solo una manifestazione questa della presenza? Una presenza che non ha il mezzo adatto a manifestarsi potrebbe divenire assenza. E quindi il bene è in ogni dove, ma si presenta solo se ha un mezzo per manifestarsi, altrimenti è assente e dunque è male.

Sottile si spezzò il cristallo dunque. Ed io chi ero? Nella manifestazione contemplativa era davvero frutto di illuminazione divina ciò che pensavo, o che provenienza aveva? Un pensiero strisciante si insinuò. Se fosse tutto opera del maligno? La mia missione, tutto, ogni cosa che da quando ero partito vedevo. Il senno era andato perso? Era nelle mani negli inferi? L’eresia.

Ma no, non poteva essere, avevo dinanzi a me un’inaudita bellezza e non può la bellezza distogliere dalla verità. L’apparenza candida è frutto del pensiero immacolato. Nel mio vaneggio stavo avvicinandomi, dovevo accantonare le ultime remore e avvicinarmi.

Ma come contenere l’acqua? Scompare tra le mani, ciclica va via ma tornerà. Così la sua immagine scomparve. Così la sua immagine, ne ero certo, si sarebbe presto manifestata di nuovo.

6

Proprio non riesco a star ferma, occupare il mio tempo, devo imprimere le mie speranza su carta, far qualcosa. Cosa?

Non si può, è inutile perdere tempo. L’ozio va fatto ma con maestria, oziare è un’arte, non si può oziare facendo niente, l’ozio è riflessivo, ti scruta dentro. Si prende, si assapora il tempo.

L’orologio scocca, l’una di notte. Un torpore sui piedi, un lento calar di palpebre, ma un’interiorità in subbuglio. Forse magari sto già dormendo e non me ne sono accorta. Non so se capita spesso a tutti, ma a me di frequente, nei momenti di nervosismo. Ho sonno ma sono iperattiva. È come sei il mio corpo si acquietasse ribellandosi al mio essere in tumulto. Ed io ho tante cose da fare, tante. Tante ora che sono finalmente libera. Ma da dove cominciare, e poi si avvicina un’idea parassita, quali sono davvero queste cose?

Fa niente. La lancetta dei secondi sposta minuti di indecisione. Tiranno tempo. È ancora notte, è quasi giorno, è già vittima questo spasmodico scorrere. Illegale, il tempo è illegale, trascina i nostri corpi verso il consumo, l’abrasione, lo sciupio. Il tempo contrabbanda la felicità e l’oro prendendosi il nostro aspetto, i nostri capelli mutanti, i nostri denti fiochi un tempo luminosi, la nostra pelle via via corrosa.

Quando c’era lui, fino a poche ore fa, sussisteva dentro me il desiderio di rivolta, di mutamento. Ma tale lotta immane mi divorava le vene, sfiorivo con essa, come colui che lancia sassi contro il muro ottenendo solo lievi serpeggiamenti ma sfiancandosi. Ed io sbiancavo inerte. Le mie parole fulmini, ad esse seguiva il fragore dell’urlo che lasciavano in lui. Poi finiva lì.

Adesso? Adesso è tutto più semplice, tutto più ovvio, tutto va da sé, non c’è bisogno di lotte, non c’è necessità di giustificazione. Occorre solo ricostruire. Ma come è amaro. Costruire cosa? E soprattutto, su quali fondamenta? Cancellare tutto di lui? O salvare il salvabile, perfezionarlo con lavoro certosino ed adattarlo alle mie esigenze naturalmente escludendo lui?

Ma il problema è un altro. La mia ombra. Credevo che lui mi avesse fornito le risposte che cercavo, mi avesse illuminato su me stessa. Ora ho le mie forze solo, un remo di volontà e una barca malandata di convinzioni. Basteranno? Me la saprò cavare?

L’una e mezza, eppure continua il tiranno, eh! Senza pietà, non mi aspetta. La negazione dell’autorità, della sua autorità. Serve? Si può andare avanti senza. La società è terribile, un mostro, lui è terribile. Credevo un tempo ed ora penso di credere ancora che l’essenziale sia ergersi ad individui forti e potenti e soprattutto soli. Ma correggo il tiro, persone, non più individui. Quando pensavo a ciò, paradossalmente, dicendo individui, esulavo la cosa più importante. La volontà. La volontà essenziale, di potenza, di dominio, il dir sé a sé, che non è per sé in via esclusiva ma è anche per gli altri, non utensili, ma altre persone. La volontà che distrugge cellule societarie e crea l’eterna comunità di esseri umani. Anzi di esseri viventi. Anzi di universo. La comunità universale.

Orrore, ecco, paura. Se nella mia ricerca restassi sola. Sola come allora. E sola ora sono. Sola. Solitudine. Ergersi solitari. Ma l’ergersi solitari richiede la presenza per lo meno di altri che ti sorreggano con le tue stesse idee adattate alle loro o a volta più spesso viceversa. Ma non avendo un sostegno? Si lambiscono le acque della follia. Si perde il senno.

Ed ho il sentore di perderlo, di perderlo di nuovo.

7

Il sentiero diramò a sinistra con un intarsio a destra, protese verso la volta turchina, i pensieri alabastrini come si fosse stati al tramonto, ma il giorno era appena sorto. Era  già nitido. Odore di primavera nei campi e per l’aria esultava, che sapore fresco, che refrigerio, che incanto!

Una luce all’orizzonte, luminescenza e rimembranza di un passato in realtà mai sorto, ma vivido. Puro nel suo entusiasmo diurno.

Uno scalpitio, zoccoli di cavallo, fruscio di carri. Un’ombra oscurava la vista celestiale e l’incanto. Assorbiva fasci luminosi, come carta su macchie d’inchiostro.

Sulle sommità di colline gli alberi svettavano incauti. Sprazzi di betulle dei miei sogni erano intuite. Ma non saldavano i miei eterei pensieri a nulla di concreto. In estasi ancora ero, stazionavo e mi intrecciavo. Pur tuttavia quel rumore reale mi destava dai sogni.

Una voce, lontana si fece più chiara. Uno statuario periodo scarno, una sentenza inflessibile. È tutto finito. Fu tutto ciò che sentii. Un messo papale, un mio superiore mi rese partecipe del fatto che era crollato lo splendido impero. Lo “Stupor Mundi”, l’intrepido eroe, il mio mandante, perito, perito sotto il giglio, come diceva la profezia. Un giglio particolare, un giglio pugliese, paradosso, lui aveva sempre temuto Firenze e morì in altro loco, ma sotto il medesimo segno. A volte non si può scampare al mactub, a ciò che è scritto, il nostro libero arbitrio ci conduce per vie seppur diverse al medesimo servigio del fato.

Ricordi. Ricordi ormai andati. Immaginavo, ripensavo. Ripensavo a me bambino, infante, poi un po’ cresciuto. In mezzo a cento nutrici, padrone, quasi io imperatore di quel mio mondo piccino. Sobbalzi d’ orchestre nei miei ricordi. Ondeggiamenti quasi spasmodici, a volte invece armonici, di un’armonia soprannaturale. C’era sempre una presenza, una femminile presenza che mi accompagnava, e che lo faceva ancora, e che lo fa tutt’ora. Odore di viola. Germoglio di virtù.

E d’obbligo. D’obbligo sobbalzava alla mente il ruscello puro e limpido ove venivo portato, ove bevevo acqua che mai assaporai così pura. Ricordavo le feste trascorse alle sue rive, ricordavo la gioia, l’entusiasmo, l’innocente entusiasmo di quei giorni ormai andati.

Tutto falso, ora sembrava tutto falso. Ogni cosa pareva di demoniaca sostanza, i flussi d’acqua un tempo segno di vita divennero ora emblema di una mi prigionia, presente, di una mia prigionia, futura, sicura.

Cadde improvvisa la neve e la distanza tra il messo e me si fece ancora più profonda, immensa, insormontabile. Le sue mani sembravano volerla scansare, sembravano voler scansare il candore con secca e matura concretezza bollente. Voleva forse sciogliere i miei ricordi e le mie speranze immergendo in un rogo ciò che c’era di più puro, ciò che c’è di più puro?

Io non mossi mai le mie mani, io mai cercai di dimenticare, di essere me stesso, e se mai lo pensai subito abbandonai l’idea folle. Seppure a volte soffrivo del ricordo cercavo comunque di tenerlo in riserva, potrebbe sempre tornare utile. Mai cancellare le proprie radici. Anche i momenti di dolore potremmo un giorno rimpiangere. C’è e sempre ci sarà un granello di gioia anche nei momenti più tristi.

Urlai, urlai ancora, urlai di nuovo. Tutto vano. Ma non potevo ora abbandonare la mia ricerca, ora che l’avevo intravista. No messo, no non mi arrendo. L’avevo appena intravista sotto fluida sembianza. Era lì, a portata di mano. Non potevo. Non potevo rinunciare proprio ora. Continuerò, avrei continuato, anche senza la protezione dell’imperatore, anche se fossi diventato un eretico rozzo e al di là del vero, perché spesso chi è nel vero è ai limiti di esso, chi invece esso non osa cercare è mediocremente nel mezzo, ed un pensiero, un’idea, vale un’altra, purché universalmente accettata.

Cosa scrissi, cosa scrissi in tanti giorni mi disse. Nulla, nulla. Il sonno della ragione, la voglia di ornitologhe piume, ma nulla di stabile, nulla di fisso su carta. Solo idee strambe. Ma tanta crescita, immensa crescita interiore, tanto clamore, tanto subbuglio, tanto turbamento.

Mia femminea figura, mia immago divina, ti raggiungerò, pronunciai deciso e d’un fiato parlando a lei ed anche al mio messaggero. Vai via, mi imposi, lasciami continuare. Ogni mia azione cadrà sotto la mia completa responsabilità, lui disparve.

 

8

Un soffio di vento ed appare dinanzi a me una foto, una foto che la mia mente aveva dimenticato. Quel ragazzo, che simpatico, che dolce, eppure da me così diverso, così distante, ma l’unico forse che mi capiva.

Silenzio, non ho voglia di profferire parola. E ricordo quel giorno. Neanche lui parlava, davanti a me. Eravamo in silenzio, lui con i suoi occhi fragili che guardavano le sue scarpe e parlavano come se singhiozzasse. Mi sorrideva, eppure quel sorriso celava una sofferenza interiore, lo sentivo.

Ci avrei forse magari anche voluto provare con lui. Ma era così ingenuo, troppo. Così debole mi sembrava. Non sarei mai riuscita a stargli accanto. Troppo fragile, a quel tempo, così come sicuramente ora, avevo bisogno di certezze, non di altri dubbi.

Col mio fare non facevo altro che farlo restare ancora più imbambolato dinanzi a me, ancora più indeciso. Mi amava, mi ama ancora credo. Poverino. Dolce come una pasta di mandorla. I suoi pensieri per me. Come ne ero felice, ma come ad un tempo li ignoravo, non facevo altro che metterlo in confusione. Io, eterna indecisa, gli dovevo sembrare una ragazza colma di certezze, sicura, decisa, per lo meno decisa nell’ignorarlo.

E lui continuava a guardarmi, a guardarmi e a tacere. A contemplarmi, quasi come se fossi una divinità. Ed io muta a mia volta. Ma di un mutismo diverso. Se il suo era un silenzio di pudore e colmo di sentimento, il mio era un silenzio di indifferenza, di noncuranza.

Non sarei mai stata in grado di stargli appresso, di sostenerlo. Non ne valeva la pena. Io avevo bisogno di altro, di qualcosa di più. Lui non mi avrebbe saputo aiutare. Io avevo ed ho ancora bisogno di soluzioni concrete, immediate. Ho bisogno di crearmi un guscio di protezione e lui sembrava con i suoi occhi leziosi infrangere quel mio guscio, spogliarmi delle mie certezze. Rendermi ancora maggiormente insicura insomma.

Io avevo bisogno di un mare di parole per celare le mie insicurezze e fronteggiare il mondo. E lui con altrettante parole sembrava distruggere i miei castelli di sabbia. Lasciarmi indifesa. In balia di me e del mondo.

In ogni caso l’unica certezza tra noi due era ed è che siamo ed eravamo agli antipodi, due mondi opposti, ripeto, non poteva, non avrebbe mai potuto e tuttora non può senz’altro funzionare. Siamo due lembi di mare che non si incontreranno mai, distanti anni luce. Inutilmente vicini ma terribilmente distanti. Due universi paralleli. Cercare la congiunzione tra ciò che non può incontrarsi creerebbe senz’altro un annichilimento. È semplicemente così. Quando si congiungono due entità di tal fatta o c’è un big bang e si crea l’increabile o c’è un inesorabile annichilimento, una orripilante distruzione. Ed è meglio non rischiare. Il gioco non vale la candela. Non è che sia chissà che meta bramabile d’uomo, è pur sempre un essere qualunque, timido e ardito. Ma non mi fa alcun effetto, è uguale agli altri, seppur interessante, ma di un interesse fine a sé, per cui non c’è bisogno né necessità di rischiare.

Mento. Forse mento. Quello che ho detto forse non lo penso. È ancora il mio fragile guscio che non mi permette di rischiare.

Ok, sto delirando, sarà l’ora, le tre di notte, il corpo in torpore e lo spirito in fermento ma… Ma un desiderio di lui c’è. Un desiderio di pendere dalle sue sottili e gustose labbra. Un desiderio di prenderlo per mano, di attraversare con lui e non con il ragazzo che mi ha fatto tanto soffrire, l’eternità, nuovi mondi, nuove realtà. Forse proprio il suo fare che sembra mettere a nudo il mio essere e renderlo fragile ed indifeso, come una rosa che trema sul finir dell’estate, può farmi scoprire davvero me stesso.

Sì, mio amico sì, guidami tu per i sentieri dell’esistenza. Condividerò con te la vita.

Ma è tardi, ora anche il mio spirito cede le armi, trovo pace, cado in un sonno profondo, forse domani avrò dimenticato quest’ultimo delirio.

9

 

Ricordo invasivo.

Un palazzo d’oro scandiva la mia vista, colmo di diamanti l’antro, splendore lucente di statue di gesso finemente decorate e splendenti più di mille stelle. Il segno della vittoria alata nei pressi della scala vetusta si imponeva. Minuta eppure essa più di ogni altra risaltava, colmava lo sguardo.

Cotto e ricotto in me stesso, ardevo come cervo disteso su roveti zampilli inestinguibili. Sentivo in me il mio spirito lacerare e trepidare ad un tempo, potenza del vissuto.

Sapienza eterna. Il mio desio di quei giorni. Io fanciullo mi apprestavo alla soglia dell’altare sperando un giorno di comprendere ogni aspetto della realtà fisica e di quella celeste. Spirito e materia. Forma  e sostanza. Speravo di eludere la volgarità e l’amenità umana fuggendo dal mondo reietto e poi investito di divino intelletto, coi miei fratelli, guidare l’umanità verso i sentieri del vero. L’anima. L’anima questa sostanza inesorabilmente eterna che pende e s’impone tra la gente. Quest’essenza somma. L’anima. L’anima che ci avrebbe salvalo. Salvato perché noi fatti d’anima saremmo un giorno da lei ritornati.

Pomello della verga di rettitudine e giustizia sanciva un’ombra fissa e immobile sul pavimento aureo. L’ombra accecante che accantonava ogni umana tendenza, che elevava verso superiori realtà.

Libero arbitrio da un lato della moneta, dall’altro il capo del Fato. Nell’inclinazione un frammento di vero. Il vero nel ricordo, nel futuro ed infine nell’arte. Il vero triplice e manifestato in tali sostanze terrene eppure trascendenti. Il tempo immutabile e flessibile ma statico dinanzi a loro, dinanzi ad esso.

Una sostanza dolce e liquorosa sorseggiata nell’intimo dei nostri pensieri.

Ricordo invadente.

Il mio amico d’infanzia partito chiassoso per la Terra Santa con armi e scudo, pronto all’attacco più che alla difesa, ad inseguire il suo frammento di vero. Finito cavaliere, nobile e padrone, vassallo di terre deserte ed infame conquistatore.

Il mio amico d’infanzia quasi sperso e bambino su quella nave impervia e imponente a cercare un senso alla sua vita, la nave che avrebbe attraccato porti mai più sicuri, traversando flutti sconosciuti.

Il mio amico d’infanzia in lotta contro i mori, pelle ruvida loro, vellutata lui, triste e invecchiato per l’afa, morti gli infedeli e per premio nobiltà tanto bramate.

Il mio amico d’infanzia che un tempo come me cercava il vero, dunque, ed era finito col detestarlo, col fuggirlo, come si sfuggono i fendenti di spada. Ma il vero, il vero prima o poi colpisce alle spalle.

Il mio amico d’infanzia nascosto tra terre d’oriente ed ormai simile agli orientali sovrani pur odiandoli a morte.

E poi il mio maestro, mesto.

Il mio maestro che fine avrà fatto crollato l’impero?

Immaginavo già lui deriso, immaginavo già lui ribelle e da altri savi sostituito senza interrogatorio condannato, senza diritto di esporre le sue tesi, di incantare con la sua eloquenza, con la sua abile e sincera oratoria.

O magari, sì, magari scampato anche a questo, a infischiarsene e a rider di loro in silenzio, beffante, nel chiostro a fischiettare melodie d’oriente.

Sì, senz’altro era così, non avrebbe dimenticato mai nulla, rinnegato mai nulla, pacifico e schivo sarebbe restato nel suo mondo ad aspettare ancora la venuta del suo bramato messia terreno e divino, tra un pasto ed un altro. Avrebbe magari sussurrato che non è con l’altrui opinione avversa che si fallisce.

 

10

 

Ecco, ho fissato per oggi l’appuntamento. Trabocchetto? Io in me tradita? Lui da me tradita? Non so, forse nuova realtà manifesta, forse sincera verità, dolce verità. L’attesa. E poi lo saprò. Ma perché l’ho fatto? Rischio abnorme. Se fosse l’ennesimo abbaglio? Spero non sia così. Forse nella sua innocenza lui mi mostrerà la mia via, la mia pura e soprattutto vera via. Lo spero.

Eccolo che si avvicina, lambisce il bordo della strada. Straripa come corso diurno. Miserrimo eppure potente, furioso, possente, immane. Una piccola parte d’universo che contiene in sé l’assoluto. Contiene tutto ciò che la mia parva mente può immaginare, può sperare. Fare da aquila, da rapace saggio, scaltro e divoratore di spoglie spirituali.

E diventa miserrimo, infimo, inutile e subdolo il mondo, diventa un di più, un gioco inutile, la vita. Sembra quasi che nel guardarlo ogni nostra azione sia tipo il balbettio di un bambino durante la lezione di storia. Inutile, che nulla aggiunge al pubblico fremente. Scalpitio notturno di un falegname che inadempiente non termina l’opera infra il far dell’aurora. Suoni inutili dinanzi la sua apparenza i miei, suoni scarni.

Non pretendo chissà quale inaudita verità dalle tue labbra, non pretendo protezioni da crociato servile, fedele, quasi servo d’amore. Pretendo una minima luce, una fioca luce che mi lasci intuire la via, la via verso il mio essere, una luce che seppur minuscola mi guidi, che seppur distratta mi sostenga. Pretendo l’impossibile? Bramo la luna?

Nel guardarti sembro udir il suono fioco delle onde del mare infrante su scogli di amor dimenticato ed inutile come discorsi eloquenti al vento. Un mare che tengo in un palmo di mano, così sicura di me eppure così timorosa del mio futuro. Sopita sul fondo di questa mia imbarcazione di fortuna, costruita con lacci caduchi, esposta alle intemperie del mondo in rivolta.

Eccoti prossimo a me. Eccoti a due passi da me. Eccoti vicino a me. Eccoti, vorrei ora dire, vorrei ora mostrarti, mostrarmi, eccoti ora in me. Vorrei inumidirti le labbra. L’azione vince sulle remore, stordisce gli ostacoli al pensiero. Un bacio profondo accompagna l’abbraccio fugace. La mano scende dalle tue spalle ai tuoi fianchi, un brivido c’invade.

Eccoti, eccomi. Eccomi tua. Possiedimi. Per sempre. Dammi le tue mani ed intrecciale in un ardore senza fine alle mie. Rendimi partecipe del tuo oscuro mondo. Rendimi la regina della tua astrusa ed alienante realtà.

Ah come invade me il desiderio d’eternità. Il desiderio che quest’attimo sia dipinto d’infinito. Il desiderio che non ci sia un perché ma solo i nostri corpi levigati ed uniti nell’amplesso eterno.

Come mi sento? Cosa provo? Provo il brivido dell’indefinibile, una sensazione di gioia e di potenza, ma di voglia di non capire, di voglia di lasciarmi andare, di sbrigliare le redini dei miei preconcetti e dei miei timori, di lasciarmi andare per sempre tra le tue braccia.

Un brivido mi investe il dorso. Desiderio senza fine di te. Nel calore dei tuoi abbracci trovo rifugio. Non c’è freddo né morte nei miei pensieri. Non c’è più dubbio. Solo desio.

Una realtà magari meno idilliaca, meno primordiale, meno romantica è lì dinanzi a noi. Ma non dimentico, non dimentichi, non scordiamo che la nostra passione potrebbe  smuovere le porte degli inferi.

 

11

 

Mi posi chino ai bordi di quella rovente roccia possente. Solo ovviamente e in silenzio tra me meditando. Che fare? Valeva la pena proseguire? Ormai alea iacta est. Indietro non potevo tirarmi, non c’era più tempo. E comunque non un rimpianto sul mio viso, non una lacrima dai miei occhi. Era lei che volevo, era lei per cui vivevo. Il resto non aveva e non ha senso, il resto è già trascorso, è ormai passato, era ormai passato.

La mia mente lucida e vuota, non un pensiero più la invadeva. Caddi in preda a me e trascesi nuovamente me. Annullamento della volontà e manifestazione dell’essere concreta ed al di là di me ma in me immanente.

Io non ero dunque lei esisteva. Sottile sostanza eterea sulla mia volubile pelle succube alla furia dei giorni e degli anni. C’era lei, presente. E non altro valeva, non altro contava, nessuna importanza il mondo, nessuna importanza l’io perché lei era la parte nascosta di me, ed io carpivo la mia essenza solo in lei.

In preda a ciò sentii forte la sua mano carezzarmi, forte ma ad un tempo lieta, dolce melodia di nuovo. Ero in visibilio dinanzi a tale invisibile figura.

No, non ero nessuno. Non un frate. Non un savio. Non un dotto. Non uno strimpellatore di liuto. Non un verseggiatore della corte federiciana. Solo un granello misero. Un misero granello che grazie a quella mano, la sua mano, reggeva il mondo intero.

Cos’ero se non essenza volatile anch’io. Eppure di una volatilità presente, che son sicuro sarebbe stata scorta da un viandante che mi avesse scorto in quelle terre gelide. Il mio corpo era l’anelito di quel vento interiore, era lui che come specchio rifletteva quel subbuglio.

Contemplazione infinita. Eterna ascesi. Improvviso mi trovai nell’empireo, potrei giurarci. Le stelle fisse, i troni, le potestà, le virtù, il coro di serafini, i luminescenti cherubini, gli arcangeli agguerriti, le lunari immagini degli angeli pura essenza e pura apparenza, tutto sorvolai. Repentino viaggiavo in quella serie di ignote costellazioni e mai gaudio provai maggiore.

Cancellai come bevendo Lete ogni umana colpa, ogni disgrazia, ogni sventura. Ero padrone in quanto servo dell’assoluto. Puro. Candido come germogli intatti ed inviolati nell’aurora di un giorno primaverile. Che gioia, ripeto, e che entusiasmo!

Ogni conflitto ed ogni invidia umana poteva benissimo passarmi addosso e lasciarmi indifferente, a mo’ di un felino che tenti ad ogni modo, avvalendosi della sua astuta agilità, di scalare un ripiano colmo d’olio e ad ogni passo innanzi tre indietro in guisa che l’impresa ardita abbandoni senza scampo.

Amore. Questo il senso del sogno desto. Amore senza condizioni e verso ogni cosa mortale, naturale e innaturale. Amore incandescente ed umido. Amore diurno e notturno, luce, ombra e penombra.

Mai più mai più desideravo tornare tra le umani genti. Tanto gaudio ebbi provato che quando feci brusco ritorno ai piedi della roccia, se mai di lì mi mossi concretamente, mi sentivo come l’infante strappato a forza dal grembo materno che disperato piange, urla e stride, sperando un dì di poter ritornare nell’annacquato rifugio.

Io non esistevo. Io non avevo più personalità alcuna tra gli uomini, tra i miei pari ormai forse non più tali. Io ero un tutt’uno con l’universo, ero l’unità molteplice. Tutto il resto era ai miei occhi inganno.

 

12

 

Che carino che è. Che carino che sei. I tuoi respiri sul mio collo mi inebriano e mi estasiano, sì, ancora, ancora avvicina le tue labbra alle mie orecchie e spira come vento le tue frasi concise e deliziose.

Che frasi. La tua dolcezza è mista a paura. E io mi spavento. Sono così spaventata quanto innamorata, se ci si può innamorare così, se ci si può innamorare dell’attimo, di un attimo, di uno sguardo, di una brezza ardita che diffonde il tuo verbo.

Ed è ciò di cui ho bisogno, ho bisogno di tremare. Il tremolio di eccitazione, il brivido che emana il piacere di essere ricoperta d’oro e d’argento dal tuo fiele d’ambrosia, lo stesso brivido che mi intimorisce. Che immenso piacere mio caro.

È ciò che voglio. Ora sei tu l’inafferrabile, l’inconcepibile, non io. È ciò di cui ho bisogno, inseguirti come le folli corse di noi bambini nel trastullo del gioco. Tu che scappi tra boschi di passioni, dipinti di erbaceo candore, trapunti di docili ed odorose rarità floreali, come scelte dalle tue mani sapienti. Ed io, io che non riesco a raggiungerti, ad acciuffarti, pur avendoti a poche spanne.

Non ti conosco, il tuo è solo un nome. Un nome che sembrava suonare strano, ma che ora nell’ignoranza di te è impresso a chiare lettere. Ed è tutto ciò che serve. Sapere che fai, dove vai, qual è il nostro futuro, è tutto stupido, tutto inutile, contano solo i nostri passi mai così vicini.

Che simpatico che è. Che simpatico che sei. I tuoi sussurri sono colorati d’ironia. Un’ironia così seducente, sento che in questo momento potresti chiedermi qualsiasi cosa, tutto. Farei per te qualsiasi follia. Sei l’eterna mia gioia, una gioia finalmente pura, la gioia che cercavo, non un divertimento vile, ma una gioia dionisiaca e candida, dolce e perversa.

È ciò di cui ho bisogno, ciò che è necessario in assoluto al mio essere. Assaporarti, divertirmi, ridere di gusto e con pacatezza infinita. Ridere con te, tra i tuoi abbracci. Mi sento al sicuro, al sicuro tra la tua insicurezza. Con il divertimento sembri dominare il mondo, domini il mondo, padrone di ogni cosa. Io tua compagna, al tuo fianco e al centro di ogni tua attenzione.

Che sensazione! Noi bambini, ancora, immagine ricorrente. Noi che giochiamo a nascondino. Io nel rifugio segreto e tu, tu che mi cerchi e non mi trovi, divertito chiami il mio nome. Con la tua frenesia calma come il mare di luglio. Adagiato, sì, adagiato sembri, disteso come golfo sorrentino, mio per sempre.

Ora sì che ti conosco mio sconosciuto e sempre presente amico. Tu sei parte del mio essere, sei in me. Non fuggirò più, e tu non mi sfuggirai, mio amico amato. Mai. Mai.

Stringimi ancora, voglio addormentarmi avvinghiata al tuo corpo delicato e possente, svegliarmi domattina col tuo sguardo protettivo ed indifeso, da scoiattolino e da pantera. Non lasciarmi, non farlo.

Che abbaglio, come avevo fatto a lasciarmi ingannare dalla falsità sei tu ciò che cercavo, sei tu ciò che cerco ed ho trovato. Non ci lasceremo più, un solo corpo, un’anima, un solo fiato.  Uniti e nessuno e niente potrà separarci.

Stringimi e chiudi gli occhi con me, amore.

 

13

 

Avrei Continuato, dovevo. Che ragione avrebbe avuto a quel punto la mia vita. E che ragione aveva avuto sino ad allora.

Cosa avevo fatto, cosa era stata la mia vita. Ricerca. Pura ricerca. Ricerca dell’etereo. Non avevo fatto altro da quando ero bambino e fui iniziato agli studi. Mi interessai subito di capire cosa c’era dietro il corpo, cosa c’era di immanente ad esso e trascendente ad un tempo. Avevo vissuto, vivevo, per comprendere l’immagine. E dall’immagine e per l’immagine avevo vissuto di immaginazione, di sogni.

Questa era stata la mia vita. Non avevo fatto altro che aspettarla, attendere la sua venuta. E se non fosse venuta sarei partito per trovarla. Cosa che feci. E a cui non avrei rinunciato, mai.

Ed un’idea che sorse da subito e non mi avrebbe più abbandonato. Lei nella sue eterea essenza era la scintilla di ogni azione, il nostro fine, la nostra propensione, tendevamo ad essa. Altro fine non c’era. Lei era la vita ed ad un tempo la causa remota della vita,  lei era causa, oggetto e fine ad un tempo. Ed io l’avevo vista, immaginate? Vista!

A quella vista la morte non mi intimoriva più, come poteva. Era sublime lei. L’adoravo. Di un’adorazione obbligatoria per lo stato che aveva, piacevole per i sensi, per la vista graziosa, soave per l’udito, dolce per il sapore, lieve al tocco. Sapevo che la morte era nulla perché il piacere dei sensi, l’intensità dell’intelletto, non erano corporali ma trascendenti. La mia anima si sarebbe sparsa per il mondo e manifestata spiritualmente tramite altri mezzi corporali al consumarsi del mio corpo ridotto a cenere. Sarebbe diventata petalo seducente, corolla di passione, sguardo felino, fruscio del vento, balzo bestiale, gesticolio eloquente umano, musica delle sfere.

Piansi, condizione ormai perpetue. Le mie lacrime. Tramutate forse anch’esse un giorno in pioggia divina, in refrigerio umano felice, della terra fertile. Pioggia purificatrice. Lacrima liberatrice che dissolve le macchie oscure della nostra anima. Macchie, cioè vuoto, assenza di lei, divina, lei non manifestabile. Via oscurità amene, via vuoto d’anima e assenza di spirito. Vieni tu in me. Purificami.

Eccola, la sento improvvisa di nuovo. ero sull’orlo di un precipizio e lei vibrava nell’aria. Sotto ai mie piedi limpida acqua scorreva sgocciolando nel vuoto. Cascata intensa e vorticosa, capogiro, timore di nuovo in me. Improvvisamente mi avvicinai e sembrai rovinare giù al fosso. Capii. Erano i vuoti della mia anima, del mio abisso. Ripresi d’un tratto ma lievemente i sensi e scivolai. Solo la sua mano possente mi trattenne ed impedì il peggio. Cadere in preda dell’unico vizio padre degli altri sua conseguenza. Il vuoto, l’abisso.

Passò ora sulla fronte la sua mano e mi parve di sognare maggiormente. Compresi il perché. Era quella la via della verità il sogno. Via del vero e del reale. Esistenza, nostra esistenza fatta per metà di sogno, e per metà di realtà che altro non è se non sogno nella parte del vero, abisso nella indifferente concretezza.

Amore. Amore è l’unica via di salvezza. Non potevo redimermi serbano oscuro odio, tetro rancore, cagione del vuoto e diramazione ad un tempo dello stesso. Amore spassionato, universale, eterno. Amore cioè verbo in nuce, anima. Sguardo, atto di liberalità, bacio ardente, abbraccio caloroso, sua manifestazione, verbo palese, cioè spirito.

E fu appunto uno sguardo inenarrabile il suo congedo. Mi destai in un campo di frumento.

 

14

 

Toglimi le mani di dosso, ho detto basta, ho un altro. Come dici?, no, puoi scordartelo, non sono cazzi tuoi chi sia. Sicuramente qualcuno che sa darmi di più, più di te vile meschino.

Ho sopportato tutto con te. Sono resistita alla perdita di dignità con te, ad essere il tuo burattino di cartapesta. Ora basta, sai già, te lo dissi e lo ripeto, non conti più nulla perché nulla vali. Con te avevo perso ogni ritegno, ogni rispetto di me. Ora so che l’ho finalmente ritrovato, ho ritrovato me tra le sue braccia.

Posso finalmente, ora essere me stessa. Essere realmente ciò che sono, non ciò che tu volevi io fossi, non ciò che lui vuole io fossi, anzi sì. Sì perché la sua volontà sublime non collide con a mia, ma la rispetta ed è in simbiosi con essa. Rispetto, una parola che forse è ignota al tuo vocabolario, che forse hai tralasciato o mai conosciuto.

Sì, mio burattinaio burattino, schiamazzo notturno. Ti muovi come furbo rettile. Ma di una furbizia non astuta, una furbizia che sarà valanga e ti travolgerà. Morirai bastardo, morirai delle tue stesse moine, seduttore delle pocodibuono, delle troiette come te.

Io resisto, resisto alle tue follie, alle tue sciocchezza. Resisto e godrò nel vederti soffrire vittima di te. Resisto uomo piccino, resisto e godo, te lo ripeto, godo, godo nel vederti trascinare le tue stesse catene.

I tuoi sorrisini, si sorridi, rettile. Credi di poter dominare? Io credo che i tuo dominio sia sulla gente della tua stessa fatta. Non su di me, non su di lui. I tuoi sogni di potere sono tristi. E mi spaventano. Mi spaventa la fine terribile che farai. Stai varcando la soglia di un baratro che, sta sicuro, ti inghiottirà senza speranza. Sei ancora in tempo per salvarti. Rinuncia alle tue voglie insane. O fottiti. E muori senza ritegno, senza fama, la fama che tanto brami.

Io ho già fatto la mia scelta, la mia scelta è la dolcezza, il candore, i godimento. La tua la sofferenza, il potere, l’indifferenza. Uomo indifferente vedrai la gente scorrerti a fianco senza accorgersi nemmeno dei tuoi passi, del tuo corpo. Indifferente vittima d’indifferenza.

Sei un condottiero senza armi né onore, io mi ero lasciata entusiasmare da te, ma ero ceca, accecata dalla gloria. Ero divenuta viscida alla tua guisa. Ma non mi hai saputo fregare. Mi sono ribellata in tempo. E lo faranno tutti. La tua sola presenza che a primo acchito provoca desiderio in profondità è un vuoto contenitore, la tua sostanza è d’odio.

Cosa mi rimane di te? Solo il tuo fumo insalubre. Un’apparenza non luminosa. Le tue parole le ho già dimenticate, meschino. E non avrai più nulla da me. Nulla perché il nulla rimane, non ti ho cancellato dalla mente, assurgerai per sempre ad esempio, esempio di vita disumana, di vita reietta. Morirai, bastardo.

Grazie a dio, grazie a dio io non ho come te mille certezze, la certezza è ciò che di più subdolo, inumano e soggiogante può esserci, è la molla del potere malvagio. Grazie a dio sono libera nei miei dubbi, grazie a dio sono libera e fiera nella mia umiltà.

Ah che bello, che gioia sarà da oggi non vedere più i tuoi stupidi presenti, regali farfugliosi, ingarbugliati, ah che piacere e che goduria sciupare e distruggere tutti i tuoi fiori di plastica, finti, come te. Che gioia immensa rinunciare alle tue stupende cene con persone come te, sì quei grandi uomini. Uomini che si atteggiano a potenti del mondo, a capi delle nazioni, a segreti conquistatori, ma a cui manca solo un nasone rosso finto e due passi di danza per lavorare in un bel circo. Ah che pentimento solo non aver sputato nei loro piatti, non aver disperso i loro parrucchini, i loro aneliti di niente.

Ah che bello fare a meno del tuo letto, rinunciare ai tuoi squallidi amplessi.

Che ero io. Eh, la tua bella troia, vero? Il tuo fiore all’occhiello godereccio, il tuo trastullo. Ma portati il frustino la prossima volta e sodomizzati da solo. Vile. Stupido. Stronzo.

Cosa ero e cosa sarei stata per te se depressa, se ansiosa, se timorosa. Solo una stupida e fastidiosa palla al piede. Beh mettila al collo e gettati nel tuo stesso abisso.

Lo vedi ora rido io, stronzo.

A te non ha mai sfiorato l’idea che dentro me potesse esserci qualcosa, qualcosa per cui valeva la pena lottare. Non hai mai guardato in fondo ai miei occhi. Non hai mai colto e nemmeno sfiorato la candida rosa che è in me. Non ti sei mai accorto che dentro me c’è qualcosa di davvero potente, diverso dal tuo sesso senza animo, dal tuo potere senza merito.

Da oggi, con lui, sono disposta a perdere tutto pur di ritrovare me stessa. Addio!

 

15

E cosa sarebbe stata la mia vita senza di lei? Non credo avesse avuto più significato. Non credo perché averla voleva dire comprendersi, entrare finalmente in sé, prendere coscienza. Senza di lei il nulla!

Non c’è ragione che tenga, era lei, lei l’essenza unica dell’infinito e per lei aveva ed ha tuttora un segno visibile il motore degli astri, dei fiumi, del tempo e degli eventi. Non c’è nulla al di fuori di lei ed il nulla altro non è che sua assenza terribile.

Lei la pura speranza, la pura fiamma zampillante ed inestinguibile. Lei il tutto. Il corso del destino è servo del suo arbitrio. Lei ripara dalle intemperie della vita come vivida e fulgida ad un tempo roccia. Lei era la nuova gloria di ogni nazioni. Non potevo né il mondo avrebbe potuto mai perderla.

Cosa significa, vi lascio immaginare, cosa significa vedersi ogni cosa. Vedersi padroni e servi, e vederla serva e padrone. È il principio lei ed è la fine. Uniti entrambi in maniera fissa e stabile in un punto inscindibile e indissolubile. La fine principio di ogni cosa visibile per manifestazione e visibile per sola intuizione.

L’arte, forza tendente alla percezione contemplativa della bellezza deve ed innalza agli altari la  presenza naturale rendendola divina. Croce e delizia degli umani sensi. Connubio idilliaco tra reale e irreale. Universale disegno interiore estrinsecato. Un caro vento primaverile che carezza il volto era il suo sussurro.

Ero certo che dopo di noi non ci sarebbe stato altro, che l’attimo, le ore, il concetto stesso di tempo sarebbe stato inesorabilmente distrutto, perché apparente.

Un lampo apparve in cielo. Il tempo mutò d’improvviso. Uno squarcio sonoro invase l’orizzonte ed i miei sensi. Come scossa la terra sotto ai miei piedi non reggeva più il mio corpo che ormai oscillava. Nell’aria il sapore di tempi malvagi scorreva come sciami insidiosi, la mia mente fu pervasa da immagini orribili. Il mio umore non era più lieto. Paura. Di nuovo la paura mi attanagliò.

E subito un intenso rovescio d’acqua odorosa mi invase. Pioveva. Una tempesta e me naufrago di quello stato d’animo pervasivo e parassita.

Pioveva e la mia concentrazione cadde sulle gocce nell’insieme. Poi su una singola goccia. Guardai e fui preda di meraviglia. I cristalli e la volta mi parve a tal punto cristallina. Eccola. Eccola la divinità. Ecco l’infinità dell’universo. In questo piccolo frammento di realtà. In questo spazio seppur limitato si scorgeva ed era insito l’illimitato. I mondi molteplici ed univoci. L’infinità di una linea delimitata da due punti. Infinita. Infinita perché eternamente divisibile. Balenarono alla mente le parole del mio maestro, i riferimenti alla cabala, la possibilità di scindere ciò che è democritianamente inscindibile. E fu un sussulto, una pace ritrovata.

Da quelle gocce nasceva silente in me un luccichio, una corrispondenza universale con l’umanità e con ogni essere vivente e minerale e con la natura tutta infine ed il cosmo, la corrispondenza del divino.

Noi esseri mortali immortali resi dalla grazia femminea, dal cuor cortese, noi divenuti finalmente eterni, nel circolo eterno, nel circolo etereo, eterno ritorno ed eterna verità nel ricordo. Contenitori noi dell’infinito.

Arrivò un’ondata nuovamente primaverile tra le gocce, il maltempo interiore, questo orribile dolore, si rasserenò da solo a quei pensieri ed in loro.

 

16

Ah leggerezza e piacere nell’essere distesi su questo mio letto a tendere l’occhio al vetro. Le gocce di pioggia impresse e che quasi, come dire, sgretolano al contatto di nuove gocce. È primo mattino. Apro il libro che ho sul comodino. Le affinità elettive. Mi perdo. Mi perdo tra le distese verdeggianti della contrada cui mi rimandano le lettere, unite a parole quasi di fuoco che congiungono periodi di intenso amore, di spassionato ardore. E mi perdo così, dunque. Sfogliando le pagine dall’intenso profumo. Oh quanto adoro l’odore intenso dei libri. Odore di vivacità, di poesia, di immaginazione, di terre lontane.

Un vocio leggiadro percepisco da lontano. I lieti suoni dell’autunno che mi ha liberato dalle catene, da un’ afa oppressiva. Dal suo corpo vischioso ed umido sulla mia pelle. Ah mio autunno! Ah mio liberatore! Ah mio amato!

Non ci speravo. Non ci speravo arrivassi amore mio. Non credevo più possibile uscire da questa prigione dorata e terribile. Quasi mi credevo spacciata, ormai vittima di quel meschino.

Non ci speravo. Quasi credevo di poter riuscire a fuggire, casomai, da sola, con le mie forze. O meglio di essere il mio destino la solitudine e solo nella solitudine ritrovare sicuro riparo. Quasi non credevo più possibile l’esistenza di uomini veri, di veri ragazzi che si ergessero al di là dei limiti senza sfruttarti e tenendoti in considerazione, come divina.

E nonostante tutto questo, in fondo, se avessi teso bene i sensi percependo il mio intimo sussulto me ne sarei accorta. Mi sarei accorta di cercarti. Di averti voluto al mio fianco. Te, te mio caro. Te che ti conoscevo in altre vesti e mai avrei potuto immaginare di finire vittima di tanto spasimo per te. Che voglia di riabbracciarti, anche ora, magari qui su questo letto.

Sembrava quando mi lasciai andare col meschino che quella fosse la via. L’austerità godereccia e la viltà vitale. Che illusa. Mi credevo dominatrice accanto a lui. Eppure non avevo capito, cieca, che chi ti ama ama te, non la sua immagine falsa di te. Magari un’immagine di te, ma quell’immagine più pura, la parte femminile che è in ogni uomo la solo quella può rendere un uomo speciale. Il soffio del vento selvaggio e possente nell’abbraccio unito a quel femmineo sapore corrispondente ed estroso. È questo che noi donne cerchiamo. L’intarsio mancante che completi il nostro disegno interiore. E quanto simile sei tu, amore a me, quanto congeniale e perfetto è il nostro incontro, la nostra unione.

Sei tu quel sapore lieve del manto autunnale dai mille colori.

Ah quanta freddezza c’era prima nei miei occhi, umidi di rabbia e tristezza, ora di un’umidità diversa, l’umidità festosa dell’incontro, della leggerezza, della spensieratezza, l’umidità, posso dirlo perché lo sento, l’umidità dell’amore.

Quanto mi è caro, quanto, e quanto l’avevo ignorato, convinta di poterlo gestire e domare, non sapendo che esso straripa come corso ribelle, non si arresta, nulla può fermarlo né deviarne il corso, quando incontri la persona che hai sempre sognato, che sempre era riposta in un angolo, seppur remoto, del tuo cuore.

Ti amo, mio caro!

 

17

E sì. Credevo proprio così. Credevo che il tempo non necessitasse di limitazioni o di frette, di repentine decisioni. Credevo e capii e credo tuttora che il tempo è la nostra percezione intima, il nostro quantificare il fluire liquido della realtà e più precisamente dei suoi accadimenti concreti. Questi, senza alcun dubbio, non hanno dimensione. È la nostra erronea percezione che gliela dà.

E ruotavo intorno ad un argomento, uno solo eppure così vivido ed intenso. Trottavo giulivo e pensoso ad un tempo. Trottavo come giostra inarrestabile sotto lo scalpitio degli zoccoli.

La mia mente oramai da tempo estesa era contenitore di tutte le emozioni, di ogni essenza spirituale e naturale. Ogni cosa concepibile ed inconcepibile veniva sezionata e ridotta ai minimi di termini sprigionando energia immane, mai così potente la potette l’umana ragione comprendere, e poi colmava il mio essere. Io mi sentivo come arco che tende e sprigiona e riposato staziona, ma all’inverso, nel momento della sezione in minuscole eppur infinite parti veniva sottesa una forza inaudita, nel momento successivo la staticità non era data dal riposo, ma dalla tensione che capiente in me conteneva.

Ed ancora, ancora, ancora dinanzi a me un susseguirsi d’immagini, di realtà, di eterne aspirazioni. La semplicità, la semplicità del sapere si ergeva dinanzi a me. Ah quanto i sofismi sono rivestimenti formali di una nuda realtà unica e plurima ma evidente, esposta in arti e modi diverse a seconda della forma. Ah poi quanto caro mi era innanzi la frugalità susseguente a tale semplicità ideologica, una vita che viveva da sé, senza pretese. Ah che clamore l’impegno civile per il mutamento dell’oppressione e per la pace universale, realizzabile a seguito di piccoli gesti d’umiltà. Ah che splendore superare il finito con una parola che avrebbe senz’altro riecheggiato per l’eternità.

Ah quanto cari mi sono quei fluidi che vidi. Si districavano ansiosi tra essi le varietà cromatiche. Una correlazione immensa emerse allora tra le dodici varietà dell’iride apparse e le tonalità musicali. Ad ogni colore udivo in sinestesia suoni secchi diversi. Ebbi l’impulso di segnare sul terreno una notazione improvvisa ma ero come colui che ha evidente in mente una immagine sonora ma non sa riprodurla. Che sensazione di pochezza, di incapacità comunicativa!

Senz’altro avrei dovuto distogliere lo sguardo da quell’assoluta verità palese ma inesprimibile. Non vi riuscii subito sebbene di lì a poco la mia mente percorse rapida altri sentieri.

Giunse all’espressione, quindi all’olfatto ed al gusto. Sapori inebrianti carezzavano i sensi spogli e li colmavano. Sensazione di sazietà, sublime e di appetito. Sebbene non mangiassi ormai da giorni potei deliziarmi a quella sensazione. Uh che lauto banchetto saporoso, gemme dolciastre, uve biancastre, vivide brocche di nettare divino, ambrosia dal colore scuro e luminoso.

Poi una nuova congiunzione. Era il fluire dei fluidi che in sé univa ogni cosa, lo capii al volo ed ora mi è ancor più chiaro. I nostri sensi sono sorde vittime del liquame candido e puro, innalzato a gloria eterna dallo splendore del corpo riflesso in bellezza suprema tramite lo spirito dell’amore dell’anima. Ma qualcosa mancava, qualcosa che non possedeva un suono preciso, un’immagine vivida, un caro sapore. Sì, l’infinito. Quell’infinito che considerato in virtù come insieme aveva una forma manifesta nella trinità ora indicata e che era distinguibile in maniera nitida dalle nostre sensazioni, preso nella sua più pura definizione era impercepibile. Come se la qualità implicita presente in ogni cosa e che trascende la cosa stessa che la contiene non fosse definibile se non limitata a sé. Non si può definire un punto ma la distanza sì. È nella distanza che definiamo l’assoluto, che possiamo misurarlo ma esso rimane, ha pur sempre una qualità implicita, in sé, che non perde e ciò mi rese evidente che ciò che percepiamo non è immagine riflessa ed imperfetta, non è copia del trascendente, ma è sua limitazione e quindi imperfezione.

Districò improvviso il mio pensiero sulle rocce circostanti e vidi me riflesso in mille forme. Poi mi ricongiunsi alla solida parete e il mio corpo fu lievemente ma in modo brusco adagiato in ogni dove circostante. Improvviso in un attimo planai privo di peso.

Eccomi d’un tratto tra le fronde fitte di un cespuglio che mi accorsi essere la sommità di un tronco e poi giù e su in oscillazione. Vidi un immenso giardino arabizzato, luogo sublime e superbo, lo riconobbi, era il posto ove solevo coi miei compagni di studio disquisire assieme all’Imperator. Ma poi mutò di forma e gli arbusti profumati da soavità d’ agrumi arabizzati scomparve, diede spazio ad altra flora. Una selva mastodontica mai vista in alcuna terra, fitta ed intensa, fior dell’intelletto. Volai più in alto e la vidi nell’insieme, potei quantificarla e l’operazione mi facilitò la qualificazione nel momento in cui tornai come stramazzato al centro d’essa. Era la Foresta Nera, di cui sentii parlare. Un luogo rigoglioso di selvaggio ed era lì che il mio viaggio avrebbe dovuto giungere a meta.

Era ora, era ora di cominciare. Di rintracciare e cogliere e rendere propria la verità sino ad ora solo intuita. Era ora di entrare nel vivo della questione, nel vivo della mia folle missione.

E l’azione precedette questo pensiero esposto, le mie mani si mossero da sole iniziando a tracciare nell’aria una invisibile scala, la scala in sé avvolta del sapere ascendente. Rotolava essa intorno al pullulare vegetale e si intrecciava con le mie mani che creavano essendo create, se di creazione si può parlare, sarebbe stato più giusto dire opera del vasaio, plasmare dall’etereo. Varcai dunque la porta del verbo, dell’esplicabile per via formale ed artistico e mi addentrai oltre sofismi, verso ciò che tenterò di descrivere ma che il più, come ogni cosa del mio viaggio, lascio a chi legge.

Salii in silenzio i vertiginosi gradini. Mi resi conto così che stavo traversando ciò che d’inimmaginabile c’era, ciò che né la descrizione di scienze, né la storia umana, né racconto avevano mai osato. Mi ero calato salendo in una situazione da cui se fossi uscito nulla sarebbe più stato com’era né com’è.

La porta con tanfo rumore divaricò in orizzontale e fu il frastuono della natura.

Ah come è differente il pensiero e l’azione umana dal motore universale e dalla divina intenzione!

 

18

Notte inoltrata. La luna coperta da nubi oscure. Buio infimo mentre sono sola ad aspettare ancora, come stamattina. Aspettare col tremor delle mani i tuoi occhi vicini ai miei.

Come inferno, tra mille dannati dai svariati dolori, l’anima mia è in preda agli spasmi d’angoscia. Desiderio di esser salvata da te, mio illustre cantore, salvata ancora, per sempre, per sempre. Cancella te ne prego la malvagità dalle mie intenzioni e liberami da questa reietta condanna. Voglio affondare tra le tue braccia per sempre, ancora per sempre.

Chi sei tu dolce usignolo dal bel canto, melodia di quest’autunno principio buio della luce? Chi sei tu o mio amato, mia nuova scoperta, mio unico salvatore? Chi sei stella più brillante del firmamento?

Perché sei qui. Dalla tua bocca non un comando che non sia dal sapore di fiele, non un suono che non sia armonia di diversi violini. Vieni mio amore, vieni e difendi questa donzella spaurita dal domani e dal buio del vuoto.

Vieni mio usignolo, dunque. Vieni tu con la zampa ferita, vieni tu che nella tua sofferenza sovrasti di gioia la mia e la purifichi, vieni spazzando via ogni indecisione. Vieni mio eroe senza paura, vieni tu che hai la forza di mille giganti, la purezza di cento gigli e la dolcezza di pasti gustosi. Vieni. Vieni tu che non lasci il tuo manto macchiato dalla ingordigia di astute cupidigie senza liberalità, di lussurie senza desiderio dell’altro, di superbie senza forza e senza virtù. Vieni.

È giunto il momento di destarmi dal sonno della verità, della ragione e dell’istinto e della gioia. È giunto il momento il momento di essere con te avviluppata per emanare la potenza dell’amore, di un amore puro e imponente.

Con te rinasco, in questa stagione dai colori più vari rinasco. Un’energia inaudita si impadronisce del mio corpo e rinasco, mi rigenero, sono di nuovo ricca di forze e bellezza.

Eccoti mia luce. Tra i viali già un fascio lampeggiante squarcia il buio della paura. Eccoti cavaliere eccelso. Eccoti sublime condottiero d’amore. Scintilla come armatura la tua bocca di fragole e d’amarena. Sapore di maggio in questa sera di primo autunno. Eccoti sfoderi già di lontano la spada focosa delle tue parole ardenti che inchiodano l’avversario e inchiodano me che pendo dalle tue labbra.

Baciami. Non salutarmi e baciami. Baciami con passione e senza profferire verbo. Baciami ardito, baciami ti dicono i miei occhi silenziosi e vogliosi. Baciami come battaglia vittoriosa già prima di iniziare. Baciami come scontro fatale. Baciami con entusiasmo di folli imprese. Baciami.

Questa sera non ha più importanza, guardarti mi fa dimenticare ogni cosa, tutta la realtà sei tu, tutta la realtà sono le tue labbra, tutta la realtà è questo bacio. L’umido mi inebria, mi estasia, gaudio immane. Questa sera è come ultimo spiraglio di felicità che assurge a momento eterno.

Baciami dunque, non voglio, non posso, non devo perderti. Baciami e lasciami andare in balia di me, del mio istinto, del mio amore. Lasciami andare in balia di me. Amami ed amami con i tuoi baci, con il tuo bacio.

Baciami come se dovessi partire lontano, come se dovessi volare su terre sconosciute e so, sì lo so che il tuo bacio mi farà volare. Ma il volo in un solo abbraccio realizzato, solo nel tuo abbraccio realizzato.

Baciami d’un fiato e dimentica con me ogni cosa mio eroe. Baciami più forte, stringimi e respira su di me, baciami ancora.

19

Ero intorpidito come colui che alla deriva viaggia senza meta tra la veglia e il sonno, sbatacchiato dalle onde e sperso come cardo senza melodia da seguire, intarsiato da un ricordo, il suo, la sua fugace apparenza.

Ed in questa fase quasi onirica lei apparve, apparve laboriosa come frumento colto da mani esperte ed affannate dalla fatica. Bella e radiosa, di immane bellezza dipinta.

C’era un conflitto forse insanabile tra le mie membra stanche e la sua luminescenza, il suo infliggere archi di luce quasi sonori che scuotevano le mie ossa ma non mi risvegliavano. Ero un bambino impotente dinanzi a lei, un bambino che non riesce a muovere i primi passi per avvicinarla e tentarne un approccio colloquiale.

Circolare era il mio dormiveglia, circolare come la sua aura violacea, era solo una sensazione, un’effimera sensazione. Caddero le mie mani smorte, il sonno oramai voleva imporre dominio, ma ad ogni caduta c’era un rialzarsi improvviso. Vivevo questa sorta di limbo dove l’immagine più pura della bellezza è intravista ma mai goduta a pieno dagli occhi.

E tentai un diversivo, distrarmi, distogliere lo sguardo. Mi avrebbe seguito? A volte quando cerchi qualcosa e sei lì a due passi dall’ottenerla ma più ti avvicini più un subbuglio ti blocca e rende inerme l’unica è voltarsi. Scindersi. Distruggere come petali tra le mani frammenti di razionalità e di concentrazione di modo che sia l’immagine stessa a seguirti. Guardare altrove, guardare altrove semplicemente per raggiungere la meta, per mirare con precisione. Guardare altrove.

Guardare altrove anche per evitare avvicinamenti scoordinati, essere pronto davvero con sé stesso per sopportare la vista. Se spesso non raggiungiamo i nostri sogni è perché la stagione ad essi propizia tarda ad arrivare. Persino con i desideri più intimi occorre pazienza.

Ma mai lasciare tutto, mai mollare, mai cadere nella tentazione della rinuncia. Occorre attendere ma non stancarsi, i fiori hanno un ciclo di riposo lungo diversi mesi ma al loro sbocciare si risveglia l’universo intero.

Bisogna sapersi capire per saper capire il giusto momento. Distratto dunque, mi voltai nell’attesa. Capii, forse, ma mai nell’interezza, mai con precisione aritmetica, capii con vaghezza come l’essenza stessa della ragazza.

Il circolo, il circolo dunque che ritorna e freme. Il circolo dell’universo intero è uno spiraglio, un’asola di attese. Ma quando giungerà il momento sarà un rinvigorire di gioie, momentanee magari, ma pur sempre eterne nell’attimo del godimento. Delusione? Possibile delusione? Ipotesi da scartare. I nostri sogni non sono mai delusioni, però bisogna saper discernere, capirsi dicevo, capire cosa cerchiamo davvero.

La verità arriverà, arriverà quando saremo distratti.

Allora forse mireremo la nostra immagine in uno specchio d’acqua e troveremo lei con le sue sembianze paradisiache. Capiremo che lei era sempre stata dentro noi, che con la fretta avremmo rovinato tutto quando bastava la pazienza, attendere pazienti. Lei verrà a cercarti se tu la cerchi con bramosia.

 

20

Amore, mio dolce e candido amore. Dolce come la pasta di mandorla e candido come giglio mai infetto dalla cupidigia. Dolce amore! Dolce amore da assaporare con leccornia. Candido amore! Da infliggere di lussuria con un sentimento perverso che ti inchiodi alla parete e ti renda eternamente mio in un abbraccio inaudito.

Ti prego amore, riempimi delle tue parole profonde, delle tue più intense sensazioni, delle tue imperfezioni specchio della tua virilità mascherata. Mostrami in tutto il tuo splendore la tua potenza gaudiosa.

Le tue parole sono impresse indelebili, scolpite come su marmo nel mio cuore pulsante, nel mio cuore che accelera il battito alla presenza del tuo volto incantevole. Tu che sei ad un tempo ciò che è dentro di me e quindi da sempre conosciuto ma anche un mondo nuovo da esplorare, la mia nuova America, terra incognita dalle mille bellezze, io alla ricerca delle pietre preziose che la tua anima mi offre, che il tuo corpo invitante mi porge.

Sì, sì amore mio. Rendimi tua, rendimi a tua immagine ossia a mia immagine, mio amore speculare, reinventami e fammi tornare in me con un giro vorticoso.

Con la tua forza del logos mai spento incuti in me timore, incuti in me rispetto, inebriami del calice divino di sapienza, mio vero pigmalione e servo nel medesimo istante.

Vai, continua le tue fervide lotte o mio condottiero dall’armatura scintillante, io attendo le tue parole di gioia, i tuoi gridi di battaglia, i fasti dionisiaci e i sublimi banchetti di fine battaglia. Prepara spada e giavellotto, assestami un colpo mortale e lecca le mie ferite, sanami padrone di ogni cura, principe del bene e del male, incantatore instancabile, combattente imbattibile.

Sì mio cantore ispira la mia stessa arte. Plasmandomi dalla sabbia o con un soffio vitale di vento rendimi la più superba altezza che il mondo conobbe, l’artista trasognante, l’artista il cui sforzo superbo è solo creare dal nulla, modificare l’esistente e farlo tendere alla più immane bellezza.

Abbracciami ancora, ora e per sempre.

Io sono vittima di un’eccitazione frastornante, mio giglio lussurioso vieni a me, fatti godere dall’inizio alla fine del mondo. Ultimi reduci godiamo, dimentichi del resto, noi soli godiamo e diveniamo l’universo intero.

Sì, così, non avere remore, sii tutto mio, sii per sempre mio. Quest’attimo duri ore, anni, millenni. Fammi godere mio amore, è tutto quello che voglio, mio vero amore.

Sono la tua Lilith e la tua Selene, sono la tua vergine eternamente in cerca di sesso, eternamente in cerca di godimento. Non farti scrupoli. Fammi di tutto. Rendimi serva. Sono tua per stanotte come lo sarò per sempre.

Vai mio animale grazioso e terribile, esplodi di passione, sono qui per questo, godiamo insieme. Sì godiamo. Ripeto all’infinito questa parola, godiamo. Per sempre. Altra parola, altro limite infinito.

Ah sì! Come mi guardi con quei tuoi occhi che mi divorano, con quelle tue mani che mi mandano ai campi elisi, nel nirvana, nella candida rosa. Le tue mani che scorrono lievi sulla mia pelle. Che desiderio! Che bramosia! Mi ripeto: che godimento!

Ah sì! Rendimi la tua divinità ancestrale, rendimi la tua meta da bramare che hai qui a due passi. Sono ciò che hai sempre voluto? Ed ora sono qui, per te, godiamo insieme.

Ah sì! Che delicatezza nelle tue mani sapienti!

Ah sì! Non aver fretta immane. Che quest’attimo duri un secolo. Che il godimento tenda all’infinito. Mi strazi. Ho voglia di sussurrarti ancora parole dolci, parole perverse, parole pure.

21

Distolsi dunque lo sguardo nell’attesa che la presenza somma femminea si avvicinasse con me distratto. Un dubbio mi assalì. Subito evaso. Di cosa avremmo parlato. Come potevano le mie miserrime parole tenere testa alla più maestosa bellezza. Non restava che essere muti, sprigionare un logos diverso, un silente ma onnicomprensivo dello scibile umano. Mi avrebbe senz’altro guidato lei, con i suoi poteri, i suoi arcani, le sue magie.

Ah che desiderio di vederla almeno! Gli occhi a volte, seppure solo in parte, saziano il desiderio di parlarle. Come avrei voluto si manifestasse di nuovo. La voglia di voltarmi era forte, immane tentazione. Che fare. Sono gesti unici, apparizioni uniche, non bisogna perdersi in remore ma agire. Agire, sì, ma come. Guardarla ancora.

Improvviso un gesto. Apparve di sbieco. Con l’indice proteso mi indicò e sorrise. Eccolo, eccolo il gesto unico ed irripetibile.

Cosa darei per rivederlo, tutto me stesso. Diventerei pianta rampicante per il suo dolce corpo, mi avvolgerei come tessuto intorno alle sue forme perfette. Oh sublime cacciatrice! Sublime regina di venti e tempeste! Ti bramo, ti osservo e ti bramo!

In un attimo le mie forze rinvigorirono come ad ogni sua vista, come ogni volta che sfinito la fissavo negli occhi boschivi. Dillo piccola maestosa regina cosa fare, dillo ora che ti ho trovato. Voltarmi di nuovo? Seguire i tuoi passi. Farmi guidare dalla tua andature sicura e repentina ma ad un tempo maestosa?

Muto, restai muto. La mia lingua era un ghiacciaio ma si sciolse nel pensiero sublime di averla accanto. Come trafitta da spilla non arreca parole. Solo una forte inspirazione, un “oh” di stupore che ruppe il silenzio. Gli uccelli al suono leggiadro volarono attorno alla maestà femminile.

Ed io muto, ancora muto, muto nei semplici sospiri, unici rumori che attorniano la foresta.

Tu, tu sublime, sei trasparente vetro inossidabile. Sei segno rupestre, miniatura affascinante. Sei presenza eterea, potresti varcare i flutti del mare o questa selva trapassando i rami, camminando sulle acque in tempesta, potresti respirare l’aria di cui tu stessa sei fatta. Presenza ariosa ma non irascibile. Maga ma non strega. Essenza universale.

Era solo un gesto, quell’indicarmi che ti rende di nuovo umana, di nuovo fatta di carne, ossa e pelle, ma un gesto che nella sua unicità avrebbe potuto non più riproporsi. Ah se la mia bocca non fosse muta dinanzi a te quanto avrei da dirti!ma non riesco. Non ne sono capace e non per timore ma per reverenza e sottomissione.

Purtuttavia tu sembri comunicarmi telepaticamente che non sarà l’ultima volta, che ci saremmo incontrati ancora, presto anche.

Ed è tutto ciò che volevo e voglio, il mio più intimo desio.

Sì, tu regina di ogni arte intreccia per me una storia di velluto che sappia coprirmi dalle intemperie della vita.

22

Non finirà, non può finire così. Tornerai, devi.

L’incantesimo fatato in cui siamo sprofondati, l’incantesimo di ambrosia delle tue braccia possenti e dolci non si dissolverà, ne sono certa, tornerai. Non varranno a nulla le parole di mio padre e di quel meschino essere orripilante del mio ex, rettile squamoso e vanaglorioso.

No, tornerai, ne son certa, affronteremo insieme le insidie. Combatteremo ancora. Il destino mio sei tu, il destino dei miei giorni. Tornerai, lo ripeto all’infinito, sfoderando la tua spada mi libererai nuovamente dalle loro paranoie e questa volta, ne sono sicura, per sempre. Mi libererai ed io sarò la tua attrice principale, col trucco genealogico, quello di cui parlammo, col trucco che ricopre il manto delle tue eccitazioni, un po’ sfumato un po’ smacchiato.

Sono certa che la nostra sofferenza per questo che loro chiamano addio sarà forte ma con i tuoi piedi saldi su strade insicure non ti dimenticherai di me. Cadrai in piedi come i gatti e come loro col tuo sguardo ridurrai in poltiglia quelle loro fandonie allucinanti.

Il tuo fascino non sfiorirà, mio incanto e mia gioia, torna quando puoi, torna rinvigorito, torna con un piano preciso, torna e liberami.

Ricordo le nostre fughe nascosti tra i rami, quando discutevamo sul mondo e il mondo stesso e l’universo erano nostri. E lo sono, lo sono per davvero, lo sono perché tremano le mie vene ai tuoi baci.

Ricordo quando ci lasciavamo alle porte di casa. Stretti mano nella mano sarebbero potute passare ore senza che nemmeno un ciclone ci avesse smossi. Noi saldati, immobili eppure pieni di vita.

Ricordo, e le conserverò in tua memoria, attendendo il tuo ritorno, le nostre foto. I sorrisi, le carezze, i volti buffi, gli scatti di sorpresa.

Ricordo il nostro desiderio intimo di fuggire da questa realtà, di approdare sulla nostra isola dalle onde felici e dalla sabbia rubiconda.

Non mi separerò mai da te, non sarà la distanza a farci tramontare, non sarà un ricatto ad eclissarci. Non ci saranno rinunce, non ci saranno rassegnazioni. Tu sei e sarai sempre mio e non ti perderò, romantico cavaliere.

Una lacrima scende sul tuo viso, una lacrima struggente.

Allunghi le tue braccia per stringermi come se non volessi finisse mai questo momento, come se non dovessimo mai più lasciarci, come se fosse stato tutto solo un brutto sogno. E in questo abbraccio oltre a proteggere me proteggi te stesso. In quest’abbraccio cerchi un sostegno, tu o mia chiave di volta, tu punto cardine delle cattedrali d’amore, tu stella polare dei viandanti.

Poi ti stacchi improvviso, ti muovi come ondulando e con passi insicuri, quasi stordito, ti siedi sulla panchina.

Chiudi gli occhi e mi stringi le mani. Vuoi sentire ancora per un po’ quel fremito, quell’armonia universale, quella celeste melodia a noi cara. Solo nostra eppure talmente pura che chiunque può ascoltarla se ha cuore limpido.

Scocca un bacio. Un bacio di quelli sussurrati, di quelli che ti dicono, non voglio, non voglio andare. Un bacio di quelli che ti dicono sei tu la mia più preziosa fanciulla, la mia unica amante, la mia unica perla.

La lacrima scende di nuovo ed inizia a piovere. C’è un sapore amaro in quest’altro bacio che scocchi. Il sapore della paura, della paura dell’addio, della paura di non tornare. La paura che assilla e fa sobbalzare i condottieri prima di un duello o all’approssimarsi di una battaglia.

Fa capolino il sole. La pioggia assume la veste di un ocra quasi velato. Lui mi guarda e va via asciugandosi gli occhi e le guance.

 

23

Una nuova apparizione muta nella sua eloquenza. Ma che eloquenza. Un’eloquenza sensibile, sensuale, quasi sessuale che mi pervase. Un’apparenza, una semplice apparenza dionisiaca. Era lei, ancora lei, in vesti nuove e sgargianti che appariva dalla corteccia di un albero decrepito arricchendolo con la sua immagine ed abbellendolo quasi. Come quando il proprietario riempie di fasti una misera dimora e il personaggio supera la frugalità.

Aveva l’anello al dito, l’anello del potere, il magico anello che le permetteva di comparire e scomparire, di mutare forma, di rimanere eterea ed a volte di sembrare vivida e reale, quasi carnale. Quell’anello porse alle sue labbra carnose in un gemito.

Con eleganza diresse la ormai consueta melodia imbracciando la cetra come musa virgiliana, come etere candida. La musica era spettacolare seppur nella sua inusuale semplicità. Giri armonici e canti muti. Mi sarebbe venuta la voglia di intonare versi al suo suono, magari miei o di amici siciliani, ma non riuscivo perché la sua vista, come incanto, ogni volta mi allibisce.

Dispose le note come baci sensuali, spostando arrangiamenti come tarocchi da cui sprigionava la magia del vissuto, del consunto rinvigorito, dell’eterno. Erano parole le sue, le parole mute dell’impronunciabile nome divino.

E il mondo, il mondo dominato, poteva sfiorando l’anello mutare tempeste in venti soavi, piogge torrenziali in primavere eterne, alberi secolari in fanciulle piante. Ma a ciò era adibito l’altro anello, non quello perverso dell’anulare ma quello preciso, spiovente quasi ma in sessione aurea col corpo.

Si chinò improvvisa, dunque.

Negli occhi l’invisibile divenne il principio primo, l’Un visibile, il dispari, sì il dispari, il dispari della perfezione, non il pitagorico pari completo. Il dispari dell’attesa. Eccola, eccola la precisione, eccolo il vero.

Da ciò le scenette di me immobili furono tasselli di mosaico mal riposti e riordinati dal suo nuovo sguardo su di me. Oh l’assoluto! Oh la sua ferocia silvestre! Belva dagli artigli nascosti e pronta al balzo. In un rigonfiamento delle sue guance sprigionò aria gelida. Refrigerio mentale. La mia mente si espanse e tese all’infinito. Ma fu un attimo. Non si può descrivere pur essendomi capitato già altre volte alla sua vista questa fu unica, ero immensamente ed irrefrenabilmente padrone dell’intero accorgendomi della mia limitatezza.

Lei amica o avversaria? Ecco, posi un quesito cui forse non avrei mai ottenuto risposta se non nella bellezza, la bellezza unica. Non può essere malvagio ciò che è bello dentro. Non può essere malvagia una cacciatrice d’amore quale lei era. Non dovevo temere. Dovevo solo abbattere le mura di paura ed entrare nel suo castello di bontà e sincerità. Forse per questo non ero pronto. Non ero ancora pronto a concludere la mia missione, a parlarle.

Ipocrisia, abbattere l’ipocrisia. Solo lei ci sarebbe riuscita. Ed io dovevo convincerla, convincerla ad intervenire per una pace universale, per una parusia terrena, per una giustizia somma, senza compromessi o prese di potere né corruzione. Una purezza, dicevo, originaria.

Rientrò nella corteccia e con un lampo disparve accompagnata da belve ammansite dalle carezze delle sue mani.

24

Venere, lucifero, la prima luce del mattino di me sopita tra le cianfrusaglie consumate a letto. Me insolitamente rilassata, rilassata forse per l’aria tiepida delle sei del mattino. Ma come colei che dopo la vista di un miraggio non riesce ad abbeverarsi all’oasi così io sprofondai nella stessa depressione.

Lui partito.

Ed io, io qui ad attenderlo, attenderlo come una bambina il giorno di Natale, ma senza speranza. La luce, la luce che ha un rapporto stupendo con il suono e così, senza nemmeno accendere la radio inizio a canticchiare, sottovoce, un “la la la la la la la la”, ho nella mente la canzone “can’t get you out of my head”. Non è che sia la prima volta. Era quasi la nostra canzone. Lui il mio principe liberatore. ora lontano.

L’ultimo nostro pranzo prima del saluto alla panchina. Ancora i resti sul tavolo. Li assaggio come per sorbire ancora qualcosa di lui, come se il gusto stimolasse la vista ed alleviasse il dolore. Ma il suo posto, dove agitava simpatico le mani nel parlare, ora è vuoto.

La luce entra in stanza. Devo categoricamente nutrire speranza, non posso abbattermi sempre più, finirei per reprimermi. Lui tornerà e punto. Il tempo, il tempo non esiste e ne parlammo, o meglio esiste ma è una nostra illusione, quindi non mi interessa, lo attenderò. Non ho fretta.

Presto giocheremo ancora a trovare affinità elettive, a burlarci come piccoli esserini paranoici di messaggi criptati inviatici dalla natura, cercando di codificarli. Non è forse questo il limite, la linea bianca che divide la scienza e la filosofia dalla pazzia? Ah ci fossi tu! Tra una sigaretta e l’altra saremmo scoppiati a ridere di tali disquisizioni. Il mondo è ridicolo ti avrei detto. Il mondo è un ubriacarsi di sentimenti, avresti risposto sorridendo.

Quell’anello, il nostro magico anello. L’anello che un giorno mi donasti dicendo che avrebbe espresso ogni mio desiderio. L’ho qui tra le mani e lo maneggio con cura. Un  solo desiderio, rivederti al più presto. Una sola risposta dà alla mia mente, non c’è fretta, attendi. Sì il mio anello mi consiglia. Ha un’anima e lo sento. Mi è vicino. Mi protegge, sarà il tuo alter ego, in tua mancanza lo strofinerò e i pensieri voleranno a te, al tuo volto, al tuo corpo. Senza incertezze, senza epiloghi disastrosi che come gironi danteschi inghiottono tutto senza pietà né compassione.

E l’anello mi riporta alla nostra cena.

Ti ammiravo leggiadro nel parlare e nel muovere le mani con una grazia innata. Sembrava sbocciassero rose che accompagnavano la tua magna eloquenza, eloquenza sensuale.

Ma non c’era punta di orgoglio ed arroganza, nelle nostre discussioni ti mostravi sincero ed umile, disponibile al confronto e sapevi quando la conversazione prendeva una piega desueta ma non la scansavi con ironia continuavi e soprattutto con autoironia. Eri cosciente delle tue capacità ma ci sorridevi, mostrando i tuoi limiti come solo i grandi sanno fare.

Parlavi spesso anche di te, dei tuoi problemi, ma con fare sempre lucido e accattivante, senza mostrare odio né rancore per nessuno. Cercavi sempre il risvolto positivo della medaglia convinto che ogni persona, anche la più malvagia, ha delle doti umane, delle doti divine, è un essere che soffre nella sua cupidigia o ingordigia o vanagloria ma che in fondo è come noi. Un fanciullino che cerca la verità e non solo facili successi deteriorabili come merci di consumo.

Come ci somigliavamo e come ci completavamo. Due specchi riflessi di cui il più opaco schiariva il lucido e viceversa in un amichevole scambio di passioni.

Sei unico mio amore, sarai una persona come le altre ma sei unico. I tuoi difetti sembrano obnubilarsi ai pregi e anzi tramutarsi in essi proprio grazie alla tua umiltà. Ti adoro tesoro. Ti adoro e ti attendo con bramosia.

25

Mi approssimavo ad uscire dalla Foresta Nera nello stesso istante in cui i miei polsi iniziarono a battere più velocemente ed io ad uscire da quella fase quasi onirica. Ma qualcosa ancora mi tratteneva.

Sentivo come un rombo di mille tamburi nella mente, come il fragore delle battaglie, quando si serrano le fila pronti a sfondare l’offensiva nemica. E chi mai era il nemico se non me stesso, se non le mie stesse paure.

Eccolo il nemico che dovevo abbattere, i miei limiti terreni. Dovevo abbattere il pregiudizio, lo dissi. E alcune vanaglorie carnali. Il desiderio irrefrenabile di possedere ricchezze e di accrescere la propria potenza senza l’umiltà. È come scalare una montagna senza bastone, riuscirci è arduo se non impossibile.

Il mio stomaco a tali riflessioni interiori ebbe un sussulto. Chissà da quando era che non mangiavo. Non avevo forze a sufficienza per cacciarmi la pur abbondante selvaggina del luogo, perciò dovevo cercare il villaggio più vicino ed acquistare qualcosa, gozzovigliare quietamente.

Erano giorni di digiuno eppure nessuno stimolo di appetito mi aveva fino ad ora assalito, preso dalle visioni e dalle riflessioni. Ero abituato all’austerità durante gli studi ma una tale costanza ed estraneità dai beni materiali e dai piaceri carnali non l’avevo mai provata, ne avevo letto di mistici romei, stiliti che vivevano di pochissimo se non di nulla e riuscivano a nutrirsi di solo spirito. O magari santi che consumavano solo la santa eucarestia. Forse le potenzialità umane vanno al di là del nostro credere e sta a noi potenziarle e svilupparle.

Forse l’unica cosa che può farci vivere in eterno è una, e credo di averne la certezza. È l’amore. Amare è dare sé stesso, per sempre a tutti. A tutti sino a negare sé stessi, sino a rinunciare a sé. O meglio, sino a rinunciare al superfluo per rendere davvero necessaria e sufficiente la vita e trovare il nostro noi stessi.

È questo che ora penso, amare. Ma l’amore non si vaneggia né ostenta, l’amore non si prova, l’amore si sente direttamente sottopelle fin quando ti avvolge completamente e ti ricopre come un dolce vello.

Togliamo dunque l’ipocrisia. Togliamo questo nostro essere vili come rettili. Togliamo le falsità dagli sguardi, i doppiogiochi. Spesso facciamo le cose per reprocità, con ottica mercantile. Così, proprio come se ad ogni nostra azione dovesse corrispondere un contraccambio. Dimentichi, spesso degli insegnamenti cortesi. Era così alla corte dell’imperator, la prima cosa che imparavamo era la liberalità, compiere azioni senza pretese.

Spesso dovremmo lasciarci andare all’irrazionalità, la più pura sensualità razionale. Sembra un ossimoro ma è così. I fanciulli, sorridenti, se non corrotti da educazioni mescine non conoscono le leggi del contraccambio, le meschine azioni compiute per ottenere favori.

Forse era questa la situazione edenica. Dove si conviveva belve ed esseri umani in una sorte di pace ancestrale, dove non v’era volontà di sopraffazione, matrice di tutti i mali. Dio forse non ha mai vietato di mangiare all’albero della conoscenza perché soffiando nelle nostre narici ci ha reso coscienti ed intelligenti, a sua immagine e somiglianza. Il suo divieto era di non mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Cioè non far del male, non peccare di superbia, non alzare le mani contro la natura ed i propri simili. Divieto infranto che ci porta alla dannazione ma dal quale possiamo liberarci. Lei può farlo, con un solo cenno di mano può farlo, ed io non fallirò nella mia missione appena le parlerò.

La follia umana è senza limiti, la coesistenza pacifica creerebbe equilibrio e soprattutto eliminerebbe guerre, e la natura si schiererebbe al nostro fianco, smetterebbe di piangere per le nostre oscenità violente.

Sentii all’improvviso un rumore, un villaggio, ne ero certo, mi avvicinai e scorsi una ragazza intenta a portare un cesto di pesci fluviali. Mi presentai come un monaco in missione per conto imperiale e chiesi ospitalità e conforto in quanto avevo affrontato a fatica la foresta e senza viveri.

L’ospitalità non fu negata.

 

26

Stesa sull’asfalto . Dopotutto è notte fonda, non posso far altro che pensare guardando la fioca luna ricoperta da un lieve strato di nubi. Quando la luce diviene penombra si eccitando le corde del nostro destino, quando si scura troppo, quando è buio pesto, beh allora significa che è tutto finito.

Ed io sono in questa situazione, in bilico tra luce ed ombra. In bilico tra morte spirituale e vita. Il dolore mi attanaglia smorzato solo dalla speranza, lei non può tradirmi. Non può. Non può abbandonarmi. Nemmeno lui l’ha fatto, so che in questo momento, seppur con garbo, starà struggendosi al mio ricordo e forse avrà una forza maggiore per affrontarlo. Sì, il sollievo della compassione, del soffrire insieme è anche un dolore, il dolore per far soffrire un’altra persona che amo.

Qui senza di te è come morire tra le fiamme dell’inferno. Come soffrire in gironi    maledetti. Si sente il passare dell’illusorio tempo. Si sente e ti strugge. La pelle è come corrosa, consumata. Una sensazione orribile, la sensazione di perdersi per sempre.

Senza te non ho appoggi, sono ritornata la ragazza combattiva ma spersa di ieri, la ragazza che può contare solo su sé stessa, che non ha appigli né amici veri su cui contare. La ragazza rinchiusa in questa gabbia d’oro, meglio in questa sfera di cristallo, cristallo impossibile da distruggere ma pungente, come file di vetri aguzzi in alto a delle mura che mi impediscono il valico.

Ti prego, non dimenticarmi. Ti prego, io sarò per sempre tuo. Pure se sono dall’altra parte del mondo sono lì vicino a te, porgi le guance e puoi sentire le mie carezze, porgi le labbra e puoi godere i miei baci. Ritorneremo un giorno a dimorare nel nostro castello incantato, mio prode cavaliere, mio eroe.

Aspetto te col tuo forte destriero, ti cerco. Ti cerco nell’abisso e tu dall’abisso comparirai, ne son certa. Con un saldo colpo sferrato eliminerai i nostri nemici e fuggiremo via, per sempre.

Sono stanca, sono terribilmente stanca di scontare qui la mia pena. Di sopportare il vuoto. La violenza. Il male. Sono stanca di subire tutto ciò. Ho bisogno di te come tu, certo, ne avrai di me.

Io sono la loro principessa di cartapesta, un burattino da manovrare, ma io tutta me stessa la darò solo a te, non farò più altri errori. Seppure le loro paranoie sono reali non mi interessa, a me interessa semplicemente vivere una vita, la mia vita. E mi interessa soprattutto viverla con te.

Tu mio principe dell’infinito, tu vero ben perché privo d’ipocrisia. Quanto ancora dovrò aspettare. Il caos che ho dentro mi corrode i nervi. Ho bisogno di parlarti, di stringerti, di amarti, ho bisogno della tua calda voce rassicurante e dei tuoi refrigeranti baci.

Torna amore. Torna subito anche ora. Ho bisogno di te.

E tu, mia graziosa luna, se sei davvero la nostra simile, la sua protettrice, abbi cura di lui e fa che torni da me, fa che possa stringerlo, fa che possiamo vivere finalmente felici.

 

27

Accanto all’abitacolo dei miei ospitanti c’era un grosso masso ed io i fermai a riflettere.

Pensavo al rapporto che sussisteva a livello linguistico tra i nomi. In genere ciò che cerca è maschile, ciò che viene cercato femminile. Un po’ in tutte le lingue, anche nelle barbare. L’amore cerca, la bellezza è cercata.

E lei? La grandiosa apparizione gaudente? Era lei la mia ricerca senza sosta, il fine ultimo della mia vita, la mia missione sarebbe stata anche l’ultima? Sarei stato eroe liberatore grazie alle sue frecce d’amore.

Il suo nome, il suo nome impronunciabile. Il suo nome come le apparizioni fugaci. Quando hai un lampo che ti invade la mente ma dura pochi attimi non riesci a ricordare quale fosse stato il tuo pensiero. E ciò per un po’ ti fa rabbia.

La dimenticanza vivida. Sapere senza averne memoria. Sapere di avere un’innominata bellezza che si estende senz’altro al suo nome, un nome magnifico senza ombra di dubbio.

Dove sarà ora lei? Lì nei meandri oscuri della selva impervia, di quegli altisonanti rami, superbi alberi che mi hanno condotto in uno stato di trans onirica. Ne avrò fatta di strada, volando, volando col pensiero ho attraversato sentieri reali. Sensazione unica.

Lei sarà lì, nascosta tra le fronde, con le sue spaventevoli bestie ammansite dai suoi magici tocchi di mano. Lei sarà lì, unica che nella possenza conserva una dolcezza e una grazia. Dolce come un biscotto arabo eppure spietata nelle vendette pur mosse sempre da tumulti d’amore.

Lei lì, senz’altro, a mostrare le sue forme migliori. Che attrazione. Un’attrazione non vilmente e semplicemente lussuriosa ma un’attrazione carnale e spirituale ad un tempo. La bellezza. Questa è la bellezza.

I suoi occhi cobalto talora, talora silvani, i suoi occhi come emblema massimo del ricordo. Se dovessi ritrarla saprei da dove partire. Dal taglio degli occhi, dalla loro forma e dal loro mutevole colore che magari non potrà imprimersi su tela ma che ho vivido nella mente. I suoi occhi sono tutto ciò che resta della sua vista. Il resto ricordo lampeggiante e confuso. Ma i suoi occhi indimenticabili, forse per suo stesso volere. Occhi specchi del suo animo, del suo corpo.

Che nome maestoso avrà la regina del bosco. Un nome che nemmeno la biblioteca d’Alessandria nelle epoche di massimo splendore avrebbe saputo trovarmi. Un nome di natura paradisiaca, di fremito infernale. I dotti si arresterebbero esterrefatti al mutismo della sua vista, al sentir pronunciare il suo nome cadrebbero come corpo morto cade.

E la sublimità di quando alza l’indice in cielo attirando a sé i venti e cioè le divinità silvane, dalle ninfe agli spiriti che dimorano gaudiosi, ai folletti rubicondo, agli elfi restii alla parola, ai nani pronti alle armi e al duro lavoro.

Il suo nome impronunciabile, dunque, e nell’inpronunciabilità inviolabile. Inaccessibile. Invalicabile.

A se potessi conoscerlo forse la mia mente andrebbe in paranoia, non saprei reggere cotanta imponenza e docile bellezza.

Lei dal bel nome, col corpo ricoperto di viole e che sorvolandolo in periplo con lo sguardo ti riporta ogni conoscenza umana, ogni lettera, ogni arte, ogni filosofia, ogni popolo sconosciuto.

Riuscirò nell’impresa, ci sarei senz’altro riuscito, lei era qui per noi e non ci avrebbe negato aiuto. Il momento della parusia, lo sentivo, era vicino.

 

28

Ah rieccoti! Che bel mazzo di fiori! Vuoi riconquistarmi bastardo dalla triplice faccia, non sei un Giano ma un ipocrita trilatero scaleno con misure diverse eppur sempre perversamente viscide.

Ricordo io, ricordo i primi tempi. Il tuo fascino mascherava tetri e meschini fini, tu e quell’altro essere orribile di mio padre.

Quante attenzioni, quanto amore sembrava mi dessi, credevi di comprarmi con i tuoi fastosi regali, con le tue cenette lussuose da quattro soldi. Ma dietro tutto questo c’era solo la più totale indifferenza verso me stessa. Io ero uno strumento e non il fine della tua vita. Tu dicevi di amarmi ma pensavi ai tuoi loschi affari paranoici.

Li odio. Odio la tua sete di potere, non sono per niente come te. Ho i miei dubbi nei quali vivo ma una certezza l’ho, che ho bisogno di chi mi rispetti e cacci fuori me stessa, meglio mi aiuti ad essere me stessa, superando le mie insicurezze ma senza mai divenire come te, orrido essere.

Te l’ho detto già altre volte, ho varcato il limite. Ed è punto. Stavo divenendo malvagia con te, quasi indifferente a tutte le bellezze della vita, non sapevo più godermi neanche una giornata di sole, una passeggiata in riva al mare.

Tu eri distratto ed io no ero e non sono altro che un bene mobile per te, il prezzo da pagare per il tuo successo, per la tua gloria senza meriti.

Quante volte sono stata sola nella mia stanza a piangere, a soffrire per le tue carenze d’affetto, per le tue freddezze, gelido come una lastra di ghiaccio il tuo cuore. E tu dov’eri? Ad organizzare complotti, sì chiamiamoli così. A seguire i vostri tesori immaginari. Perché guardare lontano, perché seguire una mappa e percorrere miglia di vita se il vero tesoro è nei nostri cuori, nella nostra quotidianità quieta eppure avventurosa.

A volte mi fai sorridere, sì chiunque si prendere beffa di te. Tu che cerchi cose impossibile con quel folle di mio padre. Tu che soprattutto fai di tutto per essere il più possibile seduttivo, intrigante, con un sex appeal da fare invidia ai divi, tu che cerchi di essere il maestro di vita.

Posso darti un consiglio? Lasciatemi perdere una volta per tutte, io non sono quello che credete e fate una bella cosa. Aprite un bel negozio d’antiquariato e ficcatevici dentro voi e le vostre mappe misteriose. Poi trovate un’altra prescelta, tanto voi siete potenti no? Potete fare tutto. Allora vi chiedo questo immenso piacere. Lasciatemi perdere e pensate agli affari vostri senza coinvolgermi. State solo facendomi soffrire, soffrire come una dannata.

Perciò, ve ne prego, lasciatemi una volta per tutte. Lasciatemi perdere. E soprattutto fatelo tornare. L’esilio che gli avete imposto è orrendo, non ferisce solo lui ma anche me. Ho diritto anch’io alla mia felicità?

Smettetela di trattarmi come un giocattolino, sono per voi solo una bambolina vestita da principessa ma nella vostra casa incantata e senza fate non voglio restarci. Ho bisogno di vivere. Ho bisogno di spiccare il volo.

 

29

Restai ancora a siestare sul masso, mosso ora da altri pensieri.

Il ferro rovente col suo scalpitio mi indusse in riflessone. Il proprietario dell’abitacolo era un fabbro di armi da guerra.

Riflettevo dunque, dai primi colpi assestati. Riconobbi il posto, era un piccolo villaggio ma importante perché nodo di scambio per i viaggiatori ed i soldati. Erano abituati a prestare ospitalità e non fare molte domande.

Riflettevo allora sul tintinnio dell’universo che avevo imparato in questi giorni a percepire. Sul caos che genera la cosa. La res creata dall’informe, o meglio plasmata.

Ero diventato anche molto più sensibile ai rumori, il mio orecchio si era affinato e riuscivo a sentire conversazioni anche a lunghe distanze. Ma come in una sinestesia lo stesso valeva per gli occhi, mi accorgevo sempre più dell’immensa varietà di colori, i primaverili manti floreali, le autunnali esplosioni giallognole dai mille volti e sfumature, l’invernale neve che ricopriva i sempreverdi e i rami spogli con candore ed infine l’estate dai succulenti frutti. Ed anche il palato era affinato. La cena, seppur parca, propostami la divorai in un battibaleno, e non era semplice golosità né appetito per il viaggio, era come se avessi imparato ad apprezzare maggiormente le cose che la natura tutta ci offriva.

Vivevamo in un mondo pieno di potenzialità, umanisticamente posizionati al centro dell’universo e non sapevamo conservare il nostro tesoro. Già, il nostro tesoro non fatto di gemme o pietre preziose ma di bellezza e soprattutto della bellezza delle piccole cose.

Quanto un sorriso può far sognare! Uno sguardo incantare! Una leccornia godere!

Abbiamo un mondo in noi che si ribella e come corde rotte di una lira la nostra anima spesso non riesce a suonare le splendide armonie cosmiche. Occorrerebbe affinarle, con la meditazione, con la bontà di cuore di cui tutti noi disponiamo.

Dentro di noi c’è l’infinito perché dio è in noi e come possiamo noi, esseri divini, cadere così in basso da non sfruttare ciò che il mondo ci offre e soprattutto ciò che noi stesso possiamo offrire, le nostre potenzialità senza limiti.

Il vuoto, spesso domina il vuoto, ma cos’è mai il vuoto se non assenza. La nostra anima musicista non è mai sorda ai nostri richiami, ripariamo le corde dello strumento, fuggiamo dal vuoto e quindi dalla conseguente violenza che ci attanaglia.

Il nostro destino è andare oltre, il nostro destino è essere noi stessi, non profittatori di licenze che offendono il prossimo e la nostra stessa persona ma fautori di libertà, di una libertà non ipocrita, di una libertà serva dell’amore. La vera libertà, siamo liberi solo quando amiamo, quando desideriamo il bene hce coincide con la bellezza, la bellezza è il sommo ben e si manifesta spiritualmente nell’apparenza. Dobbiamo vivere di semplice e puro amore, di continua ricerca di bellezza come pecsatori che cercano di trarre dal mare il loro raccolto così dovremmo sforzarci a vegliare di prima mattina fino ad attendere la somma bellezza che ci estasierà.

Preso da questi pensieri e distrutto dalle fatiche e dalle lunghe meditazioni silvane mi assopii sul masso traendo sollievo dalla durezza, insensibile al dolore per l’eccessiva stanchezza.

 

30

Ti amo. E mi manchi.

Forse sono solo una bambina capricciosa, una stupida ragazzina che non ha più l’aria per vivere. Che ansima nell’attesa del tuo ricordo. Sicuramente sarò solo una ragazzina. Una stupida ragazzina.

Ah quante volte mi spinge un impulso di stringerti! Ah quante volte vibro ed abbraccio il vuoto, piangendo! Credendo tu potessi apparire in carne ed ossa qui dinanzi a me.

Ah, non nego, no che a volte ho avuto la tentazione di dimenticarti, di sottomettermi ai loro voleri. Ma no, non potevo, non posso. Non posso per te, per l’amore che nutri nei miei confronti e soprattutto non posso per me, tu che sai cacciare la parte migliore di me, il mio io più intimo, la mia verità più assoluta.

Con loro solo loro parole, il mio è un essere annullato. Un essere informe, un essere senza vita. Un essere plasmato ai loro comandi.

Mi danno della matta in questo periodo, ma chi sono i veri folli? Chi? Sono loro che mi stanno annientando, anche le mie cellule celebrali annichiliscono al contatto con i loro discorsi deliranti.

Aiutami te ne prego, torna!

È vero, all’inizio stavo bene nel loro mondo d’incanto. È vero all’inizio ero quasi felice, credevo davvero di esserlo, credevo che avere tutto fosse ciò che tutti sognano. Invece non avevo niente. Il mio vero tutto sei tu, dolce amore che pendi dalle mie labbra.

Ho sempre agito, anche in passato, da persona ferma nelle sue decisioni. Loro hanno saputo ingabbiarmi. Ma una cosa non la faranno mai, ammaestrarmi. Io non sono una belva da circo. Io non sono da domare, sono da conquistare.

Conquistare, così come hai fatto tu, corteggiandomi con discrezione per tanto tempo, attendendo impaziente anche quando ero altezzosa perché piegata ai loro voleri, anche quando mi credevo la padrona di tutto.

Tu mi hai insegnato qualcosa di nuovo, l’essere padroni di un nuovo mondo, di un mondo questa volta, davvero fatato. Tu hai distrutto quell’involucro fragile che mi proteggeva e che all’apparenza era così invulnerabile. Tu mi hai fatto capire l’importanza dei sentimenti, dei veri sentimenti. L’importanza dell’amore.

Sarò pur pazza ma pazza del tuo amore, tutta tua, tutta tua. Tutta per te è la mia immagine, il mio corpo, la mia mente, la mia anima e me stessa. Sono tutta tua. Vieni e liberami.

Non so fino a quanto potrò resistere a questo giogo, sono un bue che lavora ai loro meschini piani. Solo tu puoi salvarmi, lo sento, lo credo. Lo sento perché hai il respiro degli angeli, lo credo perché sei diverso dagli altri, tu, mio prode avventuriero.

Salvami! Salva questa ragazzina insicura eppur fiera e coerente!

 

31

Mi risvegliai rilassato ma il mio animo in subbuglio era ancora colo di pensieri.

La gente, la gente e noi tutti non comprendevamo la bellezza della pace e della natura, sempre in guerra gli uni contro gli altri per litigi stupidi, per sete di potere temporaneo nascevano guerre sanguinose. Dimentichi del verbo. La gente proprio non capiva.

E qui mi sorse un dubbio. Come poteva non capire chi aveva in sé dio, l’essenza suprema. Come poteva. Il libero arbitrio come poteva essere utilizzato a fini egoistici. Con calcolo aritmetico e non sensibile. La ricchezza materiale. Era quella senz’altro la regina di ogni male, di ogni vizio. L’unico vero peccato e delitto ad un tepo, far soffrire l’altro per sé, per il proprio bene. Che poi bene non è. Se soffre un altro uomo l’universo piange e chi ha fatto soffrire si allontana sempre più dalla luce interiore che dovrebbe serbare come un tesoro in sé.

L’uomo è testardo. Ed io? Chi ero per dire questo? Forse l’ultimo reduce di una realtà edenica? Forse ancora e peggio simile a loro, grande nei discorsi ed infimo nelle azioni. Forse seppure cercavo di seguire la retta via con l’agire sono di più, sono incomodo.

Magari ero solo un manto rossiccio in una sabbia del medesimo colore. Forse non lascerò impronte ai posteri, non riuscirò nella mia missione. Sia chiaro, non ho sete di gloria ma di verità e amore.

Ma non ci sarebbero riusciranno, no non mi sarei arreso, mai. Non faranno in mille pezzettini questo manto mimetico ma mai mimetizzato. Seppure la mia era una voce che gridava nel deserto questa voce riecheggerà, riecheggerà pronunciando sempre il nome di lei, il suo nome impronunciabile.

Seppure vendetta ci sarà io sarò saldo, non eroe, non merito questo titolo. Ma balbettante testardo che si opera per la salvezza umana.

Guardare il rovescio della medaglia. Le gentili azioni dei malvagi, puntare su questo, anche loro hanno l’anima, il cuore pulsante. Come congegno alchemico va attivato. E io ci sarei riuscito, ci sarei riuscito con lei. Più di mille anni di pace universale, più di mille anni di godimento e gioia ci attendevano. E lei, lei non mi avrebbe, non ci avrebbe abbandonato.

Avrebbe saputo sicuro convincerli. Ed avrei potuto iniziare io. Col sofismo, con la potenza del logos, dei sofismi. Ma lei, lei era essenziale e necessaria, per l’inventio degli stessi, poi io avrei potuto abbellirla. L’ideale sarebbe stato se lei stessa li avesse pronunciati, convertendo i cuori di tutti, spingendoli per mano verso i sentieri della libertà, quella vera.

E sì avrebbe saputo senz’altro sanare il nostro dissidio interiore, quello tra l’anima e il corpo che a volte non le corrisponde, che a volte è disarmonico e capace di compiere gesti atroci contro noi. Noi che siamo esseri umani. Senza distinzione alcuna. Esseri umani con un’anima. Non esistono vie di mezzo, esiste solo l’uomo, esiste solo la natura, esiste solo la nostra essenza spirituale.

Ah sì lei! Lei con il suo ardimento nel parlare avrebbe vinto e superato ogni oratore. Col suo corpo scoperto a metà avrebbe incantato, col gesticolio inebriato, colle parole estasiato. Nessuno le avrebbe retto. Neanche l’arroganza, la pianta più difficile da sradicare.

E soprattutto avrebbe disintegrato la moda perpetua dell’essere umano. La mediocrità, le vie di mezzo. L’uomo è circondato dal compromesso, dalle illusioni di grandezza ma è rinchiuso in una gabbia di mediocrità dal tintinnio assordante.

Ed è questa mediocrità il male. Tolte le vie di mezzo si percorrono i sentieri dell’essere sé stessi più autentici. Uomini fatti per l’eterno. L’esser sé stessi più autentici è, dunque, un esser per l’infinito.

 

32

Ti prego adesso smetti di parlare col tuo fiato putrido che non sopporto. Le tue parole sono il ronzio di mosche appiccicose settembrine. Sei assillante e stupido. Non voglio sentirti!

E poi ho i miei pensieri e non mi interessano le tue brame di potere. Quante volte te lo devo ripetere. Mi angosciano. Mi stancano.

Ti ricordi, tu che dici di amare solo me, i tuoi terribili tradimenti? So che non sono altro che uno strumento per te, un alternativa stabile per i tuoi loschi affari.

Ah quando seppi del tuo vero carattere che tentazione, che voglia matta di prendere una pistola e colpirti, centrarti giusto al cuore fino a vedere il sangue colare! Ah, sai che soddisfazione! Ma non meriti neanche questo, meriti solo di scomparire da me. Non ti odio, ti detesto.

Ah ricordo quando ti sorpresi tra le sue braccia che pronunciavi le stesse parole che dicevi un tempo a me, e che continui a ripetere! Ah ricordo come sei meschino, come sei un porco assetato solo di sesso e di successo. Maiale, il porcile è il tuo luogo ideale. Tu privo di idee e di ideali. Sono il tuo approdo per entrare nelle grazie di mio padre. Ma voi siete due folli. Te lo ripeto all’infinito.

Ah tra le sue braccia godevi? Ti piaceva eh, ti piaceva brutto rettile, ti piaceva dominare. E domina, domina sugli esseri striscianti come te, ma a me lasciami in pace. Prendi quello che vuoi ma a me non mi toccare, non sfiorarmi nemmeno.

Uomo affascinante? Sei un burattino che si crede burattinaio. Uomo senza palle. Uomo solo per nome ma nella sostanza pianta smorta. Sei destinato a finire. Non hai futuro. Da me non avrai più nulla.

Guardami, guardami come mi hai ridotto. Guarda come mi avete ridotto. Sono una carcassa umana. Ho pagato l’essere stato con un meschino come te.

Ora non rido quasi più, sono sempre chiusa in stanza, sono sola. E qualcuno di voi se ne importa? No, certo che no, o meglio la vostra condizione è tornare con te, tornare a tessere i vostri piani paranoici. Avete l’abitudine di credervi salvatori del mondo ed essere semplicemente alla ricerca di un tesoro che arricchisca la vostra gloria terrena.

Che ricatto morale orribile il vostro. Non vi curate di me se non scendo a patti con voi. Non siete più la mia famiglia. Tu poi non sei nessuno, forse non lo sei mai stato veramente. Mio padre pensa ai cazzi suoi tra i libri impolverati. Ed io sola se non mi  sottometto ai vostri loschi voleri.

Guardati allo specchio. L’hai mai fatto? Ti sei mai soffermata a mirare il tuo volto? Bé te lo dico io. Sei un essere spregevole. Abominevole ammasso d’ignoranza. Sei un illuso e chiamate in questi giorni me illusa. Ma vedrai che il tempo mi darà ragione, voi soffrirete come state facendo soffrire me, perirete con la vostra stessa mano, sbaglierete a colpire perché il vero bersaglio, e lo scoprirete presto, siete proprio voi, razza di ignavi ingordi.

Vergognatevi finché siete ancora in tempo e pensate a vivere finché potete. C’è sempre una piccola speranza. Lasciatemi in pace e fate quello che cazzo volete. Oppure lasciatemi in pace e cercate di viverla la vita, non di inseguire fantasmi.

 

33

Entrai come cometa nel borgo intravisto da lontano e fu subito sera.

Ospite nella stalla a fremere per la notte e si avvicinò una forma concreta e non più eterea, una forma di vita dalla bellezza inaudita.

Iniziamo col spumare come mare senza sale, condita ogni aggressione col suo gemito animale e fu godimento mai così intenso.

E lei mi guardò di traverso meschina d’amore senza abbellimenti che non fossero alla sua natura immanenti.

L’ovvietà del se fu presa per eclissi e allora continuammo senza affanno a sbirciare nostre memorie senza parole, lei, la vedi, come gode. Ma con una sofferenza interiore direi che quasi quasi mi commuove, muovo in compassione, ahi quanto somiglia il tuo costume al mio.

Tutto è un miscuglio, dice, guarda e si alza, tutto è un subbuglio, dice, sfiorandomi la spalla. Tutto il concreto una sincera e mai cruda futilità d’amore, io svenni allora lei fu qua. Due o tre tozzi di pane, un po’ di latte di vacche per continuare, oh, sì, tu sai davvero amare.

Lei era tutta ubriaca e la vendemmia in incudine lo mostrò, mi prese a schiaffi quando tornai a soggiogare tra le sue braccia. Ed ancora l’oggi che fu domani mi invase, sì, per forza, io non me ne volli più andare. È lei forse la donzella.

Sì, dico forse è lei quella che dal fugace incanto intravidi nell’oscura foresta, ah come godo, mi sciolgo e riannodo, lei inizia, fa un po’ di moine, non la seppi più scordare.

Lei andava oltre sé stessa, lei non poteva che esser quella.

E me ne accorsi, agitava un monte come niente fosse, ed i suoi fianchi muti e senza rimpianti, e il suo tallone d’Achille che premeva, oh che grazia davvero.

Ma forse il rimpianto solidale non poteva che finire sull’orlo d’abisso, tra una festa e una tomba abbandonata, me ne accorsi dal respiro. Era lei quella ragazza. Me ne accorsi dal viso. Come sei bella, sei venuta a trovarmi, guarda, non ho molti rimpianti, e me ne accorsi davvero.

Come è dolce, si è addormentata.

Come è dolce tutta ubriaca.

Se per caso fortuito un benedettino la guardasse non so se avesse avuto la mia stessa impressione, magari fuggirebbe, non per paura di cadere in tentazione, ma per sua stessa illusione. O forse la benedirebbe dicendo dannata strega ti impalo come un cane, riflessa sul crinale, non può essere che soprannaturale quella naturale bellezza, quel fascino della sua cresta.

E immaginai la sua risposta, mormorio di non so cosa, non so che, è tutto infranto da me.

Ecco è tutto qui, tra un ma ed un sì, ecco è tutto là, tra la passione che dai.

Entrò un raggio di luna.

Ah come l’adorai della notte quella sera, notte simile a sera perché imbevuta dei suoi rubinei capelli, con le sue punte d’incenso, piccina era lei e dolce nel modo più perverso.

Rimandate a domani ogni altra riflessione, disse e si stese, mentre si sveglio la sua paura tumulto che appena appena le mie labbra sfiorò.

Poi il suo corpo si inerpicò come un rampicante, pensile babilonese sulla mia pelle, riflesso delle stelle, no non la potei mai dimenticare. Pur ricordando l’amore che si prova in contemplazione d’improvviso il corpo si impose.

Viola del pensiero la sua tintura che non so dimenticare, non seppi come fare, e parlo del volto dal tetto spiovente così lucido e d’incanto bello, potrebbe essere anzi è lei la ragazza che intravidi, godo al solo pensiero, nel tatto il vero sollievo.

Lei è sola.

Sola come un accordo mai finito e mai deposto, lei è del vortice ardente la più pura sommità intensa.

D’improvviso un rifiuto, lo fa per dispetto, la questione del nostro rapporto è solo fugace amplesso per lasciarti assaporare, ricorda poi tu mi dovrai salvare, va per le strade tra la gente mentre emani la canzone che ha l’inciso in conclusione.

E sembra parli in sogno, quando dissi sono d’accordo lei rispose con parole di Morfeo, emerse e mai più riflesse nelle questioni, così per pure intuizioni.

Lei fa i conti sfiorandosi il nasino, lei fa i conti togliendosi il vestito, legge anzi proclama a memoria ciò che ha imparato dalla sua stessa scuola, è senz’altro l’entità soprannaturale, quella che non si può, che non si sa spiegare.

Lei si concede ancora, dolce viola, arruffandosi i capelli come allora.

 

34

E’ già primavera, piove sull’orlo della mia veste intarsiata ed io respiro, ah, finalmente, finalmente sembra possa esserci un principio. È già primavera d’altronde, piove ed io sembro quasi purificarmi dalle elucubrazioni. Anche se sto perdendo le forze.

E lui non c’è.

È andato via lontano, lui che mi guardava coi suoi occhietti dolci è via, lontano. Io lo amo. Punto. Lui è vera acqua purificatrice e fuoco rigeneratore ad un tempo, come questa pioggia, questa primaverile salubre pioggia.

Lui e non il mio bastardo ex. Ma basta, non devo pensarci, lo rivedrò, oggi me lo sento, se ho aspettato saprò ancora aspettare nei giorni avvenire.

Ah stupende! Stupende le imbarcazioni in riva al mare, il mare, sì, ne son certo, lì lo troverò, devo andare al mare e la vita tornerà in me, e tornerà dunque anche lui che è la vita mia.

Ah come sembra tardare la stagione estiva! non l’ho mai così tanto bramata. Sì perché il mio pensiero parla chiaro, il suo messaggio era forse in codice, ci rivedremo quest’estate. Lo rivedrò, non so dove ma lo rivedrò.

Ah questo inverno quanto ho sofferto, abbandonata da tutti e sola in balia di un ex di cui non vale la pena neanche profferir parola e di una famiglia canaglia. Però lui autunnale è venuto, e io non posso sbagliarmi, esiste ed è unico, unico e duplice perché lui e lui stesso, unico e triplice perché lui, lui stesso e me, me in lui, lui in me.

Non devo più accettare questa infamante realtà, devo evadere, devo fuggire via, aspetterò l’estate e dal mio cuore mi lascerò guidare, contro ogni stilema sociale, lo raggiungerò, la mia famiglia non potrà impedirmelo.

Ah che dolcezza lui! Tornerà e questa volta sarà per sempre.

Ho già finto compiacenza con falsi sorrisi per troppo tempo. Ho vissuto questo inverno d’inferno e lui senz’altro tornerà.

Tornerà e lo troverò perché lui è contro ogni compromesso grandioso ed immane, è lui la luce dei miei giorni, quando lo abbracciavo, che tenerezza! Era come un bambino ma dalla forza innaturale. Era il mio dio e io la sua dea. E questo sarà perché era anche se ora sembra non essere lo è ancora.

Mi purifico e mi raddolcisco. A volte mi stupisco, mi stupisco di come sappia essere così aggressiva e di quanta dolcezza c’è in me dietro quell’aggressività, di quanto la dolcezza muova i miei gesti arroganti, arroganti perchè io arrogo un diritto. Il mio diritto su lui, che è mio, perché io sono eternamente sua.

Lo amo, dio come tremendamente lo amo, il mio fiore incolto del mattino di rugiada.

Piove e guardo l’alba, i piccoli arcobaleni che fanno fatica ad affacciarsi ed ad imporsi sui cristalli incutono in me un desio e una speranza nuova appena nata. Lui è qui, in quegli arcobaleni, così mi lascia i suoi leziosi messaggi d’amore.

O cristallo di questa pioggia inondato dell’idereo colore, investimi e ricoprimi del suo squisito fiato, che mi guida e sorregge.

Lo amo.

 

35

E hai amato gente tanta ma tanta, tutti viandanti alla ricerca. E hai amato gente, ma tanta, tutti per scommessa di trovare il vero amore, quello che non si lascia stare, e così fuggevole ti nutri, sei tu a scomparire nell’attesa del tempo e vivi minuti di controtempo in questi contrattempi.

E così intuii quando mi disse accettami come sono, tu sei molto speciale, che ne parliamo a fare, sei un deserto da scoprire sui cavalloni del mare, un mondo da esplorare.

Ed allora mi accorsi fremente di non essere il solo alla ricerca, cercavo la verità ma non mi resi conto che non ce ne era bisogno, era lei che cercava ogni giorno di più me. Ecco il motivo del viaggio e del tiepido naufragio tra il suo corpo e il suo spirito che di purezza perversa mi inondava.

Ahi era uguale a sé eppure diversa da tutto ciò che abbia mai provato. Un’immane fracasso i suoi capelli al vento di prima mattina, quando non osi sfiorare la brina per non perdere l’incanto di questa che non è relazione fossilizzata ma pura estasi del cuore, la mente era in subbuglio, come arenata su uno scoglio, dolcezza coronata d’alloro, la presi così com’era. Mutava camaleonticamente come le terre del Prete d’Oriente in cui nessuno ha mai osato varcare la soglia, l’eredità dei re magi, era così lei, portava la sacralità da un lato e poi l’adorazione di me e di sé stessa e contemporaneamente a questa realtà ve n’era una terza, quella della aurea bellezza.

Un simbolo cabalistico, il 7, lo disse, siamo fatti per la femminilità, è quello il vasel magico e fluido che ci porta verso l’immensità del trascendente. Traversa come scorrendo le correnti e mai si arresta. Estranea ogni vendetta. E guarda al simbolo del tempo inesistente. Guarda quindi all’ortensia. Non c’è bisogno di fermarsi mai.

Con un dito innocente mi toccò ancora la tunica ormai fradicia e svanì in un lampo ogni stanchezza, mi sarei riproposto di fare l’amore ancora per qualche ora, ma ci sembrò un sopruso e restammo fissi a guardarci, l’aria rarefatta e lei nell’amore più intensa.

Nero improvviso l’abisso del suo neo, uno in quanto trino il destino del libero arbitrio frutto, ci saremmo mai persi, l’avevamo già fatto giocando con l’abaco ed accorgendosi che la serie di numeri è sempre la stessa, ed ora che lo racconto in sezione aurea mi sento un poco sconnesso a pensare allo zero eterno. Tutto tende al caos e all’entropia potremmo dire o ad una fugace entalpia, tutto tende all’infinito o allo zero, coperti perché faceva freddo, dicemmo in conclusione tutto tende a questo trino uno visibile e impercepibile, o percepibile a tratti nella sua interezza.

Ed allora si alzò di scatto con l’aurora ed iniziò a danzare a seno scoperto sotto la stella luciferina di Venere. Dio che pudicizia, sembrava quasi l’incarnazione di ogni brama ed ogni donna era lei, persa e spersa al vento. E si rimise a sedere scrivendo sulla sabbia ciò che il vento cancellò.

Mi accorsi che non era nostra la vita che vivevamo, serviva giusto come compromesso, avremmo dovuto ribellarci e vivere noi stessi.

E poi mi accorsi che non si poteva possedere definitivamente una persona, che il senso del possesso uccide la bellezza ed ogni tenerezza.

Mi accorsi infine che lei era la sola a cui avrei donato tutto me stesso senza cancellare la sua identità, sperò di non andare mai via, di rimanere ma in fluidità.

 

36

Egregio, caro, illustre mio professore sono stanca e atterrita dalle tue parole. Non hai diritto, proprio non puoi scegliere la mia vita, sono io a decidere e ho deciso di odiarvi, borghesucoli di merda.

Vorresti, sì lo so cosa vorresti, che io stessi con lui, ma amo un altro. Tu non hai potere. Credete di poter dominare il destino, ma avete visto male, saremo noi a dominarvi e nemmeno, vi lasceremo nell’indifferenza in cui voi mi lasciate. Morirete d’inerzia, non ci contrasterete e non mi contrasterai.

Tu dalla scelta difficile e lui il tuo piccolo strumento a te asservito, alla vostra causa inutile e dannosa. Ah come godremo! Come godremo quando sarete lontani! Io fuggirò e tu non puoi farci niente. Ah già ho il preludio del godimento! Nel vederti meschino.

Hai rinchiuso la mia vita in una bolla che io con un dito farò esplodere e voi non reggerete all’impatto. Siete destinati alla eterna dimenticanza, pronti? Siete pronti alla morte secolare? Non mi lascerete mai nell’accidia. Me ne andrò.

Ah quanto vi pentirete! Ah quanto soffrirete! Se soffrirete perché la vostra anima è impura e nemmeno la sofferenza può toccarvi.

Siete insetti e morrete da insetti. Abbandonati da tutti, lo vedete come sono io adesso? Lo vedete? Bé ricordatelo, è la vostra fine. Andrete a morire in segreto, senza aver fatto niente alla storia, senza infamia né gloria ma soprattutto senza gioia.

Sì perché voi esseri claudicanti avete perso il senso vero della vita, il senso estetico ed estatico dell’arte. La gioia. La felicità nel creare nuova linfa. Non la conoscete asserviti come siete alla vostra vanagloria.

Noi gioiremo come folli, alle vostre spalle, vi distruggeremo, voi inutili.

Lui è la mia felicità, il suo sorriso a metà che non so scordare, ne son certo, tornerà, quando l’avrò raggiunto. Non potete impedirmi di farlo, di raggiungere il mio vero ed unico amore.

Come dici, son pazza, non esiste costui. I pazzi siete voi a non sognare, a fossilizzarvi in questa realtà che credete e chiamate reale, ma che è il frutto, soltanto, della vostra pazzia.

Sì la realtà è la mia e quella di lui. Realtà perché va oltre il reale e diviene dunque vero, assoluta verità. Tornerò da lui, non puoi e non potete farci niente.

Io so chi sono, so cosa voglio e so che fare della mia vita e non sarete certo voi due, miserrimi, ad ostacolarmi. Non mi ostacolerete perché se anche fossi pazza, bè se anche avessi perso il lume della ragione, bé, tanto meglio, vivrò nell’istinto ragionato con lui, vivremo di soli baci e di soli sogni e di pura gioia.

Vattene adesso, e lasciami da sola nella mia prigione d’orata che mi avete creato e che svanirà un giorno, l’ho detto.

Svanirà e voi non avrete più alcun potere su di me quando sarò accanto a lui, la nostra unione vi seppellirà, in essa vinceremo, in essa avremo il gaudio assoluto.

 

37

E in quel preciso momento mi accorsi non sarebbe durato in eterno, era già mattina e lei mi diceva di andar via ma sentivo non dimenticava che sulla sua pelle c ‘era stata fino a pochi attimi prima la mia e insieme godevamo.

E la parola fuggì per un contrattempo e disse ti amo non dissolvendo, ti amo ma mi dici devo andare.

È giusto così, non me lo so spiegare, ma ci saremo senz’altro rivisti, fu questo il motivo per cui senza fiatare presi tutto e andai via. Sì via da quella inumidita stalla, lei disse non ti voltare, ci rincontreremo, ma adesso sai cosa fare, va e diffondi il mio impronunciabile nome, va per le strade a cantare, ma ti prego non ti voltare.

È così che me ne andai senza meta né più padroni.

Ma ritornerà perché me l’ha promesso e so che lei è il vero e con il vero si supera ogni ostacolo anche la terra brulla su cui andare a navigare colla vertigine del non so più cosa fare.

La incontrerò alla fine e sarà di nuovo un nuovo inizio.

I miei sogni, me lo sento, in quel momento si concretizzeranno senza più alcun danno temere. Lei non è l’arma del dominio che credeva l’Imperator, ma è di più, è segno divino, umana corrispondenza coll’anima tramite lo spirito che incarna.

E sono investito da questa idea, la rincontrerò. Vedo tutto come fosse ora, lei dinanzi a me. Ma perché mi ha chiesto di andare io lo so capire, per testimoniare ed è quello che farò, il vero annuncerò.

E lei tra gli umani rifiorirà come un fiore in aprile, quando il pesco esprime lo stesso concetto, gli alberi spogli risollevati dalle corolle e dai petali e dagli istrionici pollini.

Io provo un sentimento infinito per lei, la gente alla sua vista cambierà ne son certo, e non ci sarà più morte o guerra, non ci sarà altro che non sia vita di gioia, come quando noi audaci scherzavamo col nostro stesso corpo.

Si instaurò un placido e quieto tumulto interiore.

E lei senza più parlare già non c’era più, io cercavo una nuova rotta ma sentii lo scalpitio dei cavalli che alla realtà crudele ma falsa mi riportò.

Era la nuova guardia, quella del vescovato, austera mi invitò a seguirla.

Avevo osato troppo e non mi ero fermato come dai poteri superiori raccomandato.

L’alba ormai cessava dinanzi agli occhi, la luce mi investiva, era un sole tremendo che scintillava da quella armatura.

È l’ora terza in pieno giorno. Cosa succederà all’essenza con cui sono giaciuto, loro di lei approfitteranno. Della vita oltre la vita timor non avranno. La abbrustoliranno come si fa con la carne di bue, aiuto vi prego, gli dissi prendete me ma non lei che non centra.

Loro la vogliono per bene ma sommariamente esaminare per dedurne che è fonte del male. Misogini la vogliono di accuse tempestare, o dio mio sincero, accusare te stesso.

Allora io senz’altro qualcosa devo fare, in pasto a questi lupi, in balia di questi folli non la posso mica lasciare.

Ma luccicano le catene e le mie mani sono già legate.

 

38

Apparirò agli altri come una folle, una pazza nostalgica senza speranza.

Agli altri sembrerò destinata al manicomio come dicono loro.

Ma penso che qualunque legge fermarmi non potrà, la mia volontà la stanno martellando e violando nella speranza possa cedere ad un ricatto ma io non mi smuovo. No mai lo farò, chi ha visto il paradiso non può vivere in questo dorato inferno.

Cambierà tutto, me lo sento, tra pochi giorni sarà giunto il momento, il futuro è già ora, io sono pronta alla partenza, al folle viaggio per cercarlo.

Anche se il vento corrode il mio animo perché a me ostile coi loro poteri, il vasel navigante a lui mi ricongiungerà.

Io non mi fermo dinanzi a loro, tormentosi ed inquieti nel darmi i loro aiuti che in realtà sono loro e non miei desideri.

Apparirò agli altri così come sono, la folle strega che raggiungerà i suoi obbiettivi senza che nessuno per alcun motivo potrà mai ostacolarmi.

Cambierà tutto, ho detto, me lo sento, la verità dai suoi occhi in fermento coglierò, non finirò sul rogo di loro inquisitori balbettanti e insicuri, né tra le brame di un mondo indeciso.

Questo caldo vento mi rigenera ed è già l’annuncio del mondo che sarà.

Non finirò i miei giorni così, il mondo è nostro, sarà nostro e noi nel mondo per il mondo saremo.

Nulla finirà di ciò che abbiamo provato, tutto sarà migliore, tutto a fianco a lui sarà nuovo. Ogni giorno sarà l’alba del godimento e della gioia, ogni giorno un soffio di rosa, ogni sera una viola del pensiero, ogni notte un papavero dell’eterno ritorno.

Non mi resta che finir di preparare le mie cose e fuggire, tra poco mi scoprirò emissaria del vento, quello buono, e svanirò alla loro vista e finalmente il mio porto sicuro raggiungerò.

Nessuno oserà fermarmi, le hanno già tentato, ma non possono, non sanno e non vogliono più ormai.

Mi hanno lasciata sola e nell’indifferenza e sarà questa indifferenza la mia porta d’accesso verso di lui.

Entrerò nel domani, ed ogni attimo di vita sarà l’eterno, ogni nostra parola sarà per sempre.

Cosa aspetto, adesso il vento mi è favorevole e le vele sono gonfie, e la direzione guidata da mano divina è quella giusta.

Cosa aspetto, è ora di andare, cosa aspetto, tanto ormai non mi sanno più fermare, ecco già intravedo le dolcezze d’infinito, ecco il mare eccolo, lo intravedo sulla spiaggia di silicio che mi aspetta.

 

39

Fui condotto dinanzi all’ecclesiale consiglio di savi.

Voi avete sbagliato tutto, iniziai, che ne sapete, che volete saperne? Che credete di conoscere della dolcezza? Il mondo ne è carente e per questo soffre, il mondo ha bisogno della leziosità femminile, quella per cui si è disposti a lottare contro ogni terrena istituzione, quella candidezza per cui si rinuncia davvero ad ogni beneficio e ricchezza, quella che è vera forza perché non soggetta al dominio della spada.

Mi è chiaro perché ho fatto il viaggio, per rendervene testimonianza, ma vi conosco, già leggo nei vostri cuori la sordità alle mie parole.

Voi non sapreste mai accettare i suoi occhi ed il suo seno, il suo sguardo e il suo grido di godimento, voi stolti, non sapete riconoscere il divino in ciò.

Noi in un amplesso abbiamo girato il mondo ridendo di voi. Ridendo di voi abbiamo scoperto il valore del verbo che espressione dolce si fa quando è lieve brezza marina. Noi ridendo di voi e delle vostre calve teste da critici senza conoscere, davvero, senza aver mai gustato le delizie del soprannaturale. Noi ridendo di voi abbiamo riscoperto la coscienza d’assoluto, cosa che vi è estranea perché vittime del vostro stesso potere.

E che potete fare? Mandarmi all’inquisizione o giudicare voi stessi, e con quale mente, critici corrotti dalla lettera e cechi alla allegoria.

È questa dunque la vostra scelta, mandarmi in esilio che deve essere da me sigillato in quanto volontario, con l’obbligo di non parlarne, pena la forca?

Io accettai, accettai perché vedevo in loro la paura alle mie parole ed accettai perché sapevo che lì, nel luogo d’esilio, l’avrei trovata.

E lì tuttora la cerco da tempo immemore.

E tu, ragazza alemanna, che mi dici? Sai tu? Come dici? Non sai ma sei, sei tu che attendevo? Oh meraviglia!

Oh finalmente! Quanto tempo sarà passato su questa spiaggia del destino e finalmente eccoti spuntare, eccoti dolce ragazza. Non sei alemanna né romea ma sei tu, tu che passeggi ed hai appena approdato sei tu, sei tu la ragione del mio peregrinare ed eri tu stessa alla ricerca di me.

Eccomi sono tuo. Eccoti sei mia.

Loro hanno perso, sulle rovine di questo mondo dimenticato ne hanno perso la memoria.

Oh meraviglia! Fatti guardare. Nulla è cambiato mia docile e dolce e austera ragazza, nulla, siamo qui finalmente. Finalmente io e te.

E tutto, da ora, inizia, siamo pronti davvero, fremevamo, da ora inizia questa nuova era.

L’era del vero e del bello e tutto ciò che bello è vero in quanto tale.

Ti aspettavo, siedi qui dinanzi a me.

 

40

“Si è concretizzato il pensiero alla tua dolce vista, sono monolinguista. Avevo quasi per sempre dimenticato quando candido fosse solo il guardarti e percepibilmente lezioso il sentirti. Non ci saranno più attese ora che tu sei qui con me. Io ho sopravvissuto al sopruso inquisitorio di quei due e del mondo. Loro non hanno potuto fermarmi ed ora come per magia eccomi, son tua”

“Per questo fluido movimento di corpi in ascesa anche io son tuo. E tutti i libri al mondo sono impressi sul tuo volto quasi ad ogni male estraneo. E le tue labbra sono i pensili dai quali e per i quali pendo, faccio previsioni: io e te in eterno. Ah soffici labbra intense contro il mondo in declino! da quelle stesse labbra si esprime il verbo ed i soffici baci e dunque lo spirito etereo. Ah che bella immagine quella tua che si intravede e poi si avvicina ed ogni paura declina. Ed implode l’anima intraducibilmente mentre in questo tuo corpo mi sta abbracciando cado in estasi e tu fai altrettanto”

“In questo mondo lontano e sepolto di cui non si ha più memoria, splendori frementi e d’incanto. Per assurdità ho temuto nei giorni a questi avversi di non poterti più sfiorare”

“Mi sono innamorato di te in contemplazione credendoti straniera nell’intenzione, e l’anima e lo spirito ed il corpo in congiunzione sono astri estrosi in definizione. E dall’abisso a questa spiaggia siamo giunti e questo scritto mostra il nostro viaggio come ad una nota nel deserto da cui sgorgano per profezia mille oasi unite da centotré fiumi e sette laghi. E quest’opera che insieme abbiamo creato vivrà in eterno anche se il volgo potrà dimenticare ciò che abbiamo potuto fare resterà per sempre indelebile un segno nel cuore di ogni umano che non potrà mai perderne la memoria. E questo è il nostro compito di riportarci l’un l’altro oltre i confini del tempo. Seguendo una partitura che trasmuta il valore in bello ed estasiante domani del senso per cui mai ti ho eclissato mia luna se non per raccontarti o rincontrarti”

“Questo che dici mi risveglia dal sonno e dal tedio e il prurito del torpore mi invade e scompare. Rifiorisce la terra che era stata sepolta in questo tramonto ed io so che questa notte aprirà un’alba sfolgorante e per contatto divino vivremo.”

“Vivremo per sempre in bocca al godimento e al disincanto di ogni giorno, al pensiero nascosto reso oramai manifesto dalle nostre azioni che stanno trasformando il mondo in questo preciso istante.”

“In questo mondo lontano e sepolto mai più temerò di svegliarmi rinchiusa nelle cancella infernali di una realtà che chiamano reale dimentichi del senso ultimo”

“Ed io in conclusione non posso che ammirare il tuo volto che è tutto l’universo immutabile ed infinito ma delimitato da due punti che si intarsiano nel terzo per finire in un immenso limitato e definito solo dai nostri sguardi. Mio dio che occhi che hai. Il tuo volto è dunque sia felicità che noia che aggressività che dolcezza in un quadrivio di immane innocenza”

“Ed io resterò sempre con te”

“Ed io per sempre assieme a te ad ascoltare questa stupenda melodia di onde del mare e di furore lieve del vento”

“Viviamo e vivremo seguendo questo e solo questo”

Muta

2000

1

Partì verso se stessa incrociando le braccia a cavalcioni del bagnasciuga fissandolo, si dirigeva con fare sicuro verso di lei e sorrideva. Sensazione claustrofobica, si dipanava man mano nell’ammirazione osservante del suo essere, un individuo strano, un’apparenza entusiastica e sublime. Eccolo a due passi che si china e le porge la mano non per incontrare quella di lei ma per carezzarle soffice le guancia, poi le labbra con un balzo mastodontico e velato. Dal passaggio a livello lì a pochi passi un trambusto, la carovana estiva correva, la sente nell’introito fastidioso come oggetto di disturbo, non è il sibilo felice della meditazione, quello ad uso ronzio del frigo che talora assurge improvviso ad oscillazione delle sfere celesti, era uno scatafascio, un’ inutile baldoria, di quelle che sanno ridurre a cenere gli attimi magici. Dove andranno tutti quei cretini nei vagoni, da dove verranno quei ridicoli esserini biancastri pronti ad arrostire la pelle, a volgarmente imbandire di schifezze la limpidezza del mare, quel godimento che il piccolo paesino campano era prima del turismo di massa. E poi d’altronde lei preferiva di gran lunga l’autunno, l’inverno, il gelo, la ribellione puberale. L’unico elemento buono estivo era il raro afflusso di ragazzi e il cazzeggio, naturalmente. Tanti preliminari, inutili preliminari, l’essere umano è fatto di questo, di introduzioni e parole smorzate, di rivoluzioni, di aforismi, di soggiogo eterno, d’amore, di lussuria, di passeggio godereccio, di transito su corpi, di volti chinati nel piacere, di riflussi d’eros, di palpitazioni adolescenziali, di verità assoluta intrisa di carezze. Ed ecco, lui era questo, e lo è tuttora mentre mi conosce, lontra fluviale tra stagnazioni di selci dal respiro odoroso, superbo, bellezze come collanine intarsiate da mani sapienti sul mio ventre, attracco di realtà e di amplessi giocondi. Pura rimessione d’intenti. Le stelle si riflettono a getto nell’acqua salmastra e lui si siede, magari sono quelle terzine, più spesso quartine giapponesi, ma lui si siede davvero baipassando il mio pensiero o forse conoscendolo troppo a fondo per ripeterlo, se essente possa ripetersi, ma vivido di comprensione, già, comprensione complice non da maestro e non da allievo. Lei dunque, dico lei pensando a me e viceversa, non c’è motivo di dirlo, districare, ecco il tuo compito, districa botolini in gomitoli piani alla Arianna o alla Penelope, io intanto parlo. Lei dunque dicevo e ripeto, tralasciò i pensieri evidenziandoli di blu mentre lui slacciava il suo costume. Che bella coperta solo di un telo trasparente e viola chiaro, come agonia della sera tra stella primaria. E lontano il falò, lontano, passata la corriera, intravedeva il padiglione sinesteticamente il motivetto che li accompagnava, non erano e non sono semplici accordi di chitarra ma sono assolutamente il tutto rinchiuso come nei suoi occhi di cielo, da dodicimila anni di cielo, di mare, d’orizzonte. Non c’è altro che possa accompagnare l’amore e le parole, non c’è altro se non la luce generata dal suono, tutto intorno, altrimenti, sarebbero tetre tenebre. Dal sapore di intrugli sintetici, etilicità mai biasimate, tabacco erbaceo, ecco, questo fu per lei il primo bacio. O il secondo, ma non importa, il presente è l’unico padrone del tempo, l’unico che può annaffiare o far tramontare valanghe di ricordi con un cenno, un flusso energetico di sguardi intensi. Tanta voglia di sé, tanta voglia di sé si imprime e scandisce nel ricercare un altro. La musica continua, cosa strimpella la serata, le chiavi armoniche sopite, chitarre a mo’ di flauti achei accendono il vivere intensamente ora sdraiati con baci più intensi. Che arzigogoli amorosi splendenti, corone di alloro, unico riconoscimento degno di nota è l’amore, unica cosa duratura nella sua caducità. L’amore non si arresta, l’amore è il gesto più folle della temperanza umana. Non ne valeva la pena vivere, fino ad allora. Chissà se un giorno lei renderà eterni questi avvenimenti, eterni con un segno di inchiostro, le superfici corporee e i sussulti, dai baci di preludio agli abbracci, reduci avvinghiati dei sogni, eroi allora, eroici, magari un giorno dimenticati, ma vividi, vividi per sempre nelle trame dell’anima del mondo.

2

Romance in Durango e Dilan, l’altro, quello dei fumetti, atroce ironia distillata, tintinnio malefico, stillicidio spiritico di essenza dark, tra una sigaretta e l’altra, steso sul divano mi muovo ad ondeggiamenti, periodico e distratto, un moto fulmineo come la tempesta in gorghi, placido a un tempo, come la neve appena posata. Immerso nella lettura la musica è una dolce compagna, estatico, catartico, indomabilmente adolescente procedo per la mia via diciamo alternativa, forma d’arte, vita come un romanzo, pusillanime scossa interiore ribelle e poi, azione, azione mai così conformista. Noi, nuovi decadenti fatti ad immagine e somiglianza della new age da mercanti, ah come lo abbiamo masticato il millenium bag! Accarezzo lievemente il cuscino, seta pura, orientalizzazione inconscia, subdola, priva di volontarietà, indotta, pur sempre diversa dalla massa ma così simile a sé, così simile. Credevo allora, cioè credo nel momento stesso in cui sto, chiaramente, agendo, di essere unico. La caratteristica di questo prolungamento degli anni Novanta è il crederci unici in branco. Nella periferia seguiamo mode metropolitane, uniformi, ma siamo gli avventori non più comunitari, siamo anarchici, punkabbestia, individui tuttavia, individui alla ricerca di una personalità unica. L’incontro ha senso e rende partecipi di sé, ma i nostri incontri sociali sono ovattati, sono frasi ebeti, da ubriachi incazzati contro vespai al guisa di ignavi, da fumati rilassati e onirici. Comunque terribilmente, incautamente, ed animatamente soli. Dov’è? Dov’è? Dov’è il me stesso, il noi stessi, la sintetica utopia? In frasi sconnesse dal gaudio. Siamo i nuovi agni dei, i nuovi avventori sacrificali dell’ideologia, la nostra eredità è talmente immensa che ne siamo spersi, che l’originalità sembra esserci scappata dalle mani. E poi dopotutto come sempre fa caldo, troppo, troppo per settembre, troppo per me in ogni caso. Maledetta estateee!!! Comunque, ecco, appunto, che ne sarà di noi, la generazione dei nokia blu, la generazione degli smile, che col t9 digita a velocità ennesimamente maggiori di un amanuense citercense qualsiasi messaggio che arriva, non ho mai capito come, tramite i ripetitori dell’omnitel forse, boh, in qualunque parte d’Italia. Beh ad ogni modo la sigaretta è finita, gli splash pure, la cassetta idem, una concordanza incredibile, devo alzarmi a mettere il lato b ma mi scoccio. Aspetto. Sto bene tra i ragionamenti, come uno che urla in silenzio. Bello! Stasera dovrei anche uscire, si devo, sono due giorni che sto chiuso qui, nella mia stanza, ho proprio bisogno di una sana boccata d’aria. Incontrerò senz’altro qualcuno, inutile accordarmi, conosco troppo bene i miei compagni, andare avanti e indietro per il lungomare, che da quest’anno è anche isola pedonale, lo sarà anche in inverno, boh, speriamo dai. Sì, comunque questo è il loro primo comandamento, consumare le suole e l’asfalto dell’isola, fare la spola. Il secondo è dire cazzate alle ragazze per abbordarle. Il terzo ubriacarsi. Per ora siamo a tre, il legislatore del roveto terrestre si è fermato, ma ne detterà altri nell’inutilità intrinseca della nostra parva esistenza. Quest’estate ho fatto il barista in spiaggia. Tradotto, conosciuto tante ragazze, uscito poco o per niente facendo i cocktail fino alle due per gli altri che ballavano. Non che adori ballare, anzi, preferisco di gran lunga i concerti alle musichette ripetitive e monotone, non parlo solo dell’house o della techno, ma mi riferisco principalmente ai “tormentoni” dell’estate, macarena, tichi tichi ta, o come cazzo si dice, etc… Però ora sono libero, ad agosto ho finito, basta, almeno quindici giorni di riposo e cazzeggio assoluto me li voglio fare. E che diamine.

3

Squilla il suo cellulare e l’occhiata sbrigativa dice che è lui, già lui, foschia e sorriso voltandosi e vedendolo alle sue spalle con l’Harry Davidson e la sigaretta di sbieco infiammata dall’accendino metallico alimentato da benzina. Americanate da quattro soldi e quasi grottesche direi io, ma non lo dico perché non ci sono, o almeno non nel modo che voi credete, ma ora non importa, continuiamo, dai. Biondiccio quasi cenere e dal pizzetto rossastro, occhi indefinibili e verdi in lotta contro quelli di lei tra metilene e cobalto, in lotta scarsa e piena, quasi sinergica, fatta di cenni e completa devozione, amore, no forse amore no, come dice la breve descrizione in chat, “non credo all’amore”, direi che credi al sesso se l’avessi fatto, pur sempre lo farai, ne è certa, ne sei certa, lo farai stasera, col tuo nuovo nuovo dichterino, occhiali da sole cinabri la sera, ottima velatura, sublime direi se non esagerassi, ma lei sì, non si fa scrupoli, esagera con l’enfasi da bambina che ancora le è incollata addosso, piccina e delicata quanto possente nello sguardo, ne parleremo. Film al cinema, il vecchio cinema-teatro di periferia di quella cittadina di mare, bacio, bacio dinanzi a’ ”L’esorcista”, versione completa, revival senza la censura anni ’70, due scene in più o forse tre, neanche si capisce perché censurabili rispetto alle altre, ma così è se vi pare, esserini. Bacio dicevo, bacio lacustre, lacustre, nel gergo tutto loro, una parlesia non da musici ma da critici, critici non di un’arte o letteratura o musica in particolare, ma critici del mondo, o meglio della ridicolità, la ridicolità del tempo. Lacustre non ho mai capito perché significasse lisergico, acido, ad ogni modo va bene, gli sweet trip hanno in genere inizio dinanzi al ruscello salmastre e paludoso che si getta in mare, eccone forse la derivazione, ma l’amarezza, l’acrità si tramuta sempre, o quasi in lindore, in leziosità per abusare ancora di questo termine, sempre perché vi suggerisco che la giusta visione è quella di insieme. Però carucci gli ippopotami, i coniglietti, i miki mouse, gli scoiattolini, i cani trasfigurati ed umani, di una umanità piena e deformemente estetica. Carino tutto anche, e soprattutto, lui. Il film finisce con una caduta dal cielo ed un abbraccio, finale semisquallido, qualunquista, democristiano, esisterà sicuramente qualche frammento di democristianeità anche in America, negli States da motocicletta e cheeseburger. Via come sul capo al naufrago fuori dalla sala. Un altro bacio, francese, slinguattamente trasvolante, e via, dietro la moto. Destinazione alberguccio di periferia. Doccia insieme. Penetrazione lenta e godereccia, lacrime di gioia, di dolore, di piacere, non si sa, lacrime di qualcosa, qualcosa di certamente migliore del nulla che lei si porta dentro. Qualcosa, comunque qualcosa, a guisa di materia, energia, ateicità convessa. Qualcosa che la porta ad un’avversione per il comunismo. E già, modetta americana ma da americano medio, contro la destra, i comunisti e, essendo italiana, ovviamente anche contro il bercoglioni, anarchica se mai, alla Bakunin o alla Nietzsche, di un anarchismo forse più castista ed intellettualmente aristocratico di quello servito, con pere e formaggio occultate ovviamente, ai contadini. Lui è così dolce nella sua brutalità, immagina senza dirlo la ragazzina. I suoi pensieri così profondi, da lasciare a bocca spalancata, come ovviamente non fa poiché mai indebolita alle sue parole ma sempre resa più grande, più forte o semplicemente più stupida anzi tanto stupida quanto serpentinamente cosciente e consapevole della realtà. Ed è quella la realtà, la squallida realtà di chi tende al vero, il sudiciume baudelairiano della realtà plasmata a uso ed immagine del proprio tormentato se stessi interiori. È così, l’alma è una merda ergo la realtà è vomitevole.

4

Una marmaglia si forma come ogni giorno all’ora di pranzo fuori la scuola. Districati tra frenesia ed attimi di quiete i ragazzi escono soffiando all’insù, taluni sgusciano attraverso l’atrio e scivolano fuori, tal altri sostano nello stesso un po’, svuotando la tensione mattutina e finalmente liberi per le peregrinazioni pomeridiane, gli sbalzi di umore, le grida, la gioia. Lei si è trattenuta all’interno dell’edificio scolastico parlando animosamente con il ragazzo, sembra che sia finita, lui deve partire, via per sempre, ciò le risulta incomprensibile, tanto più visto che a suo dire non potranno neanche sentirsi telefonicamente, come se scomparisse nel nulla. L’abitudine a sentire il suo corpo sulla sua pelle, la sua voce, i suoi silenzi, i suoi discorsi, tutto, tutto dovrà disimparare, lui, il primo amore della sua vita sembra irrimediabilmente perso, potranno vedersi solo un’ultima volta, stasera, poi addio per sempre. Nella mente della studentessa balzava l’idea di non presentarsi, di dargli buca, ma spesso le sensazioni vincono la ragione e quindi crede di andarci, pur tuttavia la mente è ancora offuscata da rabbia. Repentinamente gli dà un bacio e va via. Lei, una ragazza dalla superba apparenza, con un viso lezioso per l’anima di chi lo scorge e allo stesso tempo con una inaudita fierezza interiore, un carattere forte per una sensibilità volubile e fragile, con una sicurezza in sé smorzata dai suoi desideri. Eternamente infelice fino a che non conobbe lui, destinata alla tristezza se lui andrà via. Un sillogismo che si fissava nella sua mente indelebile mentre scendeva le scale carezzando lieve la ringhiera. Speranze, ce ne erano? C’era un qualche futuro dopo quella sera che sarà? Interrogativi a iosa, tipici della sua tempra, illusioni vorticose, futuro buio e inconsistenza, caduta del morale, inabissamento degli occhi, quei così vividi occhi azzurri, quella sua voce armoniosa smorzata. Era stanca di delusioni pur non avendone avute mai di così forti, ma comunque alla sua età un fallimento ha efficacia retroattiva e tinge non solo il futuro d’oscuro ma anche il passato, l’antecedente vissuto anzi la sua venuta. Voglia di morire, finirla, far cessare l’inutile vita che si prospetta, voglia di distrazione, più che altro bramosia di distrazione, spinta a che il suo intelletto possa ospitare nuove percezioni, nuovi stimoli, nuova fluidità emotiva. Già, la morte adolescenziale, la morte di un attimo ma di un attimo dal sapore d’infinito. Lui era apparso in un momento di solitudine bieca, aveva colmato le sue giornate, dato un senso alle sue ore, era stato la transizione verso un nuovo modo di vedere le cose, non semplicemente un amore, ecco, ma una guida, dall’alto della sua esperienza e dei suoi dieci anni maggiore, un amore al di là dei limiti, delle convenzioni, della realtà, un amore che squarcia il velo di Maya e rende ciò che ci circonda in funzione esclusivamente di noi stessi. Il rimmel si scioglie tra una lacrima soppressa ma insistente, perdendo lui avrebbe perso sé stessa? E poi la stranezza delle sue parole, “magari mi rincontrerai, se ciò accadesse le tue mani come rasoi inumidiranno le lenzuola di sangue.”

5

Appoggiato ad un muretto aspetto, è favolosa la luna riflessa nel mare, l’aria tersa e piacevole, la serata di fine settembre risveglia il mio animo mentre attendo. L’estate è finita, ora ci sarà la monotonia dei giorni, l’uno uguale all’altro, ogni mattina a fare le stesse cose aspettando solo il sabato per svagarsi, per dare un senso all’esistenza, al di là dei canoni imposti. Accendo una sigaretta e guardo ancora il mare, è stato davvero stupendo questo amore appena sbocciato, appena appena alla fine dell’estate, continuerà? Beh ad ogni modo staremo a veder, meglio non farsi programmi che potrebbero deludermi, per ora penso all’oggi, ecco già la intravedo, è a due passi da me, mi giro di scatto volgendo la faccia al lungomare e mi sporgo dandole un bacio.< Ciao amore>< Ciao> Ryma, conosciuta ad inizio settembre, di tre anni più piccola di me, frequenta il mio stesso liceo, mai vista prima.< Ehi, sei una turista? Non ti ho mai vista in giro>< No no, sono di qui, piacere Ryma>< Anche tu a goderti la serata?> Solite cazzate che si dicono, frasi fatte e senza senso, domande retoriche. Credo che quando siamo emozionati non parliamo più in maniera cosciente ma deve esserci un demone posizionato proprio qui, nella gola, si percepisce anche come groppo, ci fa dire stronzate che in fondo sono reciproche, la controparte agisce più o meno allo stesso modo se interessata, altrimenti è vittima del demone del rifiuto, risponde in maniera distaccata, elude gli sguardi, ci liquida, si mostra in tutto altro fare affaccendata. Nel mio caso era interessata. Facemmo un giro sul bagnasciuga e poi ci allontanammo nella vegetazione, fu il primo bacio e come tutti i primi baci dava la parvenza di sicurezza, l’azzardo, il tentare di esplorare, con secco rifiuto ed opposizione, ovviamente, le sue nudità. Domani sera torniamo in spiaggia, ci godiamo questo ultimo tempo favorevole, sdraiati fianco a fianco, mano nella mano, gli ardimenti sono più liberi, come esploratori scopriamo il nostro piacere che, fino ad allora, era soltanto autoindotto. Comunque, traendo somme, la storia è continuata, la aspetto sempre all’uscita di scuola, riempie i miei pomeriggi, il tempo vola assieme a lei. Poi una mattina di novembre si ammala, è sola in casa. Vado senza indugio a farle visita. Arrivo, e non lo scorderò questo giorno, e carezzandola la stringo a me iniziamo a baciarci e poi, lentamente, facciamo l’amore sul serio, come bambini che si apprestano ad un gioco sconosciuto, di cui hanno sentito solo vagamente parlare. Le sue membra sono le mie e il mio sangue è il suo. Ci scambiamo umori ed effusioni, dura poco ma è il momento più intenso per entrambi, forse l’attimo più bello della mia vita. Lei tuttavia dopo un po’ si comporta in maniera strana, contrariata, il giubilo per l’atto sessuale tramuta in rimpianto, forse non se la sentiva, era presto, ma da allora comincia ad evitarmi, come se dentro di sé avesse l’animo in subbuglio, un duplice sentimento di amore-odio. Finimmo col lasciarci.

6

E’ dicembre, poco prima delle vacanze di Natale, ormai non ci vediamo da quasi un mese. Un po’ giù di morale mi estraneo trovandomi al parco, tra gli alberi secolari, dove sono le panchine sulle quali passavamo tanto tempo Ryma ed io. Mi avvicino cercando di vedere se la nostra panchina è libera. A mia sorpresa trovo lei, sola, seduta, alzalo sguardo, mi vede, sorride, mi invita ad accomodarmi.< Anche tu qui> “Sì Ryma, sai com’è, nostalgia>< Io spesso ti penso, non so, forse abbiamo sbagliato a troncare definitivamente>< …>< A volte ho come un vuoto in me, seppur breve il nostro rapporto è stato così intenso, abbiamo fatto tante cose, tutte per la prima volta, tutte insieme…> Mi avvicino alle sue labbra, silenzio, le sfioro, le mi bacia profondamente, sembra che il mondo sia smosso dall’interno, tutto cambia, un nuovo modo di vedere il futuro, tutto unico, tutto stupendo. Guardandoci ridiamo, le carezzo i capelli, come piace a lei. Sembra primavera, un sole intenso illumina i loro volti, con un coltello incidono i loro nomi in breve abbreviazione (che espressione orribile, ma mi piace) su querce stanche.. Stupendo, un’esplosione di colori nella mia anima. Un brivido che mi percorre il corpo, la vita ha di nuovo un senso, è tutto diverso, tutto favoloso. Nel nostro abbraccio siamo un’unità con la natura. Noi fragili cristalli in un mondo traballante accendiamo i nostri mutevoli sentimenti con dolci parole o con situazioni che non ci aspettiamo. Siamo lanterne nel mare notturno, agitati dal fragore dei flutti eppure unico spiraglio per raggiungere la riva. Due parole diciamo all’unisono: non ci lasceremo mai, mai più.

2002

1

Il Virus è adombrato dai palazzi, tra stalattiti di cemento e rivalutazioni cosmiche metropolitane si adagia come nostalgia dell’esistente futuro. Un percorso retrocesso al sarà, al possibile, alla nuova anzi antica epoca che sarà, quella virtuale, degli ologrammi, magari chissà fra dieci anni leggeremo libri con minuscoli computer tascabili. Per adesso le frontiere sono inimmaginabili, tutto si potrà riscattare con un’epoca del sapere accessibile a tutti e gratuitamente. Questo è il nuovo Virus, questa è Milano, ciò che era, forse sarà, magari perirà nell’oblio ma l’innovazione è sempre partita da qui, anche prima di vent’anni fa, prima dell’ottantadue. Guardo le fotografie affisse, riscoprire che non siamo cambiati molto, manco ero nato, già si pensava, germogli punk si annidavano, a cicli alterni, tra manifestazioni libertine, tra voglia di distruggere catene. Il senso comunitario magari sta sbiadendo ma c’è la voglia comunque di un’alternativa, di un’arte esteticamente più ancora che ontologicamente alternativa. Che buffo, ho tra le mani un manoscritto, è anonimo, campeggia il titolo, una storia forse autobiografiche di Alessia e occupazioni, forse deve essere di qualche paese vicino al mio, me ne accorgo da alcuni influssi dialettali, chissà, sarà venuto anche lui qui, alla mia età, nell’82. La cosa che mi colpisce è che il testo non ha alcuna corrispondenza col luogo, chissà come ci è finito e se qualcuno lo ha letto. Storie a tratti quasi erotiche, a tratti disincantati, a tratti quasi grossolanamente filosofici, credo di una filosofia da anatomista distratto. I Kobra in tour in Olanda e Danimarca, leggo su un volantino, su un altro la condivisibile idea di creare spazi autogestiti, vocabolo censurato dall’attuale Regime detentore del Sapere prima ancora che del Potere, magari di un potere minuscolo per un potere da svelte scimmie che scivolano nel fango. Ideologie anarchiche, voglia di negare ogni forma di autorità. Condivisibile. Mi rammarico che domani mattina torno a casa, avrei voluto rimanere ancora al centro, respirare questa aria buona che da noi in provincia arriva solo filtrata. Aria di nuovo, di giusto, di libero. Avrei voglia di scrivere, forse potrei farlo discretamente, ma non oso, tutto sembra talora semplice ma nella concretezza il tutto si basa su una ripetitività, su una continua mancanza di idee originali. Tanti romanzi cyberpunk, carini, mai trovati prima d’ora, sulla scrivania vi sono testi in inglese altri in tedesco ed altri ancora tradotti in italiano. L’Italia dove il bel sì sona è muta, muta da tempo al richiamo, all’odore. Abituata ad essere soggiogata non dissente, salvo poche eccezioni, dal coro. Ryma è a fianco a me, quasi stordita dalla nebbia fumosa del locale, dal frastuono di una band che, ovviamente, non conosco, dalle foto e dai dipinti appesi, dai volantini gettati qui e lì. Mi guarda e mi bacia ardentemente, che parola ormai abusata, eppure struggente nella sua semplice profondità. Che ne sarà di noi? Domanda che mi pongo quando non sono preso dal mio carpe diem tossico, dalla mia obnubilazione da sniffio. Eppure sento che in me c’è qualcosa, che in noi c’è qualcosa, che le, per ripetere la res, cose possono cambiare. Ma, come dice…sì quella lì di qualche annetto fa, va bè, non ricordo, comunque dice più o meno che non siamo che gocce che inondano il cielo. Né più né meno, fra qualche anno magari sarò diverso, lavorerò alle poste, in banca, non scriverò mai né avrò successo, non cambierò nulla. Ma ora non ci voglio pensare. Non è importante. Credi nel domani il meno possibile. Ora tiro, tiro, e magari ci voglio pure rimanere. Sì, perché no, morire qui, strafatto, sarebbe il massimo, morire in un locale semioccultato, nostalgico e avanguardista. Ryma mi guarda ancora. Ma i miei occhi sono persi per l’eterea, la quale è più che altro una tensione, una stella da non perdere di vista, in questi due anni mi sfugge sempre di più di mano il desiderio che possa essere mia. La voglia di rendere volontà azione sta scemando, scolorando, forse sto invecchiando, ho diciassette anni e sono pessimo a fare ‘sti pensieri. Sembro un vecchio. Ho ancora il coraggio, la voglia di osare, ma molte, tante delusioni mi stanno costringendo ad avere i piedi per terra, a conoscere la parola “rinuncia”. Sperò che le cose cambieranno. Ma meglio non pensarci, diamine. Ho un umore troppo ballerino. Non ho il peso di tutto quanto resta sulla terra intera sulle mie spalle, basta, sarà quel che sarà. E poi non è neanche carino pensare ad un’altra con la mia ragazza a fianco. Non va bene. È ipocrisia. Ma al diavolo l’ipocrisia, non voglio mica fare la fine dell’impiegatuccio sposato-sfigato con figli accompagnati da rimorsi e rimpianti. E poi ho paura ad educare qualcuno, non ne sarei in grado. Ma perché penso a queste cazzateeee. Basta. L’ho detto, fammi godere l’attimo. Così facendo non faccio altro che vivere di ricordi, anche adesso. Sembro il classico tipo a che non sta bene da nessuna parte. Stop, basta, fine. Vado a bere, mi distraggo. Dove sei futuro?

2

Tra le cannucce viola l’ombra della tua pelle imprime aspre fughe dal reale, incontaminato il tuo pensiero, limpido dal riflesso etnico dei braccialetti che scortano sensazioni vorticose. Balla tra la musica e la capata il tavolino la sedia, io e te, casualmente insieme, vicinissimi eppure storditi, si impone un senso di distanza in anime che quasi si sfiorano nel bel canto di cicale invernali e dunque paradossali. Ok, esagero, ma forse pensiamo lo stesso, guardandoci con una profondità inaudita. Si sente e non mente. Non mente la sensazione seppur mia creazione o oscurata percezione. Provi quello che provo io, ne son certo. Eppure il tuo sguardo estasiato sembra nel guardare me sorvolarmi. Dovrei smettere di scrivere, è folle, ma continuo, non facendolo affatto. Non inizierò a scrivere, si è sempre troppo giovani per raccontare qualcosa di diverso dal terribile nullità adolescenziale che ci portiamo dentro. “Me ne dai una?” dici guardando il pacchetto e il fumo dalla bocca. Lo faccio e tu cacci fuori un voluttuario accendino. Stupendo. Come mai tutto ciò che ti appartiene è come te? Come cazzo fai. Rendi favoloso tutto, anche le stronzate, ammirazione assoluta. Faccetta buffa e sproloquio ardito. Parli, non ti fermi, io ti osservo immobile e corrispondente, come si può parlare insieme e trovare i propri pensieri completati dall’altra, approfonditi e viceversa. Mistero tuo, tutto tuo, o forse nostro, ma questo non lo stabilisco io, non lo stabilisci tu. E le parole cariche di rabbia non sono mai state così magnificamente perverse, sembrano stelle di una costellazione d’odio, ma di un odio amoroso, ribelle, il più candido e strampalato oltraggio al destino. Che voglia di baciarle quelle labbra. Se potessi. Oserei. Tra francesismi, germanismi, italiozie, fughe dal reale. Sono trasportato, ci navigo profugo felice, abusivo attracco cerco ma non voglio. Lasciami così e resta così. Punto. Pago il conto. Desiderio fremente di averti tra le mie braccia. Oddio. sì. Dolcissima ammaliatrice. Se solo potessi concretizzare la mia fantasia come le forme create dall’intreccio delle nostre mani nella sospensione fluida, dalle nostre ombre aggrovigliate ed inestricabili che si formano nella sera abbandonando l’uscio del baretto. Ah maledetto me. Tramuta il pensiero, rendilo azione, dico sempre lo stesso ma non lo faccio. Ridicolità spaziale questa, non temporale. Un bacetto, andiamo via per strade opposte, case diverse, ci vedremo presto. Altra occasione sfumata, forse a ragione. Ma comunque lei è pur sempre una mia intima creazione.

3

Ryma piange, singhiozzi atroci. Lacrime sulle mie mani. Tre schiaffi mi imprimono il viso. Una voce soffusa la sua, stemperata dalla tristezza mista a rabbia tenue ma tremenda. “E’ colpa tua!” dice quasi sconfitta ed insicura nella sua parca esclamazione. Ma io non c’entro. Che cazzo centro. Solo un bacio, nulla più. Va bè, magari un poco poco in più. Ma giusto un abbraccio, qualche spasmo, dei lamenti. Nulla più. Capita. Non si può stampare la propria vita a sedici anni, non si può stiparla in un angolo, vivere come dissi istanti tutti uguali. Non c’entro, ripeto. Non posso centrare. È una terribile coincidenza direi, ma sarebbe inutile. Lei è andata via, scomparsa, non per quell’evento di qualche ora fa. Sono le tre di notte cazzo. Non è scappata, sarà andata ad ubriacarsi da qualche parte. Cosa diamine posso fare io, cristo boia! Non mi preoccupo, non c’è necessità. La inviterei ad andare a dormire. Domani mattina sarà qui. Tutto inutile, disperazione diffusa, condivisa. Mi si insinuano degli ingranaggi smossi anche a me. Ma i miei neuroni sono morfetizzati, ragiono poco e con pochissima lucidità. Non posso pormi ora il problema, anche perché in questo stato non lo risolverei. Aspettare, aspettare il ritorno la mattina. Ecco. È questo che la mia mente in echetto ripete. Domani, domani. Voglio dormire ora. Non posso, lei si impone. Altro schiaffo. “Ok, ok. Sto bene. Sono sveglio, basta” le sussurro. Non è che non capisco ciò che dici, solo al momento non posso darvi importanza. È presto per sparare a zero. Tardi per ragionare. “Solo un bacio, basta”, riesco a dire. Mi sveglio a ridosso del tappeto con i lividi. Non so come cazzo me li so’ fatti. Una mano mi fa exurgere e rovinare di nuovo a terra.” Allora? Sei sveglio adesso? Che hai fatto? Di chi stai parlando? A chi hai baciato?”. mi dice la mano. Ma che cazzo ne so, chi che? Sto pensando ma non riesco a sillabare. Altre due ore, sono le undici del mattino. Ora inizio a capire. Lei è scomparsa. Puft. Svanita nel nulla. L’ultima volta che lo vista? Era attaccata alle mie labbra, poi sono tornato da Ryma, lei è andata per la via opposta. Non so altro. Che dire più di questo. Scoppio a piangere. “Dio buono!!!dov’è? È scomparsa sul serio.” D’un tratto tutto me stesso in discussione, le mie azioni, le mie guerre, la voglia di lei. Una sola cosa non muta nei miei pensieri. Lei stessa. La troverò.

4

Sei mesi ed è settembre. Il tempo guarisce le ferite. Così dicono gli stolti ed i deficienti assieme agli idioti ovviamente, i cari idioti col sorriso stampato sulle facce da ebeti. E ci credono pure. Nessuno ne parla più di lei. Come fosse stata censurata. Magari il pomeriggio fanno puntate di trasmissioni del cazzo con criminologi stempiati e barbuti ed avvocati dall’accento difettoso. Per il resto il paese è silente, stanco. Sembra che solo la mia malinconia ne abbia memoria. Memoria di quella ragazza che già prima di scomparire non era nessuna. Padre morto e madre tossica. Né fratelli né sorelle. La sua vita privata? Indagano su un ex che forse neanche esiste e che sembra nessuno abbia mai visto. Un enigma da comare ben piazzato e credo tanto, troppo insabbiato. Fortuna che i riflettori si sono tolti dalle mie palle (che cazzo significa quello che ho detto non lo so, ma il mie mi segnalava una profonda appartenenza e ce lo metto spesso quando penso). Ci ritorno spesso, ho l’azione sbiadita ma che si forma dinanzi a me, carrello senza scorta. I portici e noi due soli. “No non voglio” alla terza boccata d’erba dicevi, incurante ti baciai e il mare sembrava renderci veri ed unici eroi dei flutti, quelli dei nostri abbracci. Non ricordo che schiaga ci calammo ma lo facemmo di sicuro perché i ricordi sfumano ed i rimbombi aumentano. Non so se è così ma ricordo noi due per mano a correre e ridere a due palmi da terra, come se non sentissimo alcun peso che non fosse la nostra leggiadria. Poi una cattedrale. (Quale?). E poi il fantastico pavimento e i gemiti. Non so se facemmo sesso. Ricordo il godimento, basta. Ricordo una luce come di betoniera che le illuminò il volto. Poi ricordo che si alzò, che io le chiesi dove andasse e che lei sorrise e disse un tranquillo “Vengo subito”. La sto ancora aspettando perché quel vengo subito si è tramutato in lacrime di Ryma, poi in lividi che non ricordo e poi in tinozze d’acqua in testa ma era già mattina. Ah Ryma, non vuole vedermi più. Contenta lei, io mi preoccupo per l’altra. Sparita nel nulla e dimenticata. Anche se parlano di lei in realtà parlano di loro stessi. Nessuno la conosceva davvero. Ovviamente neanche io ma quella sensazione, quel deja vù che ebbi la prima volta che l’ho guardata negli occhi mi dicono che, non so qualcosa mi frulla per la testa. Forse non dovrei pensarci eppure irresistibile si forma una sfera di dubbi, dubbi strani, dubbi come naufraghi che conoscono i battelli come io credo di conoscere la risposta ma non li vedono in lontananza.

5

Sul lambire, è lì, sul suo stesso lambire di infinite trame aggrovigliate. Mani lunghe e buone, sottili e dinamiche nel movimento. Corpo gracile ma aggraziato, pelle pallida, da scultura marmorea. Occhi di un nero intenso e profondo. Sospiri a ritmo di sinuosa perfezione, sezione aurea argentea di passione spirituale. Silenzio simile al mistero rovente della sua stessa malinconia, chiusa in un guscio sottile. Respiro di Pall Mall rossa intenso, sbuffo all’aria, a volte di lato. Pensieri classici, sui massimi sistemi del gaudio, edonisticamente sopraffini. Mi vede, mi sorride, mi avvicino. “Ciao, piacere Etalage, che ci fai seduto sul corridoio?” “Rifletto” dice. “Pensieri ormai vecchi, nostalgie. Tu? Ti scocci in classe vero? La monotonia è assordante” “Già, c’è anche un prof antipaticissimo, un certo De Sanctis” “Ah, quello mezzo tossico” “Dicono, se ne raccontano tante su di lui, pazzo di sicuro, certa gente non dovrebbero farla insegnare” “Dai non essere razzista. Poi saranno senz’altro solo voci. E anche se non lo fossero che cazzo te ne sbatte?” “Tremi?” “Certo, è amore. Ahahah. No, scherzo. Diciamo che sostanzialmente sono, e ci aggiungerei in definitiva, cazzi essenzialmente miei” “Scusa” “No, non ci pensare. Ma che fai non te ne vai a fanculo? La frase aveva questo significato sottinteso, e mica tanto” “Vuoi che vada via” “Se proprio devi, resta” “Che discussione paradossale” “Beh è interessante, una cazzata nuova. Siediti scema, se vuoi. Ho voglia di stare un po’ in silenzio, in compagnia di qualcuno che evidenzi la mia solitudine” “Posso?” Dopo essersi seduta Etalage appoggia la sua guancia sulla mia spalla. Scusate l’inversione personale, ma ci voleva e poi saranno cazzi miei come scrivo! “Ho voglia di un bacio” “Mio caro, i baci non si chiedono”, così la ragazzina mi bacia. Bene, ne avevo bisogno. Avrei dovuto farlo anziché dirlo, ma ho agito d’istinto. Le mie mani ovviamente sono sul decollettée, glielo scopro di più. Ovviamente. Lei pensa ai ruderi, alle rovine sparse del mio essere. E la cosa che mi piace di più è che non sana le mie ferite, le lecca indomita ed incautamente lasciando ogni cosa così com’è, al giusto posto, nel corretto modo. Traversare. Adoro il viaggio. Sì il vagabondare. E lei lo sa fare benissimo sul mio corpo arreso ma belligerante. Assesta, vai, assesta un altro colpo. Così. Eccoci convocati in presidenza per intercessione della bidella vergine e zitella. Ovviamente, ripeto l’avverbio per sottolineare la banalità intrinseca nella figura grottesca dell’operatrice ata, laurea honoris causa in esistenza inautentica per via della deviata curiosità e in sturacessi da arpeggio dialettico.

6

Mezzanotte lecco la mia pall mall e me la scivolo tra le mani secernendo tabacco e miscelandolo di smeraldo odoroso. Tiro la cartina arrotolata senza pensare a nulla, neanche a lei, neanche al posto in cui sono, l’ultimo di lucidità in cui la vidi prima del mistero. Le stelle fisse mi guardano e traverso me stesso restando immobile nel palpito, lo sento, lo sento il suo cuore a mille, come nascosto da un sottile lenzuolo. Mi cade sangue dal naso. Introverso, chiuso in me, tiro su e la mano lo pulisce con uno svolazzo. Trovo incisi sul marciapiede versi indelebili ed invisibili, come lettura nella mente, rumore di sottofondo, si contemplano, compongono e sciorinano svelti, da recitazione surrealista. Li percepisco ma mentre si susseguono la mia mente non riesce a fissarli. Improvvisa una conseguenza che promana senza continuità, in un assurdo insusseguirsi come se ne fosse la causa. Le mie lacrime. Mai così forti, mai così tonanti. Mal di testa per lo sforzo. Vomito. Occhi restano lucidi. I cd di quei cantantucoli in frantumi, (cosa in frantumi? La musica o il supporto materiale? Poco importa). Particolare stupidissimo che insorge nella tristezza. Ricordo che tuttavia non la estingue ma la alimenta esponenzialmente. Inizio a danzare, mani rette dinanzi a me, come un sonnambulo, più come uno zombie. Volteggio, mi muovo ascoltando un tutto mio lento inesistente e tuttavia terribilmente presente. Abat jour. Ascolto la carezza gelata della morte. Rabbrividisco. Mi muovo ancora, dietro, destra, avanti, di nuovo destra, sinistra. Scorgo la tua immagine, l’immagine di lei. Ma è un attimo e scompare. Chiudo gli occhi per non dimenticarla mai più.

7

“Amore mio. Devi rilassarti. Sei troppo stressato. Cerca di divertirti.” “…” “Guarda, cosa vuoi di più, hai me. Me. Sai quanta gente lo vorrebbe. Viviamo nel migliore dei mondi possibili. Rousseau, no? Ricordi?” “Ricordo che Rousseau non c’entra nulla con quello che hai detto. È il Candido.” “Chi è candido? Tu sei candido, dolce, bellissimo” “Lascia perdere, va’” “Siamo ad una festa. Potresti accennare un cenno di divertimento e non meditare sulle risultanze cosmiche del Fato” “Che cazzo hai detto Etalage?” “Più o meno una cosa che mi hai detto tu” “Molto meno” Effettivamente non ha tutti i torti. Farsi una trigonometria dei passi di pam post pell, ti prego etc… guardando i passi delle ragazze e le stonature grossolane dei ragazzi che ballano senza capire un cazzo non è il massimo. E credo non sia da me. Ma se sapessi chi sono. Prima non ci pensavo ma da quando è avvenuto il fatto misterioso ci penso sempre più. Chi sono? Perché sono su una pista sulla spiaggia con dei deficienti smanicati e per di più a novembre. Novembre è mio, lasciatemi sprofondare nel mio novembre, non ve ne appropriate. Novembre è la mia malinconia. Che cazzo. E non fa manco freddo. Che cazzoo. No no. Così non va bene. Ha ragione quella, Etalage. Casper! Sto iniziando a scordarmi le cose. Sono sempre più distratto. Assorto nelle mie follie. Dovrei andare in manicomio. Se non li avessero chiusi. Mi sono sempre domandato che fine avessero fatto i pazzi senza manicomio. Boh. Esisteranno ancora gli psicologi, gli scienziati della mente. Tutti disoccupati. Bene. Devo reagire dicono quelle sue labbra da perfettina? Ma perché non si fa fottere che magari è pure brava, gli riesce bene. Ognuno è bravo in qualcosa. Lei lo è senz’altro nel farsi fottere. E nel vantarsi di, non lo so, di niente. Del nulla che le è dentro. Lo spaccia come fosse vero quello che dice. Ma dice solo cazzate. Parla con frasi fatte e non si ricorda nemmeno chi le ha dette. E fin qui, ok, neanche io mi ricordo che ho mangiato a pranzo. Ma lei lo fa in modo fastidioso, saccente. E poi te lo sbatte in faccia. Io almeno le mie elucubrazioni me le tengo per me o le dico se sono costretto. Ma lei, stai per cazzi dei tuoi, bello tranquillo, e all’improvviso: pam, ti piazza la cazzata colossale. E poi il fastidio maggiore è che ride. Che cazzo mi ridi? Tutti belli, allegri, sornioni, divertiti. Siete degli ubriaconi di lucidità. Cretini proprio. Guarda guarda. Coseno della divaricazione più seno del repentino passo all’indietro. Che cazzo mi significa. Eccoli i pazzi. Tutti in libertà. In libertà ritmica, ovvio. Arcotangente lui e lei. Fuma, gli accende la sigaretta. Bellissimo l’accendino rosa che hai, galantuomo, si intona con quella fottuta camicia. Mi sono scolato una bottiglia di gin e non va bene. Ho la nausea. Vomiterei sulle loro acconciature del cazzo. Sartre sarebbe d’accordo.

2004

1

Kimery guarda fissa il sedile dinanzi a sé. Ha lo sguardo sperso nell’etereo, in mistica contemplazione, magari, delle cicche azzeccate sullo schienale. Il finestrino che fugge paesaggi squallidi e repentini le è totalmente indifferente, ed ha santissimamente ragione. I piedi, nonostante la caducità corporea da zombie più proteso verso il cadaverico, guizzo tra la cresta rosso purpurea e la fossa di un domani insicuro unica certezza, ha i piedi saldamente impostati, in parallelo le gambe, fieri anfibi, marcano lo scranno del metrò. Come fa? Deve essere dissociata, i tossici in genere hanno le vertigini e le gambe tremolanti, ma magari lei non sarà per niente una tossica, magari sniffa l’ero una volta o due a settimana. Questa deve essere una volta di quelle. Sono le sette di sera, è buio pesto alla stazione, scende appresso a me, volteggiamenti da automa, ma quel volto. Quanta profondità. C’è modo e modo di avere uno sguardo da tossica, il suo nella sua risultanza estetica era ed è sublime. Deve essere una grande poetessa del frastuono, pochi con l’assordante musica nelle vene restano così. Non inebetiti ma. E che ne so, certe parole non esistono, se fossi bravo la disegnerei ma credo che neanche un genio ci riuscirebbe. Parlarle mi sembra inutile. Uno romperebbe l’atmosfera, due non ho un cazzo da dirgli nella mia stupefazione, tre la vorrei fermare, non è l’enumerazione ma è quello che vorrei farle. Fermati cazzo! Fatti vedere, rimani così, non scendere, rimaniamo un’altra fermata. Scendiamo. Freddo boia. ok. La seguo. Impossibile, mentre penso lei si ferma e sono costretto a scavalcarla. Le sono davanti. Mi giro. Sorride. Ovvio non a me, alla sua disconnessione. È il classico sorriso autoreferenziale, quello che si fa per aumentare dissociazione ed estraneità al mondo intero, quello a mo’ di scudo, utile per chiudersi in un guscio. L’ho sempre pensato. Cosa? Beh che chi arriva a tali livelli di estraneamento entri in contatto coll’intimità più pura e nascosta dell’universo intero. Continua, passo lento ma continua, rallento anch’io, non esce dalla stazione, si va a chiudere nel cesso. Ecco, a questo punto ho la stessa limitazione percettiva di un infante, la pallina scompare.

2

E’ stupendo stare sdraiati al Parco Pubblico a guardare gli uccelli. Pochi, carini, divertenti quasi, mi suscitano sempre una certa dissolutezza emotiva. È necessaria, si deve saper non pensare a nulla, tutto intorno è pace. Gocce leggere di pioggia sugli occhi. Cosa c’è di più bello. Talvolta vale la pena vivere. Talaltra morire. Oggi no. Sto riuscendo a non pensare finalmente. Attimo favoloso. Sono due anni che non ci riesco, dall’evento del mistero, ovviamente. Oggi sì. Ho cercato in tutti i modi di distrarmi come mi dicevano gli amici, ma se ti distrai poi va a finire che a qualcosa pensi e il pensiero, si sa, non è soggetto alle nostre brame. Se fosse un muscolo sarebbe involontario. Il pensiero è una terribile spirale, testarda per di più. Tante belle idee di contorno e pam, arriva dove vuole lui, converge verso il centro. Già, il centro. Non ci avevo pensato. Forse il centro dei miei pensieri è quell’evento proprio perché è anche il centro della mia vita, la mia ragion d’essere. È così. Senz’altro. Tanto è vero che prima non pensavo a nulla di preciso, a nulla di definitivo, non c’era nessuna idea vettore vitale, ho iniziato a pensare a qualcosa dopo l’evento. Anzi prima pensavo spesso alla ragazza principe dell’evento. Lei. Quando la conobbi il mio cervello ebbe una definizione. Prima solo pensieri in libertà, ecco. Ero apatico, prima. Lo so, gli altri dicono che lo sono diventato dopo, ma chi vuoi che conosca meglio me di me stesso, scusate. Chiaro, gli altri non ti entreranno mai nella mente, non navigheranno mai tra i tuoi neuroni, non capiranno mai le tue scelte, le tue esitazioni. Solo tu puoi farlo, perché sono tue. Ecco, io sono io perché c’è lei, c’era lei, ci sarà lei. Quindi azzardiamo un processo identificativo esulante del sé. È presto, credo di no. Credo.

3

Do si7. Mutato improvviso il corso aritmico del respiro sul mio corpo estasiato. Limone in soluzione, ago pronto. Buca la tua vena, ultima vela del pelago d’assoluto, buca la mia, l’introito emotivo più autentico negli occhi. Ti amo, ti amo, ti amo Kimery. Sono steso sul tuo corpo recalcitrante agli spasmi diurni. È questa notte gelida di primo dicembre che assurge a costellazione implicita. Corpo allucinato, corpo assopito. Vera paranoia smorzata dal riposo. Acritico, acrilico sul polso nell’attimo relitto del frammento eterno. Godo, godo ma non è sesso è un’emozione totalmente incodificabile. Due menti le nostre, nuova distrazione, due menti. Le nostre tossiche per sempre. Kimery, spogliami, annuda l’anima per sempre. Verme, verme lo spirito. Amo, amo l’eroina che dal polso sale sul mio corpo, ascendete eterno, attimo assoluto. Ti intrufoli, ti intrufoli nei miei ricordi. Nella mia memoria. Sei tu, è il diem che conta. Sei tu, è l’alma tesa che affonda nei tuoi occhi. Scocchi un bacio, tiri il fiato e la purezza provenzale come canna passata è più moderna ed azzeccata. Nostalgici, nostalgici, nostalgici a diciannove anni. Moriamo, risorti, moriamo condotti alle nostre sincere intromissioni, come dico sempre, altere. Quasi dimentico lei. Tu divieni lei (o me?). Nostalgici ancora. Guarda piccina che mi combini, non ti declini, non ti arrovi nei rami, sei candida e perversa, pullula la traccia morfina, morfina dell’interiore l’eroina. Nel cesso, nel cesso del parco pubblico assurgiamo ad ultimi primi del senato neoplatonico dell’alternativo. Nuova aristocrazia furente. MAB. Nuova aristocrazia che vince all’indifferenza. Nobiltà Dark dei nostri pensieri, dei nostri indumenti. Vedo il tuo seno, ci traccio il vero. Nuovi decadenti punkabbestia, toscani, toscani, toscani in piazza del Gesù, toscani, veri toscani autentici dei decumani. Spogliami. Dormi. Teniamoci per mano e nell’inverso camminiamo. Chi ci guarda. Borghesetti piccoli piccoli. Nerone che ci ammira, Filippo Bruno dell’OP Giordano ride, ride, ride e ci guarda. Siamo il mondo noi, siamo l’universo, siamo la luna e siamo il resto. Immagina l’ingresso al chiostro tra i frati, immagina il sillabegio prodomo del canto gregoriano, immagina lo stupore della nostra mania decodificato. Baciami, baciami. Baciami ancora sulle labbra, carezzami le guance. La tennens si impone sul sorso un po’ tabacchico dell’ero nelle vene. La flemma, salasso, salasso dell’inutile assurto ad inquietudine. Beviamo e facciamo un casino con le cellule celebrali, apriamo varchi dimensionali, sogniamo, percezione aumentata. Tu dici sincera, tienimi la mano. Cadiamo, suoniamo, l’accordo dannunziano della rimonta. Se sei stanca vai da lui, se sei esausta vai da lei, fatta abbastanza per mostrarci la vera, sincera e pura neuronale rimembranza. Cosa vuoi che siamo. Ribelli, briganti, esausti venditori d’almanacchi psichedelici. Le forme, le forme che ci appaiono ci invitano a cantare senza decifrare, ci invitano a danzare, ci invitano con forza a ritmo del frastuono a pogare, a lottare, a tiranneggiare. Ricorda, ricorda, padroni dell’universo intero, a metà, pur sempre infinito nel mistero, pur sempre esponenzialmente parallelo. E lei non sei tu. Tuttavia. Punto.

4

“Cioè credo che quello che dice sia la più colossale delle stronzate cosmiche. Cioè davvero. Non ne sento tante, ma questa è grossa. Non come le altre, ma simile. Un po’ più profondamente inutile ma comunque cazzeiforme. Stronzate. Cioè che ce ne fotte dei cinici. Che ce ne fotte se io mio sento cinica. Crede ancora nel sentire prof? Carissimo dittatoriale servo della tua pseudocultura da perdenti. La verità è un’altra. Non sentiamo più. Non ce ne è per nessun cazzo di motivo al mondo bisogno. Non sentiamo. E soprattutto non siamo. Ci annulliamo e questo va bene. La verità. Bisogna distruggersi, farsi dalla mattina alla sera. Non pensare. È inutile pensare, riflettere, filosofeggiare nella società proprio perché è ipocritamente inutile tutta la società stessa. Caligola, Diogene, socrate socratico, platone pandemonico nel macro o micro cosmo del cazzo universale e panteistico è una delle più sublimi cazzate. Aristotele, chi diceva, ipse dixit, ego soleo fellatio facere. Questo conta, fanculo cosmico. Nel cesso il pessimismo, nel cesso Leopardi. Nel cesso Cristo, Pietro e le orchidee. Nel cesso i fantasmi cazzuti del passato. Nel cesso il GF. Nel cesso Orwell. Nel cesso Tacito, Orazio. Altro che cazzo. Altro. Altro. Non c’è altro. Siamo in una stasi, per ripetere ciò che ho detto e che fra pochi attimi dimenticherò, nel cesso il cosmo. Nel cesso la moda, nel cesso Hello Kitty, e Pucca, fanculo ai culi, altro che punti. Altro che esclamazioni. Nel cesso Bercoglioni, la polis, la politica, altro che sorrisi vili, da imbianchini, da poster, altro che Madonna, altro che cazzo. Altro, altro che. Altro che basta. Nel cesso i libri, nel cesso l’ estetica, altro che merda. Schiaga a lei, schiaga a lui, schiaga a tutti. E fanculo colossale o conico. Anzi cosmico. Confusione. Nel cesso gli anni ottanta. Nel cesso il vostro punk. Nel cesso le lezioni. Nel cesso scuola, istituzione, lavoro, pensione. Altro che paura. Anzi paura. Questo proviamo. Il futuro è apatia. Sono i forum cui scriviamo, anzi scrivete, anzi collaudate con i vostri arnesi calcolatori di merda. Glielo direi in tutte le lingue del mondo prof De Sanctis. Merda! Colossale. Altro che esistenzialismo accademico da neofascisti, anzi nazisti. Altro che noia da francesini. Altro che storie. Altro. Ecco noi non viviamo, noi moriamo giorno per giorno. Voi che ci offrite? Cazzate. Perlomeno fossero teorie. No, sono pratica, pratica vile. Test? Ma test di cazzo. Sono quiz. Voi prof non siete un cazzo, siete Mike Buongiorno, l’emblema della vostra stupidità abissale. L’emblema di questa società che ci offrite. Che ci lasciate in eredità. Io mi pungo. Mi pungo perché è l’unica esistenza autentica. Sono tossica perché voglio esserlo. Perché godo a perdere me stessa. Perché muoio ogni giorno trovando me stessa. Non arriverò ai trentanni. Meglio. Muore giovane chi è caro al cielo. Aggiungerei. Muore adolescente chi è caro agli inferi. Perché io godo come centoquarantaquattromila orgasmi quando mi pungo. Stop. Muori prof.” “Hai ragione. Ti capisco. Hai dannatamente ragione Kimery”.

5

Morire contemporaneamente alla stessa ora lo stesso giorno. Per suicidio. Due ragazze tanto diverse. Per motivi magari differenti. Ma accomunate dalle modalità di morte e dallo giungere della morte stessa. Mettere un tappo in un tubo di scappamento di un’auto. Che non sanno nemmeno guidare. Sanno usare però per morire. Ryma. Morta per sbaglio dialettico, errore coniugato, stupidità implicita. Credeva che fossi ancora innamorata di lei. Della scomparsa. Che cretina, che stronzate. Pur ammettendo che lo fossi e magari lo ero anche, e magari lo sono anche, è una ragione giusta per togliersi la vita? Anche lei, quando eravamo insieme, era innamorata di un altro. Embè. Io sono vivo, non sono morto mica per quel, come si chiama, cazzo non mi ricordo, Tizio? Mevio? Sì, forse magari Caio. Anzi no, Tito?. Boh, che cazzo ne so. Non me ne sono mai interessato. Mi bastava il sesso. E poi amavo un’altra. Lei forse.O no? Ma che me ne fotte, o sì o no non mi sono ucciso, neanche dopo l’evento misterioso. Ryma, innamorata di un cretino, ignorante, stupido. Signorina del cazzo, insicura come una puttana, meretrice possente. D’altronde ha anche i fianchi larghi. Poteva stare con lui. Se fosse vivo Mussolini avrebbe detto che è la ragazza perfetta per sfornare bambini. Poi si è rifatta naso e seno. Che stronza. Chi utilizza la chirurgia estetica per fini non necessari è una zoccola. E sì. Piacerà anche ai femminucci. A quei ragazzotti e a quegli giovani che amano la pet, la plastica, il silicone. Io amo le ragazze. Gli omucoli amano le puttane rifatte. Ahahah. Hai fatto bene Ryma ad ucciderti, altrimenti lo avrei fatto io. Già, che bello. Beng beng, o bang bang, e vincerà chi al cuore punterà. Traduzione pessima, tipica della censura italiana. Meglio. Sì, avrei goduto ad ucciderti. Orgasmo mentale. Mi hai risparmiato la fatica. Da quando non stai con me, due anni, sei diventata la tipica ragazza vetrina, forse ti batte solo Etalage. Ciao puttana, non mi mancherai. Dicono che quando una persona muore tutti ne parlino bene. L’ipocrisia più inutile che abbia mai visto. Io non parlo mai male delle persone alle spalle, sempre alle spalle e in faccia, indifferentemente. E lo dico, la sua morte ha sollevato le sorti dell’umana esistenza. Non mancherai all’umanità, agli esseri dotati di anima altri, cioè agli animali, e nemmeno alle piante o ai minerali. Ha ragione Epicuro, se uno vive come te meglio che si tolga la vita. E sì, è così, l’unico gesto sensato della tua vita è stato il suicidio, inetta a vivere. Ironia della sorte, due chilometri più in là, o in lì se vogliamo essere sillabicamente puri, morivi tu, Kimery. Fatta dalla mattina alla sera. Stupenda nella sua darkagine. Con lo sguardo perso più profondo che i miei occhi abbiano visto. Tu sì che mi mancherai, tossica del sublime. Ti adoro. Adoro la tua vita. Morta non per stupidità tua, ma per stupidità globale. L’Anima Mundi accoglierà le tue spoglie, il tuo spirito superbo, la tua anima. Tu sei parte dell’universo, tu sei parte del tutto. Non ti dimenticherò mai mia anarchica ribelle, mio fiore di loto, mia invasrice dell’animo umano. Mia medicina e mia malattia.

6

Luce in fondo ai corridoi del silenzio. Barcollo indeciso e tetro tra i volteggi del mio essere, cercando luoghi di verità distorcendo la realtà con l’acido lisergico. Sdraiato, ovviamente senza saper dove, inseguo il biancoconiglio. Tempo che passeggia scalzo per il nostro mondo riempiendo di ostacoli il sentiero mi converge verso il senso più profondo ed intimo delle cose. Legato senza catene che non siano virtuali ho un po’ di timore ad alzarmi, come se fosse morfina ciò che pullula nelle vene, come i combattenti assuefatti dei tartari che rischiavano sé stessi, la propria vita, pur di rimanere legati alla prigionia squallida tramutata dalle sostanze dell’imperatore in paradiso, in giardino califfico, tra fiori d’assenzio e sabbia e silicio, un giorno caro al collegamento, allora caro alla intima caratteristica implicita di un mondo in frantumi. Tempo tiranno distorsione mentale, tempo del gaudio confusione irreale. Spasimo vittima di sé stesso. Vivo inclinato ad un piano abissale. Luce, luce, ancora luce, per osmosi sapientemente catapultata dall’ interiore al fulgido spazio sovrastante l’umano. Svenni e mi ripresi lucido con le mani odorose d’incenso e di bacche boschive.

7

Il nulla, il vuoto improvviso ritorna in me. Buco la mia vena con l’aria di gusto fremente e dolce. Adoro assaporare l’endovena schiumata della vita mia che lenta si spegne. Ti amo. Sono vicino a te, vicino a lei per sempre. I miei occhi socchiusi. Sorriso stampato sul viso. Nell’aria gelida di fine dicembre la bolla della vetrata è mastodonticamente perversa, gioisco ma con garbo. Mi spengo senza l’ombra neanche lontana di un pianto. Ci voglio rimanere stavolta davvero, voglio rimanerci, dare un senso a questa esistenza. Morire e godere ancora e ancora, continuare a godere di ciò che è dietro all’oggetto reale, di ciò che è dietro alla parola, di ciò che è dietro al suono entusiasta e lento. Di ciò che dentro me è fermento. Il libro è semiaperto sull’anta del senso, notti bianche elettive nel polso che rallenta e si tramuta in incoscienza, in rima baciata come sudario desueto e infantile, ma pur sempre attrattivo, il mio assurdo si impone e il sorriso stavolta è più forte, non so neanche dove sono. Un solo pensiero, il fumo che la investiva l’ultima volta che l’ho vista, l’ultima volta che vidi lei. Ecco, questo son’io, l’assoluto del nulla. Ti amo. Che purezza nel cesso di un atomo dal mio palpitare e dal mio sproloquio sconnesso esaltato, esaltato in sé stesso. Voglio rivederti anche solo per un attimo, l’istante del condensamento alternativo del tuo unico fiato, quello sulle mie labbra impostato.

Confusione mentale

“E’ completamente andato. Ha i documenti falsi, dovrebbe avere tredici anni, se li porta malissimo. Non si sa da dove venga, niente, in tasca non aveva niente a parte la carta di identità falsa, un pacchetto a metà di pall mall e l’ago infilzato ancora nella vena. Deve essere un tossico vagabondo. Portatelo in stanza e sedatelo, non voglio risvegli bruschi.” Nel corridoio un’immagine. Lei, Muta del Gabbro. Amore mio, amore mio. Dove siamo finiti, chi siamo, che saremo. Tendimi le braccia. Fuggiamo. “E’ pazzo, probabilmente ha le allucinazioni o è una sua compagna tossica. È vero uomo ragazzino misterioso, ti sei fumato il cervello assieme a lei” Muta improvvisa sfiora le mie labbra, gli occhi assopiti si fanno tiepidamente ma inesorabilmente alteri: “Mikä antaa sinulle oikeuden tuomita mies vain koska hän oksentaa mutaa, joka niin kauan on gorged?”. “Che cazzo ha detto? Schizofrenica ebete ed ebefrenica. Isolateli e non fateli incontrare. Non voglio guai, almeno stanotte. Fateli fare una bella dormita.” “Dottore, mi lasci approfondire il caso” chiede sorridendo un ragazzo biondo col pizzetto rossastro. È appoggiato ad un muro, col gomito che stropiccia un calendario. Settembre 1998.

L’eco del risveglio

L’imperatrice

 

Plasma un destriero indomito da auriga folle, da corsaro suadente di flutti scossi dalle redini turbate

Gli occhi speculari di metilene nella mente di siriaci dalle grazie celtiche prostrate al vento e in panistica unità con la natura

In selve distorte tra laghi di immane gaudio riposa il tuo velo sospeso: eternità di roccia silicio effimero ma possente

Nella radura la tua gemma al collo verde d’assenzio e variopinta di smeraldi come calice goduto come piattaforma di pensiero fugace

I Fenici scaltri tra le rovine di Tebe e tu in trono nel firmamento austero di sogni diurni di paste statiche e leziose come miele, dolce fiele negli assedi, ventura dei portenti, gioia dei nemici, emblema della celere battaglia

In un dissipare di luci e in un sormontante anelito dimesso da soave spuma marina o da effige divina numismatica sorta trapassata come liquame anzi vapore tra le pareti umido delle scale odore incantevole della pioggia

I templi eretti per te mistero delle immagini infinite di un così vasto ardore che invade gli animi

Lo spirito che giace sovrano sul tuo corpo carezza le spalle inumidisce i capelli dà madore alla pelle

Tu incauta folla di stupore ondaccolo della luce intorpidito bastione di stratagemmi bellici

Per te le forze cosmiche lottano e ai tuoi piedi l’ultimo anelito cedono

Tu sola collo sguardo incanti i viaggiatori stanchi dall’assedio pittoresco

Immergi dentro te e esponi declinando con tre parole l’umanità intera

Dialettica degli opposti, punto d’armonia assoluta, il verbo si arresta dinanzi al tuo apparire

Ma non vive il tuo respiro tra spasimi incessanti di una vittoria delle foglie incaute sulle piante

La clorofilla di te ti dà la forza di anguste intromissioni tra quel che è vero e quello ormai silente

Genesi effimera del volto lo sguardo intermittente di te stessa rivolto verso candidi pensieri e impure come ieri le giornate

Bisognerebbe avere la passione di dire cose da bestiole che in te trovano riposo in te trovano ristoro nel muover delle mani si stupiscono ed estroverse si smarriscono

Per conquistarti un soldato avrebbe invaso l’Egitto in un attimo svogliato crollando Alessandria ai suoi piedi in vana voglia coi libri intrepidi tra le rive auguste di potenza del Nilo trasmigrato in Stige nubiloso

Ma poi il combattente slegando i lacci del mantello perdendo la croce e il suo cappello distrutto ai tuoi piedi pel rifiuto

L’imperatrice sei tu io te lo sussurro sfogliando il volume sul Volturno in una piazza incauta del mistero che la costellazione col tuo nome cede a Mercurio

E per conquistarti un alchimista dorato si è venduto l’alambicco ed il suo stato sguazzando nel protocollo di Bisanzio e giocandosi i tarocchi senza sosta e senza la tua effige

Sei tu l’Imperatrice di quelle terre indoeuropee della tundra sterminata della scalata verso il Mare Nostrum

La mappa mostra il tabernacolo l’alchimista la sfoglia e non ti trova ti perde nella pietra mistica nella battaglia di Lepanto

Dov’è il tuo trono e la corona se s’inchinano i condottieri e i maghi non senti nelle vene il marchingegno divino

E capisci ciò che forse non hai letto e sospendi ciò che forse non ti sei chiesta nove gradi nel pianeta ascendente sul tuo Liocorno

 

Lo sguardo frulla

 

Lo sguardo frulla, invadente sgorga, negli occhi tuoi che trillano, indomiti biscotti col ventre d’amarena sgusciante di illusioni. Prezioso quell’ intenso vagare in tundre desolate che chiedono venia inconcludente al vortice tuo ardente. Gaudioso il tuo zigomo dolce e strisciante come la notte che risplende invitante un chiaro percorso scosceso e sconosciuto.

Improvviso gelido il tuo viso, la schiuma sul volto pasticciera è il mantice della sera come l’acqua novembrina e sincera fissata dal pensiero un po’ impuro.

Lo stillicidio del tramonto, la luna prossima e il sogno che già t’invade, conquista d’altri tempi sopiti da battaglie fugaci e mai perse. E poi capelli: rame e argento dei cirri intrepidi e furenti, destrieri lontani e scossi, vaghi e guizzanti.

Occulta, così resti occulta, i volumi del silenzio sono piante rampicanti.

Sguazzi tra fecondi ariosi discorsi che spiazzano, che riposano, che infine si assopiscono, mormori un fruscio come il vento e resti dominata da te stessa.

Impercettibile, volatile sostanza, etilico ectoplasma, si sente la tua presenza nell’aria ma manchi in consistenza, sì tanta veemenza, comunque te lo ripeto, manchi in consistenza.

Nobile, gas nobile, legata con te stessa non rimpiangi l’inutile compagnia, stendi la tela, prima di distruggerla resti a rimirarla, godi e la tranci di netto.

Col bicchiere in mano, il liquido verde, i fluidi rimescolati li versi nel letto e parli per dispetto anche del calore e della quinta (volteggiano le dita nel vuoto).

Il rimario l’hai smarrito ma, cribbio, non ti serve, fai benissimo da sola, fai benissimo anche senza,

meglio il gelido cobalto, dipinto di assenzio in gaudiose vittorie etiliche incantate dal supremo colore intorpidito dal pallido incarnato che cede alla sera i misteri, al chiaro contatto di un raggio di luna.

E sì la luna apparirà sintetica, intraprendente ma come lemma silente, apparirà, tepore nel cielo senza preavviso, dici sul serio, stringendo nei pugni il tuo velo sospeso di inquietudine.

Allora sì, cambierà tutto come solo un arido sentiero, breccia nella voce dimessa, un po’ cupa, nostalgica.

Intorpidito ogni furore sono strade di catrame che sfiora ad ogni ora il tuo buon umore mentre senti dolente il mutamento della pioggia, diventi tu stessa pioggia, prezioso acquitrino in parole menomate.

Diventi l’essenza, la temperanza, l’incandescenza.

Diventi quel segno svelato, quel tuo sguardo obnubilato, un cantiere in sospeso.

Diventi pura, candida ma ardita, poi dolce bocciolo di foglie spaurite da una goccia trasparente.

Intorpidito, nello specchio il tuo sguardo, ricordi sbiaditi e tesi nel vento, è un attimo e compare e scompare e ricompare multiforme la tua figura in un sussulto intrepido, vorace, dolente.

Poi solo parole che si arrestano dinanzi al tuo incauto gesto folgorante e resta il tuo docile volto indissolubile.

 

Dagli occhi incauti

 

dagli occhi incauti mal dimessi al silenzio loquace come fluido diluito e tenebroso di pensieri impuri che m’invadono e che si inchinano al tuo apparire furiosa in estasi per un ricordo..

 

Divina padrona

 

Divina padrona un mistero sublime avvolge quell’aura di tristezza che ti invade da quella notte

Sola e in silenzio varchi ogni dì le soglie del tempo

Spiazzi con lo sguardo e intanto sorridi nobilmente con incanto e celestiale gaudio

Parli di te con vivacità e poesia ti agiti, ti muovi e non cedi

Trapassi l’aria e volteggi amabilmente tra le tue parole mutate in furiosi e vorticosi ingorghi

Tempeste di sabbia, diamanti di cera, serpenti a sonagli ed animate, vuote storie di peccati

Non concedi alla sera che qualche barlume, non chiudi le finestre neanche se gli sconfitti petali ti investono

Li tramuti in foglie secche che con superbia sgretoli tra le mani

Ridotti in polvere ti implorano pietà ma tu indifferente li spargi intorno a te chiudi gli occhi apri la bocca e divori il vento con voracità.

Poi soffi e dai potere al caos confondi le menti e domini compiaciuta

Sovrana e padrona ti annoi con semplicità ti rendi complice del tedio ma lo pugnali alle spalle fingendo indifferenza ed estraneità

Infine ti stendi sul tuo letto argentato porti un dito al cielo ti sfiori poi le labbra e godi la tua divinità

 

Traluce

 

Traluce in svariate sensazioni scandite il languido svolazzo derubato dallo sguardo tuo propendente nei confronti dell’infinito diroccato ingurgitando bacche ambrosiamente velenate.

Stupida diramazione sulla salina, svincolo a destra dei tuoi fianchi trapassati e trasformati in perversità.

Ma come si è potuto sfiorare l’accordo veemente nel frastuono melodico?

Cadenzato il verso, tre piedi, la metrica federiciana, da Lentini a Bembo il passo è sovvertito, la glossa grossolanamente disattende il principio.

Non ci hai fatto caso, capretta d’altri tempi, l’essenza è stata persa sul tuo corpo.

Ah come era stupendo il tuo profilo, armonia d’assoluto anzi la venuta dell’oblio che ti ha disincantato, ora ascolti le scaglie a mo’ di invasrice.

Fulgida dicromatica non dimenticare la storia tra di noi mai sorta e mai nata.

E continua a recitare, sul palco coi boccoli cinabrici affinché imprima sul cartoncino le tue velature sublimi.

Poi noncurante come sei sempre stata, schiaccia questo residuo del nulla, io resto inutile musichetta, ignorata e inesistente.

 

Bios-Thanatos

 

Un atomo di idrogeno, pioggia scaltra, trasmigrazione della scalza intromissione tracotante di particolarismi crepuscolari nell’intento di sviare altrimenti, altri connessi, intrugli scantenati e poi, i tuoi silenzi giù o in soffitta, il carbossido, l’alcheno, la vita e il piagnisteo.

Poi ti vedo navigare con candida mano dirigenziale, sullo scranno alabastrino, sul predellino di basalto, e scende da questi crateri, non fossilizzi tutti i miei pensieri, li dischiudi tra miserie e inganni, li proteggi tra bagliori e furori.

Poi l’onda del mare si infrange sullo scoglio d’amore, ascolta la tua voce, fisiologica la passione piramidale, sgomento, puro sgomento, nel vederti incedere in trotto, tra le spiagge tra gli invasori, tra i più stupidi scultori, che non traggono vita dal marmo ma gorgheggiano il loro santo scalpello, come macchie perse nel claudicante senso.

Intanto alla deriva, tra le colline toscane, tra le più amare muse insabbiatrici, tra i giardini, tra le zamie, tra i pensili babilonesi non hai più porti sicuri, nichilismo sui tuoi occhi, tedio e nausea sulla tua bocca.

In una valente balza scoscesa di giudizi minossici, avvolgi la tua coda giudicante, poi la spogli di vergogna, la danni quella tua voglia, nell’oscuro rimpiangi il sole, maledici rose candide ma le brami infondo a quel tuo cuore, come sogni desti, vortici paradossali.

No, forse non c’è speranza, hai ragione qui è il buio, ma la musica dialettica e sintesi ad un tempo, li sfinisce questi tuoi pensieri come se giammai, tu non avessi avuto paura.

Poi la pioggia svanisce, lampa corpuscolare perde il senso, il pavimento è sanguinante, ti distendi con le gambe all’aria, e l’infinito è lì vicino, già li senti i serafini, le virtù, le potestà, l’empireo.

Allora decidi, togli il sol, poni il mi, e la chiave di basso diventa di volta, architettonicamente regge l’universo in un barlume di anfratti, tra tendenze centrifughe trovi il punto d’assoluto.

 

La quinta dimensione

 

Porgendo il bicchierino, scopri inaudita l’indice furente, scosceso tra le ardite rovine di regge mastodontiche e novembrine che sotto un colpo fiero tracollano in trotto, svaniscono d’un botto, e restano pezzetti di domani mal riposti, come atolli alteri.

Posi tutto e corri tra le tue stesse braccia, pesi poco e gradivo il tuo corpo si slaccia.

Sono essenze fluide nell’aria come se si sentisse un flebile lamento che se esistesse per davvero o fosse alba di giorni concupiti al chiaror selenico…

Possediamo il talismano!

Poi trema attonita la tua mano, sfregandolo ti atteggi ad anima dei silvani anfratti o magari degli insoliti acquitrini di rimpetto trasparenti ed attraenti, immagini ti invadono a sgorgare preghierine mentre precipiti con grazia celtica.

La molla del tempo. La chiave del silenzio. La svampita croce circolare. Tutto nel portagioie del tuo camerino ineguale.

E se avessimo sbagliato dall’inizio? Se fosse tutto falso?

Al di là del limite ascendiamo calpestando gli scalini e forgiando lame irsute per la celere battaglia, che ormai dura da millenni.

Antropiche guerriglie urbane, pre-edeniche pretese di potere pur sempre privato, sciacallaggi atroci sulla tua pelle come a dire frasi sconnesse, post-atomiche rimesse, carrozzerie sgualcite lievemente ma terribilmente sacrileghe, sull’altare della discordia.

Porgendo il bicchierino forse il tuo sguardo non immaginava questo, non si aspettava fossimo accerchiati dai nemici di sempre.

Precisamente loro, i loro tratti suadenti, la cicatrice ad angolo retto.

Forse non è vero ma tu te ne ricordi, mi hai impresso nella mente, me come matrice di futuri incontri senza più psicotropi.

Forse quel gesto, quel bicchiere significava, dai fuggiamo via, prima che arrivi l’alba. Ci restano due ore. Varca la porta,

la quinta dimensione.

 

La dama delle stelle

 

Poniamo per un istante un’ipotesi, diamogli corpo, diamogli pensiero.

La luce mostra intorno nocumento, ma forse è meglio, stendo il velo, lo scorgo, lo accosto, lo sfioro, dita in cielo.

Siamo stati felici in mezzo ai tuoi capricci, come se infondo non ci importasse, della pioggia.

Ma no, tu, no, non dimenticare che siamo stati validi tiranni, berberi affanni, sofistici e ditirambici accordi.

Sguazza tra le tue note, fallo con calma, sì, dai, metti pure i numeretti, forse è meglio, mi oriento sì, mi schiudo, sì.

Il vero è come foglie ingiallite, variopinte, dai guarda che colori poco prima della caduta.

Mettiamoci in cima, nascondiamoci tra i rami, percepiamo la natura, anima mundi, ardente spirito incendiario.

L’essenza è qui, dove è il godimento, cardi e sogni, rapaci intrugli, cabalistiche passioni, austere invasioni, continenti sconosciuti e ancora sì, magica quiete, prorompente.

Mantiene tale essenza l’ombra delle idee, dai volteggi, dai solfeggi, neoplatonici incontri, forse un karmico, volubile selciato, etereo ma magari vivido come mero giudizio nero.

La voglia c’è, manca la disciplina, o forse, no, la stessa esiste, insita nel tuo caos cosmico, dove va non lo sa, lì tra il tuo volto effimero, tracciato con la china su un A3.

Guarda c’è una pera, guarda una melagrana, guarda un furetto, fisiognomica e santa la tua effige, il riflesso, l’apparenza.

Ti bastava un solo cenno per tramutare il legno in argento, con l’indice proteso, coll’ anulare capiente, col cerchio di congiunzione al collo.

Puoi accennare un sorriso. E ardentemente quando il rumore è assente, fai di nuovo il cenno, assapora l’anima di belve e clorofille.

 

Poi finisti nel giardino

 

Poi finisti nel giardino, sfiorando i vespri autunnali, caduche tutte le tue passioni, spargesti effluvio violaceo senza concepire né stagioni né illusioni ma soltanto validi sonetti.

Spalancando il portone in quanto possedevi già quanto ti occorreva:

la sfinge, la chimera, la troposfera, le strisce di Elio e non di aerei come se tu, stampo nel gesso, sbuffando scendessi a compromesso.

E poi i tradimenti, eh eh, dove li metti?

Poi venne qualcuno che ti sussurrò un lamento nel padiglione auricolare, lo spingesti quindi fino all’eccesso, ti cambiasti l’espansore e lo sfinisti, lo punisti, lo infliggesti, nel naso la congiunzione corpo-spirito, nel pancreas l’ectoplasma, nel fegato la rogna.

Quel qualcuno ti disse l’ora di conseguenza, pronunciò le tre parole della formuletta ma tu rispondesti di avere già le catene attaccate ai passanti, dunque era inutile, meglio sorvolare, ti bastava.

Sì, continuando a parlare dicesti io ho voglia di bayles, ancora, dai ancora un cicchettino, poco così, poco colà.

Non so che follie dopo la bevuta, magari vorresti anche una dose, allora sì o allora no, comunque è tardi meglio tornare a casa, io ti dico.

Ma in ogni caso un paio di basetti te li concedi, smackettante aspetti prima di ricambiare il refolo di vento, ti sdrai per terra divaricando le gambe.

Ah piccolina cosa mi combini? Non ti viene in mente che domani sarà giorno, beh che dico, a te cosa importa, sul libricino stenderai un telo da mare.

Un telo tedioso ma accogliente, mentre gli altri parlano tu straparlerai nel sonno fingendo, ovviamente, compassione.

Poi tra le aule a trotto il giro sarà interrotto, scolastica citerai l’Aquinate e due versetti a caso, poi sulla cattedra, allestita a palcoscenico per l’occasione, germoglierai estrosa.

Ma ora è sera non pensiamoci ancora dimmi un po’ che cosa vuoi dirmi o andiamo al sodo.

Già lo sapevo! mi parli di Verne, poi incurante passi all’anima che pende e non ha riscontri.

Infine e finalmente troviamo spazio per l’amore ma solo su due mattonelle, 34×30.

 

L’origine del mondo specchio del tuo corpo

 

Probabilmente si è trattato di un sopruso, inaudito gemito del lauto banchetto incluso, la voglia è già condizionale, sospensiva clausola dell’anima mentre il sapone ascende in macchie, in bolle poi, in conclusione.

Dal cielo mi sorprendi, schiarisci le stelle come fossero denti sorprendenti e beffardi, aneliti di travagli superati dallo stupore.

Eccoti mentre ti trasferisci in mare, la conchiglia, la genesi, l’attesa, Zante, Stromboli, Vulcano, Napoli, Roma, l’altopiano. Eccoti che scandisci bene le parole. Eccoti che trasmuti, dai valori, dalla morale, fino all’inclito spiano astrale. Eccoti con le partiture. Eccoti in brulle arsure, dove non hai più voglie né floreali, estrose balestre possenti. Eccoti nella cascina. Eccoti scalatrice, dove neanche il Monte Ventoso ha potuto riempirti d’allori.

Sì ti fa piacere, mi hai trovato, bottoni, lacci e asole, mi hai trovato. Apri la credenza, prendi leziose paste statiche come vesti. Ti copri, indumenti impermeabili all’ardore, tanto tu già l’hai svelato il segreto. Allora sì lo prendi, lo sospendi, specchietti, purpurei ammanti, oscure toghe che vincon l’arme come erba dolce ed odorosa che fa battaglia silente all’orgoglio.

Ma poi neanche ti rendi conto delle ostruzioni e degli ostracismi, hai fiducia, davvero ci credi in quel che dici, ambiziosa!

I simboli vegetali, l’aquila e il falco, i numeri perversi, statici come l’universo speculare, circolare ma tagliato in due simmetricamente, di qua l’oscuro negativo, di qui la luce positiva.

E poi lo zero, quindi il punto, sostegno della storia inesprimibile ed immisurabile, magari percettibile, ma inconcepibile.

E nel Museo di Alessandria o nello Studio napoletano hai trovato la congiunzione, gli scritti dove l’origine del mondo non è descritta in termini di creazione né di trasformazione ma solo come specchio del tuo corpo. I secoli, i millenni, i giorni, l’ore e gli anni, assoluti e tracciati sul tuo volto.

La storia è sapienza, la vita conoscenza. Tu sei storia e vita, conoscenza e sapienza.

L’universo vive e si espande, di un’espansione paziente, che non scorre ma resta lì, tutto esiste, tutto è sempre stato ma sconosciuto e scoperto perciò per gradi.

Allora ti è sufficiente, va bene così, sleghi i capelli. Allora basta così, riprendiamo domani sera.

 

Usignolo libero

 

Si alza il vento, soffia fiato silente tra le corde e tu distesa sulla brume dialettica foglia perduta.

E d’improvviso chiudi gli occhi e si spalancano i mari, i cobaltici anfratti divini sul taglio zigomato e la lacrima raggiunge le tue labbra. Poi il cinguettio, di nuovo. Zitti,

tutti zitti.

Va, ondeggia qua e là, corri, fuggitiva corri, libera, sei libera adesso, non ti perdo, no, tu rimarrai in me.

E ribelle e dolce mia, scuoti ancora un po’ la testa. Vai, usignolo fiero vai, nessuno più vorrà legarti, incatenarti, costringerti a cantar.

Vai, il mediterraneo è un po’ più là, la vita tua preziosa, viva, serena, estrosa, e pura ormai sarà.

 

Da dietro alla colonna

 

Suppongo sia lei. Presumo sia proprio lei.

Dai mi avvicino. Scorgo le labbra ciliegie, madeleine occhi, amarene pupille. Le incandescenze violacee ai bordi del corpo, sul viso la seta, lo sguardo turchino, il sorriso beffardo.

Spostati devo accostarla, anzi no, è meglio mi nasconda dietro la colonna.

Le macchinette d’acacia fanno un rumore assordante, un sibilo crescente, allora è l’occasione giusta, la falena grigia apre il sipario ai suoi colori.

Pura magagna, eh eh, sì mi ricordo, quel pensiero estivo sull’asfalto paonazzo, le tue mani svolazzanti tra le ciglia e i compromessi, le tue dita invitanti tra scadenti e sagaci trotti al centro dell’incrocio. A quest’ora (tre di pomeriggio) chi vuoi che passi, andiamo a intermittenza, stringimi la mano, aspettiamo un breve accenno di gomma, e gettiamoci ad occhi chiusi in mezzo alla strada.

Supini per terra. Non ci sono, dai, bare di fuoco ma comunque, tranquilla, vediamo il futuro lo stesso, ignoriamo il presente.

Fosse stato vero! Avremmo saputo di esser entrambi qui alla distilleria.

E il sibilo aumenta. Si, dio mio come aumenta, forse magari è soltanto scheggia della mia mente. Lo ignoro ovvero ignoro te ovvero ancora ne approfitto per ‘mbruscinarti o solo guardarti.

Ma improvviso, oh no che succede, folletti, monacelli e fatine nel castello imbandito sul ripiano a mo’ di buffet.

Mi offrono una pastarella sguazzosa di maraschino, la mangio da me. Mi giro. O dio, lei ora dov’è?

Eccola affianco al re.

Ma l’anello al dito, cito ancora dio e dico, cribbio dove è finito? C’è bisogno, sì mi decido, la accosto e l’avvicino ad un tempo e le sussurro d’un fiato di spostarsi a ridosso del muro, la devo parlare.

Poi incurante della reazione continuo, sono finito in un mondo parallelo dove non c’è raziocinio.

No non è così, guarda, tu dici, ma io nemmeno ti ascolto più. Ti sembra questo il motivo di essere incantevole o socievole?

Al ritorno vedrai le mie lenzuola immerse nel rosa delle persiane in giubilo attendendo l’arrivo da Maratona.

E concludi chiedendomi di dipingerti il viso, di accennarti un po’ di falso e un po’ di vero, di odorarti i capelli, evocatori di nascosti sentimenti, profumati e saporiti compagni delle nostre perversioni.

Il sibilo è ora schizzato, la cresta troppo alta, la frequenza incalcolabile. Mi giro e vado via.

 

Vai parola

 

Vai parola, non fermarti ancora, cerca il suo viso, scendi dai colli in corso, soffia in viuzze affollate, prova a trovarla, il mio sforzo è vano.

Ove il mio farneticare ti invada l’anima, carichi lo spirito, ti renda indivisibile unità, resta con gli occhi bassi di fronte a me, guardati ancora oscillando le gambe.

Non preoccuparti il fascio ti invaderà il volto per un altro po’, non agitarti, i tuoi boccoli sono nei miei sogni, oh sì quei cirri greci, quel misterioso estro alemanno, quell’indolenza e quell’indifferenza.

Se poi devo restar lontano a maciullare amare solitudine, guardami tu, io pongo lo sguardo altrove ma stai tranquilla, sei impressa nella mente a caratteri mobili,

mio libro universale, vengo ad attinger frammenti di verità dai tuoi occhi che sono solo sintesi del volto misterioso, ragazza d’altri tempi, sei la mia via diletta, dove da tranquilli posti non mi scomodo, stiracchiato sul triclino col calice in mano, bevo i tuoi umidi livori ardenti, tu sei comunque sempre più lontana. Mia gamberetta ritratta, incedi in verso negativo,

resta soltanto un flebo della tua ombra, io scrivo senza che tu legga, scrivo inutilmente.

 

Meglio sorvolare la verità

 

Proclamata con un giro di parole la perdizione della seduzione,

tu mi guardi con gli occhi intensi ma il pensiero è già altrove.

E tanto tempo, tanto vivido il senso, lo batti sulla cattedra come un pugno dato al muro, sei capace di dirigere un’orchestra o chiedi venia come un ginnico esercizio in palestra.

Le sensazioni che sprigiona il tuo corpo in questa superba sonata sono candide come le rose di un maggio lontano che rincorre per caso un verso e lo acciuffa guardando più in là.

Qualcuno direbbe l’autunno è una passione da coltivare come le strade spalancate sulla realtà, hai un po’ di timori, allora passa da me.

Tre quarti è l’azione, due terzi finisce in perversione.

E c’è una stella troppo bella dalla finestra la guardi e speri magari pensando a te stessa, puoi pure sorvolare l’introduzione, vieni al dunque con pudore.

E guardarti fissa di nuovo negli occhi, cercando un barlume di verità, ma la tua nebbia mi oscura la vista, è meglio sorvolare la verità.

 

Porgimi il cuore diadema del dolore

 

Porgimi il cuore diadema del dolore, porgimi il tuo sguazzante animo intatto, porgimelo dai, non ti chiedo dove vai.

Credo che tu, ammiccante come non mai abbia tratto addendi, i fogli, le formiche, il pianto, il veleno ed anche la pioggia mescolata al bitume non implorerà, dirà soltanto che giammai la storia è finita tra noi.

Ed a quel punto dirò, cara sei la vernice più fluorescente su pareti perverse, sei indelebilmente scaltra ma già, non scompari neanche se dici no, impressa resti al vetriolo, o magari al vetrino, microscopico ardore positivista.

Per questo io striscerò, coperto di mandrie sopite in me, invitante con la socchiusa palpebra all’imbrunire, sei solo rimasuglio del vuoto gesso posto sul compromesso, la lavagna di Delle Vigne chiuso in cella ingiustamente perché, l’invidia, rende cechi sai, ma tu resti più lontana che mai.

Allora zitto dirò, sei alemanna, franca, celtica o galla, sei iberica o magari romea, non so, le punizioni Giustinianee, le accuse di eresia e di vilipendio.

Per questo ancora muto dirò, la tua soave voce dov’è?

Sei ciò che tende, ciò che darebbe una svolta definitiva se, lo Stupor Mundi sotto il giglio non si fosse spento,

ma tu portami alla vita di nuovo del dominio senza guerre, alla legge senza tavole o bronzini incisi hammurabici,

sei tu la babilonia vera di libertà, non meretrice, non sei più il sosia di te, sei la candida effige, sei la rosata stele celeste, sei l’effluvio d’Egitto, l’Astrea e la Sofia, sei il Filos e il Logos, leghi tutto supina in te.

Allora fondiamo ‘sta città, diamogli mura trasparenti, accogliamo in sincretia ogni brama di sapere, collochiamola sul mare e tra le colline.

Poi infine ancora più tacito, io le do il tuo nome, il tuo epiteto e il tuo attributo.

 

La sognatrice al far dell’aurora

 

Eccoti qua di nuovo a fare l’ étoile, esplodi in frasi concise, scisse armonie riottose, risulti suadente e lei che dice deludente, via la fornace ai sogni incauti d’attrice, vivi per me e dici che il resto è il surplus essenziale di ogni felicità, vivi per me e attonita dici che son verseggiatore atono dei tuoi desideri dischiusi, eccoti un gesto, eccoti il verso, se gira, lo sai, è solo perché tu lo vuoi, il limite sepolto fa scialbe pietà nell’aria della crudeltà, cruda cattività autoindotta ed ipnotica rotta volatile, champagne vorresti nella tua stanza, cerchi questo oggettino e mi chiedi, dov’è?

Qual è il problema? Forse adesso c’è ed era il duemila e io non ancora ti conoscevo, a stento ti vedevo, eclissi di sole e di luna in tempi determinati per i nostri ultimi vent’anni che ci approssimavano alla totale estensione espulsiva della ragione, leggendo il libro guardami ancora e sorridi, segno di sfida, l’universo siam noi, beni indivisi e pubblicità immobiliare, cerchi anche tu, chirografaria, la dimora, resti di ogni domani, ci separammo perché non fummo mai uniti, bevi ancora, abbiamo, come dire, tempo, e mi prendi in giro con la tua profonda superficialità da scuotimento di tettonica a zolle, derive di baci, Pascal e Pasteur, l’inciso, non sono convinta, come lo zero assoluto il triste inverno, vorrei le parti più fredde di te, inumidire i tuoi zigomi con foglie secche e odorose, allucinatoria l’implosione, e sì, c’è, e sì, si fa, bene, stai comunque bene senza di me, però, d’altronde, chi ti manca è quella nascosta parte di te,

molto bene, e di più inizi a fare la provenzale nuda sulle scale, logorami il fiato e l’ebbrezza ingiallita del tuono d’autunno, repentina lasci pure spazio intensivo al tuo giulivo vorticapo, ingorgo amnesico, rompighiaccio sulla spiaggia attizzata all’albeggio della luna,

noi pugilatori indecisi e stizziti,

solo il mio senso ti rende orgogliosa delle tue follie ma dai, proprio non lo senti? non ci credo, non sai ascoltare il suono divino, ubriacatevi se potete, stantuffi di luce e di rame.

E mi sfidi firmandomi il braccio con l’indelebile segno, chi ha intelligenza calcoli, è questa la sapienza, la vita e la scelta, mi sbianca la tua mente, ed è qui, è questo il posto, è il nostro discorso interrotto, è l’incantevole passato, fammi gli assiomi che così diamo alle nostre creature qualcosa in cui credere, fallo però prima dell’ora terza, donzella scherzosa, aurea aurora, prima luce del mattino, sguardi distratti, cuori distanti, volti infiammati e lui ci gode, gode e si imbizzarrisce ancora più potente nel far credere che lui non c’è, ubi stantibus, scegli il re delle frasi perdute in me.

E sulla terrazza ancora le note dell’indefinito tuo sogno intensamente gentile e decora la nuova era, oppure compra ancora Chanel e Rimbaud che cerca di te, se gira, lo sai, senza i suoi raggi ci sarà pur sempre un perché, è il limite candido o la potenza della sua gloria in sanscrita armatura, ti svanisce il se eliminando le troppo ingombranti voci verbali e trovando la genesi del sì o l’assunto del ma, la curvatura della A, l ‘intrinseca pietà di sé intrisa e ludicamente indecisa, quartina addescata nella fagocitosa terzina italiana, non senti l’urlo che è in te.

Ah! perché? perché? perché? Sì cuci ciò che separa, così mi sembra appaia la mattutina imbambolata chiave raggirata, ancora stonata, in fondo il no non è mai negazione, mi dici, mi dici che è negativa intensità, la frase poi la attribuisci a me, è la tua precocità, la mia l’hai assaggiata già, è la notte della ragione, Itaca era lì, la nota inviolata è il si, il sarcofago inaridito, lo sguardo di Cheope al mezzodì non è, è così se inverti il significato del re, in Pelligoux la cantantessa andò in tournè al ritorno trovò me, dopo il saluto, dico la sera appresso, ci fu l’invocazione al giallo laureato del caucasico intruglio mozzafiato, così i volti cambiano, le croci restano, il miraggio è fatto, steso e ditirambico, ma no, volesse il cielo no, due segnali ed il tridente, poi la verga di ferro che guida l’universo.

Sento che con te la spiaggia spumeggiante del ricordo che hai versato sul letto è menzognera meta, la tua la sai,

dopotutto sei già distesa.

 

Onirico intreccio

 

L’invito perso nel vuoto, miele sui tuoi fianchi.

L’intrepido indice sulle labbra, appoggiato il piede tuo sull’anta.

Verticalizzavo ipnotizzato alla vista della tua incoerenza, trapassata soglia spirituale al sommo grado.

Vacuo quel sorrisino, vanità sul tuo petto, ciondolo di spighe gialleggianti.

E il pacato venticello come satropo al confine giusto un po’ compromissorio.

Te è da un po’ che non cambi le lenzuola, fai follemente innamorare in sogno come nel reale, leziosa candida, cavallo indomito contro il monte asproso,

senza pioggia prendi un pensiero, lo cancelli, soavemente lo ribalti. E seduci in tale inversione apodittica di moto.

Plasmi un piedistallo altissimo e ti ci riponi in continenza, resti poi ad i suoi piedi ad onorarti ma bilocata anche in cime a godere delle boriose invocazioni.

E la brina tremolante, sì lei proprio e non il bocciolo, la trapatti allegramente, slinguettando fai la veemente, petulante, noiosa, inconsistente.

Ma sovviene speranza come argilla succube del tempo, maciullata e ricomposta dalle mani scomposte.

Poi è un tantino che non sento i tuoi martellanti accordi ma comunque mi ricordo, li puoi pure sbatacchiare. Carta straccia, dici,

ma insomma, stai sopra il tuo bel piedistallo audace e non hai neanche fede nelle tue creature?

Ma lo spirito intelligente che risiede è già sfocato, allora tenti di nuovo, se ti servono parole

io son qua.

Sgargiante rigira i chiavistelli,

son paziente,

ridagli fiato, sguazza tra melodici nonsense armonici.

Son qua per te.

Allora ci stendiamo sul marmo, ornitologhe penne e sbuffi di budella.

Allora ci diamo la mano, si parte per l’onirico intreccio!

Il manto delle stelle che scuote con furore il vortice assordante delle tue parole

Il manto delle stelle che scuote con furore il vortice assordante delle tue parole,

avrò fiducia nella potente arsura di gocce di cristallo che cadono dai rami mentre sorreggi il vuoto di queste conclusioni,

partiamo dalla fine, diamoci la mano, nell’abisso sogniamo e con un bacio svelato il pavimento infuocato diventa percorribile da noi stretti e un po’ spersi.

Dai confronti emerge triplice dualità, di cui tanto parlo, sincera vanità, nell’apparenza hai il collo teso all’insù, sei molto carina, lo so, dai, vali di più.

Il vento fa sognare e tu? Tu non lo ascolti.

Sei molto presa dalla tua praticità, non ti soffermi neanche su un simbolo di fedeltà.

E poi cos’è il silenzio se rannicchiata già pensi ad altro? Sai molto bene come confondere i miei discorsi a metà.

Ti scosti un poco, dalle carni pulsanti emerge il cupo fiato affannato.

E non lo farai più.

Distratta, un po’ svogliata, dillo se mi pensi oppure se c’è qualcosa che non va. Comunque eccomi,

puoi guardami.

 

Scia di petali blu

 

Il manto senza fiato dell’arsura sgargiante, della fornitura di assoli capovolti, sguarniti di mistero ma avvolti in un involucro di vetro.

E tu tiri le somme, trai addendi come fossero sifoni che ostacolano le tue azioni.

Sì, vai con calma piatta, il piedino è perversamente asciutto, forse solo un tantino istigante, tracotante la passione che travalica il coperchio. Su dai spegni il fuoco, sta bollendo. Sta magicamente dissolvendo.

Tale reazione, cauta maliosità, aggiunta di smalto e in un attimo è già una miscela sospesa, sopita vacuità.

Nel diluito, ti piacerebbe magari, sì, si vede dal volto, fare sul serio, sboccare futilità.

Ti domandi tra te, cose che non sa nessuno, dai un colpetto all’imbarcazione, hai scampato la collisione.

Perciò ti inoltri, vai, vele protese, braccia arrese, marosi duali, manichei o tonnesiani…

Mi sorprendi ma mica tanto, la tua apparenza che invoca è solo il preludio, che passa all’adagio sulfureo, dodecafonica storia, scala a punta di bacco, assaporata in labbra sottili e purpuree, le fauci divagano invece in altri sapori.

Te tu che fai? Dove è che stasera vai? Te ne fuggi di nuovo scavalchi validi valichi stridenti, invitanti maschere, celati gli occhi soltanto, che poi sorprendono d’improvviso, macchie d’ulivi.

Infine periodi sospesi, schizzi di linfa vitale, spasmi fulgidi, aurore mistiche, veementi distici e futuristi, caffè di lettere nostrane, magari a Roma. Poi nulla più.

E intanto che si pone un verso nel chiuso di una stanza, attaccato alla parete il sipario.

A te non entra più neanche un solitario sudario, la spallina sincera la scopri.

Lo sfilato portone di casa tua non ha ormai più fontane, cade come neve dai monti di staccato disincanto. Eccoti, scopri di esser sola, sì solo sola, per tua decisione cadrai tra altre braccia, scorgendovi, come al solito niente di importante.

E se altro invece accadrà, se dal fossato verso il ponte ascenderai, la voglia e la disciplina le troverai.

Altro in conclusione. No mi dici, poi non rispondi più e nel silenzio sgusci via, oh scia di petali blu!

 

Passo repentino

 

Passo repentino, piede estroso, solo assetto di università, assolute immagini

e poi vita.

Oh, mia grazia, lieve scalza, pura verità, il tuo occhio socchiuso alla luce, abbaglio!

Secca quiete, da sera il vestito, sul ciglio della nostra scalpitante calma.

Oh il ronzio, frastuono sensazionale, il tuo bischetto, discolo, sintattico volere!

Ah la gloria, somma sale sì, va, vola, spinge intrepida al furore, sospende intatta la veemenza (e che lo dici? tanto poi lo scordi, lo riaccordi, lo ristagni, lo cestini e lo rinfranchi)!

Sì la rabbia sommersa, poi l’Egitto, la maestranza (solo non puoi sintetizzare, ricorda, in toto il discorso battendo la bacchetta sulla cattedra furbetta).

Dillo allora, dillo allora, parla ancora, fallo solo per un po’ almeno, oh dio è questa la storia! La nostra sempre, tutto in te,

santicchiante reciti il sermone che dici norvegese nel tuo apatico e irriverente oltraggio.

Oh piccola sì ti sento possente, però,

distorta, oh mia stilistica, sono alla sinestesia dei sensi!

 

Gocce di acrilico

 

La macchia sul libro e l’odore d’incenso. Una catasta di gesso sul camice togato. Allo zenit l’aurora decadente. E scariche elettromagnetiche.

Uh uh..ah ah..eh eh..zum..

E’ iniziata la giornata quindi la notte della ragione a scansare realtà qui e lì, euripidee banalità di modo che sentii la forza di Amon Ra. Tra l’house, il metal e il minimal.

Poche gocce di acrilico impresse su carta velina e il tempio fluido col Dakoticancroidea fugace sul messale. Successe nel centimetrato istante in cui all’interno del bunsen diluii i camei.

Scorsi l’erbetta ai bordi dei viali e sfiorai le ginestre sai così, credo fosse mercoledì.

Il fumo resinato in vaschette da cento lire.

Presi le scarpe con noncuranza? Lo dici tu! Posai l’oggetto del desiderio sul comodino. Scranno voltaico di camoscio, vate igienico, bocciolo mio.

Dov’è il tempo? eccolo nell’emisfero sinistro, lo spazio nel destro allora la storia è al centro. Ipotalamiche follie di te,

neofita nichilista cambia rotta un’altra volta. Non distruggere il vapore del mio verbo. Stringilo intatto, afferralo e spillalo.

Accendo la tv, pensando a tutto ciò, che diamine il west, meglio il pigiama party, va. O santi numi chi sono questi imbecilli ebeti già la mattina, che confusione, sembra non voglian perdere le poltrone, demenziali!

 

Preludio

 

Ecco il punto morto dell’introito di universo, il punto sociale in cui il capitalismo ha marcato il suo finale. (Monti, Berlusconi, Grillo, Bersani o altre facce da rinale).

Ecco è questo il punto, via dalle correnti inverse del nostro pensare che vi rende soltanto concime, letame.

Capisci bene che vuol dire senza prospettive, senza stabilità, senza possibilità di risultanze ricreative, vero sviluppo dell’umana percezione.

Bruciate e cremate!

Se davvero senti di poterti liberare spezza le catene e fuggi, se davvero pensi di potercela fare a distanziare l’assolutismo statale, alzati, cosa stai ad aspettare?

Che buon senso può avere una vita in un call center o in un centro commerciale, o tra bulloni e carichi o tra pratiche da sbrigare.

Tempo perso a servire chi non ci può arricchire ma si serve di noi per creare crediti, imposte, beni da alienare oppure denaro inutile e da utilizzare per l’acquisto di congegni che non ci fanno più pensare, ragionare, discernere e capire.

E la felicità un diritto impresso in un Paese che è figlio di futilità, gli specchietti sono i soliti e voi siete ratti, ratti italiani pronti ad abboccare ad un’esca sociale, un delitto efferato, le gambe delle miss, gli inciuci dei calciatori o il traguardo raggiunto da reality realmente ebefrenici ed ebeti nella cernita culturale.

Fermati un attimo.

Rifletti.

Chi è il vero pazzo chi ha percezioni al di là della natura umana o chi mediocremente si ferma allo sguardo fugace ed è vittima di volontà aliene a sé e frutto di un cervello commerciale.

Ecco il punto.

Non capisco come facciate a non sentire un moto interiore, una forza sovrumana che ci spinge a far ciò che vogliamo.

Il vero è nostro personalmente e ce ne sbatte il cazzo dello Stato e della gente.

Continua, continua, la lotta continua.

È vero soffrirete, ma non vi arrendiate rifiutate soprattutto il compromesso.

Sorge il virus e il darkchimera, l’officina nove nove, l’hydra mentale, il kobra, moto cyberpunk.

Continua, continua, la lotta continua.

Veste lucida, inaudita svolta sovrannaturale, estensione della mia memoria, eterno percepito, io figlio di ogni età mi alzo per dire, le stenografiche teorie sono passioni celebrali etereamente impresse nel vostro Es.

Qual è il motivo della atonia, dell’apatia, della troppa serietà? fumate l’erba, fumate l’erba insieme e poi ragioneremo.

Qual è il motivo per cui il vero criminale è chi è di una classe sottoproletaria mentre batman politicanti ed ingordi parlamentari si ingozzano dei soldi? qual è il motivo per cui le banche decidono circa la felicità di un uomo?

 

Porgi un saluto

 

Porgi un saluto scorta appena appena dal finestrino, con forza accenni un sorriso, ti porti dietro in una valigia il tuo mondo fatto di carte stropicciate e sbiadite.

Dici a te stessa guardando allo specchio che il volto pallido è ora paonazzo, che forse il trucco celato del tempo rinvigorisce il tuo sguardo adolescente.

Ed è apparenza quella che conta, ed è sostanza la forma.

Il treno parte, la pioggia battente, come godi a sentirti addosso l’aria di novembre, respiri piano e dal tuo canto silente un’allegrezza si spande.

Adagio ma non troppo il motivo che ti ha sedotto, hai perso il senso, lo trovi nel domani guardando l’oggi con i soliti capricci da ragazzina. Ed è già sera,

si inumidisce l’atmosfera del vagone, sei la padrona del tuo stesso viaggio, la meta altrove ma volgi i tuoi occhietti alla mia immagine fissa nella mente.

 

Partenza

 

Estrinseco fervore, direi quasi vita profusa ma così carinamente lodata come vittima disillusa, poggi la chitarra sul sedile, ovvio,

che sentore di nostalgia del ritorno già prima del viaggio, cambiamento epocale, direi livello taglio di capelli sfoderato, nuovo e dalla critica non commentato, ode al dissapore, all’odore di gelso, la cannuccia viola, bibita chiara, dolce limonata ossimorica, l’infinito a tre passi non più due, simpatica! ma la rifacciamo, non vedo l’innovazione né l’energia, si sente non si vede? va bé sinestesia, guarda prendi quello che hai scritto e gettalo via, sono serio, non sprechiamo tempo, il tempo non si spreca anzi sei stimolante,

credo che quell’anello mi dica molto, prova a sfiorar le corde con lui, magari funziona, anzi lo sfrego un po’, che brivido, che sensazione, l’infinito ritorna condito, lo vedi picciola si è di nuovo avvicinato, stringimi forte, non reggo l’impatto coll’assoluto,

possiamo accendere una sigaretta, un tempo fumavi anche tu le pall mall, tieni l’accendino mi treman le mani, sto confondendo le famose e care realtà velate, eccoti il fuoco, la fogliolina brucia, pura intensa veemenza in quest’istante dell’aspirazione, e quando cacci fuori io scompaio, parte il treno, ci rivediamo,

tranqui.

 

Passeggiando a tarda sera

 

Vorrei protendere le mani mentre Argo in simbiosi con il cielo alimenta i suoi occhi ed una voce intensa dice di rilassarmi, di placare le paure e tenere a bada gli entusiasmi.

Un passato ritornato, il menestrello alla corte stringe a sé l’ultima nota nel cadenzare sorridendo la provenzale parola.

Il solo pensiero espande fluido, il chiarore del cielo e la cascata illusionistica sono passi non distanti dal trovare pienamente sé stessi.

Che svalvolata macchinosa, sei pura come una celestiale rosa, gli sguardi cobalto sono intuizioni delle precoci velleità.

Un ragazzo e una ragazza sorridendo, spersi per attività di sostanze nell’oscillamento di ciondoletti in cattedrali, dai soffitti, dalla cupola, dall’arrivo in penombra della nostra luce.

Mille vite, dalla riviera ai decumani più attitudini, vedute e stili, mode feconde molto più dicevo, tanto maggiori dei berlinesi ardori.

E Friedrich dice assaporarlo, assaporarlo un po’ alla volta, meglio l’ozio greco partenopeo e creativo che la razionalità positivista di una parte minoritaria di filosofi pastori, prussiani, alemanni, della Bavaria, della fulgida sonata, il professore scambiato per una spia nei vaneggiamenti, dice cosa c’è, cosa c’era, lo ripeto fluido vitale, lo ripeti, c’era il mare, talvolta tramutato in un tranquillo oceano che è transitato con lieve paura di attacchi di squali, Giona visse nella balena, ma la mia guida mi accompagna, al risveglio solo nella stanza, nel sogno arrivo sulla spiaggia.

Vibrazione, tutto è onda ora, lei è violetta e mai domata, gruppi, gruppi di ragazzi ad aspettare senza incrociar le braccia, un rullio di tamburi, un rollare, un saperci fare, chiese abbandonate l’altruismo d’equilibrio del volteggio dei birilli, ballerino resto fermo mentre voce e penna scrive, ballerino di penna.

Porre come rimasuglio del pensiero un sentimento inviolato, non ti trovo se dipingo l’astrattismo e se mi pongo in sinestesia ad ascoltare i colori, molti non a torto vedono rumori.

Porri e vuoti incudini alle stazioni, pomodori verdi fritti, tanti patti coi crumiri, scioglie il ghiaccio il disilluso mentre accenna ad un saluto steso a fili della strada, come dici la ritmica è cambiata.

Il metronotte nel settantotto si orientava male, bici e stelle cadenti tra le strade.

E se il futuro può anche arrivare in ritardo e se chi vive è una ragazza d’Europa dimenticata allora sono certo unendo il verbo vacillante, tutto il resto è già vissuto,

l’aforisma in un saluto.

Immagini svolazzano tra la folla, non si è mai troppo vasti in funzione topografica, talora il mondo è tabernacolo ed il Nilo nasce nell’estremo oriente, l’Etiopia è al di là dell’India.

 

Il lamento della virtù

 

Se scenderà questo lamento tra le vie con quel furore che connota il mare in tempesta, se capirò che tra le pagine non hai lasciato il segno, proteggerò il candore della vita stringendolo semplicemente, lievemente tra le mie mani.

La virtù nella sabbia, tra pensieri nascosti, senza tanto sperare in quanto suadente riposa in dolori più agguerriti delle lance.

E poi, fuggendo l’anima da quegli ostili spiriti, mi chiede venia il cuore ma stavolta senza stupirmi. Intorno c’è tanto vigore e quell’oscuro rifluire di sangue nell’inchiostro

(protegge quella macchina divina il pathos della fortuna).

La virtù senza rabbia si è assopita di nuovo, si è rinchiusa in stridenti parole annebbiate dai tormentosi bombardamenti.

Me ne andrò via senza lasciare sparsi i fogli, con quel sapore che distingue il chiaro valore delle cose e piangerà lo specchio, sentenziando un mio ritorno, dei canti irsuti, degli astri perduti.

La virtù si domanda se va bene così, se ha lasciato lo spazio al caldo invadente ed al risollevato refrigerio della mente.

 

Altalenai privo di un motivo

 

Altalenai privo di un motivo, senza dirlo, senza sperare nell’epilogo come immaginavi rauca. L’erba, la radio, il vuoto, l’orbita celeste. Poi…

non ascoltavi mentre chiedevano cosine semplici e tanto fragili. Fragili come te.

Riprendeva l’acustica e nitida pagina socchiusa ma melodicamente valida. Al passaggio delle valchirie strambe con campanellini e non destrieri, ticchettio e non scalpitio.

Tu dai ancora fiato di traverso. E subentra la regina. Piano piano a tre code avvolte in sé, schiuse in sé,

mette calma ai piatti, per un po’, giusto un assaggio, e riprende il crescendo di Gregorio, organo nuovo baconiano, vespertino.

E finalmente il ritorno impoverito e in sé disimparato come quando il virgiliano ascendeva componendo dagli ovini e dai cereali. Che ora, ora per davvero arricchiti sfioravano i contorni agresti.

Poi giù per terra.

 

Chiudi gli occhi ragazza

 

Chiudi gli occhi ragazza, non percepisco che te. Dillo ancora, dai dillo. Fai di nuovo quel cenno.

E le spiagge lontane e le luci soffuse.

Vai avanti con garbo, io non aspetto altro.

Le chimere sconfitte, i sigilli distrutti o sì!

Continui incurante, vola lo sguardo distante ormai da me.

Sai sono sincero, sai dico sul serio come ho scritto inutilmente altrove no…

e tu non ricordi.

Ovvio dai, non ricordi!

Ovvio dai non ricordi!

Ovvio, sì, più che puerile.

Terribilmente puerile.

Assurdo.

Ridicolo.

Ridicolo come il mondo, dicevi al bar. Tra le azzurre cannucce criticavi un po’ tutti, yeah.

Non avevi rispetto, che ti importava del giudizio, yeah.

Il tuo ardore svelato nello sguardo stregato. La tua lacrima lenta, solo per vendetta.

Infine le nostre parole sfinite sui binari.

 

Dì, io non metto il punto

 

Finsi di non ricordare solo per assecondare la tua indifferenza di sempre.

L’arbusto vidimava la tua scanzonata orchestruola. Su tamerici incantevoli ti rispecchiai mentre tu come sempre ironicamente sorridevi per poi sprofondarmi nuovamente nell’oscuro oblio. Anzi quel sorriso era una repressa risata di gusto occultata e come vedi ti ho capita. Io scompaio con faciltà, tranquilla, non mi va l’inopportuno avviso sincronizzato, perciò partecipe del fatto che tu, astuta bestiola, strappi ‘sto germo-germoglio e lo divori. E per di più, ti sta indigesto, manifesto della noncuranza.

Ma il calcolo lo feci, ah triste destino, amarti fino all’osso ma che disdetta, respirare in ebbrezza etiche etiliche,

le tue parole sono sempre state per me tesoro taurino.

Allora come va? Dimmi, che fai di bello? Sì, tutto a posto? Mi fa piacere, scusa posso? L’accendino, il picchetto, oh mio dio, tutto a posto?

Sono libricini che frullano ed inauditamente ti lodano. Lo scalfiscono il pensiero,

sì sono io che bramo te eterea, sono io che cerco i tuoi sguardi. Che bagliore!

E tu che pensi in questo momento, tu che non leggi ciò che scrivo? Io sono assopito negli intrecci metodici ma sono sincero.

Se solo un istante mi hai pensato, sono rinsavito, se solo un attimo hai letto, sono rinvigorito.

Che penso? Dai, nulla. Che dico? Esplora per capire (e te lo scrivo dietro il tuo ritratto).

Se con la penna per caso scrivi due parole che riguardano me, beh non cadranno a vuoto.

Ma tanto tu sei protesa in altri effluvi e interessi. Non pensi di certo al mio fiato perduto,

comunque guarda io ci sono, quel respiro fugace lo scorgi per sempre, lo scorgi nel vento che rinfranca la tua pelle.

E allora se non mi firmo lo sai, se leggi ignorerai come hai sempre fatto.

Dì cara allora. Dì, ma non metto il punto.

 

Alba lieve tra le foglie

 

Alba lieve tra le foglie, ho sognato guardando tra gli anfratti dei pensieri tuoi distratti. Manco è che lo abbia fatto così, per dire, o soltanto una volta.

Poi ho spento e parafrasato i tuoi versetti ribaltando le metriche latine, tra i cori dell’aurora.

La mano scagliava prime muse in alto e pei cespugli ed io aspettavo in silenzio la tua venuta e nel frattempo scrivevo e divagavo.

E dillo se vuoi cestinare la fitta nebbia.

Al chiarore delle nubi rossastre risplende il mare fulgida spuma e richiamavo obnubilate verità celate,

tu le scorgevi e più lo facevi, più mi accorgevo di esser stato talmente inutile, come dire… superfluo se non di disturbo,

sei grande, infinita, immensa, senza di me, molto meglio senza di me.

Allora quale è il mio posto, naufrago scalzo, fuggitivo d’amore, tra le rovine di una rivoluzione senza tregua né alleati.

E qui pongo, sì lo pongo io il punto, momentaneo magari, sì momentaneo, la ricerca del tuo sguardo senza sosta continua ed ormai vivo solo per questa ricerca.

E poi, e poi,

punto.

 

Bastioni bellici

 

Eccola, bastioni bellici, incede con lealtà.

Cambio repentino. Ma lieve ritorno.

L’armata lontana si percepisce appena, no, non è ancora qua, ma il sapore dei rami è fruscio diverso, aspettiamo immersi tra gli odori incantevoli, incontaminati, la foresta nera tromba realtà mascherate, mentre avanza, avanza e non si sente, questa gioia ci raddolcisce, ci rinsavisce dal dolore, ci accomuna, ci sbandiera gaudio dagli occhi alteri. Assopiti, ondeggianti nello smeraldo, le baionette sono un inciso.

Ma un rumore strano si avvicina, non è un grido di guerra, non è un urlo di vendetta, sembra quasi il proseguo di tale armonia ancestrale.

Ma gli zoccoli.

Eccoli, eccoli furenti i nemici. Alziamo l’asta. Si va, lance, spade sguainate, si va, saettiamo, marciamo repentini, affrontiamo questo sibilo assordante, vacuo, all’istante.

 

Voglio te, tra le mani

 

Ero solo tra la sabbia e batteva la speranza sui tuoi vetri di soffiata,

come sempre il sentore di averti amata, ma così tra i capelli, tra i silenzi mentre giri per intero il viso sincero.

Finisce il possibile incanto tra noi, da sempre annebbiato, molto bene, davvero, vaghi tra i tuoi frivoli pensieri, tu sei l’unica amore, sei la sola sconvolgente, io ti osservo fra i germogli della virtù.

Ossigeno sgorga in te che passione, che…

e nella situazione non so, quel divario della sorgente in comune tra me e te, io guardo, sì la guardo solo, solo ancora nella stanza, distratto do un’occhiata alla finestra, e sei là, tra le nubi arresa e fiera! Oh, sì, oh! Oh sì, sei tra le nubi, mi chiami, mi sussurri, colle penne tra gli anfratti del mio cuore, le imprimi macchinosa, ti dilunghi estrosa, oh la tua incantevole girata di volta, di archi, di riporti, ossigeno, ancora,

voglio te, tra le mani.

 

Porgimi gli affanni in assonanza

 

Cos’è?

 

Non credo il cambio stravolgente della pioggia dagli occhi, così per scadimento atroce, per sopito dilemma dalle mani, dai canti antichi disincantati,

neanche è un rimorso, come sogno, come rostro al centro, al vertice qualunque oppur in aree protette per gioco perverso.

Sono forse le smagliature del frastuono che già vanno sicure in conclusione mentre tu diffidente cambi accordo, dal rock al folk poi al rock, ma dimmi, tu dove sei? Tu che sei prona sul letto ad incantare ammiccante, do7 sol.

Infondo la decisione è stata presa, sentenza inflessibile, nessun gravame possibile, tra noi solo silenzi, incompatibili, diversi, magiche manie involontarie, sì, magari anche il cofanetto e le tue gioie stampate tra labbra violacee, tra il mascara dark, tra i nuovi indumenti. Avvinghiata tra collane e piume, sincretia, sì, dai, lo ridico, metti la gonna zingaresca, metti i braccialetti turchini, quelli alabastrini, quelli iridei, poi infine quelli con le borchie,

e sì.

Sarà quel tuo mah a intrigarti vanitosa, o anzi quel sospiro di velluto, quel baratto arabesco, quell’intarsio da mercatino, e poi, e poi un paio di vinili, o diamine l’artista, proprio non ricordo il nome, credo robetta spagnola o francese, panteista quindi o dada, sintetizziamo, dai, anarcodecadente, vana suadente, scanzonatamente, poi batte il piano lontano e forte, t’aggio voluto bene, assai (quell’assai lo dici tre volte).

Ci vediamo ancora? Certo, ci vedremo nel momento in cui avrai finito i tuoi giorni (dio che bastarda), quando l’anima si ricongiunge al corpo (ma non è già congiunta, mah, e questa volta mah lo dico io), quando magari non sei più tu nemmeno (io credevo che alla fine lo trovassi me stesso non lo perdessi, continuo con i mah, no dai, faccio uno smile da sms), quando percepirai l’assunto e lo comprenderai in contemplazione.

Con fumetti persi tra i denti che non mostri, nel momento che sostieni il campanile trecentesco ricco di scritte, ah gli artisti di strada, ci pensano già loro, tengo nel palmo il tutto, porgo il patrimonio decumano, parlo invano.

O infine canticchiando di nuovo, nell’istante in cui ti scuoti, fulgente neopalestrina riproponi i tuoi contrappunti gotici.

Scenderà la foschia in pieno luglio partenopeo per serviti un paesaggio condito e tundreggiante sottomesso ai tuoi voleri, poi un ululare scandinavo sarà indipendente dal suono germanico o vittoriano, sarà quasi similfinnico.

Nell’ipotesi cambiassi idea, sai dove trovarmi, porgimi gli affanni in assonanza.

 

Straripato il corso diurno

 

Straripato il corso diurno, incantevole magari il pallido selciato e il taglio del disincantato errore.

Hai cambiato le damigelle del tuo palco, hai riscosso da esattrice scaltra le promesse della sabbia.

Al confine, al limite illusionistico del mare, l’arco teso è disarmato dalla lacrima.

E dallo stesso scoglio guardiamo il sole quasi come se ignorassimo i nostri stessi sguardi, le palpebre dilatate, lo stupore, il clamore, poi più niente.

Ed il flutto schizza attorno, la violenza di una sconfitta, il palpito di un cuore affranto, diretta weltanschauung, inversa indifferenza.

Io mi volto ogni tanto ma tu continui ad osservar dritto.

All’imbrunire il suono non è lieto forse lieve, dolce, ma atroce.

E noi immobili, il giorno scorre, già passato, niente da dire, tornerà la tua sera novembrina l’inoltrato e oscuro inverno, non è un anno preciso, forse un sogno, ma in quest’attimo strisciante sento gli occhi tuoi sui miei.

Ma ti innalzi, mi hai guardato e ti sollevi, la tua roccia ora è da raggiungere ardua impresa per me,

resto qui solo senza la tua presenza ma col sol conforto della luce tua tenue,

per sempre.

 

Traspare in filigrana il tuo sorriso

 

È necessario partire, il problema comunque è dove andare, mentre nel frattempo si esclude la vanitosa discendenza, stirpe reale o claudicante effusione dalle labbra.

Un sadico piangente a mo’d’albero d’altra nomea non l’ho valutato, tu l’hai invece conquistato ed io per discrezione lo translo sul tuo corpo, o che perfezione, girati di lato!

Ipotizza anche un repentino tumulto, lotta per il pane, crisi universale, l’economia domiciliare porge due bazzecole le incolla e poi le scrolla, le violenta fisse alla parete, viola il tessuto, o ti prego esci Marduk il signore ti attende, Shamash e Ishkur fan perder tempo in epatoscopie, ornitomantiche direzioni dell’adagio sovvertito in tala jazzistico ritmato, ciclico e fuorviato dallo sbattimento repentino del maestro sullo stantio, sul plastico scardinato ad uso torta nuziale,

deriva pure il crinale della quiescenza, estingui il negozio vessatoriamente, ghirettina inconcludente china ad occhi chiusi sul volumetto da Thorah o sul Gilgamesh, sul piano inclinato dall’inclito furente Beowulf il piè veloce, raffreddato, incappucciato, incatenato, spigliato, ulissico e tallonato con garbo matrimoniale, fitto dardo astrale, e sotto il canforato abbeverato e dissacrato, sminuzzato ha bazzicato in osteria, ah le birette egizie al gusto d’orzo!

E poi detto questo prova ad abbozzare la raga caucasica che mi ha fatto spantecare, anestetica erbetta da villetta, analgesico intruglio millepiedico da iannara, sintesi del flusso australe, ipnotico vento aurorico e luciferante, spasmo da fenicetta, eh eh, riattacco la musichetta.

E mentre tu tracci silente ciò che dico, traspare in filigrana il tuo sorriso.

 

Tesoro occultato: regresso

 

D’accordo sintomo d’affetto è il mio scalpello che ti plasma mentre dalla materia sgorga la tua radenza che dallo sbieco di due occhi rianima l’ebbrezza e soffia lieve tra le narici ed è già essenza mistica e movente che oscilla a Siena con fuggenza maledetta, che scalpita trattando coi teocratici distratti e presi da faccende materiali, scisse le parti basse dall’intelletto per godere senza rimorso, con nonchalance.

E quindi tu ti sbatti in stanza, capigliatura dalla consistenza e dall’effluvio umido di terriccio, scagli la lancia contro la parete, piume al vento, sintomi di astinenza dall’amore, dal dolore, dal sapore delle vita, sì lo dico, sei distratta ridipinta dalle rose magramente scabrose e candenzose ma talmente pure e fini che li perdo due minuti in estasi librata e temperata, mai sofferta, forse persa ma comunque lo ridico, vuoi un quadrifoglio a tre punte, la fortuna ti ha abbandonata, non lo cogli, non divori più quell’erbetta del parco al centro o forse al vento, sì senz’altro, è più corretto, dire mah, non ci capisco, saltiamo un rigo, ha senso lo stesso, se tu lo vuoi lo contrastiamo quell’animaletto scialbo e biascicante, un po’ valente, un po’ criptico, inlinneo, indeclinabile, allora schiaccialo, distruggilo, squallido insetto dai sei occhi, aristotelicamente a quattro zampe erronee, detto da altri, da lui, dal dito proteso verso la realtà sensibile, o santi numi come è osceno il riporto del cantato, dell’arioso, del focoso, maldolente azoteiforme, primordiale, scintilloso, e poi estroso, comparativo, come quando in sincronia sbatte il tasto del piano e della scrivente e tu continui ad agitarti, a sbatacchiare i capelli, non li vedo, ma li sento, il colore, la costanza, la temperanza sovvertita e maledetta.

Sì ma la partitura, dì dov’è? Oh l’hai persa! Che sbadata, dammi l’indirizzo, io l’ho sempre saputo ma lo voglio recitato a partire dalla genealogia, dallo studio filologico del verbo, quattro punti di sopruso, tre di sospensione, due d’abuso, uno è omega allora dici, dov’è l’alfa circolare, che hai capito non l’alfetta d’altri tempi, non la statica dei fluidi immobili, nulla scorre.

Eh…ok, aggiudicato e passato in giudicato, l’ offerente lo ha preso a quattro lire, nel volume l’ha nascosto quell’oggetto d’antiquariato un po’ sciupato, un po’ segreto.

Stop.

 

Resta lì per sempre, Sognatrice

 

E soffia il vento sulle mie attese, l’inverno alle schiuse porte gelate d’acciaio, smuovo la mia copia degli Acheron dal variegato sapore e mi chiedo se la notte mi arde lo spirito o è solo vaneggio.

Sì, sì resta in sospeso, piccola senti i miei dialettici fasti di marzapane e resta distratta con la biro tra le labbra, inondata da simpatiche fluorescenze, le mani violette e paonazzo il volto.

Io nascosto dietro lo scaffale polveroso mentre tu annusando la dolce e docile carta-foglia ti accorgi appena di me e non volti il capo, continui i tuoi affari, i sensazionali e sensati miscugli di senso ormai gabellati neanche più compiuti, lasciati a metà, tra sogno e realtà, tra vero e irreale, sciocco e naturale,

poi toh, obliquo lo sguardo di traverso e ti sormontano maestose ali svolazzanti alle tue spalle.

Oh, maraviglia marina!

Oh, candore celeste!

Oh, oscuro fiero, altero e diretto atto dell’indice e medio incrociati e balzati in etereo diletto lì intorno!

E i desideri li indovino appena, respiri tra affanni sicuri e colpetti atonici e senza sorridere crucci le guance, sei grande ma intanto sbatte, è un sussulto consequenziale ma tutto il frastuono è solo nella nostra mente elettivamente affine, selettivamente scostante,

invitante infine il diniego assenziente che liscia i capelli precipitati sul viso e non ti dico più niente,

ti prego, resta, resta così, già ti vedi riflessa e minuta, presenza voluta, il tuo corpo trasfigurato, godimento di sé.

E vai già lontano, sognatrice le mie parole sono in questa sera tenebrosa solo per te, magica tenue luce, non mi scordo, ti ammiro, ti guardo ancora, resta lì per sempre.

Ragazze al di là del limite ultimo di conoscenza

Quei tramonti accesi al di là della conoscenza

 

Quei tramonti accesi

al di là della conoscenza,

paturnie dispettose

ai gemiti

sulla soglia del dicibile,

 

poi le storie raccontate

come fiori dalle tue mani raccolti,

schiarivo la voce e tu

ti intrufolavi nei ricordi,

settecentesco il lume sbiancò,

poi dal cemento la tecnica

base impostò,

rivolte e il petrolio,

grammi di felicità

pur sempre contrattualizzata,

un po’ a scroscio

un po’ a metà

la bocca capiente

come principio immanente

nella tua dualità,

 

c’era il letto

c’era il letto!

dalle coperte un po’ accartocciate

e ci aspettava così disfatto,

 

giochiamo alle ombre cinesi

è un’opera di verità,

teatrale il sotterfugio

di mezza estate

inscenato tra maschere di sincerità,

 

il teschio sul comodino

un po’ perché

anche in arcadia un rimorso c’è.

Esplode il nostro pianto

 

ininterrotto,

 

dai non far così,

la stiratura dei fantasmi

schiude il discorso sfumato

in andatura emo, la solita regalità,

nella metempsicosi

delle nostre anime sperse

 

siamo già altrove

con la mente,

 

dai ridici su,

metapsichica la sensazione

di percezione ormai affine,

ormai la parola

non necessità più di vocalità,

l’intesa è negli sguardi,

nell’energia che sprigiona

dai tuoi occhi,

 

cambi corso

e defluisci in paralogismi atroci.

Dai ritratti fissi alla parete

rabbrividisce un fremito serale,

 

le tue bestiole appollaiate

come uccelli deludenti

e delusi non si muovono,

sembra di vagare

tra le mummie imbalsamate,

mia naturalista etologa

delle passioni dell’anima,

 

poi ogni tanto fissavi il pavimento,

hai cambiato direzione

nella riflessione,

 

un tempo guardavi all’insù,

la sciarpina comunque è carina

usata come bandana cinematica.

 

Le scarpette nel tempo

cedono alla realtà,

 

l’apparire bislacca

con il velo da orientale

per divertirti o esorcizzare

le vedute classiste,

le caste assegnate

dall’harmonia coeli,

 

dai parla ora ancora di te.

 

Le promesse redente

dalle dita incrociate,

le bugie inesistenti

sotto egida sofista

di rimandi ai mutamenti d’età,

 

adesso all’improvviso ti rivolti,

mi trascini tra le tue stesse

incomprensioni,

la potenza dell’atto babelico

scandisce ed è un pullulare

di emozioni nuove,

 

orizzonti sconosciuti, varcati,

navigati con le nostre

fragili imbarcazioni

di acanto e recondito riflesso.

 

E rincorro il tuo silenzio

 

E rincorro il tuo silenzio

come se non ci fosse altro

da cercare,

 

minatore dei sobborghi,

increspati

e i sotterranei paleocristiani

dei tuoi domani.

 

Funghetto mio

con la tua smania di celare

i sentimenti,

di approdare senza ancoraggio

sicuro su questa terra,

in lontananza un porto quiete,

la tua ultima speranza.

 

Avvolgiamoci maestosi

attorno al cero del pudore,

faccetta simpatica,

un po’ introversa e timida,

un po’ sfacciata

 

a me dai un’occhiata,

due esserini ti alzano il velo,

la veste e il mantello,

regina di questi argomenti,

i nostri campi di frumento,

la tua sapienza,

 

regina di quest’ultima confidenza.

 

Poi qualche mossa attenta,

rigiri a vuoto la faccenda,

ti distendi,

hai stretta la mia mano al petto,

aspetti il segnale astrale

e ancora maghetta straniera

dei boschi ricordi nel tempo

diffuso tutt’intorno

 

ogni gesto perfetto

è nella tua mente,

 

non un rumore, non una stonatura,

posizioni nel punto giusto

il clamore del tuo servo,

il vento,

potresti anche proseguire,

mai più fermarti,

tendere all’infinito,

 

il tuo corpo è stupendo,

l’ho detto,

 

percorre avvallamenti ogni respiro.

 

Sei pronta, dici,

ma nell’apparenza

hai già colmato ogni deficienza

del sistema logico,

ora sei allo specchio

col volto rarefatto,

 

immagine destinata

a restare così com’è,

a superare il corporeo mutamento

per l’ardore che hai dentro.

 

Tracci disegni vibrando nell’aria

il tuo dito dirompente e soave,

conclusioni con garbo

le sai tracciare concatenandole

ad argomentazioni, nella liberalità

dei tuoi gesti ogni sinallagma

è sciupato, inutile, sprecato,

 

ti sposti i capelli soffiando

col nasino all’insù,

alla realtà sensibile dai colore

e scompare ogni amorfa percezione,

dai fiato e sapore

al tuo incanto provocato

dal mio stupore.

 

Ciocchette inerpicate

 

Le tue ciocchette inerpicate

sui fiordi e un fiore blu,

 

accesa la sigaretta

come se scampassi la vendetta,

ti calmi giusto un poco

e sei più dolce di prima,

 

ti scruti con sospetto

accomodando il tuo riccetto

al finestrino, mia Sophie!

 

Oh ma dai!

fermati un attimo qui!

 

il tempo fugge,

che sciocchezze, due minuti,

tre quarti d’ora, una vita intera,

te ne prego, fermati un po’.

 

E allora tu indifferente

fai moine da studentessa

imbronciata e a un tempo divertita!

 

Oh piccina!

Eh Sophie!

che rivolta e che subbuglio!

 

Porgi l’occhio ora tu

alla mia voce,

senti il ritmo che ascende

e copre, manto della città.

 

Ah Sophie!

 

distruggi i miei castelli con i piedini imbizzarriti e non con un sì!

tvb oh mia Sophie!

 

Col tempo da modello vettoriale

a matricola ancestrale,

ti guardi ancora, sì,

dai in fondo sei la stessa,

con i tuoi ornamenti ragazzina

 

sei la prima luce del mattino,

il messaggio criptato

dal tuo cor sarà intercettato

perché dentro te

rempaira sempre amor.

 

Oh Sophie!

 

la primavera splende,

tu non muti

ed il sorriso acceso è già sbiadito,

 

grazie per l’attenzione,

sembri dire come ipnotizzata

dalla soluzione di marzapane.

Ed appunto, è giusto così,

 

tra i clamori di una folla

libera dal giogo,

mi sorridi come fosse

l’ultimo argomento l’entusiasmo,

sei pronta a continuare,

a spulciare l’ultimo volume

di questa vita che dai tramonti

fa sbocciare gigli e passiflore.

 

Furtiva Ficiniana (l’altra parte della alternatività )

 

A quel tempo allibita

e puntata

lei restava affascinata

da quelle riunioni di studentini

comunisti

col suo fascino

da anarchica americana

dallo zoo di Berlino

a sulla strada

li arringava estasiata.

 

Le stelle danzano, dicevo,

e sorridono,

i discorsi erano all’orlo del senso,

argomenti ce ne erano,

la critica pura alla società

e alla cultura,

 

tu dirompente eri quella parola,

figlia dei tuoi pensieri,

delle tue intenzioni

e delle tue azioni verbali,

 

ammiccante, sai,

ed oggi ti svesti

sbiancata e ingrassata

dalle tue teorie dionisiache,

sei diventata la cara

e silente loquace

atea sedentaria,

 

ed io ricordo l’altra meta

irraggiungibile,

fatta di apparenza non logorroica,

fatta di puro spirito,

quell’essenza velata,

l’altra faccia dell’alternatività

cioè della verità.

 

La guardo ora distante

è come allora,

è un’idea un poco soffusa

ma vivida e impressa,

 

è l’umore oscillante, mutante,

la melanconia che stimola l’arte,

che sorprende già me

nel silenzio del tempo,

lei è immutevole,

immutabile il capello

dialettico e tetro,

le sue diramazioni celebrali

tese all’immensità,

 

la bile nera da bipolare

scandisce meste assurdità

adornate di sapienza eterna.

Ed allora io navigo ancora,

io mi struggo al pensiero,

 

quello sguardo da malvagia

recondita, da strega rapitrice

di sentimenti, enigmatica

come una stremata logica,

ed i corvi volano

nel deserto del Nevada,

avvoltoi tu mi dici,

principi della morte,

la nostra massima aspirazione,

la nostra più lieve sorte,

 

nell’oscurità la mancanza

di foto o ritratti

lascia lo spazio all’immaginazione,

 

la copia d’altronde

più fedele della tua realtà,

della tua presenza compatta

e scissa in molteplicità.

 

Scendo rapido

le scale dei miei giorni,

quelli andati sono solo

lo specchio dei domani,

mi dici sempre senza parlare,

dai siediti,

il bello deve ancora venire,

gli umori che secerni

allo sguardo autunnale,

 

sono foglie diademiche,

le nostre storie e i nostri cipigli,

 

tu che non ricordavi,

 

ti è bastato guardarle e tutto

ti è stato chiaro,

 

ogni segno svelato,

sono io,

l’ultimo prato di settembre

in questa radura brulla

e senza vento,

fiore del canto.

 

Le conclusioni non le meritiamo

e dai le evito,

resta un vortice intenso e magnetico,

come sono intensi quei tremolii,

hai già un brivido freddo,

 

la tua sicurezza da domatrice

ipnotica, gli albori si intrecciano,

in un incalcolabile fervido

cenno del viso,

bigiotteria da mercatino,

 

l’occhio coperto

del nostro destino,

effluvio solenne

è lo sbuffo di quei piroscafi

della mente che ci riportano

con un lieto e salubre ingorgo

di pollini e dunque fotogrammi

dei nostri bordelli dirigenziali

lungo borghi reali,

 

tu ti adagi maestosa

sul trono di cartapesta,

io richiudo il mio guscio

della stessa materia,

 

si scandisce l’atmosfera.

 

Le questioni,

i tuoi spasimi,

i tuoi arrangiamenti

e la tua rabbia,

il tuo rossetto rubino,

le decorazioni, il rimmel

e le delusioni,

vai con la frusta tra le mani,

vai rendi succube

ogni incertezza,

indecisione,

ogni nota delle tue emozioni.

 

E il sole sorgerà, lo so!

 

Nelle tenebre una luce

e sei mia.

 

Poi le tue labbra

dal sapore eterno.

 

È così,

è questo sentimento

che offusca la mia voglia.

 

Può essere,

forse è così,

sono vaneggi anche puerili

ma se solo sapessi che rapimento,

che estasi nel tuo abbraccio,

sapessi che vibrazione

della mia anima

alle tue parole chiare

ed enigmatiche come il vento.

 

Mi annullavo,

fiatavo,

resta nulla di ciò,

 

resta nulla.

 

Seguendo la nostra

estroversa retorica.

 

È vero, non c’era modo

di concretizzare l’astratto

dei nostri baci coll’azione

ma ho speso tutte le mie forze

per guardarti negli occhi

stringendoti le mani,

carezzando i tuoi fragili polsi,

 

sapessi quante volte ancora

avrei voluto rendere immortali

i nostri corpi,

 

impresso quell’attimo,

 

sapessi come avrei voluto

stringerti ancora più forte.

 

Mi annullavo,

fiatavo,

resta nulla di ciò,

 

resta nulla.

 

Seguendo i segnali

e le coincidenze della nostra memoria.

 

E il sole sorge ancora.

 

Seguendo i silenzi

come frenesie pacate d’attesa.

 

E il sole sorgerà,

lo so!

 

La falce di luna, la luce che resta

 

Con tiepidezza

affrancavo i miei giorni,

in preda agli affanni celati

da vani entusiasmi,

 

le tre di notte,

tante parole da riversare

e concetti scoloriti da ripristinare.

 

Forse pensavo

che non c’è salvezza nell’attesa.

 

Forse pensavo

che i tuoi occhietti erano solo un sogno

sbiadito.

 

Comunque continuavo.

 

Guardarti un po’ nell’ombra

sembrava la soluzione

a questa mia delusione

che muta con la temperatura,

umore dirompente

e corrispondente alle tue mani gelate.

È così che si muove la mia mente,

 

è così,

tendendo alla tua immagine.

 

Con noncuranza

ponevo scarsa attenzione

alle mie azioni,

preferivo annebbiarmi,

nottuccia estiva,

tanto ancora da dire,

cosa c’è da aspettare?

è ora di lasciarsi andare.

 

Forse pensavo che la speranza

è un germoglio che sorge

anche nel tepore di un solfeggio,

che sboccia anche se è lontano

ciò che ho dentro.

 

Allora continuo.

 

Parlarti con la mia voglia

in un palpito è la situazione

più sentimentale che questa pioggia,

 

refrigerio estivo,

nell’innocenza di un tuo sguardo

mi sa dare.

 

Sei tu la falce di luna,

 

tu la luce che resta.

 

Sorgi candida

 

Sorgi candida

da una nuvola con letizia

e dualità rifletti le emozioni,

 

potrebbe già svegliarci

quest’aurora.

 

Una fiaba d’attrazione,

spettacolo indicibile,

 

sei sospesa a un braccio

sul lenzuolo mentre mi sorridi.

 

Anche la prima luce

del mattino è erotica

e divina nel portamento

 

tuo furente a un tratto

in bilico sul mio corpo,

 

se la vita è estasi

sei tu la vita,

volontà di potenza

è arte dell’incosciente nostro

amplesso, noi incatenati

come eterni dannati a bramare

lo spiraglio di luce,

quella tenue che non acceca

di vanagloria.

 

Ascolti dal balcone

quel suono soave,

è il cinguettio dei nostri passeri

destati, il tuo sguardo

come un transito obbligato

verso il piacere melodioso.

 

Potrebbe ancora imbrattare

la parete il nostro sentimento,

siamo teppistelli dell’amore

scalzi e sfacciati come ragazzini,

 

hai ragione,

se dici una bugia la vita cambia,

resta uguale, fa lo stesso,

 

non siamo soggetti a destino

che non sia nel nostro animo

sepolto e pronto a guizzare,

delfino traballante nel momento

del bisogno, fortuna ardimentosa,

la brume schiuma

 

potrebbe essere una soluzione

o magari la vernice scolorita,

o meglio il quadernino

bruciacchiato e senza senso,

 

come dici? Certo,

è proprio questo il punto,

il dilemma che nel legame

in paradosso ci libera

dal giogo del domani.

 

Ed ora ti avvicini al fumo

delle parole sciupate,

mai così aromatizzate ed addolcite,

adornate di ambrosia,

leccornia dei nostri sensi.

 

Acclami arricciata i capricci

 

Acclami arricciata

i capricci di artemia affiatata,

la sostituzione ad un affanno

notturno è il cupo accordo

disincagliato dal verbo

incessante e prolisso.

 

A causa della luna

si muovono le tettoniche e le maree,

col fervore degli astri

muta il carattere

e il prisma dei tuoi occhi

animati e animosi

nelle tue deduzioni.

 

Poi mi verrebbe di invitare

a cena il viandante

che ha percorso sentieri scoscesi

e ripide ascese

per trovare sé stesso

in una bottiglia di buon vino,

 

un po’ di etilicità mattutina,

 

un fremente riflusso del cosmico

e monastico intruglio.

 

E c’è verità nelle tue mani

mai così assorte nella perversione,

 

muta la realtà con un’ estasi del dire.

 

Pagine fitte di scrittura

macchiate di caffè

e di profumo di chanel.

 

E ti ripresenti

come fossi a un provino

dinanzi alla maestà divina,

 

voglio fare l’attrice, dici,

poi salti alle conclusioni mancine

 

del tuo volto impallidito

dal tepore mattutino.

 

In conciliazione

c’è un tumulto

tra eros e thanatos

che si supera in una nuova

meditazione godereccia

e dionisiaca,

 

dico sì mentre dici

anche tu lo stesso,

 

possiedimi tutto

o mia vita,

 

possiedimi tutto

o vita.

 

Le damigelle si arrangiano

nella danza giusto così,

come possono,

 

le rimatrici del ventre

invece inviano segnali

con i loro denti splendenti.

 

E poi il viandante

mi parla ancora di sé

citando lei,

e poi il viandante dice,

lei è essenza risplendente.

 

Lo scalo al quinto piano

 

Lo scalo al quinto piano

sul treno del tempo,

un passo felpato

da grondaia

nel sentirti a ridosso dell’orgasmo,

una posizione deleteria

che per pudicizia è clamore,

 

tossisci così come fanno

le api assetate di gialleggiante

nettare atroce.

 

Ottima conclusione la tua,

ti volti di scatto e mi dici sì,

 

poi si mutano i tuoi desideri

in contrasti avversi.

 

Non so,

non lo ricordo l’esatto motivo

che ci ha stretti indissolubili

anche se lontani,

 

forse un biancospino

o una dalia violetta.

 

Mi hai sedotto piccola

con garbo,

la storia non la studi perché

la fai ogni giorno

col tuo assuefatto manto,

 

che storia meschina sarebbe stata

senza il distacco materiale,

ma stai tranquilla ritornerà

quell’abbraccio d’artigianato

che bramiamo.

 

Te ne sei resa conto

guardandomi negli occhi,

il lento fiato si accorda

al tuo piedino con la solita

sempre nuova e attuale scena

mattutina,

 

ora che ti guardi allo specchio

col viso che muta,

depersonalizzata potresti magari

trasfigurare o ascendere

alle tue dolci perversioni.

 

Stai tranquilla non perderò

il sapore carnale

delle tue braccia,

il sospirato, il tiepido

bacio velato.

 

Allora spalanca

ancora gli occhietti,

hai la profondità geologica

di una palafitta

colma di interessanti libri e cianfrusaglie,

 

sei in piedi per scambio

fervido e assiduo,

 

lascia andare,

sta bene l’ombelico ricamato.

 

Allora aizza la foga

del popolo in rivolta

affinché i nostri sussulti interiori

siano compresi a posteriori

ed attualizzati nello stesso istante

in cui siano profferiti.

 

Di folli arredamenti celebrali

 

Di folli arredamenti celebrali

ricamati con carta argentata

e inviolata pulsazione

d’amore carnale,

 

oppure magari surplus involontari

dove ti rendi conto davvero

che la sovrastruttura è più forte

ed è lei che regge la struttura,

che la forma dà la sostanza,

che le vere fondamenta del senso,

di ogni senso,

sono sole le inutilità, le incomprensioni

e gli sguardi distratti,

 

ha bussato alla porta

il silenzio

lo abbiamo sedotto col verbo

e si è reso conto di essere

esso stesso un suono,

 

la vibrazione del tempo,

 

una scaglia del nostro

ciclico mutamento,

 

tutto ciò, il segreto nella fluidità

delle mosse, nell’azione,

nella rapida spiegazione,

diamante irrispettoso il tuo

che porti da maestra di ritmo

con me ballerino di penna

che segue i tuoi colpi accorti

sulla cattedra delle nostre passioni.

 

Cosa rimane

dei nostri discorsi

e delle nostre creature,

 

stampo di lettere,

cianfrusaglia di melodia,

quando l’attimo futuro

di un passante ascolterà

l’euforia del nostro presente.

 

Intangibile augusta presenza

la tua, incompiuta l’opera

della plasmazione,

 

nevralgico il punto informe

sul quale ti soffermi,

 

pitagorico e neoplatonico

l’interagire, il nostro

speculare incantati

ed ipnotizzati

con lo sguardo fisso alla parete,

 

negazione del nulla

il neologismo esterrefatto,

 

e sento già l’odore del caffè

tra le tue affermazioni,

 

sento già il lieto rumore,

l’amichevole ingorgo di spiriti

 

al nostro fianco, armate schierate

e pronte all’assalto,

armate di basalto infernale

con l’armatura scintillante

di luce celestiale,

 

armate di penombra,

quelle col nome giusto,

un avvenire fatto di illazioni

confermate al fine

di non dimenticare

la nostra storia infinita,

 

importante il tuo scuoterti

i braccialetti.

 

Per superare sconforti

e paure

abbiamo posto

una pace universale con la natura,

lei ci pone sincera la mano,

già si sente nell’aria

il sapore del grano maturo.

 

I colori del suono

 

Ero sospeso

sulla goccia di pioggia,

 

veltro dal sapore intatto

sul tuo corpo,

 

ero con silenzi urbani

in riva al mare ad aspettare,

nella trappola della melodia

quando l’eclissi schiariva

le convinzioni e ci esaltavamo

sulle varietà intense di colori.

 

Avevamo trovato

il giusto equilibrio

tra senso e messaggio,

tra segni criptati

e decodificazioni bendante e aleatorie,

pure sintassi d’amore,

 

e respiri piano ora.

 

Il calore

con le sue sfumature,

refoli inaspettati e sereni

tra le traduzioni del tramonto

che scoppiettante cede come sempre,

 

è questa l’essenza dello spirito umano,

la transizione,

siamo eterni viaggiatori,

nomadi per natura,

oscilliamo tra buio e luce

come fossimo impressi su vetri,

le scale musicali scandiscono

le nostre ascendenze

e i nostri virtuosismi verticali,

 

riguardo la scena

delle nostre oscenità,

 

perversi gli intenti

con semplicità esposti

da abbracci intensi,

 

trovo il nodo che scioglie

il dilemma solo fissando

i tuoi occhi d’ambra ed ipnotici,

 

sulla tua pelle resta

il sapore di sabbia,

 

ora se vuoi puoi restare,

c’è tanto da fare ancora.

 

Siamo dei folli

e folleggiamo come folletti,

 

siamo druidi che varcano

soglie inaccessibili,

 

il nostro domani è l’eternità

e tu sei l’ultima stella

che splende e non si arrende mai,

che vibra così,

entità eterea

eppure così carnale

il nostro iperuranico sfiorarci

con le parole

e inumidirci con i gesti

di quotidianità dialettica e mai stanca.

 

La nostra candida ed invincibile potenza

 

E soffia il vento

sulle nostre assurde parole,

 

non ha importanza

o forse non ricordo

l’ultimo tuo intenso sguardo.

 

Farfugliavo pensieri scomposti

per dirimere austere questioni

e la potenza del caos interiore

con fremiti vividi

vinceva ogni timore.

 

Adesso che si legge

come una pagina spersa

l’interiorità,

 

la tua più splendida essenza,

 

ora che attendo ancora

le tue risposte sono adagiato

su questa panchina adombrata

a fischiare motivetti

d’oblio perenne.

 

E soffia il vento,

forse questo ci ha aiutato

a capire che l’intenzione

a volte è più dell’azione.

 

Mi arricciavo su tetti a strapiombo

per sospendere gli ariosi nel vuoto

e in me cresceva il desiderio

furente di scrutare quell’abisso

di foglie e di frutti,

di fiori asciutti.

 

Adesso che sospiri lievemente

inclinata sulla mia spalla

non un dubbio percorre

il mio essere,

 

ora che mi sfiori

e mi sorreggi

la spada tratta

è la nostra candida

e invincibile potenza.

 

L’orma del nostro destino

 

Quando la passione è briosa,

la temperatura del tuo corpo

un refrigerio di parole,

 

ci uniamo in visibilio

con le palpebre semichiuse

a sognare,

 

abbracciati stretti

nei nostri sogni

che man mano prendono

forma e luce.

 

Nella stella più distante

della nostra costellazione

il brillare puro ci spinge

oltre ogni labiale declinazione.

 

Credo che questo sentimento

sia il delirio più intenso

che le nostre menti possano concepire,

 

credo che varcheremo i limiti

dell’ignoto con la noncuranza

dei passanti presi in riflessione.

 

Quando si arresta l’andatura

inclinata dei nostri

sguardi incrociati,

nel tuo portamento

io mi ritrovo rinvigorito,

 

forze nuove ci inebriano

e inseparabili ci legano

brame d’abisso.

 

Credo che non dimenticheremo

mai questo nostro sogno

e che come silenziosi attacchini

stamperemo nell’eterno dell’etereo

l’orma del nostro destino.

 

Quando scorre la penna

 

Quando scorre la penna

mi percorre un brivido,

 

mille pensieri affiorano

e si aggrovigliano inestricabili,

 

sono passi di luna

i tuoi che alteri

stridono col vento alle pareti,

 

i miei occhi scorrono

sulle pagine inaudite

della nostra vita,

 

decifrando codici perduti

tra le onde del mare.

E sono silenzi

 

quelle tue parole

che mi scuotono in un attimo,

 

mille luci invadono

le coperte attonite

che si inerpicano

in astruse simmetrie

a cui non credi più,

 

le valige pesano

ogni giorno

e ancora le tue notti

da brigante di Artemide

sono simpatiche e funeste,

 

placate solo dalle grida

di periferia di un vuoto senso

dato dalle immagini,

 

ma io ti sento

sempre più vicina

 

generalessa dolce e un po’ ribelle.

 

E passerà del tempo ancora

ma il mio sguardo all’orizzonte

non si perde,

 

prudente ti attende,

 

sono tante ancora le battaglie,

tante le pagine

che non ho riempito di disillusioni,

 

tante le cadute,

 

tante le tue palpitanti riflessioni,

 

sono un po’ mie

queste sincretie

a cui dai il peso

di una piuma impaurita,

 

e dunque passa il tempo.

 

E chiuderò le porte

mai così lievemente

aspettando il suggello

del tuo corpo,

del tuo misterico intoppo

sulle vie della speranza,

 

ma ti attenderò,

te lo ripeto,

forse è solo per sincera

introspezione,

 

io lo farò,

tra le valanghe chilometriche

dei giorni attenderò.

 

La luce soffusa che inebria

 

Sentirai una voce nel profondo,

un’incudine rimbomberà

come la quiete estiva

e tediosa dell’asfalto

alle tre di pomeriggio.

 

L’erba alta

era una passione fitta di illusioni,

in sé celava il manto astrale

della verità divina,

 

copriva come un velo

le potenzialità celebrali

ed affini al tuo corpo

in procinto del godimento.

 

Poi l’urlo si fece più intenso,

 

squarcerà una stella

nel subbuglio del tuo caos

interiore e ti perderai

nel canto melodioso di settembre.

 

Ditirambico l’affronto

a doppio taglio dell’orgoglio,

 

incantevole il felpato

movimento adagio delle dita

sul piano con clamori fuori

dalle onde sonore nello scettro sacro

della bacchetta dirigenziale.

 

E passa, credi,

il tempo non ascoltando

il magico accordo

che hai dentro.

 

Sentirai una fine empatia

che sprigionerà sinaptica energia,

 

percezione al di fuori del comune

quella che pizzica la cetra

con l’ortensia fissata

dal tuo sguardo nervoso

eppur incantato.

 

Allora dal fumo

delle città in rovina

sorgerai da piccola fenicia fenice,

le tue palpebre saranno spalancate

per cedere al tuo stesso

femmineo dominio,

 

femminino verità celata manifesta

 

sei la luce soffusa che inebria.

 

L’intro pensa sé stesso

 

L’intro pensa sé stesso

nel giardino colmo

di frutti dolciastri

e il silenzio del mattino

è un lemma perso

nel labirinto del destino.

 

Dalla tua mano ponente

la verità e la snellezza

dell’essenzialità il tanfo di uno schianto

tra spiriti elettivi

è trasmutato

in melodia mozzafiato.

 

Amore ricordi

ancora il paesaggio gotico?

 

le cattedrali della perversione?

 

le spoglie dell’illusione?

 

La luna appariva all’orizzonte

varcando del tuo pensiero silenzioso

il monte.

 

Il pregiudizio estetico

disincarna l’estetismo stesso

e siamo ormai quasi orbi

alla vista del bello.

 

L’ondeggiamento è

qui e lì.

 

Amore ricordi ancora

la folle impresa,

 

il viaggio verso l’assoluto

per radure brulle

e freddi aurore,

 

credi sia giusto cancellare

o fingi di non guardare?

 

L’estate brilla,

il tuo sguardo rarefatto

come uno spasmo,

in preda all’entusiasmo

 

profumi di un effluvio silvano

e il tuo carezzarmi

è uno sgocciolio di mandragola

 

(pagine dischiuse

aperte per distrazione,

pagine profuse).

 

Sei sempre in me!

 

Amore non puoi dimenticare

quello sbirciare alla finestra

che senza arrendevoli deposizioni

illuminava le pareti,

 

poniamo un nuovo limite

nel nostro illimitato

universo parallelo.

 

Amore,

 

mia vita,

 

mia unica.

 

Manterrai dentro te

la nuova stagione

che è lo specchio

del nostro passato.

 

Vita nata dal plasma onirico,

 

vita nata dal plastico dei sentimenti.

 

Piccola e muta tra le mie braccia

 

Era mattina inoltrata

quando la brezza estiva

portò i tuoi cinerei capelli

all’indietro, arruffata

 

di ghirlande sfioravi

i miei polsi nel sentimento

di un’estate che finalmente

sospirava.

 

Ascolterò muto le tue parole,

nel silenzio dei risvegli

senza tempo,

 

disinnescherò i tuoi sospiri

rendendoli sublimi.

 

Dillo ancora una volta

che la forza della parola

è il tepore più intenso

che risveglia spiriti

ormai dimenticati,

 

dove alberga il nostro

più perverso sentimento.

 

Era mattina inoltrata,

non avevamo voglia di alzarci

dalle lenzuola,

restammo abbracciati

ancora qualche ora,

 

il sapore del caffè

stuzzicava l’intelletto

nel momento distorto

del tuo sguardo

che mi ha sedotto,

 

ti ascolterò ancora parlare.

 

Dimmi se il vuoto

delle nostre angosce

può essere superato

scegliendo davvero,

 

dillo che siamo

le pietre più preziose

che il mondo possa vantare,

 

quel sospiro d’universo

che gli altri sanno solo bramare.

 

Quando le labbra sfiorano

i perniciosi anfratti del tempo,

non esiste passione

che regga all’intento,

 

parlerai ancora con la tua dolcezza? Lo farai?

 

L’estate preme sulle nostre spalle,

isolati dal vento percorriamo

il sentiero all’inverso,

 

le vie più brevi

sono con attenzione scartate

e il tuo portento cosmico

un prologo sesquipedale.

 

E poi non basta altro verbo a definirti,

piccola e muta sei ora tra le mie braccia.

 

Un nuovo labirinto

 

Per questo richiudi il libro,

la tua schermaglia

per il silenzio,

assapori con gusto

le tue dita

come fossero ottoni

percossi nell’animo

delle mie indecisioni.

 

Estasiata al clamore di Wagner,

fai segnetti nell’aria

mai più assurdi

eppure da me comprensibili,

 

muovi sul tavolo giocando

le tue carte migliori,

 

ti diverte parlarmi all’orecchio

con la nonchalance

di un prezioso nonsense.

 

Improvvisa ti volti

e assopisci la lezione,

diciamo questo

per non dire sorbire,

apri di nuovo il codice

segreto e smarrito

e in un tratto di penna

scarabocchi un sorriso

illuminando il cielo turchino,

 

poni assedio.

 

Discuti del tangibile

e nell’imperfezione trovi scampo

alla passione,

mostri furbetta

la tua recondita arma segreta,

 

dominatrice dell’aria

dai comandi a questi tenui ventoli,

mentre parlo gonfi le guance

pronte allo sbuffo

e dal visino scorgo

il tuo nasino buffo,

l’ indelebile assonanza

sintomatica di grazia.

 

Allora per questo ti imprimi

come stampo di gesso,

 

resta tempo.

 

L’ebbrezza dell’alcol

ti ha raggiunto le vene,

fai due trottolini

che direi un po’ amorosi e dadaisti,

comunque hai voglia,

riprendi a parlare,

 

dialoghi universali

quelle frottole vaneggianti

ma preziose.

 

Mostri allora

l’odor dell’aurora,

 

la mano è ferma

seppur nella tua follia,

mi scopri il corpo

ormai in preda

ad eccitazione corporale

e contemplativa

 

sul tuo seno la mia guancia

rende il risveglio soave.

 

Allora sei la guerriera

degli angusti sentieri

migratori del cosmo.

 

Infine ti beffi come divertita,

l’allegro del grammofono

è all’epilogo,

 

prendi la tua incandescente

soluzione di cloruro di zinco

e scorgi nel domani

un nuovo labirinto.

 

Germoglierà un fiore, forse, tra le mie parole

 

Il desiderio sorse

quando l’alba schiariva

 

il cuore come impresso

sulla sabbia,

 

le tue parole erano vento

per l’inverno,

da conservare un ricordo

come assenzio.

 

Le indecisioni

frutto di un calore

che se non scalda

 

è forse l’impossibile che bramo,

 

puntare tutto quel che ho

non può servire,

 

perdere e poi ricominciare

con l’entusiasmo

di un mendicante di brillanti.

 

Il sale sulla terra

e sul tuo corpo,

 

magico intralcio

quel tripudio di parole,

 

scrivere tanto

o forse poco a penna d’oca,

nella follia di un domani

che non scolorirà mai

le mie passioni.

 

Se l’albeggiare non è ciò

che si intrufolerà nell’animo mio

ti ricorderai soltanto di un addio,

 

le parole sono vane,

si vive di illusioni,

tra la gente le intenzioni vaghe,

 

l’egoismo e il narcisismo

di chi cerca sé stesso

 

è forse solo il vuoto che ho dentro,

quel ricordo malinconico

di un accordo che suonavi

ondeggiata alle mie corde

 

ma se ti do tutto me stesso

il restio rifugio

è un asso capovolto dall’azione.

 

E d’improvviso si impose la realtà,

fatta di sogni,

una vita vissuta

forse solo per metà,

 

distrarsi è facile

e c’è chi ha vinto già,

c’è chi rimane all’asciutto

della viltà.

 

Non restano forze

neanche per sussurrare

quelle parole

che rabbrividiscono il nostro corpo,

 

è tutta vacuità dell’assurdo,

 

si cerca sempre qualcuno

che possa darti qualcosa

oppure muori

nelle tue sensualità

di bolle acustiche

che esplodono a metà.

 

Se le delusioni della vita

sono quello che ci resta,

 

guardarsi allo specchio

e trovarsi cambiato,

è facile definire

l’introverso di un saluto

come asciutto malinconico addio,

 

i pensieri sono questi

mentre la vita piano si consuma,

 

un’altra parola solamente

è il nascondiglio delle braccia.

 

Come disprezzo

le facili sensazioni materiali,

 

forse la paura dell’ignoto,

 

come vorrei elevarmi oltre

e disincagliare il gelso

con la grazia del mattino,

 

ma quel che penso

è solo un inutile

vaneggio vespertino.

 

Il tramonto di una storia

è l’attimo che schiude

come occhi di marmo il cuore,

questa vita è una finzione,

un caos decifrabile soltanto

dal pallore audace,

 

ma continuo la mia lotta solo,

 

germoglierà un giorno un fiore,

forse,

tra le mie parole.

 

Giusto solo a metà

 

Allora è questo il punto,

l’intorno della questione

delimitato da un accordo,

un po’ sviolettato questo bordo,

come sempre,

come segno del vissuto,

 

un sentimento atroce

che passeggia qua e là

tra le parole e i sogni

virgolettato da uno stonato la,

 

potresti disegnarlo

oppure ignorarlo

oppure magari sciuparlo di verità.

 

E la canzone scorre,

lei sì,

 

è il tempo che ci circonda

e a cui non credo fermamente,

di cui non spendo neanche

l’estimo del vuoto rintracciato

da un vistoso saluto.

 

Io sono saldo su due piedi

in bilico tra i colli di marzapane,

 

le vallate di pop corn

e di vandalici scippetti

decollati dalle penne schiuse

a guscio d’uovo.

 

Ed ascoltare poi il lamento

diffuso della remissione plenaria

di foglie spoglie e scardinate,

violate dai tuoi baci

di fiele e miele.

 

E continuo ancora,

la soglia della mia sincerità

è il nascondiglio nostro

per le sensazioni,

 

mai lasciarsi andare in sensualità.

 

La scollatura a V,

poi magari anche

le tue calze blu,

tre o quattro sigarette

fumate con il maraschino

stampo del nostro destino.

 

Orribile la metrica,

l’hai un po’ sconvolta

come capelli destinati

a mari innamorati

del tuo corpo nudo

sul dorso di una conclusione

scanzonata

e mai più dimenticata,

magari respirata,

 

sospiri in profondità,

vai dicendo all’anima

che è solo assurdità,

idiozia la mia,

 

se vuoi recito la mia parte,

uno, nessuno, centomila

oppure forse unica molteplicità,

 

siamo tutti uguali,

questo forse già lo sai,

 

siamo tutti strumenti

stesi e tesi

verso il sole

che è simpatico

giusto così,

giusto solo a metà.

 

Nell’antro del castello degli Spiriti Magni

 

Nell’antro del castello

degli Spiriti Magni

una penombra lucente

da Campi Elisi,

 

passioni condivise.

 

Il poeta con la spada calliopea,

l’amore provenzale

di ispirazione ovidiana

corretta da catarismo scandito

da un furente sorriso.

 

Camilla, Pantasilea,

armate di tutto punto

nel De bello gallico

fanno figura sussurrando

promesse a Cesare e Cleopatra

già avvinghiata al successore.

 

Poi la storia naturale

dell’indice proteso

verso il reale descrittivo

e categorico

 

il manoscritto vocale,

la maieutica unica reduce

di una malattia incontrastata

per la morale,

 

tante idee nell’iperuranico

amplesso platonico

che non ha niente a che vedere

con l’amore carnale

né col contemplativo,

è solo freddo pensiero.

 

L’acqua scorre in refrigerio,

il tuo spirito calmo

in preda all’intellettuale orgasmo,

 

il fuoco riarde

nell’eterno ritorno eracliteo,

 

l’infinito del segmento

violato da passi attenti di tartaruga.

 

Mi soffermo con discrezione,

non voglio disturbare in divagazioni,

 

incantato sto ad ascoltare

le imprese del pacifismo bellico,

del presunto veltro,

dell’amore,

unione indissolubile

della rivoluzione,

 

credo sia meglio continuare a giocare.

 

D’improvviso con la lira

l’amante della fanciulla

spersa nell’Ade si lascia tradire,

 

amarezza nel non poterla vedere,

lui che è maestro ed allievo

della suprema bellezza femminile,

cardine della violacea speranza.

 

Declamando al foro

il retore repubblicano

ha lo sguardo altero di un sovrano

ma cade in contraddizione,

 

l’actio e l’elocutio

è sublime,

ha perso punti nell’inventio,

sta sciorinando baggianate

da mercante

mentre lo assiste l’integerrimo

maestro di Nerone

con le vene ancora tagliate,

 

sembra rimpiangere l’errore fatale.

 

Poi gli arabi medici

e matematici greci

con le formule troppo perfette

per essere rare e reali,

 

Euclide ricorda

un’idea distante dalla terra

e dalla oscura rimessa.

 

Tramandando il sapere astrologico

si scuote il chiostro,

 

abbiamo accesso,

ma ora non posso.

 

Passeggiavamo per sentieri

 

Passeggiavamo per sentieri

tra la vegetazione

ed avevo impresso

il nome tuo

come se non ci fosse altro

nel mio cuore,

 

mentre tu ti distraevi,

guardavi altrove

con la grazia di una bimba dispettosa.

 

Era estate,

forse la più dolce

mai assaporata

sulla tua pelle disarmata,

il tuo corpo come disegnato

nell’eterno di un bacio stampato

e travolto di passione,

 

eri tu che mi pensavi,

 

eri tu ed io che ti seguivo

come vento stretto

tra le tue stesse mani.

 

Non si può dimenticare

in un attimo

una storia mai iniziata,

 

non si può sciupare un fiore

dal chiarore tenebroso,

 

luminoso quel tuo volto,

il tuo visino,

il tuo piercing,

il tuo simpatico respiro sul mio collo.

 

Poi io che mi perdevo

nelle mie insicurezze,

nelle mie paure,

nei miei sogni,

nelle mie disillusioni,

 

hai voglia ancora di giocare?

 

lasciati ti prego accarezzare,

guarda il sole all’orizzonte,

guarda il nostro domani

dimenticando ogni pudore,

lascia scorrere,

ascolta l’animo mio

sperso tra le tue braccia.

 

E passeggiavamo come assenti

assaporando i germogli

del desiderio,

 

un passo, un altro,

un pensiero capovolto,

le tue mani ancora,

carino lo smalto consumato,

 

non dirmi,

non raccontarmi il tuo passato.

 

Scorre il ruscello dei miei pensieri,

ci sei tu che ti imponi

come sasso nella vita,

mi confondi e mi rispondi,

ma cos’è che cerco

non l’ho mai capito,

 

so solo che i tuoi capelli

sono petali

che non dimenticherò,

che mi riportano il destino

a portata di mano.

 

Abbraccio universale

 

Il tuo corpo che mi ispira

nell’abbraccio universale,

 

scorgo l’attimo del silenzio

e lo assaporo.

 

Non penso più,

la mia mente è annullata,

si espande la mia anima

al contatto col tuo velluto carnale.

 

Al di là del limite della sapienza

c’è un’infinita conoscenza,

 

ci sono fiori incontaminati,

come i tuoi polsi profumati.

 

Non penso più,

guardo solo te,

l’acqua scorre negli anfratti,

 

siamo ultimi reduci edenici.

 

È un pensiero solamente

quel che resta di me,

sperso tra la gente,

la nostra storia si innalzerà

oltre ogni dualità.

 

Dietro ad ogni MA con BI c’è sempre un’ acca

 

Per chi suona la campanella?

 

Siamo unici in quanto soli

a questo mondo

che ci appartiene

e conteniamo e ci contiene,

 

sinceri e a volte scaltri,

troppo spesso indifferenti.

 

Per chi suona la campanella?

 

Forza entrate in aula

che l’orpello culturale

un po’ ci aspetta e un po’ ci schiva,

lo sguardo di quella ragazza

che ha ancora sete di sapere

e di apparenza

in questa vita di evanescenza.

 

Cara Sofia dai mille volti

e dai trecento aspetti.

 

Per chi suona la campanella?

 

Cara Sofia del mio desio.

 

Per chi suona la campanella?

 

Cara Sofia

donna del destino,

del palpito,

del respiro.

 

Ecco,

potresti anche voltarti

socraticamente verso questa

incandescenza, la luce

di traverso già ti illumina

l’intenso,

 

non ti sfioro perché

sei già colma d’alloro

come la Laura petrarchiana

tra le acque limpide e perniciose,

angeliche e boriose.

 

Per chi suona la campanella?

 

Per un miscuglio di gentaglia

inconcludente,

o solo per il tuo corpo

che già manifesta l’anima

di questo incontro?

 

Cara Sofia

dall’andatura ondeggiante.

 

Per chi suona la campanella?

 

Cara Sofia

con l’occhio strizzato.

 

Per chi suona la campanella?

 

Dietro le barricate

della rivoluzione repubblicana spagnola

a scambiarci promiscui baci

ridendo del disciplinatore fallito.

 

Ecco,

potresti voltarti ancora

un altro po’

e farti vedere di dorso,

 

il fichtiano incontro

dello spirito libero dall’essere

e sovrano

ha tolto dal destriero

del mio percorrere altitudini

andaluse

molto più del dovuto.

 

Ecco,

potresti darmi un altro bacio,

non aspetto altro,

 

lo scambio di gesti come baratto

primordiale,

non c’è valuta che ci possa separare.

 

Ecco,

scordiamo questo sole scolorito

ormai è finita,

strusciamo la lavagna,

 

sento ancora odor di gesso,

dimmi un po’,

 

per chi suona la campanella?

 

Per te parole

 

Per te

parole,

 

ancora fumo,

 

quando passerà il turno

del nostro dolore?

 

Ho chiuso gli occhi

stringendo le tue mani,

tu mi hai sorriso,

mi hai accompagnato

ai bordi di un sogno

desto e rubicondo.

 

E l’ora dei sensi

si è imposta incandescente

sul ciglio

di una passione mai finita,

travolgente e giuliva.

 

Per te,

piccolo soffio,

 

per te,

docile accordo,

 

per te la sensualità

del carnale godimento

 

lenta mai sfiorirà

la bellezza del tuo corpo.

 

E l’ora delle decisioni

lievemente ma con ferocia

si impose,

 

tra le tue Pall Mall

ed i tuoi capelli anche

un altro sorriso

scuote il mio viso.

 

Per te,

solo parole,

 

per te,

solo il mio corpo,

il mio sangue,

la mia pelle.

 

E sono steso di sbieco

 

E sono steso di sbieco,

guardo le tue spalle

e il tuo dorso marino,

sei la regina

di questo misero acquitrino.

 

Sposto un po’

i tuoi lunghi capelli alla Isotta,

 

sei capovolta,

 

dormi con grazia

di una ragazza indomita

e fiera, mai sottomessa

al gemito della sera.

 

Posso consolarmi

anche solo nell’ammirarti,

nel dipingerti come tatuaggio

il fondoschiena,

 

il tuo magico ormeggio sconosciuto

che mai mi ha deluso,

 

parole per te ancora tante,

dissi,

 

mia potenza divina.

 

E poi le tue guanciotte rosse,

capricciosetta e un po’ perversa,

cavalcando i miei sogni

e pensieri

 

sei il più attuale ieri,

 

sei destinata a lodi schiuse

che magari fioriranno

col vento scaltro

del nostro autunno,

 

e dici sì,

me lo sento,

 

il celestiale turbamento.

 

La vita vissuta

tra inchiostri sbiaditi

e fumo di sigarette

ormai consumate,

 

la cenere che cade

dalle scale escheriane,

e tu continui a sorridere sopita.

 

Le capitali europee

d’un tratto si imprimono

sul tuo corpo,

 

non c’è recondito impulso

ma estroso desio contemplativo,

 

giacere con la tua anima

e la tua materia ormai divina

in un solo incontro,

in un solo melodioso accordo,

 

dormi un altro po’? È già l’alba!

 

È già l’ora del nostro

spirituale risveglio,

di imprimere per sempre

il vero e il verbo,

a squarciagola ad un concerto

d’usignoli

per stonare,

per sognare.

 

E sfoglia il libro

al capoverso quattro,

hai già impreziosito

il tuo scalfito palpito

e in refrigerio sembri voltarti

 

ma è solo un sussulto

notturno

di questa prima

luce del mattino

che seduce più

del nostro pensiero,

 

è più sgualcita

dei miei libri perfino.

 

Vai avanti amore,

resta in un angolo,

non ti voglio svegliare,

 

i capitelli, le campate,

i fiumi, i ruscelli,

i monti, gli astri,

le passeggiate sul lungomare,

 

le nostre serate

sono raccolte in quest’istante,

in questo tuo ulteriore respiro,

 

non scomparire.

 

Entra un fascio

dalla finestra chiusa

a metà e le ombrette lucenti

sono già suoni.

 

Vuoi per davvero dimenticare?

 

Magari anche mi.

 

Oppure si.

 

Entrambi, legamento

 

Nel vento sento te,

fuoco incandescente,

dal brivido sulla mia pelle

diretto al cuore.

 

Per distrazione.

 

Magari la.

 

Sei tutta dentro me,

sussulti con lo scuotimento

delle mie vene spianate,

sei già tutta mia.

 

Ti stendi contenta

del tuo turbamento,

hai in mente un accordo.

 

Ma noi chi siamo,

 

profeti dei pazzi,

 

ti domandi e rispondi,

 

poi il la.

 

Vuoi per davvero dimenticare

i nostri corpi stesi supini,

mai tanto vicini,

le nostre acrobazie di penna,

 

i nostri vaneggiamenti?

 

Non siamo poi così diversi!

 

Nel tempo lo scolorimento

delle cicale misteriose,

 

è già estate,

non te l’aspettavi?

 

Magari ancora si.

 

In un bemolle

mi rizzi al cielo

il mio manto oscuro,

schiarisci un po’ la voce,

dai.

 

Vuoi davvero dimenticare

le giornate e le nottate

tra i silenzi ed i baci intensi

che inumidivano i nostri corpi violetti?

 

Anche il destino

ha fatto al nostro canto

l’inchino,

 

e noi ora soli quaggiù.

 

Do e poi si7.

 

Vuoi per davvero dimenticare

le serate all’imbrunire,

 

il tuo volto sulla mia spalla,

 

il mare e la più superba stella?

 

Magari mi e ancora si,

 

dici.

 

Vuoi davvero dimenticare?

 

Io non posso,

 

sento ancora il tuo sproloquiare,

il dolce sapore ancestrale

delle tue labbra.

 

E dimmi sì.

 

Senza fiatare

 

L’entusiasmo incontenibile

da un soffio di vento stroncato,

irrefrenabile desiderio di vendetta,

i tuoi sorrisi, le tue intense carezze,

tuttavia è sempre vero

che la felicità a volte

è troppo lontana

e chi crede di averla trovata

sprofonda nuovamente

nel suo dolore.

 

Le tue parole oramai

a poco possono contare,

 

tuttavia mi rimane

il palpitare

nel guardar le tue foto sbiadite,

 

ma a volte occorre

non lasciarsi troppo andare,

non cadere tra le braccia

di una passione.

 

Come ci guarderà

ora il faro di Alessandria?

 

Ci saranno mai più

le passeggiate

mano nella mano

nella reggia di Versailles?

 

Avrai ancora voglia di bere

la limpida acqua del sapere

e sbiancare di fronte

al soprannaturale,

 

piangere per Paganini

fino a lasciarti sfiorare

dalle sue corde?

 

Scorgere il mare

dall’ermo colle senza fiatare?

 

Senza fiatare!

 

L’aristotelica tua categorizzazione

non ammette vie di mezzo,

 

tuttavia cerca di fissare nella mente

quelle mie tre parole.

 

Cosa penserà di noi ora

il Colosso di Rodi?

 

Godremo ancora distesi

nei pensili babilonesi?

 

Ricordo come era dolce

stringermi i fianchi

mentre sbarrando gli occhi

mi dicevi di sentire

l’odore del mare,

il ripiano del nostro

influsso al astrale,

il ricamare della sabbia

tra la pelle

nell’infinità indefinita del tempo,

 

il tuo parlare ancora

senza fiatare.

 

Senza fiatare!

 

Le conclusioni

 

I ti voglio bene,

i ti amo,

i baci,

gli abbracci recitati

come mantra

ad una shiva

un po’ femminea

dai capelli arruffati.

 

Le conclusioni sapienziali

di cui tratti,

dal centro dell’intarsio violaceo

del flusso di potere

del tuo candore

alla giravolta del rancore,

 

le conclusioni speziate

ed impreziosite

dalle dolciastre parole

di chi ha consapevolezza,

 

fluido a incandescenza,

emette un sospiro

come fosse naturale respiro,

 

questa non è una pipa,

 

oppure metti al vertice

del monumento funebre

di Cheope una sigla.

 

Ritmata la cadenza

dei greci un po’ rock,

degli andalusi un po’ delusi,

degli elvetici

sempre ingaggiati

come spie di guerra,

 

non è così che si scuote la testa,

 

ho il tuo numero di cellulare,

ti posso chiamare?

 

hai un attimo per divagare?

 

Le conclusioni

del liquido ancestrale

sono gorgheggi di piume scolorite,

 

l’evoluzione descritta

da un medico mancato,

la profusione,

l’eredità dei geni,

 

sono tabula rasa ricettive

le nostre caste verità interiori,

 

ad Ippona si direbbe

è lei che ti verrà a cercare,

 

e D’Agostino con l’eurodance

ci sa fare.

 

Non hai parole?

 

La bocca resta asciutta,

 

l’accademico di accademia alcuna,

 

l’apolide filologo

dell’Università di Basilea,

 

aploide il rigurgito scolastico,

 

incrocia pure le dita

e mettiti in posa per la miniatura,

 

mi raccomando,

con fare austero e disinvoltura.

 

Le conclusioni,

 

le tue passioni,

 

spulcia un po’ di rimmel

dagli occhi,

 

sì, guardami di traverso

che mi fai impazzire,

 

nel godimento intellettuale

potrei anche morire,

 

scandisci le parole,

muovi bene le mani

e non solo per accompagnare

la retorica,

anche e soprattutto

per i tuoi giochetti

eroticamente confusi.

 

Le conclusioni.

 

E poi direi,

altro da raccontare,

 

ma concludendo,

le conclusioni.

Il treno dall’infinito

 

Una sigaretta accesa

distratto alla stazione.

 

Un coro di allodole

e decoro alla Gondor.

 

Non mi muovo,

sono immobile

al secondo grado

di noia heideggeriana.

 

Giusto un po’ agitato,

svilito,

sfiorito.

 

Cambia come il suono

stridulo il tempo.

 

Dorme accovacciato un cucciolo

col suo padrone dai capelli

rasta a elemosinare.

 

Non mi muovo,

quasi mi stenderei nell’oblio

di questa panchina mattutina.

 

Alberi ortodossi e commossi

mi adombrano il fiato,

 

non ho voglia di parlare

e prendo a scribacchiare.

 

Lento.

 

Quanta voglia

di tenderti le mani,

di congelare il ricordo

e renderlo attuale,

 

senza sconto il tuo visino

dolce e seducente.

 

Non so neanche più dove andare,

la mia vita da gitano di cristallo,

 

basta un soffio di sentimento

ed in frantumi do tutto me stesso

al vento

 

mentre tu non ti tagliuzzi,

sopporti le mie assurdità,

le mie paure,

 

le mie vili scommesse alla roulette,

un altro giro e ho perso tutto.

 

Così, dici,

il tempo è come il mare,

sponda da lasciarsi andare.

 

Chiara l’acqua del vissuto,

magari gli dedico un pensiero

se rimane a flutti

e gli occhi da sirena

si perdono nel volto,

 

il mio,

 

sono qui,

a desiderarti,

 

a bramare quel tuo corpo

da ardita.

 

E poi sorrido,

l’afa mi imprime

un tepore di giorni andati

e mai più scordati.

 

Oh cara!

Potrei ridarti le mie mani,

incrociarle alle tue,

dirti ti amo sulla spiaggia

fino all’alba.

 

E non voglio respirare

senza il tuo fiato

che mi inumidisce la pelle

come ardente rivolo

puro e suadente.

 

Tempo,

penso ancora al tempo maledetto

che fugge reo confesso

et non s’arresta un’ora,

 

ma poi è solo il profumo dell’aurora

nel nostro amplesso

che ci scandisce ardimenti

che neppure l’entusiasmo

dei sentimenti

possono glorificare,

solo umori disillusi,

 

ma io non ti scordo,

un giorno ti prometto,

sarai sull’orlo di un cuscino

a dirmi ancora sottovoce,

ti amo amore.

 

Arriva d’improvviso

il treno dall’infinito,

 

la destinazione mia quale sarà?

 

Un luogo dove forse

la mia parola splenderà.

 

Abbracciati per l’eternità

 

E quando non hai più voglia

di scrivere o pensare

e un brivido t’assale,

 

cerchi di starci dentro

e scorgi il sentimento.

 

Alle volte la paura

è un’arma che ci impedisce

di varcare i muri della verità,

 

altre volte è solo insicurezza,

viltà e vanagloria stupida.

 

Non capisco come si possa

odiare guardando negli occhi

né tanto meno come si possa

girare il coltello di traverso

e con un colpo assestato tradire

un amico oppure un nemico,

tradire chi è della tua stessa carne,

togliergli l’amore e la libertà.

 

Nel frattempo noi due

abbracciati per l’eternità.

 

Ah come sussurra il mare!

 

Ah che voglia delle tue labbra,

che voglia di baciare!

 

E assaporando nuove sensazioni

nella nostra introspezione,

siamo in simbiosi con l’umanità.

 

Poi più chiari e più sinceri

 

(puoi pure baciarmi ancora,

se vuoi),

 

stringerci ed assaporare

l’universo intero.

 

Ma proprio non lo sentono

quegli altri il dolce vento

che spira solo per la loro pelle?

 

Noi sulla nostra isola deserta

mai siamo stati tanto a contatto

con la vera umanità.

 

E stringimi,

ti prego,

fallo ancora,

 

il nostro è un abbraccio universale,

 

panteistico il pensiero,

l’unico che mi sfiora,

 

noi,

due passi sulla sabbia,

 

la luna,

la nostra ridente padrona

con la freccia nella fodera

da cupido

non scaglia che eros e amore.

 

Se guardi ancor lo specchio

ci puoi veder diversi

ma siamo sempre i soliti fanciullini,

i poetini che piangono

e al tempo stesso lanciano

giavellotti al cielo.

 

Non credi sia importante

divagare, saperci fare,

 

non credi sia più importante

stringere una ragazza

e saperla amare?

 

Sì ho detto amare,

amare lei sola,

unica al mondo,

la tua meta di sempre

finalmente raggiunta

che con fasti dionisiaci

è stata imbandita

ad un orfico rito sbiadito

 

ed è lei la pulzella ardita,

la ragazza più sbalorditiva.

 

Traendo somme

 

Traendo somme

con gli amplessi complessi

dell’algoritmico tuo fiato

sul selciato

rinchiusi come albori

delle clorofille in bolle di sapone

dal superbo odore di marzapane.

 

Una funzione lineare

un po’ ondulata è l’ascissa

del sentimento sul tuo corpo,

coordinata alla maniera leonardiana

e stralunata da un’incudine

bislacca leopardiana.

 

Non so se la risultante

sarà una decisione,

una conclusione importante,

 

termine caro in giorni d’imperio

ortodosso sulla tua pelle

di colori variopinta

e dalla luce come lancia

nell’ultima remora inflitta,

 

ad ogni modo il vizio

di punteggiatura è la distrazione,

damasco dell’altopiano

a ridosso sulla stessa

epidermide salata.

 

Le melodie di ogni mattino

stese al sole

hanno posto assedio

ma con pudore,

 

il diluvio universale

del nostro sproloquio

ha ottenuto clamore

grazie alla seta del tuo candore.

 

Ed alla fine mi chiedo

se la storia senza capo e coda

è un disarmante diversivo

per il tuo volto giulivo

già scordato ma al suono

delle sfere accordato.

 

Aspettandoti sul nostro ramo

 

Aspettandoti sul nostro ramo,

quello più fiorito, ricordi?

 

Aspettandoti prima di partire,

per sempre lontano

come il tuo incanto svilito

dalle mie parole,

 

un canto intenso di cicale.

 

Sei l’illusione dei miei domani

e al tempo stesso dunque

la speranza qui tra le mie mani,

 

converge passato e futuro

nel tuo sorriso ora immaginato,

degli anelli fluorescenti

ed altri decorati di alabastro

 

sono approdo per i miei pensieri,

i braccialetti stesi come guanciali

sui tuoi polsi oramai consumati.

 

Ah come è lieve

l’aria questa sera!,

 

come vorrei potessi goderla

qui al mio fianco!

 

È tutto scritto,

mi dicesti un giorno

e confermasti il libero arbitrio

in paradosso

guardando me come giullare

decorato nell’ultima battaglia

contro la massa.

 

Forse nel vento a noi amico

ci rincontreremo,

 

i tuoi percorsi saranno segni

tracciati sulla sabbia

delle mie voglie, le tue,

le nostre,

il nostro cambiamento rinverdito,

 

le cose cambieranno

ma forse con moderazione,

con la dolcezza

che nei tuoi silenzi scorgo

 

in fondo al tuo bel cuore

di diamanti.

 

E come da tarocchi sortirà la sorte,

puoi pure dare un nome

alle mandrie o alle scale musicali,

 

così da confondere l’inizio con la fine,

il tuo corpo al mio fianco disteso

e le mani intrecciate, sogni destati

dall’albeggiare del tramonto,

 

ed ora comincia la storia

per davvero,

 

quando non hai raggiunto

altro confine che non sia

quello tracciato sui tuoi bordi

dall’eccitazione frastornati,

 

sul ramo penso a te.

 

Fiorisce, è un attimo,

poi disappare quella tua immagine

da incorniciare,

 

le spiagge mute

ai nostri passi nudi,

 

il lambire delle nostre discussioni

è l’acqua cheta della tempesta

senza rumore

che corrode la scogliera.

 

Ah potessi sentire

con me, qui al mio fianco

questo intenso profumo estivo!

 

Potessi lasciarti andare

e l’intenzione ricamata

indirizzare all’istinto razionale,

in una sincretia d’affetti

mai provata,

 

forse perché da troppo tempo

tralasciata,

da millenni ormai dimenticata!

 

Forse nel tempo a noi nemico

ci scorderemo,

 

si convincerà anche lui

della fasullità delle nostre

sensazioni lineari,

 

magari comprenderà

che la descrizione di un ellissoide

vale anche nel suo dominio

e non solo in quello spaziale,

poche parole ardite,

 

il circolo non è perfetto

perché non esiste sulla terra

un vero triangolo

ed un vero cerchio,

 

sono approssimazioni ed illusioni

i baci tuoi ed i rapporti umani,

 

ergiamoci in alto,

ti attendo ancora qui,

sono sul nostro ramo.

 

Una viola del pensiero

si posa sul mio palmo improvvisa,

 

ti ho intravista,

 

non mi hai dimenticato.

 

Tutto ciò che resta

 

Mi ponevo quesiti

appostati sul nostro discorso,

isolati noi due un po’ dal mondo,

 

ora che è finita

non ci sono più domande,

strisciamo nella certezza

del nostro domani come insetti.

 

Non ce ne erano motivi per scomparire,

forse solo l’abitudine di una storia

che si consumava

e ti avrebbe distrutto,

 

ah mi ricordo negli amplessi

di noi distesi!

 

I tuoi capelli che coprivano

il mio volto come tele

di velluto indiano!

 

Poi arriverà già un altro,

un sostituto

come per gli addetti ai caselli,

meccaniche le attese,

sporgente quel tuo seno

che le mie mani capienti

avvolgevano al tuo ansimare

come preda del tuo desinare,

 

una storia mai finita,

non tornerai ma sei ancora

nella mia mente vivida e viva,

 

un sussulto di campane,

 

quelle che ci risvegliavano

al tramonto,

per Paesi sconosciuti,

 

Monaco e la Baviera ai nostri comandi

e noi sugli attenti.

 

Una passeggiata in bicicletta

sul suolo partenopeo,

 

rovinammo a terra per campagne

e ci avviluppammo

come allodole al far del giorno,

 

io ero steso su coperte decorate,

 

tu mi riempivi di ortensie profumate.

 

Tutto finì

prima che potessimo soffrire,

che un amore unico

potesse ferirci,

 

l’amore esplose

in tutto il suo fragore

quando con la tua mano

carezzandomi dicesti addio.

 

Ci sarà qualcuno

ancora che prenderà

i tuoi polsi corrosi?

che ti sedurrà con le parole e i sogni?

 

traccerà forse come me il futuro

ma non saprà mai dirti

che senza di te la vita

è un vicolo oscuro. Puoi pure piangere ancora

sai! Noi a danzare

di spalle come giullari matti.

 

Chi altro lo farà e chi lo farebbe?

 

Parleremo forse un giorno

ancora colmi di illusioni,

 

le nostre che vincevano

ogni patimento ed ogni paura,

affrontammo il mondo intero

 

ed ora soli ad allontanarci

mentre la tua mano si distende

e rompe l’intreccio con la mia.

 

Ti ricorderò per sempre

piccola ragazzina

che usi le tue iniziali

invece del nome.

 

Ti ricorderò come dolce audace ribelle

che ha lasciato un segno indelebile,

nella mia voce,

 

la mia incudine su carta

è tutto ciò che resta.

 

Un raggio di luna

 

Un raggio di luna

penetra e crea orme

austere sulla parete.

 

Un raggio di luna,

ombra del tempo passato

al fragore del vento.

 

La quiete dei giorni velati

si apre al tumulto

di questa sera incantata.

 

Nelle gelide nottate invernali

sono rinvigorito al sapore

della frescura diurna.

 

Nell’afa arida di questi giorni

sto assaporando sieste sbiadite

come la foto tua sul mio comodino

riposta,

tralcio di vite

per la vendemmia delle nostre meraviglie.

 

Un raggio di luna penetra lieve,

un po’ mi accompagna.

 

Un raggio di luna,

altisonante un cigolio continuo

e incessante,

poi più sotto un pensiero sepolto

accompagnato dalla linea melodica

a tonalità univoca.

 

Nelle gelide nottate di febbraio

bramavo il tuo corpo

come sedotto dalle tue poesie

da adolescente sperduta.

 

Nelle afose calure diurne

di questo tempo

ho cercato di dimenticare

il refrigerio dei tuoi baci.

 

Delle tue parole

resta il sentore

di una storia destinata a non finire.

 

Tu nella villa comunale

 

Tu nella villa comunale

stesa sulla panchina

a mettere lo smalto lilla della sera,

 

comunque il trucco di Gondor

è svelato da un fantomatico

Roll adirato.

 

Il rumore del sapore

delle tue labbra

è condito di lapislazzuli,

 

marmi pregiati da Carrara

ti immortalano adagiata.

 

Il rumore dei colori

non si smuove neanche un po’

dal tuo visino dolce

come il maraschino.

 

Tu nella pace universale

mi stringi stretto

come fossi estromesso

dalle tue cure,

 

ma dopotutto quel frastuono

nel tuo diario appunti una nota

o due,

 

arrangi un arronzato suono.

 

Il tepore delle labbra

col lucidalabbra addolcite

rende amara la sordina

e non puoi suonare

mentre riposi.

 

Il caldo (l’afa d’agosto).

 

Una sigaretta (due stecchini d’incenso).

 

Il tuo quaderno (macchiato di gesso).

 

Un paio di fumetti (Dylan che sorride).

 

Poi del ricordo la cornice.

 

Il rumore dei sapori

è scosso come albori

di cui vai ghiotta la mattina,

alle sette già in cucina.

 

Il rumore dell’incudine

batte forte sulle campane

ed è un risveglio occipitale,

lo dico per mischiar

le tue carte migliori.

 

L’esilio di Partenope

 

Partenope guarda il suo stesso paesaggio

dal mare,

 

le orde sannite

invadono il magico borgo

vecchio dall’incuria non protetto.

 

Lei ha cucito

con le sue lievi mani

bottoni sulla veste

che ricopre il corpo

di sirena incantatrice,

ma si è innamorata

del suo sguardo sbarazzino

come una bambina,

 

tuttavia le orme delle orde

sul suolo interno

si appropriano del suo fascino

senza remore né paure.

 

O mia principessa della poesia,

i cantori anche dopo la tua morte

li hai saputi incantare.

 

Certo, sicuro, è vero,

la nostra cultura

è oggi schiaffeggiata

dalle mani di stranieri egoismi

ma, ne sono sicuro,

qualcosa cambierà

 

in questa città che è simbolo

di una nazione

e della bellezza del mondo

 

città nuova.

 

È questa la ragione

per cui non ti voglio abbandonare

e resto mite

ma qui con te a lottare

senza tregua.

 

E siete ancora seduti

rannicchiati per maledizione

tu e il tuo amante a Castel dell’Ovo

in dolce e atroce esilio,

 

in attesa che le cose cambieranno.

 

E siete ancora chiusi

come in gabbia a scambiarvi

baci salati e leziosi,

 

baci timorosi.

 

Ricordo le leggende

che circolavano sul tuo conto,

 

che cara ragazza

dal trucco vistoso e dark

in mezzo al mare coi pescatori!

 

D’un tratto raccontasti

tutti i tuoi misteri

alle straniere sannite

prigioniere

che del tuo sapere

fecero arma contro il mascolino

strapotere;

 

rinunciasti a tutto

una notte

per avere lui dal bel volto.

 

Ma il segreto più grande,

non lo svelasti,

lasciasti in tuo potere

le vibrazioni dell’amore

che il mondo possono cambiare.

 

O mia principessa della follia,

gli artisti di strada in Piazza

del Gesù Nuovo suonano

ancora i tuoi motivetti

e tracciano i tuoi disegni.

 

Certo, è vero, ne sono cosciente,

ne sono sicuro,

la libertà vera non l’abbiamo

mai ottenuta

ma abbiamo saputo serbare

nei nostri cuori

le culture del mondo intero

 

e sappiamo ancora innamorarci davvero,

nel guardare una ragazza negli occhi

essere sinceri.

 

È questa la ragione

per cui sono anch’io

innamorato dei tuoi sussulti

e dei tuoi frastuoni tumultuosi,

di questo popolo dal cuore immenso.

 

E siete ancora lì,

a guardarci tutti stupiti

della nostra incuria

e della nostra noncuranza.

 

E siete ancora lì,

abbracciati a vedere

come noi ladroni

siamo cechi

dinanzi ai nostri tesori.

 

Traslucide illogicità sensuali

 

La goccia e il petalo inclinato

 

La goccia e il petalo inclinato,

refrigerio del mattino appena arrivato.

Il cuore vittima dello stupore

dinanzi al divino e naturale

spettacolo di colori.

Primavera che genera

un subbuglio interno,

lo spirito che gode del cambiamento,

che indossa a sua volta il nuovo manto.

Diamanti e smeraldi intorno al collo,

l’estro delle tue voglie.

Ovemai chiudessi gli occhi

viaggeresti estendendo

i tuoi orizzonti,

il seme della bellezza esploso,

spiccheresti oltre il monte il volo.

Senza più pudori,

tendente all’infinito del cielo,

al limite del mare,

dai tuoi occhi il clamore.

Amore figlia del tempo

non imbrunisce ciò che momentaneamente

hai eluso,

che credevi aver dimenticato.

Amore non scompare

il tuo desiderio solo fingendo

indifferenza,

temendo invernali sofferenze

atroci ancora.

La goccia e il petalo inviolato,

un sentimento germogliato,

maggio è vicino,

ritornerai.

 

Quando guardi come assente

 

Quando guardi come assente

il rumore interiore che sgorga,

non immagini quanto i mie occhi

fremano al desio di divorare i tuoi,

nel silenzio della notte

il cuore innalza il suo canto inaudito,

verso spiagge lontane fugge

il nostro ultimo respiro.

Si schiarisce il cielo al tuo cenno,

è come tepore il tuo sogno desto,

tra colombe candide il sentimento

sorride e fissa i tuoi pensieri

diretti al di là del tempo e del senso,

senza ragione lasciati andare,

in preda all’entusiasmo,

inizia a volteggiare,

pura come acqua di sorgente

inizia a volare senza dimenticare

il mio viso.

Ti ammiro e ti penso,

quando scoccherà l’ora capirai

che ogni tuo volere è oramai

diventato azione e continua,

continua a ondeggiare nell’aria,

lo spazio nell’animo e nella mia mente

l’hai già tracciato con le tue lievi mani.

 

Beatrice Bronzina

 

Lettere mie leggere

si espandono nell’aria

e vibrano sotto il dominio

del tuo respiro,

il bianco e le righe e gli spazi,

dualità nei tuoi occhi

mentre sorridi furbetta e dolce

carezzi l’aria come specchio del tempo,

sembri dimenticare il sogno

nel tuo viaggio sognante,

mia docile, ardita, stordita essenza,

su questa carta ancora ti penso.

Verrà di nuovo l’inverno gelato

se non rivedrò il tuo sguardo.

Soffia il vento,

il tuo verbo in me.

Quando penso al flusso cosmico

sembra quasi inutile ogni mio sforzo,

avvinghiata nella tua apparenza

irraggiungibile,

concreata e reale invece guardi

comunque altrove e, dai,

a cosa servono i miei brividi

e i miei sussurri, puerili, stupidi,

orribili, suoni stonati,

fascino spento.

È così? Ripeti nell’inconscio

il mio pensiero esposto,

brillantemente fai finta

di niente e non ci sei

quando sei qui presente,

compari e ti imponi se assente,

non serve la mia maschera

né il tuo velo,

getta la monetina

nella mia limpida acqua

e vai via, già lo so.

Adesso imbracci la tua chitarra,

ogni mia nota si è spenta,

sgorga nel mare immenso

il mio sentimento nascosto,

e prenditi gioco,

ancora guarda in alto,

mai vedrai sotto al tuo naso

la congiunzione col tuo spirito,

vai continua,

il mare è calmo e pacato,

mi accoglie,

non c’è male ma non dico

addio sole,

non dico addio a te, mia luna,

in te vibrerò quando non sentirai

che un rumore lontano,

un fiato stranito,

vai prosegui, vai, vai,

vedi che non mi vedi,

distorto eppure così sincero

il tuo sguardo e poi ancora,

ancora io, fruscio del silenzio

e palpito del tuo polso

dai mille odori, tremori

quando non ti appare più nulla chiaro,

stupore, ritorni in te

e non ne hai più bisogno.

 

E non si arresta quest’ultima attesa

 

E non si è arresa quest’ultima attesa,

è già schiuma il tuo volto da piccina,

magari atroce e bellicoso

ma tremendamente decoroso

nell’eccitazione e nel trastullo

dei sensi.

Come sempre indossi

le tre costellazioni congiunte

da una stella comune,

io distratto sbuffo e poi ti guardo,

studiata a fondo,

tre note di disappunto

e trapunto il dito

che ardita adagi

tra labbro e gengiva.

Posi viola, posi sola,

posi come stola,

posi e vola

il mastodontico giornale

nella tribù e nell’asola

dal risvolto positivo e declinato,

inviolato.

Mani da fata sul bonghetto

dal tuo tocco benedetto

e dal tuo polso insanguinato maledetto,

mani che torchiano il tuo braccialetto

secernendo succoso nettare divino

che assaporo indecoroso

e tu sempre più ribelle sorridi

dell’allegoria stampata sul petto.

Rosa sublime e canto di serafini

storditi, traditi,

mangiucchi allora quindi le unghie,

t’incanti, di nuovo mi guardi.

 

L’eterno ricordo

 

E dallo sbatacchio

dell’inclinato ramo

sotto il dominio vibrante

del vento sciama un singhiozzo

che si stampa fisso

tra i tuoi denti sensibili.

L’eterno ricordo

è vittima di un subdolo rimorso.

Pensa,

tra le scorie di gabbro

e tra distese di tenebre,

in procinto di nuove virtù,

pensa ed adorna il tuo capo

con losche foglie di salvia degli dei.

Il rumore lontano

impone il sigillo

sul tuo passo insicuro.

Innalza l’osmosi dritta

in questo tropismo verticale

dei nostri luccichii di spirito.

Il sentimento traspare,

lo vorrei catturare,

conservare come cinguettio primaverile,

come notturno intermittente

accendersi e infiochirsi delle lucciole,

nascoste e intuibili

iniziatrici del viaggio oltremondano,

specchio metafisico del nostro domani.

Ah questa quiete!

non dire una parola,

tra festosi guizzi allegri

si sperda il nostro ultimo intenso

silenzio.

 

La lista della spesa

 

I tramonti mattutini,

lo sguardo dolce dei bambini,

gli atomi scissi

perché instabile è l’amore

e l’elemento,

lo stupido e solito argomento,

altri anfratti,

i drogati alle fratte,

le divisioni ed i denominatori

del silenzio,

l’assenso post mortem,

il biologico tumulto asciutto,

il vuoto kierkegaardiano,

l’assoluto hegeliano,

il vino nietzschiano,

poi,

Ratzinger e Ruini

depressi come l’aquinate,

i cipressi alti e schietti

in duplice filare,

il tuo solito fissare,

la gente che saluta,

gli oblò delle astronavi,

i viaggi interstellari,

le cravatte dei commendatori,

gli assistenti dottori,

i professori impolverati ed eruditi,

le distese toscane e le viti,

i mandolini nelle pizzerie,

i soldi gettati per le vie,

Berlusconi dall’odore atroce,

la Gelmini e il sesso orale

nei bagni delle scuole,

la Carfagna e la fase anale,

la lingua e le sole,

la violenta remissione,

Foscolo e Napoleone,

il tuo cartellone,

due metri di rinunce,

tre metri sotto al cielo,

il codice rocco,

la riforma dell’88,

la rivolta e il decotto,

il caffè con il biscotto,

la ricottina salata,

la guantiera e la sfilata,

i sentieri del coseno di alfa,

l’omega e la gamma,

la costante kappa e la discussione,

fasci di rette e la morale,

rettitudine dell’anima,

cambia i valori

ed i numeretti esponenziali,

quelli delle note musicali,

orientamenti spersi sull’orsa maggiore,

Amalfi con la bussola,

la scuola salernitana,

Dilan Dog e le investigazioni,

i RIS e le illusioni,

i gialli come nettare

estratto dal polline,

la fotosintesi nei cloroplasti,

il nicotinammide adenina

dinucleoside,

il cloruro di zolfo,

il satanico incontro nella solfatara,

acqua avvelenata e bruciacchiata,

la scolara,

poi,

Melissa P che fa l’astrologa,

la solita sonata,

la violenta ondata,

i mesti meticci,

le razze arronzante,

ceppi e assurde stanze,

canzoni duecentesche,

i catari e le donne,

digiuni ed autogemmazione,

fertilità e delusione,

il diritto comune,

la nuova scolastica,

gli esegeti, gli storici e gli scettici,

poi ancora fumetti.

 

L’immagine ha già riflesso

 

L’immagine ha già riflesso

di luce misterica

ed è manifesta nelle tue forme

la più soave apparenza.

Pensarti di sfuggita,

mentre guardi e sorridi

è il mio massimo slancio vitale,

è il solo desiderio, possesso

che so bramare.

La tua veste difesa

da miriadi di soffuse luci deluse.

Come può l’entusiasmo

discendere senza il tuo sguardo?

Il sentimento è già in me.

Nell’attimo del deriso

mio passo giulivo

si articola in forma di arcaica

sonata ogni tua parola.

La brezza, il mattino,

il mio ed il nostro destino.

Una battaglia già persa

in partenza la tua,

bellissima essenza

contro il mio spasmo

che a terra in visibilio

il suo corso arresta.

Tu non ti arrendi pur già vittoriosa,

l’animo mia da conquistatrice

lo sondi e di nuovo splendente

sorridi, folgore dell’infinito.

All’improvviso intuì ogni mossa

quella tua giravolta distesa

sulla radura della conoscenza

e del disincanto contemplativo

e caro al mio spirito.

 

Liceale

 

E genuflesso il canticchiante

messaggio subliminale,

le marchette della sera,

stese adagiano l’atmosfera,

un fuoco lento per riscaldare

i risparmi e le sottane

dell’antro ditirambico

del tuo sogno mai così desto,

immagini che scorrono sul video,

mangiucchianti pac man anni ottanta

e le camice col risvolto

che tanto o poco ti hanno sedotto,

poi tanti saluti su cartoline

dal ripiego così carino,

così impresso come big babol,

continua e coglie nel segno

l’erba che invade e sbaciucchia

la zona e i baretti del centro

nervoso, un po’ l’accumbens nucleus,

di svolazzare come lingua

tra le tue labbra raddolcite

dal video gioco

con polso deluso e slanciato.

Ma che bello!

un ricamo ad occhi chiusi

per altre vie,

sul condiscendente astruso furetto

che ti ha delusa,

manca la dolcezza

nella pecunia verbis,

nella piscina stesa

o forse più eccitante a galleggiare

inversa sulla banchina,

dici sì, dici no

caricatura buffa,

dolce immagine animata

virtualmente realizzata.

Ma gli anni sono ormai chiusi

mentre apri rovistando

quei cassetti,

ti frughi poi la borsetta,

ancora segni di tabacco

e le cartine per altri mondi

sconosciuti asciutti

eppur districati

tra i tuoi contorti discorsi

allo specchio temendo

ciò che c’è in te più puro e oscuro,

e che bello domani mi nascondo

tra i rami come usignolo

dal bel canto,

poi il viaggio in treno

ed il ripasso svelto in fila

tra le mattine d’aprile al sole

a rincorrere come vignetta

il disciplinatore

per non essere avvistata

dalla torre di guardia,

io che premo il tuo naso

sulla spiaggia.

Magari poi da confusione

e da diniego il manto levato

e poi l’occhiolino,

il mastichio che si fa più intenso,

dai vieni a cena,

non fare tardi,

dai ricordati,

o resti o parti,

rassicurata dalle maree

e dai delfini in circolo a guizzare,

corteo da mille forme.

Ah che poi farò,

l’auto da fè dei miei pensieri

autocondannati ed imposti

come se fosse neve

il tuo silenzio il tuo ricordo

che ormai più non c’è,

la fretta che ti invade

l’albero della vita

dal frutto colto e rinfrancato

dai tuoi continui giri

e destinato a viaggi ad occhi chiusi.

Incartucciata un po’ avvilita

la voglia viene,

è d’obbligo il saluto,

un cenno o solo il miagolio

di te arruffata e un po’ attizzata,

mi graffi già come se avessi voglia

di imprimere il tuo marchio

sul mio braccio e sulla fronte.

Eppure muove un alito

di cuoricini, il tuo diario indotto

allo scribacchio da incunabolo

amoroso,

da vorrei a gaudio dei.

Ecco è arrivata la luna sola

e sondi il meticoloso intorno,

delimitato il tuo fiato sul vetro,

in cartongesso il nadir

è già svuotato e incappucciato,

sguardo e testa bassa,

sul pavimento il corpo teso

a goccia precipita,

inclinato a destra

dal tuo occhio.

La fluorescenza sulle mani

dell’evidenziatore iniziatico

e diretto,

lo tracci il colpo di netto,

passerà anche stanotte,

la tele spenta e sfocate

le tele che non hai mai avuto

il coraggio di trinciare

da tritacarne la tua brama negoziale

e non contraddittoria

né compromissoria.

E poi continua la tua folle

impresa da ragazzina

contro valanghe e nubi

e contro te,

contro ogni destino

ed ogni tempo,

ma lui dov’è?

Più non c’è la voglia

se non puoi sfiorarlo,

non puoi.

 

Un attimo e giri

 

Un attimo e giri.

Ed ora che mi dici,

non c’è la tua serenità,

qui tra gli alberi in fiore

e gli ammassi di lattine,

continui come sempre a fissarmi.

Ed ora come va?

Le solite occasioni

e poi altri scritti e graffiti,

la birra d’un fiato

ed il fiato graffiato dalle sigarette.

Ed ora ti distrai,

sei languida e vorrei

penetrare a fondo

dentro gli occhi tuoi,

l’esplosione di colori

nel pudore enfatico dei gesti

e delle perline,

e vai, che sei grandissima,

immensa tra le ortiche,

il lastrico dei baci gettati,

e a questo punto è tutto più strano,

già pensi ad altro,

esula la mia parola

dalla mia persona,

resta il respiro mio

appena appena da te intuito,

e vai, che sei magnifica

lettrice, reggitrice,

regina, vetrina del tempo.

Ed ora come mai i tuoi giorni

lieti sono estranei ai miei?

Con il dito all’in su tracci

il danzante entusiasmo

delle cose di voi umani,

io ormai lontano

già intravedo il buio

nei giorni miei

e tu sorridi,

distante l’ultimo riflusso

di felicità condividi,

ti alzi e te ne vai,

la panchina vuota lascia un’orma,

la tua aura non mi abbandonerà,

ma tu non sei più qua,

a due passi la follia,

vai via.

 

Nikkal

 

Coperta di gemme

ti sollevi quasi abissale

come vegliardo sapiente

la tua anima capiente

e lo spirito ricolmo di te

esplode mille bellezze,

si adagia sul tuo corpo

il velo del pudore e del sentimento

puro, un passo vibrato nell’etereo

ed il circolo ricolma

di splendida bontà

il vuoto trafitto e soccombente.

Ma che ardimento

osare contro l’ignoto,

che temperanza nelle scelte

e che equilibrio nelle eterne

ed inflessibili decisioni,

così iniziò per gioco

e non ti è mai sfuggito di mano

il destino,

servo di una volontà possente

ed invincibile

in quanto sorda a richiami

che non vengano dalla tua divinità,

furente la fiamma

dal tuo dito sgorga e s’impone.

Che confusione invece

generano le mie palpebre

al passar delle inutili immagini

cui mi soffermo,

coglierò mai un giorno

l’assoluto dal lento schiudersi

del fiore incantato

della verità sublime?

Le tue mani tendono

dall’alto e sfiorano le mie.

Sui rotoli è impresso

il tuo sigillo indelebile,

loquace e universale,

sembra un canto

dalle cento sfumature,

tre linee melodiche si inseguono

e convergono sulle tue labbra,

il fiato che secerni plasma

e dà vita all’aria

in un vento primaverile

trasformata

e di incenso profumata.

 

La nebbia ed io sommerso

 

Quando ascolterai

dal silenzio fiorire

questo tepore d’incanto

il flusso dei tuoi pensieri

diretto verso me

sarà baluardo di una gloria infinita

che oscena già mostri.

Allora vedrai le tue mani

improvvise gelare come foglie

d’autunno sperare e colorarsi

di assurde speranze

il piede della stanza

in tutto il suo splendore

sarà dell’infinito l’odore,

poi verso nubifragi

il tuo sorriso settembrino

e partenopeo,

strizza l’occhio

nei pressi del golfo del caos,

mia candida violetta ingiallita

ed impreziosita dal sapore del tempo

che sfinito non muta

le tue forme né il tuo splendore,

ah mia cara

e che splendore!

Uh il faro d’Alessandria!

il mio ultimo approdo,

di me inviolato sulla barca

degli ultimi sapienti

alla folle ricerca

dei rotoli perduti, bruciati

e dalla cenere rinati,

come te che splendente

colosso multiforme,

prolifico e facondo illumini

me

e ciò che ho attorno scompare,

le mie paure figlie dell’ombra

e tu padrona degli altari.

La nebbia ed io sommerso.

Poi figure apparse,

scomparse

e infine pensate e generatrici

di nuovi linguaggi,

le cellule specchio

nei pressi del Brocca

e il nuovo linguaggio imitativo

e balbuziente

ma pure tanto potente

da infliggere scosse di vita

tra foglie di ortica stuzzicanti

le tue brame ancestrali,

che voglia mi viene

e che contemplazione

nel vederti nei pressi del pesco,

guarda uscito in fantasia

più da me non esco

e ritorno su passi già tracciati,

mi vedi che cinguetto

come ultimo rigo del passo

di ornitologia che fisso

nella mia mente

imprime melodie

al passo con fruscii di criniere

ed è a quel punto che ti avvicini

e mi baci col tuo fare classico

e diffidente e distratto,

eppur stordito e stupefatto.

Ahi raddolcite dal miele!

le tue note rilesse

con oscillazione di mano

e stereotipi densi

di senso surrealista,

ma che goduria vederti

come stilema lontano,

come carezza che pullula

e si declina dalla tua mano

dalla cadenza triplice e greca.

La turba dei ricordi

si addensa a sua volta

ed annega me già sommerso,

è un attimo e senza difese

resto in preda di te,

mi guardi e mi sfidi,

poi dici,

dai, continuiamo!

 

E’ sera

 

Ulula il vento

tra le scogliere ove si infrange

sperso uno schiumio arso

dal tuo sguardo.

Da fronda a fronda

la costiera è un luccichio

mentre il silenzio che splende

come asciutto dal mio spirito si spande.

È sera,

sul tuo corpo in folgori dipinto,

il chiaroscuro del cielo

è dal tuo incarnato illuminato.

È sera,

sui monti che limitano

il suono e la vista,

sulle nostre ali acciuffate,

stanche negli approdi

ma pronte a un rapido guizzare

se colte da mani capienti,

se curate da assoluti respiri sul collo.

È sera,

dalle tue mani,

sapore dolciastro tra nubi

abbondanti come frumento

di prima estate,

è un sentiero quel sogno

che inumidiva i nostri occhi.

È sera,

nel refrigerio dell’ultimo senso,

nel quiete vagare ormai spersi,

cittadini di mondi perduti.

È sera,

ed i tuoi abbracci bramo,

destato da giorni di subbuglio

alla finestra mi scorgo,

il tramonto è l’inizio della nuova era,

dell’ultima aurora,

della più pura stagione

che attende i nostri passi

da troppo tempo corrosi

dai flutti del mare.

 

Giorni dell’oblio

 

Il tempo guizzava

come matto tra le restie fogliette

di valeriana a ciuffetti,

giorni dell’oblio.

Incupiti sui rami i corvi,

cianfrusaglie nere tra le fenditure

della reggia serale e dai canti corali

all’eccitazione destinati.

A volte passeggiavo pensoso

tra le ginestre,

poi mi voltavo ed era già giorno,

cominciai a inseguire

le mie voglie divine

coltivando contemplativi silenzi.

Apparve inaudita ed inaspettata

sul far del meriggio

di un maggio da intensi profumi,

poi con un soffuso

schiarir di carezze

illuminò sfiorando le rose

e la frescura dei ginepri,

l’intelletto disincagliò l’immagine

impressa dal nous al logos,

al gesticolio stuzzicante.

Il solstizio nella notte di San Giovanni,

le lotte lucide mentre mi incantavo,

audace celavo indecisioni

alle tue deduzioni sillogistiche.

A volte distillavo l’alcol

dai fiori sperso,

lo univo col sapore

delle nocine immature

e pullulanti di verde aromatico

ed etilico.

Apparve lieta

come falce di luna

e senza un fiato ingigantì

le spoglie mortali

innalzandole agli altari,

potete soltanto lasciare spazio

alla fantasia ed intuire

ciò che vidi impresso indelebile

su lapislazzuli.

 

I mandorli magici

 

I mandorli magici

ed elusi adombrano

la tavola

imbandita per la festa.

I clavicembali a doppia coda

dell’occhio rinchiusi

in un cristallo allietano

la soglia delle pluridimensioni.

Una ragazza porge ciliege

decorate coi raggi del suo cuore.

Buona giornata!

è già arrivata la brezza

del mattino in riva al mare.

Ah come è sincera

questa spremuta d’agrumi!

diffusi sul polso

da effluvi fluviali

di cuccagna paradisiaca.

Come ti senti? Che dici?

Ti corono d’alloro?

Dai fuochi delle torce diurne

si intravede il veliero

come adagiato su cieli turchini

d’incanto all’orizzonte immobile,

ultima stella fissa

nell’epoca del moto circolare.

Una schiera di pini mediterranei

incanta e le zingare furbette

fa sognare.

In groppa alla nuvoletta

arriva Erato,

con la lira melodiosa

alla mia penna leziosa da fiato.

Dopo l’addio

lei disse,

il domani non so cosa sia,

ma oggi tu sei di nuovo qua.

Ti sei mai chiesta che altro

può farci una ruota di bicicletta

capovolta su uno sgabello

se non dettare una regola di condotta?

E come mai l’inconscio sepolto

è un porto sicuro ungarettiano

di naufragi in trincea

nel dantesco montaliano

al concerto dei Pink Floyd

dove, può darsi,

sia possibile fare ancora poesia?

E dal tripudio dell’ultimo giorno

si adagia il messaggio

a segno primordiale

e figurativo

e non fonetico

ridotto.

 

Hator Lilith

 

Lo specchio che ritrae un’immagine,

la tua,

donna angelica del nono cielo,

del cerchio roseo

e dai canti in giubilo delimitato,

pullulante, intransigente e tollerante,

avvicini alla bocca il bicchiere

col succo di mirtilli,

stuzzica gli elementi

ormai cotti di te,

muovi gli oggetti col pensiero

e leggi nelle menti

e nel cuore delle genti,

cari al tuo dorso

i simpatici gattini

che assieme a te

e succubi ai tuoi ordini

aprono varchi

tra sensibile ed etereo,

la tua voce limpida

schiarisce la volta

densa di luce,

pone il quesito il tuo vestito

finemente ricamato,

ascolto stupefatto

l’ultimo aneddoto

raccontato a suon di accordo

assiduo ed ipnotico,

il mio spirito interamente

dalla tua voce catturato.

“Si illuminano le stelle

ad ogni vostro pensiero lieto,

nella riflessione e nella speranza

l’universo sussulta.”

Ed anche le migliori ondulazioni

si uniscono nel punto

dal tuo indice mostrato,

le ninfe sono serve

e le sacerdotesse profetiche

aspettano calme il tuo cenno,

il tuo vocio di marzapane

imbandendo sacrifici

di gemme e di frumento,

l’umidità delle pareti

è uno sgocciolio di sensazioni,

cattura i nostri desideri

con meticolosità e con furbizia sincera,

prima dei monti il mare

era un formicolio inquieto ed agitato,

si ersero i colli,

si alzarono le catene imponenti.

Ti prego non svanire,

non dissolvere mia lucciola,

ti conserverei nel mio petto!

Volatile farfalla

variopinta diurna,

sarò domani, facendo l’occhiolino

mi dicesti.

Legami magnetici

mi legano a te,

creatura divina,

mia causa motrice,

mio motore degli eventi.

La polvere è l’orma

del passato annidata sui libri

e pronta a raccontarci

ciò che le pagine scritte

lasciano all’immaginazione.

 

Resterà la tua parola

 

Il vento, l’onda, la corrente,

le sincere ed affiatate attese,

i tuoi occhi, i tuoi dipinti,

i tuoi accostamenti figurativi,

i tuoi sorrisi,

guardi l’anima da fuori

e non c’è gravità se sei obliqua

sospesa sul letto,

se pensi e sei pensiero,

fuoco rarefatto

il voltaico magnetismo,

il tuo riflusso ed il cristallo,

la pagina macchiata di caffè,

l’odore di fumo e l’arioso tuo opposto

che già senza resa ha immanente

un che di te

nella pronuncia del nome,

la maglietta alla rinfusa

tra le scarpe slacciate

sul pavimento

e il paradosso dell’egittico rito,

pietra azzurra al collo

mia padrona e regina

di sventura, il messaggio

sulla scrivania e la firma

appena appena intuita,

scrivi ancora

come una bambina.

Le rinunce, le veemenze,

nessun risultato nelle scelte vane.

Poi il raggio non capisco

come faccia ad essere

così coinvolto e così tranquillo,

sembra quasi non gli dispiaccia

scomparire e riapparire,

sembra quasi non disdegni

le nuvole, la pioggia,

l’afa, la riscossa

dell’armata sepolta,

delle dodicimila schiere,

delle tue indomabili fiere maestose.

Guardo ancora

come dietro ad un vetro

i tuoi ricami e i tuoi intrecci

tra le mani,

le tue favole senza morale,

le tue fiabe dai castelli incantati,

le tue tracce da maestra,

da scolara, da ragazza stupefatta,

da donna esterrefatta,

da furiosa Euridice

dolce dei sogni incantati,

saggia ragazzina da salvare,

indifesa ma con consigli

da impartire ai salvatori

sognatori dal bel canto

e dal rimorso

alle porte del nulla

che si impone

ma mai vincerà,

tra le tenebre illuminerai

un soffuso chiarir limato

dalla tua magia da messaggera.

Resterà la tua parola.

 

Carmen

 

Dal tuo sguardo misterioso

catturato, il ricordo è districato

tra luci e nebbie,

il tuo rossetto orma

del mio canto e tu singhiozzi

a mala pena

ed anche una parola persa

tra le mie mi socchiude

gli occhi, in una nuvola oscura

e tu risalti croma di Mercurio

ermetico ed evidente, no,

non una nota in più,

ogni cosa troverà senso

e lo imporrà se ti volti di nuovo.

Crederesti solo nella musica,

piangeresti fino all’orlo

dell’abisso tra le danze,

tra fuochi sospesi,

in modo più candido

e più pernicioso,

in modo disilluso,

incantami ancora con il viso

ad incantesimo proteso,

l’anello dei domani ritorna

come pioggia,

ritorna come aria,

tra amore ed entusiasmo

della nostra cara profezia millenaria.

Renderai la stanza

una storia dal clamore

e dalla gloria impreziosita,

scoprirai le mani

ed accennerai il pensiero celata

dal tuo velo di damasco e di smeraldo,

il verde con il viola,

il corvino con il rosso,

muti con il tempo e saturnina

e lunare sei complice

di questo mio assurdo

peregrinare tra epoche e leggende,

tra musiche perdute e consumate,

scosse e intorpidite,

poi d’improvviso sprigionate

nel momento del diretto

tuo sguardo perduto

e navigato

ma mai dimenticato.

Gradisci del tè?

I passi nella notte

tra viette solitarie,

i tuoi discorsi, le tue illusioni,

le tue mani che dirigevano

il cosmo,

poi le chiari acque

dissetanti e purificatrici

e ancora poi,

poi il trottare mentre cammini.

Ed ogni cosa si stende

sul tuo corpo

mai così annunziato e lodato.

Parleresti ancora se invocata,

muta oppur loquace

sulla sabbia

come simbolo tracciato,

dal vento cancellato,

nel mio cuore scolpito

e fossilizzato ma reso vivo

dal tuo nuovo sguardo interrogativo,

voluttuario ed incendiario.

Scopriresti il corpo

con la grazia delle nuvole,

colpiresti e affonderesti

il mio stupore

senza temere il paradosso

del nostro risultato

da tempo ricercato

del significato più volte

dall’inerzia di chi è sordo celato.

Ecco i tratti di penna

sul tuo diario scritto

ormai da troppo tempo

e da troppo tempo abbandonato.

La speranza nelle altrui speranze

e inclinazioni,

l’innamorarsi di figure e desideri,

di intelletto e di poesia,

di anima e manifestazione,

di ricordo e di vaghezza,

di rifiuti di compromessi,

di una ragazza sola

contro il mondo,

della fortuna, dell’audacia

e della tua contemplazione straordinaria.

Ordine divino tra le braccia

senza resa e senza viltà

la tua ricchezza, colme di tesori

che il tuo spirito sovente

con un tuo cenno mi regala,

la mia mano verso la tua tesa

si prepara

a dimorare nella tua fortezza

possente armatura,

lieve bollicina,

fragile cartapesta.

 

Piove e intanto guardo

 

Piove e intanto guardo ancora,

distratto penso,

la sigaretta si consuma

ed è già un’essenza disattesa

l’eretica pretesa,

polvere e fumo dal fuoco,

e ricordi che erano care

da tempo a noi le albe,

i tramonti,

gli sguardi persi,

stare al buio abbracciati

e cullati da l’ultimo respiro

che sembra assurdo

ma incendiava il mattino,

l’albero in fiore e il nostro destino.

Come dici? Le stesse parole,

quelle di sempre. L’acqua

e gli schizzi alla fontana. Impressa la goccia

ora alla finestra. E la gente che passa,

che traina il suo peso vitale,

stanca come i miei occhi,

sfatta come le mie mani,

spossata come il mio domani.

Puoi non ricordare

questo soffio inutile

sul far del giorno o della sera,

puoi pure continuare

a tracciare assurdità tra i rami,

puoi pure sognare

di andare al di là del tempo,

ma se non esplode più un tumulto

dei sensi nel mio cuore,

nel rimorso e nel dolore,

cosa resta? Dimmi,

cosa resta?

A volte è più difficile

disarmarsi

che combattere a denti stretti,

non so più camminare

con le mie ali,

sì sarà una frase già sentita,

già abusata e violata,

spesso è difficile riconoscere

Petrarca da un petrarchista

cinquecentesco,

a volte poi bisogna accettare

questo folle compromesso,

rinunciare alla felicità

e all’incanto per avere in cambio,

giorni uguali tra le mani,

Baudelaire simil tardo novecento.

Puoi ancora discutere

allo specchio

con lo sguardo

su l’ultimo fumetto,

puoi incorniciare il sopruso

di una melodia che infierisce

su un corpo,

che trascina intorno

alle mura una spoglia

ormai sbiadita e stranita,

ormai relitto affondato e perduto,

rotolo estirpato e bruciato

come erba marcia,

inutile e dannosa.

Cosa resta? Dimmi,

cosa resta?

E le orme sulla brulla terra

sono tutto ciò che ancora

non so cancellare,

ciò che non so dimenticare.

 

Selene Oscura

 

La via della desolazione sublime,

il canto di civette,

le solite sguazzanti brame sopite,

le altre invece pronte all’attacco.

Non è qua, forse là,

rinchiusa in scettro

nell’albero immortale

e non maledetta perché altera

rifiuti la sottomissione

e godi nel dominio ancestrale,

sotto i tuoi colpi

non c’è nessuno che possa

osare sopraffarti.

È dal rifiuto generato

un idolo che arresta

ogni pensiero alla deriva,

alla rinfusa, alle tue labbra declinato,

i racconti, quelli tuoi

e che racconti,

sogni a cuore denso,

rifratto e convesso.

Autunnale fiore destinato

al potere sapiente,

dall’arte mai succube

alla natura e al vento,

mio amaro dolciastro,

maledetto germoglio,

sorgi, imponiti, e possiedimi

dal buio alla scossa

di centomila motori

nella mente,

follia contenente,

percezione esponenziale,

vittima io di quest’assoluto

iperlunare.

Il sapore diviene logos

improvviso,

il segreto hermetico

candore manifesto,

l’entrata blasonata

dalla tua immagine funesta

superba apparenza.

Ecco,

non credevo e non credevi

forse neanche tu

di trasfigurare in magico

diluvio universale.

Ti imponi ancora e dici,

ti attendevo,

porgendomi la bocca,

mio sollievo, nel pianto disilluso

del dolore rigeneri

il mio spirito

con sonante candore

di cornamuse mai stanche.

Ed io, solo coperto

del tuo manto, a lottare

contro l’ultima ingiallita

ipocrisia scolorita,

o forse a sognare

cogli occhi spalancati,

mentre cammini,

mentre mi chino.

Ti presenti,

eccoti in tutto il tuo fervore,

eccoti tutta nel mio stupore,

nell’antro del tempio

ormai dimenticato

si riaccende il tuo fuoco

di venerazione ora inestinguibile.

E per te un verso

dell’osmotico piano,

del cianico fulmineo

melodramma stranito.

Eccoti sei qui,

eccoti qui.

 

Dissoluzione del tempo

 

Mi vedo,

scemando giustamente

in dignità,

annullare,

assurdo giullare,

questo frammento tutto nostro

disilluso

di clamore

figlio del tuo violento peregrinare

con immagini e demoni,

sintesi gotica dark,

emo spiritica.

E sento parlare,

dalle tue mani sentieri tracciare,

dai tuoi seni cascate inondare

il mio anello di centurie

destate al fischio del vento.

Ogni forbito monolinguismo

calca su parole del destino,

rovina e mistero,

una passione sconfinata e sinistra.

Avrei bisogno di stendere

un tappetto di ortensie ai tuoi passi,

di diluire ancora le viole del pensiero,

di berle mescolate al lete zampillante,

e le Esperidi gustano

le mie parole in cambio di frescura.

Uno sforzo intellettuale sovrumano

e la follia nell’amplesso di te

eternamente vergine dea,

è una scandita introspezione

che esalta l’Es.

C’è necessità di navigare ancora,

la verità che si presenta agli orbi

non è uguale a quello che,

senza spiegazioni, il tuo abbraccio

carnale mi sa dare.

Poi nello spasimo susseguente,

la dignità risulta inclemente,

stretti nel fatale universale

incrocio di sguardi.

Mi accorgo, mentre ascendo

verso alture a respir di vento

interiore,

che non ha senso pianificare

il domani che non è concreto,

resta solo l’oggi

come ricordo delle spoglie

passate di eventi

che in realtà sono attuali.

Non esiste infatti,

nota bene,

alcuna verità se non istantanea,

tutto è concretizzato

nell’infinito di quest’attimo,

l’unico reale,

l’unico specchio del vero

e vero al tempo stesso.

Promana l’apparenza

come unica essenza,

carnale, spirituale,

ed animazione della virtualità mentale.

E tu continui a guardare…

 

Premi e prendi lo scettro per me

Ed all’introspezione segue,

come onirica forma,

l’immagine della mia storia

capovolta, effige e simbolo

arboreo deluso,

schema profuso

in bollicine catarifrangenti

ai colpi lunari accorti,

guardando flashato

l’ammasso di cespugli

la mia mente è ovunque,

qui, nel bosco, nella radice,

nella brina del petalo

dalla dolcezza inesprimibile,

raggi gamma e delta

schiudono l’entalpico valico

mastodontico della scogliera prealpina,

dici la filastrocca ligure

per ricordare l’inverno,

le dolomiti,

l’iniziale montuosa,

è giorno, è notte,

è oplita chiuso a serratura

nel meccanismo di cottura,

risponde all’intralcio intrecciato,

è godimento, tutto d’un fiato,

salmone lungo i fiumi,

accoppiamento dei vitruviani perfetti,

dei martoriati aneddoti duecenteschi,

ex cathedra i miei gorgheggi,

apre il la sineddoche

all’anta del femmineo,

pendolo, pendolo,

dici, pendolo,

eppur si muove

come ubriaco il cosmo,

getta col fumo un altro fiato,

nel passeggiare tra taxi di Virginia,

un po’ malaticcio il maestro

dalla bacchetta funesta

sull’orchestra di biro consumate,

dall’accendino rinvivite,

frollate, svilite nuovamente,

e tu coi tuoi occhiali

rispecchi l’ignoto.

Uh! uh! uh!

Cambia tutto e muta il tempo

questo canto rapace,

e lo sai, va lenta la musica

come i tuoi passi, scheletri

nei sogni del cassetto,

memento mori,

giro il leggio romito del ghiro,

ed ecco, in fondo non sai

ciò che so,

my baby, sorseggi champagne

rinchiusa nella fortezza

di piombo,

you shot me down, il collage,

l’aura scintillante nello cin cin,

e foto cheese

e foto catalitiche e dodecafoniche,

e foto istruttorie, e foto decisorie,

e foto archetipe,

l’aureola celebrale

degli illuminati oscurantisti

da virtù enciclopediche bruciate

e rigenerate in dispersione

silenziosa, in principio era

il suono del verbo e l’infinito

era architetto del suono

e suono al tempo stesso,

e disse sia il corpo,

e disse infine

sia lo stesso sedotto,

anima mia.

Uh! uh! uh!

E le ragazze indiane

nella genesi erano membra

della casta più alta

e dominatrice,

poi il membro con forza bruta

volle soccombere l’intelletto sapiente,

non ci sono ali in floreali miscugli

e la donna continua a volare,

messaggera di bellezza universale,

quando l’amore comunica in alleanza

e non evoluzione,

plasma ma non modifica,

è tutto uguale,

ci ritorni domani? Lascia fare.

Lei è il futuro che è in me,

scioglie i nodi e li riannoda

al dito perverso,

ah che candore! Lei dice

cos’è l’amore,

viviamo di svolte,

contropartite per eresia etimologica,

tre flash tutti d’un tiro,

triplice molteplicità unitaria,

triplice stupore,

sguardo assente

e dunque colmo di vita mistica

che genera splendide creature

sul bordo dell’amplesso

di chi rifiuta sottomissione,

ti voglio, oh sì! Sei splendida stasera!

Uh! uh! uh!

È giorno,

è notte nei tuoi occhi,

confuta l’ieri, confuta l’ieri,

è già oggi domani,

confuta e ridi,

fonetica mostra, ottieni nove,

nove tu, il mattatoio sentimentale,

folklore rock,

il minimal junghiano,

e colla colla tracci una scia

di sidro sidereo,

e c’è feeling tra noi,

le tue gambe tra le mie

cavalloni spumosi,

premi e prendi lo scettro per me,

premi e prendi lo scettro per me,

dunque,

premi e prendi lo scettro per me.

 

Caro amore

 

Caro amore,

ciao, buona sera!

Come ti va la vita?

Ti penso ancora ed ora,

quando andasti via,

ricordi quella atmosfera?,

caro amore, l’odor della pioggia,

volevo che il tempo non continuasse

a infierire su ciò che di più caro

il nostro tesoro interiore conservava.

Caro amore,

e passò anche la sera,

venne la nostra notte,

stesi i corpi lì,

non ci fu seguito

a quel bilico intellettuale,

era tardi già,

l’erba che fumava,

meglio il fumo

dicevi in delirio,

ma pensavi

meglio scomparir,

non sai sfruttare

ciò che di più puro

noi avremmo potuto fare,

e soffiava il vento,

lo ripeto perché la dolcezza

è unica e continua,

non si può mutare termine

per districarla dalla realtà.

Caro amore,

e ti incendi già,

sei sensuale e carnale

mio sogno,

sei così concreta che avvampi

a fiumi e a guizzi,

ma rimani tu,

e non è domani ripetevi,

questo non lo scordo,

ti piaceva giocare,

mentre pensavo

tu già mi sfioravi e dimenticavi,

ti andava bene

e meglio dunque se non ci fossi stato,

in conclusione.

Caro amore,

sono tuo per sempre,

questo dicevo,

tu non ne vale la pena,

confermavi il destino

ed eri lì.

 

Fenicotteri al mattino

 

Fenicotteri al mattino,

l’attimo dell’arrotino

rovente tra fiori

e piante sconosciute,

la spada già affilata

del viandante oltre l’oriente,

nella terra del serpente,

tra i tre fiumi della civiltà,

gli sciapodi cinguettano a saltelli,

levigati come saltimbanchi,

cantastorie alemanni

dall’egittico risvolto

a sorso di bacco,

una domanda,

la sfinge guarda,

poi Agamennone osteggia Elettra

tra Cleopatra e la vendetta.

Un sorso di rum attorno al fuoco,

oggi era Venerdì,

sarà dipinto di piume,

sì aborigeno perduto

tra gli echetti innamorati di Narciso,

e passa al timo difensivo,

un’indicazione stradale

abbozzata sul biglietto per il concerto

mentre audace sfonda le porte

la sfilata di damigelle eccitate,

dalle nuvole celate.

E le onde aromatiche

delle lente assurdità

postano battute,

mi piace la dignità delle immagini

accompagnate ad aforistiche

pretese di verità,

perle di stoltezza

adagiate a cazzo

tra lo schermo e la banalità,

i manga culturali,

nello zodiaco il castello di Tubinga

degli anime sul finire

degli anni ottanta,

come sono belle

quelle forme della giapponesina

che ha lineamenti occidentali,

che ha tarli occipitali,

che ha barlume di sensualità

nelle fossette delle guance,

poi il ponte di Brigitte

un tempo era gettone da duecento lire,

me lo cambi devo recarmi

alla cabina

o in sala giochi di giovedì.

Una risposta allo stress

potrebbe essere la risorsa

dell’accesso ad occhi chiusi

tra le gocce odorose

di pioggia d’aprile,

ronca la rauca sbronza,

un trancio di Margherita,

arrostita la retta via,

dallo spioncino il Martini

barrato a sette,

come candelabro segreto

il nostro agente,

una scura chioma danubiana

segna il confine dei musicisti

che bramano librettisti italiani.

Alt,

il berretto somigliante

al tuo passo claudicante,

il mandolino, la verticale,

la paradossale calippica filippica

apologetica ed apoteosi

infine del brume burro squagliato,

buono il gelato.

Alt,

le risate,

due graffi sul corpo

ed un entusiasmo da riposo

letteralmente affine al vizio kierkegaardiano.

Allibita la ragazzina

nel guardare il manto stellare,

stringe la mano ad un’altra retata

dei sentimenti in sulla spiaggia

di Vietri coi sassolini dai dodici colori,

coi suoni in scala, dodici note.

La betulla fuori la tettoia

soppiantata da una gardenia

intesse frammenti poetici

disquisendo col bulbo gravido

e gravito tra le foglioline.

 

Ragazza dal bel nome

 

E così passeggiavi senza pensare,

girovagavi lungo i viali,

fischiettavi e mi guardavi,

non c’è remora che tenga,

non c’è la tua vita,

la stessa è una giostra

tutta in salita.

Quando ti fermavi

ed impostavi le gambe

mi salutavi,

come ti senti?

Spero tanto stia bene

reclinata come cigno sulla strada,

risplendi e dici sì.

Ragazza dal bel nome,

trotta ancora un po’,

è primavera giù per il centro,

il sole estende il suo velo

lungo la strada sul far della sera,

divori ancora i fiori?

E poi la notte

la frescura ci inondava,

come clessidra introspettiva

era lo stampo di gesso

dell’idea amorosa

che luccicava catarifrangente

ogni realtà, ombra della luna.

Ragazza dal bel nome,

rolla ancora un po’,

fai la perfida,

fai la profumata essenza

in quanto liberata dal giogo

invernale dell’Ade,

i campi germoglieranno

se ti volti verso di me,

tornerai al tuo eden.

 

E la stella dov’è?

 

Sopra fiato e luce

e slancio vitale tu, muti

la brusca fessura del senso

ed incalzi,

il discorso procede,

salti l’intro miscelando

la dispositio ed intessendo l’elocutio

come corolla tropicale,

occhio reclinato alla frescura

fenicia coronata di gemme

ed incastonata nella porpora

adagiata come manifesto poetico

eclettico anzi il sincretismo

del granello infinito,

quanti anni hai ragazzina

di novemila anni fa?

E vola la farfalla

variopinta e decorosa,

i begli orchestrali sulla tua bocca

di fragola e di gelso.

Poi mi aspetti alla porta.

Quando vivi, dici,

dici e menti

con la sagoma elettrica

della melodia.

Parli canticchiando,

citi i Veda e il divino

tratto d’oc che non prevalse,

quando alla dolcezza

preferirono la arroganza,

la saga tratta dall’anello,

dall’Orlando, Reginaldo,

Armida ed Erminia tra i pastori,

la censura,

et in Arcadia ego,

Anceschi bendato. Solitario e muto

il motivo antico,

gli stilnovisti ottocenteschi

partenopei e monolinguisti

e tricromatici,

le tue mani già scendono

tra le mie,

forse maggio ti è caro,

ti è caro angelo di bontà,

monti la panna traducendo

l’Iliade da traduzioni già fatte,

sei già qua?

Forse è colpa del tempo

o della lancia spezzata,

la versione sulla scrivania

e la tua preziosa bugia,

il telefono spento.

O ragazza,

mi stringi i fianchi?

O ragazza,

mi scagli dardi?

tanto a dir non ci provo,

non volo se non mi dissocio,

cos’è la realtà?

Poi il fuoco che è spento

non riarde sistemi di carne,

costrutti mentali arruffianano

i tuoi capelli arruffati,

stile rubato ai sumeri,

gli accadi meticci

sognano i barbari biondi

come dei,

ecco i giganti nei Pirenei,

il cero è riacceso,

triremi tremuli al tramonto.

E la stella dov’è?

 

Inizia una nuova giornata

 

Inizia una nuova giornata,

il granchio abissale

unendo i punti,

porgerò un complimento

a questa follia zampillante

dalle scorie portuali,

vola il gabbiano come nascosto

dalle discussioni nubilose

del sintagma decoroso

e trovatore della schiuma

intorno fa la ola,

trotta con grido

da astronauta sconosciuto,

da altezzoso ammiraglio

dei destini già sbiaditi,

così scorge il segmento

del sentimento

e il limite puntiforme dell’amore,

neopitagorico infinito

tra fave e pecorino mortali,

campi e bivi,

libera morte, libero scambio

di baci.

E nonostante i tuoi silenzi

continuo disilluso,

si scioglie il nodo

pugno di scimmia demoniaco,

ti guardi le scarpe siriane,

invidie deliziose,

amarsi come fosse

vento l’amore, spirito,

logos e torpore

in congiunzione carnale

mentre tu violetta continui

ad ansimare bocca di leone

nel godimento lanci un urlo metallaro,

posseduta dalla voglia snervante,

con uno sberleffo al cielo raro,

sei logorroica e prolissa

nelle spiegazioni,

cartucce spiegazzate.

Lode fine a sé stessa,

gatto da rimessa

in scatoloni criptati

da segni indistinguibili,

pozioni fumante,

tre gocce di brina,

poca salvia,

spruzzata di adoxa,

bacche di acai ed aquilegia,

potrebbe essere un deragliamento

conscio delle attese appassite,

uno strano boccale

colmo di acquavite,

ed ora sei di nuovo mia.

La nascosta toppa

dell’epoca lunga del giorno

dà la concretezza che solo la luce

sa dare, periodica la scala.

Dai passi acconci

sul bordo del molo

il sole inzuppato,

nell’attimo ho deciso,

compari come losca presenza,

le sofisticate trame lineari

del pallore ad occhio fervido

schiariscono anche il resto,

il vuoto e il desiderio.

I nuovi elmetti del mattino

scintillano già

e nella vaghezza riparte

la musica leggera,

sei qua ormai solo per metà.

 

Scuote il buio Nidaba con fare incerto

 

Parte con i sassi distici

nella bisacca,

mistica la divisione di compiti

un po’ banali,

dal teschio alla sottana

il passo è breve,

cerbiatto spaurito

al corso d’acqua timoroso beve,

e la rapida occhiata cinge

ciò che ho ancora da dire,

cambierei la metrica, lo giuro,

se nel frastuono non innalzassi

ancora un muro,

tra me e te un pellegrino

inabissato nel suo mantra

sulla via, verso Damasco,

ma come fanno ad ignorarlo

i violini un poco in trepidazione,

ma come fanno i mercanti di Aquisgrana

o delle terme

a vidimare un rifiuto

senza neanche al rimorso accennare.

Allora a questo punto

intervenne ed alzò

con grazia la mano

la ragazza del mare,

della caccia, della notte,

della sapienza, della musica,

da soave Astrea

a trasognante imprimitur,

impromptu, dal murale,

dalle corde tese,

dalle santificazioni distiche,

longa manu.

Sai cosa sento

in tal pneumatomachia

che mi assale, si impone,

mi strapazza dove è più lontano

il fosco sincopato assolo di arbusti.

Ed è così la scandita,

vasta resa.

Dondola la donnola assuefatta,

che bislacca domata la disfatta,

rifatta, come a dire,

vieni a guardare,

dai cardi in festa

che riposano a saltelli

sul far della sera,

una godereccia babilonia,

una convinta babele,

ah quanto sono cari

i tuoi orecchini

e la tua cosmetica sumera!

dov’è il mercurio?

diceva il magister,

bevine una goccia,

e l’imperatore perì di follia.

Eccola,

l’entrata trionfale di Gesthinanna,

nel deserto dal cielo

la succulenza paradisiaca,

deserto sfrenato,

astinenza, visioni,

miraggi decorosi.

Ianna seduce col velo

e col precoce scuotimento delle mani

poste tra il musetto

della casa d’incontro.

Scuote il buio Nidaba con fare incerto.

 

Correlativa vai

 

Esci di nuovo da scuola

incarnando lo spirito sovrano

dell’intenzione verdognola.

Correlativa vai,

cerchio per affilare

i becchi di sproloqui,

nella figura poligonale

trovi finalmente

il recondito messaggio criptato

da rime alla ricerca mirabilissima.

Scolaretta

ad ispirazioni regolari ti siedi,

chiudi il libro e poi col viola

finisci l’illusione colorata

e combinatoria,

quindi sei pronta

a farti viva e dare vita.

E poi accendi la tua sigaretta

nelle chiuse arie da cuffiette

innalzate e meste,

che miscela puntiforme

di suoni negligenti

e zelanti tra l’asfalto immobile!

Vorrai ancora chiederti

cos’è la vita,

se ha ancora senso questa salita,

l’intenzione va di moda

come la tua ultima aleatoria parola.

Poi ancora il tuo profilo,

il tuo esposimetro maganzese,

non è lacrima francese.

Solo un troll piccino,

intero ed acre

che tremolante scaglia

miceti onirici,

enormi e rubicondi sui pensieri

e che confonde

la tua assurda composizione,

la tua mania ti assilla,

non riesci, ricominci da capo

ad incastonar tasselli

coi sorsetti deludenti,

proprio non ce la fai,

a ridirigere ogni umano verbo,

a districarlo ed incastonarlo,

a porre fine

e quindi iniziare l’ascesa.

 

Le tre ragazze

 

Le tre ragazze sempre più vicine

nel canto, nel suono,

nel contemplativo accenno sufi

posizionato in circolo perfetto

nella quadratura del tondo

in fattori bidimensionali

servendosi di tempo

e scelta suprema

adorano l’essenza femminile

con opuscoli ponendo parole

a fine e a capo del verso,

raffreddato l’asciutto

con l’inchino sultano.

Ascolta la voce interiore

che è già suono, luce e calore,

che è il collegamento

con le sfere dall’intelletto mosse,

dalla brulla insenatura scosse

e barimetriche sintassi scarne

fioriscono in giardini mattutini,

oasi zampillanti e refrigerio del tempo.

La riflessione sillogistica

d’un tratto si arresta,

non lambisce l’orlo della tua cresta,

la questione resta insoluta,

sciolta nel sale l’ultima arsura.

Pasti mescolati con verdure

saporose e dolciastri miscugli,

Baharat per vespreggiare il velo

che assiduo e proteso lascia immaginare.

Lenti solfeggi

tra i tuoi denti bianchissimi

fanno sognare.

Alle cure meticolose

della sapienza neoaristotelica,

enciclopedia avicenna-averroneica

mania di miscelare il miele col sale,

la vita con la dolcezza,

procede ancora ad un passo

il materiale intelletto,

l’astrazione dell’anima

da cui procede per grazia divina,

non c’è cardo senza spina,

scarti la pietra giudaica

ed è quasi giugno nell’afa,

spalanca la rete,

pescatore del sole.

Quando il segreto nascosto

fu reso manifesto,

in quell’attimo ancora da venire,

procedendo per grandi,

Baphomet seduto ad uso buddha

persiano quaranta giorni nel deserto,

lo trovi il coraggio,

lo crei il destino

dalle tue stesse mani,

quello stesso destino che bloccò

il sillogismo proclamando la resa,

la vittoria dell’immane immaginazione,

l’unica ad intuire e descrivere

gli eventi futuri ovattati.

 

Le nozze di Psidide

 

La goccia di pioggia

di maggio stonava

col ritmo lunare

e allora il cipiglio del caos

pudico volle

coronare il misfatto.

Dal posto inclinato

del catasterismo

la metamorfosi metaforica

dell’osare sull’altare nuziale

adorno dei fiori d’arancio

e di gigli,

è uso qui nelle tetre tensioni

smorzare l’angoscia con un bacio.

Quella goccia che scosse

la cattedrale austera

fu sogno della nostra primavera,

nell’epico scontro elegiaco

le spade furon spezzate

e uno squarcio tramutò

il dialogo pitagorico di trasmigrazione

in dolce sussurro.

Dallo sciogliersi dei capelli

nell’alzare il velo

cinque volti furon rinchiusi in uno,

sette candelabri in un solo sguardo,

dodici costellazioni i denti,

il porporato bramato

delle tue labbra rinchiuse

l’umanità intera allo scoccare del bacio.

Nel momento più intenso

i ricci silvestri si adagiarono

sulle mie spalle,

le stuole di serena stoffa ricamata

finemente erano nuvole terse,

la sua pelle incanto selenico,

autoctisi il tuo abbraccio universale.

E poi l’anello ineludibile,

fiero e mutevole al far della sera,

l’anello del circolo eterno,

vera sorgente di potere

d’amore fu sigillo

di immenso clamore.

Squillo di trombe

tra fasti di chicchi nascosti,

segreti, riposti tra le tue dita

macchiate del nettare divino,

cibata la golosa bocca

d’ambrosia mielata

mentre la sfilata di cori angelici

innalzava il tumulto di pace e quiete,

agitava le masse eteree

rendendo armonia sicura,

restia la damigella prima impaurita

ed ora invaghita del suono soave.

Nello specchio i riflessi del tempo,

al buio l’ombra e il pensiero

in sé concepito,

un nuovo bacio

e poi un altro ancora,

scandisce l’epilogo

della festosa eleganza

l’inizio dell’aurora,

l’inizio della nostra ora.

 

Il ricordo di Héloïse

 

Assidua e desiderosa

su letti agghindati dal vento

che non vuole svegliarmi

e soffia in silenzio,

l’atrocità del male inferto

al nostro destino ora meschino

ricordo, tra pensiero e res l’azione

del tuo urlo possente,

della lieve mia voce

che ci addormentava

avvinghiati nei nostri discorsi,

un dito sospeso in cielo,

l’altro nel sospeso del libro

del godimento intellettuale,

orpello per un nuovo corso,

noi posti al cuore del sogno

nel nostro bacio fuggevole,

feltro il barlume di gesso

nelle statue del paracleto

che magicamente ritorna sereno,

l’animo pietra scintillante

dai miei respiri guidata.

Un periplo verticale

della mia forma,

una soave carezza

dalla mia guancia al fianco,

fremo ormai sola.

Come rondini

i tanti gesti d’amore,

goliardico, beffardo ed ebbro

mio compagno,

mai più tra di noi presagi d’incanto,

eclissi sfiorano il mio ventre,

gravido il tempo.

Il decoro è l’essenza pura

della sostanza mio caro,

la glossa che muta semantiche

tracce vitali

è l’unica ragione d’esistenza,

la fisica aleatoria decora

l’atmosfera e resiste al ripiego

dell’oscuro, ermetico il messaggio

che mi hai mandato col cenno,

ti vedo teso.

Discreto il volo

nello spazio campionario,

non puoi volere il gemito

di una fanciulla in pena,

in trepidazione,

la cometa e la nuova crociata,

tu tra i tramonti,

sulle scale del senso esponi, esporrai

il mio sentimento,

acqua zampilla d’argento.

Resta così,

resta impresso nella mia mente,

spirito passeggero preannuncia

la venuta del vero,

quando ragione ingloba

il senso divino per dialettica,

logica, vivida rappresentazione,

il capogiro destriero furente,

ti accompagnerò, mio amato,

per sempre,

magari in tondo il verbo

mezzo tra detto e dicente,

magari il vuoto sarà colmato

dalla folgore della parola,

somma presenza

stranirà la tua assenza.

 

Damigella floreale

 

Augusta presenza,

ascolti l’essenza,

sublime eleganza

nel magnetismo irideo,

sibilo euclideo designato

da pitagorico rito,

mentre il passeggio delle scarpe

e le calze incespicate

tra grumi di fieno australe,

deleterio declinare il saluto,

bacio mozzafiato in congiunzione

d’umido ardore vespertino,

che frescura le tue labbra

sfiorate nella fase

in cui i miei occhi seguono

le immagini fugaci, le tue,

quelle immagini astratte

che mi hanno sedotto,

dall’oracolo edotte,

è tutto scritto nell’animo,

è lui che ti verrà a cercare

come puntino interno

e universale sgorgherà

repentino dai tuoi sensi

in manifestazione,

inversione protonica totale,

mosaico ricomposto

in trasversale

seguendo l’ipofisi

si genera fertilità di sabbia,

serotonina e fluido spirituale

della tua euforia naturale,

dal grembo di vimini

si incanta il rettile

e fai la gloria

di una pace millenaria,

schiacciato dal tallone,

avvolto da chi ne rimane

affascinato ed affascina,

per intanto sorseggi il thé in brick,

miscere utile dulcis,

intelligenza somma

assurgerai all’eclissi di favore,

il pesco è già in fiore.

E ritta in piedi,

fremano le gambe sicure,

hai un modo di sorridere

da damigella floreale,

l’intentio della tua occhiata

contro l’onda del mare,

la ratio dei giorni in riva

al mare, sul predellino

il maestro perde il conto

dei giorni, e sorridi, sorridi ancora,

sembri celata da velo,

ragazza occidentale,

l’esotico nasino,

indico l’inchino,

in sanscrito l’orazione.

Facciamo per gioco

castelli di sabbia,

Baricco si arrabbia

del gioco di suoni,

posizione vichinga

nel far da sultano,

non dormirai tra erbacce

d’agapanto, bella di notte,

bella davvero.

Non riesci a concepire

il concetto,

a districare il caos,

ciò che ho detto,

il tempo memoria darà

al domani deserto

di speranze e ricordo,

siamo ancora su deserte spiagge,

il sole tramonta,

dov’è il mio alambicco?

dove la centrifuga

che possa scindere

corpo da anima?

l’energia conseguente

una belva infuocata di spirito.

Ed ecco,

San Lorenzo io lo so

perché tanto di stelle

non muore nessuno,

scioglie la meteora in sciami,

trasfigura l’effige divina,

la nuova milizia elfica

che risplende,

domare, rinchiudere

in tetre terre sotterranee,

nuovi diagrammi voltaici,

nuovi tessuti sociali weberiani,

una scritta sui muri

che inneggia all’idealismo

metafisico e surreale,

capocchie di fiammiferi

in dadi aleatori onirici

vibranti su letti di damasco

e acanto che inneggiano

allo spirito sovrano,

energetico paradiso extrasensoriale,

metapsichica oscillazione.

 

Mnemosine soggioga Crono

 

Oh Trofonio

dagli arbusti zampillanti,

rinfresca di oblio

e rimembranza

le mie membra stanche.

Il corpo riposa,

la biancastra balestra

cromata ai bordi,

deposta ai piedi

del reclinato ed interiorizzato

ardire di Cassiopea

nel biasimo del formicolio

ricciuto farneticante.

Non senti? Non aspetti?

Rinchiudi il tempo

col suo cipiglio dilettevole,

con la sua brama di assorbire,

spugna dei nostri sensi,

spugna dei nostri intelletti,

spugna del nostro aspetto.

Saetta con me al tuo fianco,

o ricordo.

Nel punto più lontano

del flusso mnemonico

la libera associazione di gelso,

il riporto a domani di gesso,

il paradisiaco gesto.

Nel delirio da te,

madre possente dei racconti,

nacquero damigelle

che seducono orfei dal bel canto,

unico sentore d’infinito,

unica possibile percezione di scienza.

E fluttua dunque. Fluttua

servendosi di questo corporeo

ammasso di membrane

lievi l’elettricità del divino.

C’è ostilità e scissione

tra i due termini della questione.

Il ponte quadrimensionale è questo?

È qui il pensiero?

Vittima dei due opposti

seppur coincidenti?

La bellicosa e aggraziata Mnemosine

procede, esula dalla realtà carnale

succube a Crono

è su punto di infliggergli

il colpo della mortale indifferenza.

Nulla scorre se la musica

immutabile dà forma all’implasmabile.

 

Discorso alla fontana

 

Eri seduta ai bordi

della fontana e zampillava

essenza che raccoglievi

tra le mani,

poi ti avvicinavi

e la mia bocca dissetavi.

Non era fuoco

ciò che scandì l’evoluzione

ma fluido, dicevi. Io ti ascoltavo

ma la mente divagava,

a cento spanne dalla crosta

il tuo mantello infuocato

raddolciva l’umido del riposo

e della sostanza,

rinfrancata ogni speranza,

il paradiso, il tuo pallido viso.

Dai tuoi occhi

io carpii segnali vividi,

è quella la scala miscelata

col turchino,

è questa l’atavica scintilla,

l’intima rivolta.

Immane entelechia,

dicesti un po’ offuscata

ma subito la luce ti rinvestì

quando proseguisti,

la trinità spirito dall’anima

per tramite del corpo,

è la medesima del logos

dall’idea per mezzo del moto

e riflette sul corpo ulteriore,

la corrispondenza in fiore,

comunicazioni energetiche,

allibita finisti,

il cardo la tua sapienza,

decumano immaginazione infinita,

urbe l’ immensa realtà naturale,

inscindibile quindi dal pensiero

astratto generato e generante

ad un tempo il fare concreto,

volontà che si fa potenza

ed assurge ad azione.

Poi d’un colpo l’universo,

caso, cosa e caos e cosmo

furon sempre eterni,

la scintilla energetica circolare

di cui parlavi chiaramente

fu nella mia mente,

nati dalla e antenati

della forma perché,

il tempo essendo in sé escluso

non può essere da altri

che da noi placato e velato,

non distrutto perché esistente,

ma ignorato in quanto suggestione.

 

Intanto ammiri il tuo smalto lilla

 

Dalla fucina di frisia,

copisteria di amanuensi decorativi,

spiega grossolanamente il sistema

perduto dei nostri discorsi

vandalici, i graffiti alla stazione

tra sortite aleatorie,

treni di entità ectoplasmatiche

lungo i binari plastici di notte,

eravamo noi gli invitati

al banchetto, gara tra Dionisio

ed Eracle, dimmi chi ingurgiterà

più fluido etilico,

achemenico dominio alchemico

mentre dormi ansimante

volteggia l’irripetibile azione,

ed eravamo lì, dunque,

il frutto è il tuo sorriso

generatore di arbusti contenitori

e protettori, scudo delfico,

immutabile sentimento,

e non distinguevamo la panchina,

l’ultima uscita

della sovrana imbellettata,

era forse il vento

che sradicava annessi cuneiformi,

quale modello dialogico segui?

La nostra topica è smorzata,

ora assaporata.

Si infrange lo specchio.

E i dipinti di rame

sulle scale abissali,

posteriori fiabeschi

nei tuoi assurdi intrecci,

non ti raccapezzi,

sei dinanzi a un bivio,

eri perché sei,

sei bellissima.

Le nuvole offuscano

l’arte boschiva,

il segmentato stilema rupestre,

fosco fonema di mille tempeste

allegoriche. Scendi piano,

si scivola nei rimorsi.

Dalla fiamma segnali

concepiscono vedute di lontano,

l’erbal fiume scompare

nei tuoi occhi e potenzia

la formula edotta, il fumo promana,

è spirito, sì, puro, mia sovrana.

E la tua maestà è sicura

nell’umiltà mai ebbra,

si rifugia come foglia

ai colpi di brina,

ti è chiaro ora

cosa avevamo in comune

con questa, la paura del divino

ossia dell’essere quindi

dell’inconscio quindi

dell’irrazionale, quindi

di noi stessi.

Allora l’urlo mancino

inclinò l’altopiano autunnale,

l’entusiasmo fu rabbia

e sguardo di sfida,

l’innaturale profumo di vita.

Come fanciulla camminavi

ora onda del mare,

ora riflesso,

ora brillante ultimo raggio,

prima luce del mattino

attesa in invocazione,

odore di sapone,

bolla e sigillo,

guanto d’ottone,

ultima lotta, decisiva, trionfante,

bendata.

Intanto ammiri il tuo smalto lilla.

 

Notte bianca al parco

 

Al parco,

la luce artificiale

riflessa tra gli alberi

in duplice filare.

Al parco,

l’euforia dell’incontro,

un nuovo fiore colto,

lei sarà di nuovo qui?

Al parco,

l’aria rarefatta

delle effusioni empiriche,

delle profusioni metafisiche.

Già io ricordo,

ricordo indelebilmente

l’ultimo incontro.

Era settembre,

la musica deludente

dalle cuffiette,

ecco due libri,

ce li scambiammo.

Combinazione,

ti dono le affinità elettive

in cambio di notti bianche.

Coincidenze oscillatorie.

Si apre il varco,

trapassiamo la soglia,

guardati sei sempre

uguale in bocca al tuo godimento,

al reciproco nostro fermento.

Volgo già gli occhi altrove,

la tua foto è sbiadita,

l’immagine sgrana tra le dita.

Al parco,

l’ultima promessa,

la nostra corrispondenza

impressa su roccia.

Al parco,

piango e l’anima singhiozza,

sei principessa dell’ultima mia goccia.

Al parco,

solo un’ombra lontana,

a te che resti

e resterai per sempre

rifrazione spirituale

per non dimenticare

la tua presenza carnale.

 

Il fonema è la goccia del sistema

 

La goccia del sistema

è questa vibrazione,

è il fonema.

Nella locanda imbanditi

i discorsi tesi,

Praga con le sue birre

e fiumi di parole

sui rami delle nostre mani.

C’è una molteplicità nel reale

e nel naturale dunque,

varie sono le sottocategorie,

triplici, famiglia, genere e specie

ma li puoi chiudere

in concetto e perciò in unità.

Che svanimento

nell’occhio relitto

di imbarcazione ardita

sull’impeto della tempesta del nulla,

lo ricolmi e dai prova

di esistenza e dunque presenza,

dunque solo momento

ma se senza tempo

non può sussistere

si annulla da sé.

Che faccetta, sai,

sorriderei,

sorriderai.

Quando il pensiero permane

come traccia su foglio

strimpelli lieta

e ad un tempo spezzi

il gesso con mestizia,

quale più lieta notizia

dei giorni felici tuoi?

Ciao gemma mia del mattino,

la notte è ancora lunga,

bevi ancora un goccio

e dimmi se sintomaticamente

troveremo in queste ore

la genesi della connessione

tra segno, suono e significato.

È tardi dirai,

ma la voglia,

quella ancora ce l’hai.

Forse questo scarabocchio

al muro senza senso

a fini decorativi

qualcosa ci comunicherà,

sigillo d’eternità,

nascerebbe un amore sofistico

e il simbolo allora

ex post avrebbe senso.

Ma bada bene comunque,

l’albero è nato in vista del frutto.

 

Lode di Efesto a Cabiro

 

Il latrare di dieci cani

in cerchio mentre i piroclasti

spumeggiano nell’aria,

la lava è un fermento

ma controllato dalla mia mano

tecnicamente sapiente,

uno scudo per te plasmato,

che scompari nel momento più bello,

all’estremo del godimento

sul mio giaciglio.

Poche parole,

è già dì.

Basalto alcalino

fisso come sai,

tu dalle mille bellezze marine

sei eccitante stasera

come non mai.

Sull’incudine un colpo attento,

non distruggo io ciò

che l’amante della mia metà,

della proclamata amata

con scherno, per vanagloria fa,

uccisione e saccheggio,

dov’è la pietà?

La rosa tra le dita

è ciò che in questo cortile

ardente del Mongibello ti dono,

accettalo dai,

è indistruttibile, indivisibile.

Tanti sono gli affanni di annientare,

di soffocare la vera bellezza

ma il tuo sguardo lo vedo,

è puro.

Esportano armi

e democrazie, addestramenti,

poi il vuoto dell’anima rimane,

continuano a soggiogare,

tu immensa dolcezza dimmi,

perché?

I miei giganti ed io,

con la nostra forza,

ergiamo opere maestose,

è questo il bello,

non la violenza né il dominio

senza rimessa né umiltà.

O mia Cabiro,

unica che mi abbia

davvero amato,

fino all’eterno del nostro

sgomento rideremo

e ridemmo,

uniti noi,

concubini del tepore

di questo folle paesaggio brullo

e vivido ad un tempo,

abbracciami ancora,

da qui si vedono le stelle.

Un tempo distrussi Adranos

con un solo cenno,

la mia potenza è funesta,

colma di vendetta,

le mie catene che indissolubili

imprigionarono

la mia amata in flagrante

adulterio con la tua candidezza

stan diventando mezzo

di passione immensa.

Ah che bellina,

come trottolina riprendi

a danzare, sei mistico amore,

non voglio perdere mai

tutta la tua grazia

piccola Nereide dai denti d’avorio,

amore mio,

stringimi ancor la mano,

Antares è lì,

guardiamolo abbracciati

ancora un po’.

 

Le decorative di Cosette

 

Da dietro le asprosità

delle barricate, delle baionette,

il tuo volto illuminato,

i silenzi della lontananza

riflettono te,

faccina buffa, vignetta dolciastra,

pura e paonazza,

che desiderio!

Eccole qui, sono così,

le parole nostre,

all’appendice tutta illustrata,

fiammiferaia di caffè macchiato,

di incenso profumata,

di rose le spine

di questa rivolta

son decorate,

ed è perciò che dalla schiuma

di questa forse ultima sera

l’urlo dell’avanguardia

è solo un lamento di rabbia,

paura di perdere

i tuoi occhi cristallini

come la Senna

che quando ci si affronta

schizza nell’aere la libertà.

Il tronco spezzato,

i nostri cuori, il tuo respiro,

sei palpito zuccheroso

da assaporare,

delizia dei sensi

il non averti mai posseduta

se non tutt’intera

con la tua psiche

che immenso manto

copre il mio corpo.

Parole poi, ancora parole,

scorre il volume.

Noi senza ricchezza lottiamo,

tesoro rinchiuso nel tempio

del nostro sperare,

a mani giunte come in attesa

di un temporale

io qui ti sogno

tra le mie braccia infreddolita

da riscaldare.

Se di fame carnale

e giustizia terrena

questi padroni non ci sanno

saziare,

vivremo allungo avviluppati,

sempre intrecciati,

mai più divisi

anche se il tempo fugge tiranno,

un altro sparo,

cosa ci resta

se non l’amore e la dignità?

Sono le perle

dei nostri discorsi di verità.

E i cigni in coppia,

e le fontane, e le cascate del vento,

il sapore primaverile

della tua pelle.

Ricordi ancora?

Ero impacciato

alle prime mosse,

quando soltanto

un nuovo mondo immaginavo,

quel mondo che avrei voluto

dividere coi tuoi sorrisi mattutini.

Sparano ancora,

la strada è offuscata,

la mia vista appannata.

Mia illustrazione, dai,

te ne prego, non scomparire,

amore mio stringimi ancora,

alziamoci sino in cielo

a raccogliere il tempo perduto,

sì sulla luna,

sì tra le stelle,

amore mio,

guardami ancora,

muoio per te,

ogni pensiero

al mio spirar sarà per te.

 

Il candore di una sera di prima estate

 

Spada di sapienza

tratta dal fodero

di te che sei furiosa

in controluce anima persa

nei naufragi della conoscenza,

attorniata l’impugnatura

delle gemme d’equilibrio,

bascule di frumento

soppesato e decorato

da mille violini in sottofondo,

coreografia astrale,

musica soave,

leggero palpitare del cuore

appena appena percepito,

capelli mossi dal vento settembrino.

Ascolta ciò che l’anima

ti sussurra,

il ciclo delle stagioni eterne,

l’immaginazione attonita

e maestosa,

nulla può mutare

nel ritorno ad altri mondi

a questo uguali,

il parallelismo dei nostri cuori

in fremito è il varco

destinato alla mutazione

inesauribile e sospirata

nel tuo ansimare alle mie spalle,

che desiderio di sfuggire

a questa situazione temporale!

di non dimenticare

il viaggio intero

della nostra esistenza

al di là di limiti

e concetti avulsi allo spazio,

di adagi interstellari.

E quando il connubio

delle entità duali

in triplice accordo unipersonale

offuscarono la vista nostra

tutto ci fu più chiaro,

il giglio candido nelle tenebre

del tuo vestito sublimale nero

ed influenza diretta

del corso dell’anima

in quanto orchestrato

con maestria dal movimento

oscillatorio delle stelle.

Ti tramutasti in coleottero

dei boschi non classificato,

fatina viola dei miei sogni diurni,

dell’oblio di Morfeo

tra le tue braccia

come diamanti, la luna nuova

alle tue guance inneggia

al rito druido di iniziazione

all’infinito e alla tensione

ottagonale,

proiezione ortogonale

del tuo volto sui tre alberi

che erano come adagiati

a sottofondo,

tu la dominatrice

della riscossa ancestrale,

la direttrice delle premure

musicate in silenzi inumani,

pur se convinte forze

ci insidiano la polverina

magica siderea attornia

l’atmosfera,

c’è un che di mistico

nel tuo sguardo stasera,

passa l’indivisibile

come se scisso in cabalistica unità

sprigionando energie democritee

impensabili, incommensurabili,

nell’infinito barlume

del minuscolo amuleto

che pende dal tuo collo

conservi il ricordo

di noi due,

dell’intera storia umana,

di ogni era geologica

e cosmologica

e le ali che sbatti

a ritmo di una strizzata

d’occhio mi ricolma

d’entusiasmo,

mi fa sorridere d’istinto

anche se sembra vanità

di vanità in questa sera

illuminata dalla tua fioca

presenza, nella dolcissima

apparenza, scorgiamo

l’importanza del sapore

di queste bacche

della vegetazione sacra ed inviolata.

E muti forma nuovamente,

sei eccellente restia impressa

come manga sedimentato

dalla noncuranza,

perso tra pagine distese

ed annotate,

le figure quasi scompaiono

tramutandosi in flash mentali,

rimandi a corrispondenze saturnine,

il segno grafico,

lo stilema e il lemma primordiale,

cambio di direzione,

ausilio di tessuti e di velluto,

capelli come pioggia

tra le mie dita,

sembriamo ciò che siamo,

la visione del paradiso,

la nostra essenza interiore

ci riporta alla mistica ascesa,

simili agli angeli ma corporali,

messaggeri, artisti

ed inventori di realtà

desiderate con il gaudio

dei bambini,

un giorno torneremo a cogliere

l’intensità di ogni momento,

a carpire l’unicità dell’istante,

della staticità susseguente,

vivremo segugi del presente

unica definizione concepibile

nella mente divina,

la libertà delle nostre scelte

sarà il candore di una sera di fine estate.

 

Sul muretto di Jena

 

Verso sera si intuiva

la presenza della luce,

e lo spirito sovrano

sull’incanto del tuo sguardo,

iniziavamo,

era il momento,

schiarivamo un po’ la voce,

del giusnaturalismo sentivamo

già l’odore,

il punto della questione

è il contratto,

ma è lo stesso che ti frega,

più che un patto una scommessa

potrebbe eliminare

il non io dall’esistenza,

distruggere la violenza

della pretesa assassina,

contro gli altri, essenza questa

del crimine.

E tu dimmi perché esiste?

Potremmo ridurlo a malattia,

o meglio mal funzionamento

celebrale, brama di possedere,

la mente non è distorta,

l’animo dell’uomo è come giglio,

è tutta colpa del corpo,

del fango in cui siamo precipitati

per dannazione che spesso

ci spinge

ad un’organica disfunzione.

Ti accendevi,

era ormai buio,

la sigaretta e continuavi,

nello spazio tra due segni

il buono può delimitare l’infinito,

siamo noi l’anima del mondo,

essa in noi stessi si manifesta,

l’io che pensa è il divino,

la suprema sinfonia.

Poi passammo alla morale,

quella generatrice,

in sostanza ficthiana,

l’ordine universale,

ed allora tu dicesti, lo ricordo,

è lì che si trasse in inganno,

quando si parla di morale

c’è sempre un insidia da sanare,

non è questa la questione,

l’ordine è nel bene che trascende

la stessa la quale è riflesso

e spauracchio per i corvi

posto nelle mani

dello stato sovrano.

Più che nell’ateismo

quel pensatore

è caduto nel bigottismo vittoriano.

 

Seduzione computazionale

 

Provi a ridosso di uno scoglio

ad accennare frasi scomposte

per imitare il nautico girovagare

alla rinfusa delle particelle

nel caos cosmico

che già per attributo

ha un suo ordine universale,

le eclissi di fine maggio

pluridimensionali

ti adombrano le multidirezioni

vettoriali

dei tuoi sbagli intensi

ed impacciati.

La matrice della selezione naturale

è seduzione computazionale,

quando come per arcano

incantesimo la sfera comunitaria

dell’amore sfiora la sessualità

dell’attrazione, posta in cima,

damigella, scegli con eleganza

la soluzione già accordata

dalla tua anima che percepisce

una fatale corrispondenza,

d’accordo, la scelta è fatta,

irretito il teorema dei desideri,

probabilistico il risultato

non affine al vero,

la certezza nei tuoi dubbi

è l’aria della sera,

la giusta atmosfera,

utilizzando metodi

già adottati per le discipline

canoniche ed astrali,

è lì l’influenza,

sul tuo corpo sfumato,

sul capello cristallino,

sul lieto piedino ribelle.

Colma il vuoto e l’assenza

quell’andatura furbetta,

esplode come un bocciolo

affiliato a giardini esotici

che per distrazione

ricolmano la flora

di onde ultraviolette,

percepisci, vai al di là del suono

con il rapporto coll’intensità cromatica,

viandante la temperatura,

ah dolce frescura!

 

La nostra mappa (fine secolo autunnale)

 

E il passo incerto

su quella via di fine autunno,

sotto il braccio il vocabolario

greco-italiano,

e la tua camicina larga,

sopra il cappello vivo

per scampo ai soffi del vento

che sembrava carezzarti

le guance con la premura

che solo un mutamento

di temperatura sa dare,

sogni ad occhi aperti.

Avresti dovuto

non lasciarti abbandonare,

comunque qualcosa l’hai fatto,

hai seguito il tuo cuore,

hai seguito la mappa

e forse quel giorno atteso

verrà in cui reclinati

ai bordi del mare

analizzeremo con sapienza numismatica

la provenienza, la consistenza,

la duplice verità.

E il passo incerto,

poi il respiro, il fiato vitale,

altro a cui pensare,

sembravi una alle prime armi,

sicura di te,

il tuo avvenire segnato.

Non hai mai spiegato

chiaramente la divergenza

tra il titolo e la lirica,

hai messo tra parentesi la meta

del tuo assurdo vagare,

invece a chiare lettere

il varco temporale.

Avresti dovuto dissuadere me,

dissuaderti a tua volta,

stringerti intorno al sollievo

dell’atmosfera,

sai con precisione

che il tempo è cambiato,

sai di preciso che nulla

ci ha mai diviso.

Avresti dovuto perfezionarti

come hai fatto,

eppure quell’istante, ricordi,

tutto era chiaro da tempo,

tutto, il tuo portamento celestiale

con sguardo abissale.

Avrei dovuto stringerti.

 

Mefite

 

Sgorga il fluido vitale

ove sorge il tuo tempio

decorato di malto,

in intesa silente

guidi le mandrie, madrigali

medievali inneggiano

al tuo volto incoscienti di farlo.

Guida il bestiame,

la sapienza pastorale,

allegoria del giorno trascorso

su scroscii rupestri

è la ricerca della tua verità interiore.

Maga del ristoro,

medicina sanante il dolore

con liquidi taletiani,

sollievo e refrigerio

nelle sommità abbeverando

il bestiame, rinfrancando i pastori

allevati dal tuo indice,

indirizzati.

Come le lacrime lacustri

di Manto da cui sorse

la città del vegliardo agreste,

guida del sommo spirito sperso,

tu assapori le saline gocce

in flutti boschivi tramutate.

E non c’è morte,

né vuoto, né sofferenza

nell’animo,

escluso come germe reietto

il pullulare di fatiche,

le squarciate ferite.

Poche parole risuonano

a te regina dell’atto,

del verbo d’acquitrino

e purificatore.

Emblema ermetico.

Balzachiana sintesi

degli opposti in un corpo

da madre delle maestosità naturali,

dei realisti paesaggi,

presenza adornata

dalla tua veste cinta

di betulle e tendente

all’apparente ricamo di

gotic lolita.

 

Scricchiolii camerali

 

Scricchiolii camerali,

nel silenzio un barlume metallico,

lucentezza dei rumori,

accartocciarsi dell’anima,

un gracchiare di gracili

corvi,

l’upupa perdona e guarda,

guarda la reclusione

del mio essere,

l’assurdità del reale,

l’unica ragione

di vita nella lotta, nella rivoluzione,

nell’amore,

Sisifo il masso a volte

lo ammira

perché alla vanità degli umani

sforzi spesso soccorre

un sorriso ricevuto,

una gioia ricambiata,

bellezza contemplata

con le mani ancora rivoltose

e umidicce, spianate sul terriccio,

in questa prigionia di sensi

aspetto l’attacco musicale

del vento, riflette come acido

psichedelico e corrosivo

nella mente.

C’era un tempo

in cui il governo era di tutti,

c’era un tempo

in cui vigeva con premura materna

la femminea mano

del dominio senz’armi,

c’era un tempo senza guerra,

il tempo in cui forse

la migrazione ordalica indoeuropea

non era ancora arrivata

alle mani,

c’era un tempo,

un edenico tempo,

c’era, lo sento,

c’era un tempo gilianico di ascesi

e contemplazione,

c’era un tempo in cui la brama

di potere non esisteva,

dove non era la tecnica

e la selezione naturale il dominio

ma la seduzione sessuale,

dove c’era ancora

tanto da dire,

dove non c’era violenza,

dove c’era la temperanza

della parità tribale e trinitaria,

della magia astrale,

l’influenza cosmica sui nostri avi

aveva intrecci diversi

prima della maledizione e del dolore.

Divino effluvio femmineo tra i capelli scossi dal tuo smalto lilla

Odor di Morfeo

 

Il talismano in su,

seta trasmutata in carne viva,

hai, sai, un’attraente colorito

corpuscolo mio,

e tu credi che crescerà il mio sentimento,

una passione mai così sicura,

un controllo segreto,

tenero e dolce della mia mente

(vai!),

ti osservo, oh superba azione!

Luce fantastica e tempo infinito

e assente, e sormontata

attenta schiuma inerme e stupita,

all’essenza semplicità distillata e raccolta,

spaventata esperienzuola dark,

esperimento ed io concentrato e intenso

(credi assurdo!)

paghi la tua eleganza

da cigno spoglio e imbellettato,

ora con te sempre conosco

impasse e senso

(puro!),

dimmi già cosa c’è

fronte spaziosa

(gli dei!),

io attendo te

quando esplodi semplicità,

l’esperienza oscura

che ti dicevo è controllo totale

dell’azione

(credimi!),

paghi eleganza attrice,

e che ricordo spande tra le viuzze

(sono qui!),

che vuoi? me? Assapora allora te,

libricino aperto,

che percezione esponenziale di sé,

e vai, vai in dune del pensiero.

Ahi! Ahi! Ahi!

Ahi silente amica! Stai in pace

(e sì, direi)

in mezzo a questo campo di fieno

raggrinzito

(ahi! Ahi! Ahi!),

possiedo te

(circolo ondulatorio)

—–

(silente amica ahi!)

pungimi concisa,

o sì, estasi!

(ahi!).

——

(silente amica!).

Son qui cigolante

e l’inverno spinge possente

tre note, odor di Morfeo,

(ahi! Ahi! Ahi!).

Non senti la bellezza,

puoi vederla e toccarla

(ahi!),

e rimastica maneggiando con cura

ciò che vuoi,

(ahi!)

nell’oblio non ti scordo,

(silente amica, silente amica,

silente amica ciao!).

 

Spegni la luce e cominciamo

 

Ma che astuta teoria vacillante

o mia capretta,

per caso collideremo,

poni sempre gli stessi assunti

e sbiadisci in un angolo

come figlia del nulla,

comunque per simpatia

la mia immagine la chiudi nel cassetto,

non si sa,

potrebbe sempre servire. Meglio, fiorire.

E ti escludi suonando

sonanti risate

o mia fulgida sirena,

che conclusione,

guarda salti i passaggi,

siamo solo all’inizio.

Potrebbe essere che mi innamorassi

o forse tu, ma in ultima istanza,

meglio divagare con le implosioni.

E poi la scusa,

hai l’entusiasmo scritto nel destino.

Va bè, d’accordo,

ma che c’entra,

che fai ti spogli,

aspetta l’alba,

ok, ok,

fallo adesso

ma smetti di cantare.

Ti inizia a piacere il discorso!

Scopri il dorso,

ti intreccio il collo dibattente

e polemico, un tantino noioso.

Ho pensato ancora a te,

lo so non è il momento,

ma fa niente. Sei rossa in viso,

dirama l’imbarazzo

e raccoglilo in barattolini di marmellata.

Poi il vero scapigliato

e da te allontanato,

raccontato in due parole

direi proprio disincantato.

Una domanda ancora?

Vai.

Comunque per sincretia nostalgica,

disperdiamo il nostro ardore

concentrato e dialettico.

Forse la soluzione te la sei data,

l’emblema della passione passata,

ci scivolano addosso i decenni,

mastichiamo i fermenti

con ogni dissuasione.

E direi che ora ci va bene

la conclusione,

pari al dito proteso

oppure tra le gengive teso.

Ed è tutto già scritto

nella declinazione della costellazione.

Allora vai,

leccami il cuore e risucchia il sangue,

sono qui ondeggiante,

dai il colpo di grazia,

incline al pudore.

Ogni cosa è già vissuta,

spegni la luce e cominciamo.

 

Apparenza sublime

 

Trapunta di stelle

mi appari chiara conoscenza,

l’incubo dissolve e salva

come caduca estate brilla nel cuore,

è iato felice e dissonante

quando trascendi ed ogni senso

è incantato ed impegnato

nella tua contemplazione,

per me dov’è l’aggiunta

e la vita e te, desiderio

che ti chiedi e mi chiedi

la pura intrusione,

la svogliata e spoglia

funzione molteplice,

(ascolta, un sussurro!).

Oh spiegami che sorta d’amore c’è!

Appare in sogno la stella nostra,

e io so che è già domani

ed oggi ripeto intatto

ogni pensiero

come ultima schiera,

ultima chimera,

(ripeti tu, seguimi, ripeti):

un dondolio col naso all’insù,

demandi ogni dove e scegli te,

pezzettino dolce,

(ripeti con me):

ascolti il silenzio percettivo,

che costrutto, apparenza sublime.

Ogni ricordo che ho e che hai,

lo sai,

ogni intensione illusa

che plasmi dal sussulto ormai,

ogni melodioso canto

che tiranneggi e scandendo fai

è di ogni remoto karmico galleggio

con mani gorgoniche spalancate,

continua, vai.

Oh mio dio!

l’emissario non sa più che dirai.

Ogni piacere che bruciacchiando

zucchero dai

è un echetto ridondante

e girovago ma attenuato,

svilito e deluso.

 

Per viette abbandonate

 

Per viette abbandonate

senti l’ombra del silenzio,

le mandrie di stole lucide

e pure nel metrò.

Posto in cima ad un traliccio

l’inverno lo vedo,

c’è un rimando vistoso a te,

ciocchetta sbadata.

E senza rimpianti né ricordi

sei qui sottopelle,

intensa realtà. Sei l’occhiata

di sbieco di quella ragazza

beffante con un sorriso ammiccante.

Sui binari si spande un’ essenza

oscura e vistosa a fini entusiastici

per contattare ectoplasmatiche

sincerità cosmiche.

Dal lampione intermittente

improvviso il buio e sei di nuovo qui,

piccola zarina alabastrina.

Ed allora per poco non inciampo,

estasiato stilita da barbetta rasata

e aromatizzata, intarsiata di perle

speculari al tuo manto abbellito

da pozioncina ebraica rinchiusa

in vasetti di ebano etilico.

Pungono le ematiche tracce

disperse sulla tazzina da tè.

Banalità imbarbarita e balbettante,

banalità indecente e veemente.

(Parti o mia vocettina nell’alba e trovi me).

Per viette solitarie

l’ombra implode

e si richiude nel tuo palmo di mano.

 

Scherzetto

 

Quando il chiarore

dipinto discese sul mio polso

sentii in me il tepore del vento

mischiato all’incenso.

Ma che piacere intenso

il vederti svestita tra le ariette,

le foglie e i giornali.

Sublime il tramonto

stendiamoci sul pavimento stellato

e in un istante componiamo indecenze,

la nostra vita risponde.

Ma che dolcezza il tuo volto,

che sapore il tuo labbro,

carino il ciuffetto,

il tuo fare perverso.

Sbrinavi clessidra inversa

sulle onde del mare,

la tua sapienza lanciava

segnali di passione e d’amore.

Ma cosa dici?

Stupenda sei e resterai

se dai tuoi occhi

il fervore mai spento conserverai.

La falce della luna

lentamente il silenzio trinciava

e loquace la tua lingua

il sale assaporava.

Ma che furbetta!

Con gli occhi dischiusi,

e che giretto tornante

il tuo passo danzante.

Quando improvviso

il tuo ardore divenne azione,

in palpito fremente

tirasti la somma del mio cuore.

Ma come sei bellina

con gli occhietti chiusi!

sogni il futuro, il destino,

il vino e l’infinito,

poi scocca un basio.

 

Bocciolo nel tepore mattutino

 

Sorridi disincantata,

quell’espressione svanita,

esplosione di colori

nell’alterigia seducente,

una parola vorrei dirti

ma non so andare oltre,

graffia il fermento

il tuo sguardo sicuro

e sei nei miei sogni,

nei pensieri, nei gomitoli

teneri di speranze perdute,

infrante e disperate,

hai già deciso ormai,

io cosa sono ora,

l’ultimo frammento

del tuo disprezzo,

il punto che non tiene

del tuo discorso,

sono il vapore del tuo treno

in partenza,

io me lo sento,

forse non ce la farò,

non riuscirò a dimenticare

le tue mani docili,

magari l’occhio tuo cadrà

sull’ultimo rigo e dal vile silenzio

un rapido ricordo volerà

fino al mio volto.

Splendida luce delle mie notti,

colore dei miei giorni,

furore delle mie rivolte,

splendida non puoi dimenticare.

Inchiostro di pagine oscure,

rossetto impresso sulle labbra,

brina mattutina,

non puoi dimenticare.

Guardi dal finestrino,

il vento ribelle scuote i tuoi capelli,

l’orologio tiranno,

l’ansia del domani,

io più ti guardo più stringo il dolore,

più mi rinchiudo,

bocciolo nel tepore mattutino.

 

Nel bosco incantato d’inverno

 

Quando il colore di mille parole

discese sul viso

tu muta piangevi e guardavi,

la traduzione ostile pungeva

il sapore della notte disarmante.

Ero distratto,

tu pronta all’assedio,

gradisci del tè? ho i biscotti,

gli ultimi gemiti con occhi

sbarrati e sognanti,

teneri come le storie

che ardita racconti,

che piena di vita lasci appese,

scordando di essere unica e grande.

Quando dal bosco incantato

d’inverno mandavi segnali

col fuoco e col vento sincera

dipingevi le tue intenzioni su tela

e fu subito primavera.

Eri un fumetto intarsiato

di gelso emanavi un sospiro

tracciando di netto un sorriso

che estasiava i confini di ogni nazione

svogliata, di ogni popolo che pendeva

fremente dalle tue labbra,

e tu non dimenticavi

di essere ciò che da tempo il mondo

aspettava, ciò che da tempo ognuno di noi

nel suo cuore celava.

 

Estrella danzante

 

Vola con lo sguardo al di là,

più lontano che puoi,

vedrai allora che una folle ragione c’è,

per sciuparsi allo specchio distratto.

Ed i tuoi sogni irrompono,

si infuocano le tue parole,

chiedi di assediare le stagioni

avverse e monti i tuoi stessi versi,

vai in avanguardia.

Sfoderi il denso tuo portamento

glorioso, pronunci l’indicibile

e giochi buffa e altera con le tue formulette,

vai.

Trotta,

lentamente ondeggia e trotta,

colma d’oro bianco

l’armatura della tua apparenza

ed armi non ho, dici,

che non siano rivolte d’amore,

in congiunzione decorosa ai tuoi gesti

è la natura sovrana alleata

di tale superba altezza

che non soccombe al silenzio

ma accresce la potenza con la sua incoscienza

e con la sua incoerenza turbante,

la natura è strisciante,

e con un bacio stordisci

e stendi fendenti possenti,

più dolori non hai,

più timori non ho.

Magica tempesta vistosa

dal tuo indice proteso,

leccornia dei miei occhi

i tuoi assordanti frastuoni dolciastri,

sinergiche forze,

e l’elmetto di Atena ce l’ho, dici,

e riparte l’attacco non c’è pietà,

l’indecenza nascosta dal nasino

sbatacchiato e il nemico non regge,

il meschino colore atroce

è svilito e annichilito dal tuo reverse,

dalle tue note invertite,

inverse e perverse,

e gli anfibi ce li ho, dici,

e stupita sorridi,

nessuno resiste al tuo amor.

Lampo etereo dinnanzi a me,

accomodi il destriero e ti avvicini,

sussurri tre parole

ed a mille va il cuore,

tra le mie rose colte,

le tue donate,

le nostre impresse

e le altre intatte,

l’aurora dei piaceri

e foglioline masticate,

una leziosa melodia.

Estasi diffusa,

sapori d’estate non dimenticati.

E fischiettando te ne vai,

tra i cocktail e gli spray alla parete,

e seduto al tavolino

noto il volto fuggito agli sguardi

e ai rumori,

riparte la musica a dismisura,

calibrato l’addio,

temperato il tuo desio.

Vai, piccola guerriera,

la tua fuga è una vittoria altera,

vai dolce mia principessa,

è colma d’entusiasmo la nostra resa,

vai regina d’assenzio,

mentre mi dilungo ti dissolvi

e sorridi, furbetta strizzi l’occhio

e sorridi,

vai signora del vento

il tuo ardore vivace

è il nostro encomio

e la tua eterna pace,

vai streghetta misteriosa,

la tua storia vibra intorno

come ultimo rigo

del mio canto intonato

ai bordi del mare agitato,

vai ragazza

che del mondo

sei l’unica cosa degna d’esser vissuta,

con un cenno voluttuario

getti l’ultimo bacio.

 

Ancora sorge il sole dai rami

 

Vento di sapori

perduti nell’aria.

Ricordi di giornate volate

in cima a un pioppo silvano.

Segnali di disturbo.

Poi un’ondetta di fumo.

Ancora sorge il sole tra i rami,

le passioni sono eterne,

eterna la tua fronte,

una delusione,

il tempo atroce,

un invito posto già dai fauni ammoniti,

magari fai la “V” con le dita

e poi digrigni i denti,

così scuoti la testa

e getti stralci di pensieri,

mi viene in mente il sorriso,

quel tuo asso occultato,

lo giochi quando vuoi

o magari ancora lo celi

alle spalle della gente,

lo lanci e torna indietro,

la frutta assaporata con dispetto,

ti scappa un accenno doremico

e dissolvi la noia sartriana

in questione bardata con maestria

dalle tue soffici mani

e indirizzata a chicchessia

(e già lo sai).

E resto alle pendici del silenzio,

dell’eterno turbamento

e dopo mi svesto, mi pento

dell’inclinazione e della delusione

(e già lo sai).

E scandisce la termica potenza,

trasuda la tua essenza trasmutata

e trasfigura il corpo

(oppure dormi?).

Le voglie ora più forti

gemono nel mio petto,

è tutta una rivolta

tutto un fracassante fermento,

le soglie del domani

sono già arricciate e dorate,

le mie umili intenzioni,

le tue etiliche serate,

roteante la saetta,

non hai età serene né godimenti

pei tuoi occhi, dolenti gli zigomi perversi

e caruccia l’ispirazione, i cirri fenici

restii all’assedio.

La tua parola mista all’ardore

è il portento reso manifesto,

la tua disinvoltura ribelle

è tepore sulla mia pelle.

Forse non è cominciato

tutto ora,

nasci ai primordi, la pace primordiale,

la musica ancestrale delle sfere,

la rivolta senz’armi di passate ere.

Forse da questi tumulti

figli del piacere mistico

e sovrano della passione sovrumana

senti il calore delle mie braccia

e protendi i tuoi progetti

a candide promesse perverse.

La frescura mattutina

mi ha liberato i polsi,

refrigerio della mente,

percepisco l’assoluto estasiato,

rigenerato,

rinasco per sempre

dalle spoglie del passato,

dalla cenere del potere maciullato.

Questa tua agitazione delle mani

rampicanti su pareti

mi ha ridato la forza

di distruggere con garbo

l’ipocrisia ferita dal nostro entusiasmo.

 

Ninfa alla sorgente

 

Si agitava come Ninfa alla sorgente,

che frescura dalle sue mani,

e leggiadra cantava:

“ove Amor co’ begli occhi

il cor m’aperse:

date udienza insieme a le dolenti

mie parole estreme”,

poi atroce si spogliava.

I

petali nuovi della primavera

gli dipingevano il corpo,

sapevan di pesco le soffici membra,

entusiasti i suoi denti sfidavan le stelle,

biancheggiavan le fronde,

era l’apparenza manifesta

della sublime essenza,

muta declinava.

Sorta austera la giovinezza

dai capelli vorticosi,

se fosse provenzale

magari direi senza esitare:

“lei tutta nuda si bagnava”,

disse di sì.

E quest’umile principessa austera

stasera ha fatto tardi,

alla fermata del metrò

si è messa ad ammirare ed ammaestrare

le sue docili belve, come gode

nel mutare le strofe,

nel sovvertire i suoi sussurri

rendendoli puri e oscuri

portando il tempo, la metro invertita,

intanto distilla i fiori.

Vita dalle braccia scagliata,

orma dell’eterno,

dai tuoi occhi un solo cenno,

io ti ascolto, come dici?

gradisci un caffè?

 

La sigaretta accesa

 

La sigaretta accesa,

il mondo gelato

tra le mie convinzioni

intente ad eludere paradigmi,

domani magari

pioverà in biblioteca,

addormentarsi sui tomi

delle tue illusioni e poi strappar

le mie delusioni e dirti d’un fiato…

Vai convinta, mia speranza,

vai taglia i ponti,

vai getta fondamenta del pensiero!

Cambiare moda e costume

con un cenno di mano,

anticipare, plasmare e dirigere

la società e gli interessi,

sentirsi dio in un istante,

poi trovare il limite nella noncuranza.

Cazzeggiare e fare domande

nel volterriano palazzo dorato

che non ne ha bisogno,

aver da ridire,

sprigionar l’assoluto

sentendosi dire: embè?!

Capir che l’infinito

per loro son due spiccioli,

un palmare,

e una macchina lucidata,

ed allora stanco e svilito

ti dico d’un fiato…

Vai mia speranza e mio amore,

vai mio unico futuro

che tu ce la fai,

vai annienta e crea

i nostri castelli voluttuari

e fermi,

vai ora parla tu,

vai.

Dare importanza al silenzio

in mezzo ad un fracasso

cui non si fa più neanche caso,

contar i giorni aspettando

la morte o i sogni.

Vai tu, vai tu,

continua ad inventar storie,

vai unica verità, vai.

 

Gioco di specchi

 

Lo stereo sembra muto,

la vibrazione è un istante

che risplende tutto intorno

e percepisco l’infinito in me,

il cielo stellato, mi accorgo,

altro non è che la morale

che ho dentro,

non credo di ardire

se il petalo brillante di brina

più prezioso è un dono

che cedo a te.

D’un tratto si impone il mio riflesso,

mi chiedo “io chi sono?”

e l’unica risposta che trovo

è nulla senza il sostegno di chi

indefinita e trasparente

è solo un’immagine contemplativa,

dolce, carina e femminile

nella mia mente.

Noi due distesi a terra,

ricordo che tremava il cielo

e la terra, tu sollevata ed io inclinato,

dove sono finiti i tuoi capelli?

L’alba, ancora lei,

ed io che muto la guardo

e assaporo le illusioni leziose,

non credo sia tra sogno

e realtà se collidono e si intersecano,

se dialettici si annichiliscono

e plasmano ancora te.

E magari che pretendevo?

È giusto che così resti,

è giusto così.

Ma non mi arrendo,

no.

 

Nuova Babilonia

 

Traccia i tuoi sogni

su rotoli infuocati,

e dissacrante dì di sì,

ogni bene si eleva

e scende in te,

il tuo corpo riflette

l’anima in forma di spirito

e dai tuoi occhi il fremito

già sa d’eterno,

il sole invincibile,

la luna imbattibile e seduttiva,

si imbandisce l’altare della pace,

arde la piazza della nuova Babilonia.

Ascolta la oscura

e limpida melodia,

dalle tue mani già si intarsia

il cielo, i sette candelabri

e i tre stendardi in rivolta,

con l’erotismo soggioghiamo

invidia ed ogni forma di violenza,

annientamento o morte,

poi la terra oscilla

insieme alla tua testa,

senti che il mondo è tutto qui

nel tuo palmo

e sprigioni l’atroce fascio cromatico,

lo sai nulla ti può fermare,

volano assieme buio e luce

figlie l’uno dell’altro mutamento.

E tre parole striscianti

graffiano i vetri.

Sogni misti alla musica

e le solfuree sensazioni,

viaggia la mente,

sfiora nuovissime terre, mari

e si libra nell’aria appena nata.

 

Berecyntia

 

Nube d’assenzio

discende lieta

sulle tue forme perfette,

un nuovo giorno avanza

e si dipinge lo spettro della vita

tra storie colme di verità,

anzi la venuta di mille colori

esplosi tra i rami spogli

un desiderio rompe ogni attesa

e si impreziosisce la tua fragilità,

un simpatico refolo

ti schiarisce la voce

e la realtà bianca e pura

è il tuo potere,

il solito crescendo tra le foglie

è l’apparenza dei tuoi capelli

di rame, dei tuoi sogni innocenti

e dei tuoi cenni perversi

di generalessa alla mensa

del sapere con l’elmo e il candore

di parole ferme e frementi

mentre scorre il tempo

e resti la ragazza di sempre,

la dominatrice di ogni sussulto

e di ogni canto.

In cima al monte bendata

sei il refrigerio dei miei pensieri,

la fonte dei miei desideri,

passano i mutamenti,

ritornano all’origine anche quelli,

ai ricordi dai forma e vita,

unito al cielo il tuo fiato gelato,

congiunzione dello spirito

tra labbro e fronte,

segnali occulti tra i righi,

spazi che colmano le indecisioni,

chiavi svogliate e da te sincronizzate,

mantieni il tono di voce

e impassibile ti addentri

tra i tuoi trastulli artistici,

creature immortali

alla tua sinistra,

stendardi e simboli

a destra,

mille diademi e l’assoluto

poggiati sul capo,

sospeso il giglio

e l’acacia tra i denti,

il leggio lì innanzi

emana leccornie d’incenso,

è tutto pronto,

inizia il folle e ardito sbarco.

L’attimo di silenzio

è riprodotto dal verbo muto,

l’aura alle tue spalle si infiamma,

si inerpica il violaceo riflesso,

tutto è stato detto,

togli il velo del giulivo

e del tragico incanto

e si arresta il flusso,

si intorpidiscono i sensi,

voci lontane sono un unico coro

e la linea delle cinque sostanze

un’unica barriera di forza,

l’uno invisibile diviene percepibile.

 

Pensieri silvani

 

Ad ogni modo

sto già disegnando i tuoi capelli

e smacchiando il volto

e il segno emerge del tuo pallore,

gelido il fiato inebria gli occhi

e i sensi invadono

le parole intracciabili,

vibra e si espande la tua effige

lungo radure di passioni mai sopite,

si unisce il tuo corpo

a ululati ancestrali e a suoni

pitagorici ma dionisiacamente intrepidi

e gementi mentre io col flauto traverso

mi assopisco tra la macchia

e la brulla gentilizia e cortese.

Il rimmel viola è l’ultimo baluardo

dello sfinito sentimento

notturno rovinato sul guanciale,

il lucidalabbra incantato

ed elettrico inonda la sponda

della mia ultima e definitiva verità,

poi oscilli tra i pendenti

che coniugano assurdi predicati

sanscriti e triplici risvolti annebbiati,

il fumo impone delusioni di catrame

tra i più astuti invernali scuotimenti

mentre io riposo derubato

dal me stesso più autentico

dimenticato e ridotto

ad ultimo brandello del silenzio,

a vuoto oggettino incendiato

e incenerito.

L’erba lì intorno delimita,

la mia essenza è in rivolta,

la mia voce sibila,

sorridendo mi eclisso,

a testa alta mi smarrisco,

intesso i resti del futuro

mentre tu guardi la mia agonia

intimidita ma altera.

Ad ogni modo

sto già dimenticando il mio sogno

e sono pronto a subire ancora

il giorno.

 

Spalanca la porta del tempo

 

Luce,

questa luce promana,

giusto un giorno di pura dualità,

cavalco rampicante in cima,

le ali dischiuse e gli occhi intensi,

sparge ardore alle mie spalle

mentre in fiamme implora

la città nuova,

o mia piccola sorgi fenice,

così hai già pronte le tue risposte,

o non lo so.

Torni lì, amor mio,

colmami, costruisci,

torna in me magica quiete

possente, colmami ancora,

confondimi, affonda i costumi e gli usi.

Scippa pure i tormenti,

inventa nuovi smeraldi

di concetti distribuiti

da alberi rovesciati,

radici in cielo,

frutti alla mia bocca sospesi,

mani protese,

nuovi animi rivoluzionari

tra un amplesso ed un altro,

e non c’è nulla di nuovo,

niente di che,

qui ed ora

la tua immagine magica.

Tendimi verso il cielo,

dimenticami nel nuovissimo ricordo,

controllami, costami un arditissimo

atomo siglato ed autenticato,

chiamami con echetti boschivi,

illuminami, costituisci l’ultimo intento evaso,

coprimi,

erbette velenose.

Vai dondola,

freme l’altalena,

vai canta,

si oscura la limpida sera,

vai soffia,

c’è aria di primavera,

di morte e di sublime

e tenera corinzia

e vandalica effige,

spalanca la porta del tempo.

 

Placida riposi su un tappeto di ortensie e di brina

 

Dolce serenità

risplende lieta

dai tuoi occhi

mentre il vialetto

si intreccia al tuo stupore,

al tuo muto gesto,

corpo d’incanto,

forme di pianto e riso,

intracciabile il respiro.

Arde il palazzo degli innamorati,

un canto s’innalza,

o mia luce,

mio empireo sospiro,

le notti ai piedi del tuo desio,

o mia ombra ansimante

prolunga i cenni,

immergimi ed esitante

porgimi il tuo saluto

come rimpianto sciupato

del giorno ormai passato.

Sorge dalle tue braccia

il sentimento e la passione

della mia età,

mi porgono le tue capienti

mani il manto ardito della verità.

Poi racconti le tue trame,

dici astrusi tuoi sofismi,

i tuoi siderei intenti stesi

e sfiniti innalzati dalle mie parole

e dai tuoi pensieri,

mi possiedi ed entri in me,

già sogno e quindi percepisco

l’aroma della maestà inviolata,

il sapore della bellezza somma

appena nata.

Il color vivace

dell’impronta umana

ascende e l’accoglie il ciel

quella tua encomiabile presenza,

il coro di mille serafini,

un paio d’ali trasformano

la tua perversione

in unica innocente realtà eterna

e lodo il coraggio invincibile

del tuo stupore irresistibile,

bramo te dal basso

e aspetto in meditazione

tutta la potenza

del tuo imponente terzo occhio

incontrastato e innalzato

a gloria d’altare.

E dallo scranno

anche l’intelligenza divina

ti cede il passo di candidezza vestita,

di gioia la tua maestranza infinita.

Sì, luce soffusa di ogni cattedrale,

simpatica vestale,

il fuoco si riaccenderà nel tuo tempio

e insaziabile sarà la folla in fermento.

Aprirà il nostro sogno

il clamore della più fervida rivoluzione,

della più intrepida immaginazione

resa atto dall’infinita oppressione

della gemente volontà martoriata

dall’inaudita arroganza plutocratica

e destinata ad un’infima resa.

Poi l’epifania dell’assoluto

sarà un intenso naufragio

tra flutti di speranze indomite,

poi tra noi le eloquenti assenze

segno del tempo nostro suddito tiranno,

preda dell’ultimo affanno.

Dischiuso il libro,

fugace lo sguardo,

disperso il senso,

amo il tuo mistero,

siedi sulle scale del pensiero,

cori cobalto intarsiano i frammenti,

dall’assoluto fisso e immutabile

nella nostra mente

componiamo il relativo,

specchio l’uno dell’altro infinito,

emblema dell’indefinito

a vivissime lettere composto

e deposta la morale.

Placida riposi ora stesa

su un tappeto di ortensie e di brina.

 

Ragazza d’Europa dimenticata

 

Dal silenzio

un ricordo invade il mio corpo,

guscio socchiuso per intuite

realtà celate,

la fiamma da gloria è accresciuta

e i segreti dello spirito son manifesti.

Per spiagge di sera

inumidisci i tuoi occhi dissacranti,

il trionfo dell’uno nei movimenti tuoi.

Oh maraviglia

vederti sgargiante

che premi l’indice

sulla mia fronte

e mi sfiori le labbra!

In questa follia d’amor

non c’è altro che te,

ragazza d’ Europa dimenticata.

Al fragor delle onde

scuoti con il tuo assurdo vagar,

accendi le stelle

e assapori distratta

le conchiglie al collo

come fossero caramelle.

Oh bellezza il tuo piede fermo

ed in avanti proteso!

Oh goduria

il sorriso sbarazzino

e il volto da cherubino!

Sembra già che per migliori acque

alzi le vela la navicella del mio destino.

 

Uniti all’imbrunire

 

Uniti all’imbrunire

tra i nostri entusiasmi

e le illusioni

non ce n’è più ormai di spazio

per sbandierare le passioni, sai.

Il vento soffia già,

parole non ne ho

e tu non ne dai,

nell’indicibile germoglia il tuo sospiro.

Potresti aderire a un nuovo fermento

ma sfinita deponi la banderuola

del nulla, ti spingi ancora

oltre ogni confine,

mi stringi e dici

non ci sarà mai fine

ma comunque il verdetto

è stato estratto,

cara mia amica

inauditamente bella stasera,

siamo smarriti tra i nostri discorsi

ignorati e d’altronde potremmo

qualcosa di seppur lieve modificare,

non tutto andrà perduto allora?

Ridiamoci su!

Posi un tempo assunti

tra i tuoi silvani capelli,

a volte corvini a volte cinabri,

il braccialetto con grazia lo sfiorai,

alberi maestosi tra le vivide speranze

sottomesse rinacquero,

noi eterni,

noi soli al mondo,

noi padroni della natura.

Uniti i nostri destini,

non c’è violenza alcuna

che divida ciò che l’imprudenza

ha in onor sublimato,

poi non c’è possibilità

di arrenderci

anche se trafitti, dal buio

e dall’ombra beffiamo

e risorgiamo.

Il vento non dimentica,

le dolci bestiole col musino

accarezzano le nostre gambe,

l’indice in numerazione assurgerà

a limite unico di verità

e il per sempre sarà

la nostra più profonda realtà.

 

Processo alla Lamia

 

“Calpesta il crocefisso,

sicuro non ne morrai,

non siamo nati per soffrire

ma per ridere e danzar.

Parto per altri sentieri,

mi aspettano nuove età,

l’ombra coi suoi misteri

è l’unica salvezza.

Nel godimento sfrenato

non si arresta il riposo,

tra riti egizi di sabato

sboccia il vero amore”.

La ragazza tradotta

con forza dinanzi la corte

restò a testa alta

e con un sorriso di sfida

spalancò gli occhi,

le altre sorelle distanti

legate a ruote appuntite

invertivano il loro umile sentire

e come premio

folli confessioni

poi autenticate.

“Eva airam

aitarg anelp sunimod

mucet atcideneb ut ni

subireilum te sutcideneb

sutcurf sirtnev iut

susei atcnas airam

retam ied aro

orp sibon subirotaccep

cnun te ni aroh

sitrom eartson nema”.

Dimentichi del verbo

lessero l’astuta sentenza,

Bartolo da Sassoferrato

il parere contro le donne

mai lo diede,

siete adusi a falsificare

come con l’atto di Costantino,

mi sembra sia chiaro che per voi

se non sottomesse siano pericolose.

“Si quid in me non manserit

mittetur foras,

sicut palmes et arescet

et colligent eum,

et in ignem mittent

et ardet”.

 

Danza mattutina

 

Si aprono le porte,

entri il destino,

mistero del tuo viso,

il tuo cavallo bianco e alato

è l’intimo mio fiato,

perso il sostegno,

rinato il sentimento.

Agghindata da corone

e fasci di luce,

tre fiori alle giunture,

senti il mio tormento forbire

un languido lamento,

capovolta la carta,

lanciata l’unghia alla ribalta,

lo smalto dirompente in furore

sorprendente.

La positura assunta

è uno stralcio di vendetta,

ai piedi la succosa uva,

inebriami il palato col passo pervertito,

la curva della vita a circoli tornanti,

due limpidi diamanti

ritornano in germoglio

tra i preti nascosti del tuo cuore,

è un attimo e l’ altrove

è un assioma indiscutibile,

la mano stesa intera

su labbra sognanti,

spallate diroccate

tra i viaggi

e le mattine divine sciupate.

L’ospite inquietante

ti cede il passo,

nel nichilismo

il tratto di matita,

non c’è più arte

che stia al passo col costume,

dov’è finito il canto?

dov’è la partitura?

dov’è la tela dell’incubo

che svela aforismi notturni?

le percussioni e i sussulti violati

da baci miscelati di gemme

in sé trafitte,

così stroncati e assaporati

da inutili ingordi palati,

melodie in sordina

tra l’ultima goccia di brina,

tremula la foglia,

si inonda e poi si spoglia

della primula l’ultima onda.

Sulle scale riallacci le ali,

sei pronta a planare

su vermigli praterie,

una baraonda nel ricordo

del passato,

scuoti il maraschino,

secerni un invettiva

imboscata e disillusa,

l’ascoltatore muto,

sul ripiano l’ultima missiva,

nel petto l’intima riscossa,

bianca acacia colta.

 

Sweet trip

E quando finiscono le parole

resta il tuo corpo steso

tra i rifiuti il senso

e il tutto in te,

tre gocce rosse.

Frammenti delle idee

inutili e umiliate,

ignorate, l’oscuro velato

sugli occhi, spine

le rose pungenti,

cosa vuol dire un addio,

un luccichio di vetro,

non c’è più realtà,

e le tue calze in vista

tra i rami e il vento tiranno,

tra i sogni oramai deposti.

Questa vita più non ha fluorescenze

e quindi speranze, muta e stupida

ti invita ad un’ eclissi dei ricordi.

Pullula nel sangue la sostanza,

contrasti nella stanza della mente,

il tuo ultimo gemito e poi

un desiderio remoto,

l’amore che brami distante da te.

Basta,

dici tradita dal Fato,

costruire l’intenzione sciupata,

così finisce tutto?

Fosse mai cominciato qualcosa,

a iosa sul cucchiaio il limone,

prendiamo, ti va? Un tè assieme?

Magari sì,

non dir così,

il tempo scorre,

i secondi smeraldi rallentano,

la pioggia ti bagna le gote perverse,

ed è già notte,

un urlo instabile

e l’angoscia dell’oggi,

del nuovo sé,

incostante il sillabare,

disforia e sinestesia,

euforica paura.

Avanzi lenta nel campo,

incubi incisi incunaboli desti,

immobile il verso diretto

alla meta schiarita,

rauca, romita.

Qual è il prezzo della felicità?

Gli echi sull’ultima corda

son elettromagnetici richiami,

ci vai.

 

Tu visino buffo

 

Hai trovato nuove possibilità

tra le carte sciupate dal tempo

e comincia una nuova età.

Volevi dare spazio

a chi non ne ha bisogno,

volevi andare oltre la realtà.

Tu visino buffo cambi già,

da ieri si trasformerà,

si scaglierà, il mattino

sorgerà incauto per te.

Sul muro impressa

una stella,

ti pare possa immaginare altro?

il tuo nasino all’insù,

ah come non far virtù

del tuo intelletto supremo!

Ti vorrei sospirare

come fai tu all’istante

coll’effluvio del senso,

piene le otri delle intenzioni

nel campo delle passioni

e le ali delle illusioni

sono già su di te.

C’è un fruscio di parole

che viene verso me

ed è brivido in versi il tuo volger

lo sguardo fuggevole qui,

sei già intatta nell’anima mia.

Ti vorrei ritagliare

e imprimere su filigrana,

dalla neve sulla fronte

preme l’intrepida sponda

della rimembranza,

le nuvole son fisse già su di te.

 

B

 

Mi stordisci con le trame

subito imparate,

con le parole confuse sussurrate,

con i sogni soffusi del timbro di voce,

ok continua così.

Vibra la corda su distese infinite,

è un protendersi il tuo braccio

verso realtà sopite,

destate dai tuoi accordi,

fresche mattine,

ok l’aria è già buona.

E parti spedita,

non ti reggo più,

inizi a sciorinare sofismi musicali

così dolci e così chiari

che sembra assurdo

non ci abbia pensato

qualche divinità a modellare

il corpo con tale maestria,

con sì velata umiltà,

possente verità.

Assetto da occidentale

composta assumi nella tua posa

inebriante, le bollicine pizzicano

l’arpa ed è il verso concatenato

al portamento,

ok va bene così.

Sentimento sancito

da verdetti inflitti dal tuo dito,

da quel segno che rimanda

a una speranza espressa,

sembra quasi che la natura dica:

sei tu l’unica via.

Non c’è fine allo splendore

nel tuo regno incantato,

farfalle svolazzanti

in mille varietà cromatiche

inondano me che sono sabbia

e tu tranquilla resisti e sorridi,

o mio dio come fai

a non perder i sensi a tal suprema,

candida tua bellezza?

Vorrei tracciarti indelebile

come se tu fossi la stagione

prossima all’introversa esplosione

che in manifestazione

giubilante mi estasia

e su di giri batte il tasto

sulla tastiera con te che mi possiedi,

entra in me una tal gioia

che solo il bacio impresso

sulla mia sfinita fronte

può di più,

e già lo sai.

Sapori di ogni sorta

e di ampio respiro

nel trepidante sorriso

che investe l’aere di effluvi suadenti,

risplendono ancora

come stelle i tuoi denti

e nell’illusione sei già

in tensione riarsa

e saturnina danzante.

Vorrei per sempre

stringerti tra le mie braccia,

cantar fino a tardi assieme a te,

fuggire dal mondo

e trovare me nei tuoi occhi,

va già l’ultima nota

della nostra canzone,

dici già

la la la la la la la la,

io ti voglio come mai questa notte,

le tue mani trepidanti su di me.

 

Un’onda gela i tuoi occhi

 

Gemi,

tra i residui dei nostri domani.

Un’ onda gela i tuoi occhi

nel vorticoso ingorgo

del nostro eterno

mare assorto.

Pensieri spersi

nel desio mattutino.

Destini indomiti e sommi

al calar delle tenebre

sui nostri corpi.

Sensuali sapori notturni

sulla tua salata pelle

intarsiata d’ allori.

Godi,

percepisci il fremito di mille rivolte,

l’Europa masticata,

l’Africa violata,

corpo sedotto dalle mie passioni.

Non dissi parole

che non siano infinite.

Odi,

il pullulare cromatico

dei nostri destrieri

privi di brade.

Innalzati,

nulla fermerà la verità.

Scrivi,

speranza ultima deposta.

Leggi,

memoria ellissoidale fluente,

sgorga tra le fronde,

assapora i frutti dolci

della conoscenza,

dove non v’è bene,

dove non v’è male,

dove non v’è altro

che non sia amore.

 

Melodia al Gesù Nuovo

 

Allora è vero

esiste quella melodia

che in silenzio ci guidava

nella piazza,

era già intuita

dagli artisti di strada,

noi abbracciati

su di giri

trasportati dal suono intenso.

È così,

è impressa sulla facciata

del Gesù Nuovo

in aramaico,

quante notti d’estasi

ci vibravano il cuore,

l’erba nella mente

spalancava le porte

della nostra percezione,

il silenzio,

poi un soffuso sentimento.

Casomai di me ti ricordassi,

spalancando gli occhi piangeresti,

nostalgia

e desiderio di abbracciami

ti dipingerebbe il volto,

sì oramai non ne vale la pena,

ma ricorda avremmo cambiato

il mondo,

io e te, infinito dentro me.

Come vorrei che cambiasse qualcosa,

il tuo sguardo forse il coraggio

mi darebbe,

ma siamo ormai lontani,

te ne prego volgi gli occhi

verso me,

fidati,

stringimi le mani.

La notte copre candida la città,

mille luci sono la unica verità,

io ti vorrei ancora a cantar

ma è assurdo,

comunque potremmo ora

davvero cambiare il mondo,

tu sorridi

e l’ultima carezza mi porgi sublime.

 

Madame Tolkien

 

Adagiata su terre perse,

i ricciolini neri sublimi,

lo ammiri il tuo ciondolo

dall’arcaica incisione,

sospesa vibrerai

dipinta di potenza.

Brami nell’abisso,

sgorghi a cor trafitto,

forse nulla ti rimane.

Parlerai alle stelle con grazia,

forse entusiasta sorriderai ancora,

un passante ti guarda e ti strizza l’occhio.

Carica di illusioni vibri

tra l’inconscio e le passioni,

la lingua prebabelica

ti cede gli affanni

e tu come ultimo fiore la cogli.

Io ero sperso sui bordi del definibile,

tu muta mi guardasti

e con un cenno il mio cuore colmasti,

ora vivo per te.

Quel vestibolo nella positura

atroce di templi dimenticati

era una intima rivalsa,

contemplavo l’immago in silenzio,

forse si è trattato solo di un istante,

ma non voglio dimenticare.

Madame dell’intelletto,

Madame del logico discorso,

non posso ignorare nella notte

il tuo volto perché ogni cosa

ha un riscontro esplicito

nel tuo corpo,

ogni cosa respira sulla tua pelle.

 

Ritmato il verso

 

Ritmato il verso,

posto l’inverso.

Sorge un luccichio,

vibra il crepuscolo

nel sentimento.

Passa al successivo rigo,

volta la pagina.

L’entropia diffonde gemiti

da sponde,

limite del mare,

illusione di sprofondare,

la genealogia dell’evoluzione

è una conclusione ciclica

e statica delle nostre passioni,

l’energia cosmica investe la fronte,

rapida è in espansione

la mente dispersiva,

concentrica e centripeta

in sé condensata e concentrata,

lo spirito plasma la naturale

fisicità e il reale è frutto

di nostra intima proiezione.

 

Assurda questa vita terrestre

 

Assurda questa vita terrestre,

ludica l’unica forma di senso,

che strazio,

imploda il mondo.

Le attrazioni magnetiche

ci spingono altrove,

perché soffermarsi su tali

questioni banali

da viscide bestie squamose

nel fango a godere?

La verità va cercata

in prossimità del sole.

La serie dei numeri primi

ci spinge lontano,

ai bordi dell’abisso

e via da questo orribile Leviatano,

occorre esulare l’anima

dagli influssi societari.

L’effluvio astroso della gemmazione

estrosa posta sul tracciato

epidermico inviolato,

brivido ibernato da elettronico

spasmo periferico neuronale.

Ad est la genesi

e la scoperta

che tende un po’ al tramonto

a falce lunare di esseri divisi

a metà e senza forma dorsale,

prete Gianni nel suo impero

a fare segni insegnati dai magi

rende onore a chi non ha pudore.

Il cloruro di zinco

posizionato in trasversale,

la scissione intermittente di viole

e sentinelle oblique

danneggia il sistema

e l’ozono in combustione

già mostra la sua assurda

delusione al primate dominante

e in sé morente.

L’hobbit e il neanderthal

estinti o nascosti,

ritorna il numero sette

in successione, e svolti in progressione

il soffietto con il berretto da pub.

 

Mädchen Wagner

 

Fremo nel guardarti

contro vento,

la fiamma emana dall’aura

posta intenzionalmente

in rivoltosa riscossa

come involucro di potere,

sciolte le ultime catene dell’ignoto,

pallida la volta celeste,

l’influsso del diadema dell’aria

è belva sul tuo corpo impressa

e dominata.

La valida sordina

incute timore,

amplifichi con grazia

il rimando sonante del tuo cuore,

ed è un’ armonia celeste

improvvisa,

su spiagge le candide sfere

luccicano

e l’estasi del logos

è resa manifesta

dalla tua lingua perversa.

Ti elevi nel godimento

e sfogli il senso delle lettere

singole che logicamente

implicano strettamente

o negano amorevolmente

il barlume del tuo magico silenzio.

Occorrerebbe saltare

in giubilo scostante

l’eterna communitas astrale

e ginestriana in comunione

col sapore vitale

della tua furbetta ed edonistica

congiunzione carnale.

In preda all’incoscienza consapevole,

gemma di bacco,

sulle tue labbra il tepore.

Pullula il cardigan

e scrolla il decolleté,

lo sguardo lancia saette,

il rombo dell’intrusione,

è un sollievo l’invasione impostata,

stendi sul piano le tue carte migliori.

Mia indomita ragazza,

percorri pure le soffuse

storie saltellando di rigo in rigo,

mia indomita ragazza,

continua.

Il chiaro ci invase

ed accrebbe il tuo karmico

sorso intenso ed interdetto,

la punta della cresta intorniò

i trambusti di rame,

le scaglie ed i selciati, gli archi

trionfanti e i semicerchi residui

di battaglie ci raccontano storie

permeate di sollazzi mai abbandonati.

Le foglie ormai sono assenti,

ma il declino di questo febbraio

è un presentimento,

un pentimento

e un portento deluso.

Mädchen Wagner,

il buio è in te,

l’ultima spoglia spirituale

solleva il manto stellare,

il futuro a due passi

impresso nel tuo tema natale,

l’antropologico senso,

poi di nuovo l’iniziale

espansivo fermento

e fremo.

 

E poi è silenzio

 

Mi chiedo quale sia

la conseguenza del lineare assunto

scomposto dalla foga

dei tuoi capelli ricci,

un alito sul mio corpo

pone desideri germogliati,

oasi nel deserto,

poi irrompe la concatenazione

ancora frammentaria.

E l’entusiasmo che c’è in te

esplode e si spande,

universo mobile,

l’interno del tuo indumento

decorato e un po’ sciupato,

l’attento mio tracciato,

il vento ritoccato e le tue labbra,

i tuoi segnali stuzzicano il ricordo,

stendono un sincero e puro sogno

sbaciucchiato, miscelato il composto

del tuo spasmo,

soluzione indomita nel tuo fianco.

E dai,

te lo dico.

Traslata la giornata

ad incubo diurno,

succoso gemito succube

notturno,

uno sguardo inquietante

poni ma non regge,

il visino dolce ancora vince,

si spoglia ogni rimorso

e cadi di nuovo umida

tra le mie braccia.

E poi l’eterno accordo

è il circolo del tuo ritorno,

sovverti in musica dotta

il cantico e l’inversa rotta,

dionisiaca ispirazione,

apollinea composizione,

hermetica significazione,

spiazzi come una suadente

Eumenide ecumenica

universalizzante

che ha già consumato

la vendetta ed ora docile

sorride angelica,

esorcizza il timore

con un’ultima carezza

che sfiora le corde

del famelico e colpevole

cuore che ha osato tanto,

che è scivolato,

reimparato il mondo,

sciolto i lacci al turbamento.

E poi è silenzio.

 

L’aurora di una Nuova Era

 

Immenso fluido vitale

nelle corti spagnole e siciliane.

Brivido intenso!

Genesi ed epilogo

intuiti nel noumeno

impensabile in paradosso,

ondeggiante la ragazza avvolta

dai capelli e commossa.

Germoglierà di nuovo

un logos erotico,

planante stormo di uccelli migratori,

i pensili babilonesi

ed i trattati sulle leggi

e sull’essenza,

pareri e digesti,

compilazioni giustinianee

e folli bolognesi che decretano

favori al Barbarossa

in cambio di autonomie

pur sempre autofinanziate,

l’inverno è al limite del senso,

quel che piace a me

ha valore di nichilismo volitivo

e completo abbandono

sensuale e spirituale,

di norma ciò ha vigore universale.

Parte la mia sacca

sulle spalle involucro

di questo corpo tremulo,

la verità ci sarà e sarà la gloria

di ogni mortale,

incorniciata dallo Stupor Mundi,

ascenderò in sul Monte Ventoso

e l’alma sarà purificata,

mi addentrerò nella Foresta Nera

dove alberga il nocciolo

di ogni sostanza,

l’anima espressa in rima

in una stanza fissa e armoniosa,

perfetta e caotica e smaniosa.

La bellezza greca, infine,

spanderà i miei gesti su Thirassia

e sarà l’aurora della Nuova Era.

 

Ommico il cuoricino cosmico e dialettico

 

Entri il fumo

e l’atmosfera si rarefaccia,

volta pure la carta

a ritmo con l’oscillazione

del ventre,

di’ ancora sì

nel mistico anfratto

di un artefatto cordico

e sognante, trasudante,

cosciente a metà

volgendo l’ altrove

a sogno

e tre quarti a realtà.

Ommico il cuoricino

cosmico e dialettico,

il detto sanscrito intatto

è un disegnino a freccette sbiadito

e smacchiato sulla panchina

paonazza, in viso il corpo

e in piazza il grido.

E ritorna il ciclico arnese

in frastuono sordo

tra la cenere del tempo

ed un assurdo anelito del vento,

il corso del tempo non s’arresta,

maya scricchiolio nel vino,

la giumenta in tempesta

posta d’assedio dal velo,

il vespro dà segni di resa,

e rientra in chiesa

la cattedratica colonna

portante del pubblico studio.

È un colpo sonante,

tramuta il ritmo,

rinsavito, tra i fasci di parole

recate in man come i pensieri

violati, violette le onde sonore

similmente alle luminose,

il corso e il ricorso

in n dimensioni

si riduce improvviso

a circolo mattutino,

ad infinito punto.

 

L’infinito tra le tue mani le mie umili dita dipingeranno

 

È sera e il senso storna

ogni possibile taglio

dei tuoi occhi,

magari è perso il sentimento puro

per sempre.

La stella brilla e inonda

con discrezione i miei pensieri

ed il tuo viso,

volge un sogno malinconico,

io resto muto ai bordi

dell’orizzonte dei tuoi desideri.

Il desiderio innalza

le mie passioni verso

le nostre intromissioni ardite,

non dire una parola,

basta lo sguardo,

pensi anche tu

a ciò che immagino soltanto.

Smetti,

non ridere ancora,

è solo un ardore

che non ha speranza,

magari tu ci riuscirai,

ma io, io che farò,

ancora cosa?

Parlerò nel vuoto

di un mare di silenzio,

ogni giorno loderò

le tue forme

e la tua più intima sostanza,

il concreto tuo fare astratto

e magari un nuovo sorriso

accennato il tuo cuore

verso il mio corrisponderà.

E adesso che fai? Sogni?

Non dar peso alle mie parole,

sono vane profusioni.

E adesso che fai? Piangi?

Guarda questa foglia appassita

tra le pagine della tua vita

è un ricordo ormai sbiadito,

io anche se solo, lo sai resisto,

lo sai esisto.

Passerà,

anche questo dolore finirà,

un nuovo giorno

la gloria infinita ci renderà,

senza limiti il nostro palpito sarà,

l’ infinito tra le tue mani

le mie umili dite dipingeranno.

 

Assunti pratici

 

Due bottiglie di vino

e il fumo intenso dalla bocca,

le parole intrepide

a ridosso della stanza

mentre una musica guidava

gli astri nostri,

un tepore puro

da usare come tamburo

per i giorni che sarebbero venuti,

l’autunno che danzava

e l’erba che bruciava silenziosa,

poi i sogni e tu guardavi

come assorta questa luna rubino.

La “V” congiunta col tuo nome,

l’anarchica rivolta esteriore

e il panteista sussulto interiore,

il nostro essere che si tramutava

in inconscio collettivo,

quindi tu,

con lo spirito nel piercing al naso

manifesto, il solco della tua lettera

sulla cenere tracciavi.

I canti delle baraonde

soffocavano il pudore ed i tabù,

traslate sulla parete

erano le nostre catene,

il tempo come al solito non c’era

e per questo non sentivamo

neanche il bisogno di rimandare

il godimento bello e pronto,

dalla conchiglia sorto

il tuo corpo.

Lento l’indice sulla tua schiena,

scendeva poi senza remissioni

e in quel momento il tramonto

fu l’istante di ogni giorno.

Novembre continuava,

danzava, guardava, rideva,

le nostre carni avviluppate

sviluppavan pensieri.

Per sempre fu

ciò che il vento ci disse,

ancora la luna ribattette,

noi nemmeno più ascoltavamo

e l’energia esplose e si espanse.

Ancora!

Leggiamo nella mente

la frase invisibile del nostro libro

mai scritto.

Per sempre!

Suoniamo e canticchiamo

quella canzone da noi

mai composta.

Ancora!

Esponiamo su parete

il disegno su carta

mai tracciato.

Per sempre!

 

Ultimo fiato

 

Il sole brilla

senza di te,

ma l’essere sussulta

e allora l’astro non esiste più

se lui non c’è,

ogni cosa ha il suo limite,

sfiori austera l’impossibile,

la paranoia che si impone,

la mente non è scissa è condivisa,

il flusso telepatico dell’attimo,

il ronzio variopinto di un perché,

sapori nuovi sorbiti

con il maraschino,

dov’è la rivolta

dal colore spagnolo

e dal manto francese?

Smorza ogni dolore

in un incendio giocoso,

tra le corde tese

ed i tumulti del pensiero,

provaci ad ascendere.

Ogni cosa,

ogni rosa è colta

dalle tue dita

e il tuo viso dipinge

l’assoluto di una eterna vita.

Io e te a due passi

distanti in numerazione

dialettica e prima,

io e te retorica geniale

di un genealogico domani

aurorico e intenso.

Io e te l’ermo nascondiglio

e l’eremo intruglio scandito

pluricellulare

da totem monolitico

e squarciato come velo violato.

Io e te

e poi le parole scordate

che non vanno a tempo

ed ancora tu sul divano mediano

a consumare con l’elmo

la frescura ed ad entrare svilita

nel senso,

cogliere il segno decifrato,

è autoimposta da te

quest’azione come ultimo gemito,

ultimo fiato.

 

Limite floreale

 

Fa rotta capovolta il pensiero,

naufragio nubiloso

ma in porto sicuro.

Fa baraonda il sospiro,

spasmo diurno

nel tepore mattutino.

Integrale delimitante

di misure astruse stereotipate

in piani animosi,

il barlume di terracotta

sbriciola tra le mani corrotte.

Agguanta il chiostro,

in un palmo statico placalo,

nel mentre del ricordo

un’effe alla riportasi

del pavimento cosacco rampicante.

 

Succubi alla profezia

 

Succubi alla profezia

si partiva,

centomila armate schierate,

marce e petti impostati,

rami d’ulivo

e palme tra le mani,

all’improvviso il cataclisma planetario,

l’infinità dei mondi

ridotta a circolo delimitato

dall’invettiva,

dall’inventiva femminea.

Nel tempio di Delfi

la comunità di Filadelfia lesse,

i copti intralciati dalla Maddalena,

intimamente riapparve Atlantide,

con nocumento,

gli dei torneranno,

sono tornati

o stanno avanzando.

Nella Città Eterna

fu un lampo a scatenar la foga,

in un solo istante

fu riacceso il fuoco di Vesta,

due metallare in un angolino

a fumare,

tre scuotimenti emo

a tagliuzzare i resti artificiali

del domani,

a riaccordarli,

a incollarli ad uso collage dadaista,

sembra che sia sublimato

il punto alternativo di vista.

Nella volta celeste

diversi segni luminosi ingannevoli,

nella stratosfera i caccia americani

si accostano e implodono

ad uso cheeseburger,

bevanda e patatine

ovviamente comprese.

Infine lungo il corso

si sviluppa l’apocalisse,

tra le caldarroste

e gli artisti di strada,

spiazza l’iceberg inflitto

a colpo d’ascia

della scienza spiritica

congiunta in sezione aurea

alla naturale.

 

Stringimi più forte

 

Luccica alla sorgente

il mio spirito in refrigerio,

nasce di nuovo e si rigenera,

puro si spande intorno,

la limpidezza riflette il tuo corpo.

Stringimi più forte amore

ancora, con ardore

inumidiscimi le labbra,

intimamente diventi il frutto

di ogni mio giorno addolcito

dal tuo sguardo e dall’incanto

dei tuoi gesti, ti dico

nulla d’importante,

contano le azioni

sulle intenzioni,

la volontà svanisce

e resta il profumo assoluto

dei tuoi polsi.

E il sole fa capolino

tra i monti innevati,

nello stesso istante appari

come fiamma inestinguibile,

anche la passione è annullata,

resta solo il tuo respiro

sul mio collo,

il fremito,

il ricordo attuale

del qui ed ora.

Scende la mano

sui miei fianchi,

il tuo struscio inclinato,

credo che adesso non abbia più senso

ogni altra realtà,

si avviluppa come un guscio

la bolla dei nostri sogni

e germoglia un’energia

che dirompente domina ogni dove,

la sensazione infinita

di respirare assieme alla natura.

 

Forse una speranza nuova c’è

 

D’altronde tramutare i petali

in canti disillusi

è spogliarsi di sé stessi

per godersi,

magari potremmo dirci

le solite parole

trovando un senso incontrovertibile

e davvero puro.

Allo stesso modo

un’ armonica a sette punte

include il ricordo sostanziale

e indelebile.

Non c’è altro da aggiungere,

non c’è neanche il fuoco

per le estrose storie abbrustolite

e nascoste.

Non c’è il tuo volto

ad illuminare,

non c’è la sera

né la parete da imbiancare.

Dai,

potresti pure darmi un segno,

un cenno,

è importante la tua presenza

in trasparenza eterea.

Il prato intanto esulta

a questa tua rinuncia

mai arresa,

così per te l’importante

è quello che meno dici.

Scorre il tempo,

il nostro varco si confonde

col reale,

dove è ciò che abbiam lasciato,

di noi cosa rimane?

Allo stesso modo

il volo incerto degli stormi

in ritorno consuma l’attesa.

Non è questo ciò che credevamo possibile

e realizzabile,

non è ciò che aspettavamo

dalle pagine scribacchiate da me,

da te, dal vento, dalla pioggia.

Dai,

potresti anche cambiare idea,

l’inverno sta svilendo

forse una speranza nuova c’è.

 

Persefone è sulla soglia dell’Ade

 

Scuotimenti!

Persefone

è sulla soglia dell’Ade,

in bilico tre soldi

per tirare avanti

nella vita terrena,

dov’è l’oscuro, la luce e il senso

di questo infinito tempo delimitato?

Indossa un jeans macchiato,

ai bordi consumato,

le forme, le fantastiche gambe,

sostanziali le giunture,

procede traslucida,

dolce il frutto assaporato,

muove il suo corpo stupefatto,

è quasi qua

e dice ciò che sa.

Convulsione atroce febbrile,

eziologia psicotica,

psichedelica!

Attira a sé il vento,

fiorirà senz’altro il pesco,

c’eri tu ed esco,

lei aspetta ancora,

il whisky sul tavolo fa capolino,

ed è già mattino,

subito sera l’atmosfera,

le ringhiere irretiscono il cretino,

il pensiero è sbarazzino,

due o forse tre soldati stanchi,

non prendere il sole

nei mesi con la emme,

fede nel sistema e dimmi sì,

il fiore germoglia

nell’introspezione misterica

di Melissa P,

sento il sangue che fischia,

sinestesia uditiva

in percezione esaustiva,

panico tra la folla,

scioglie la neve tra i tropismi,

vasi comunicanti i nostri sentimenti

corrispondenti ed elettivamente affini,

sgabuzzini stanchi delle parole,

e nel frattempo il tempo incalza e sta,

tu stagioni pianta fagocitante

americanate dimenticate,

sulla strada zoofila di Berlino

togli un’altra costola antitetica,

giusto così,

la metro dà affanno,

timore reverenziale,

spiccioli sul crinale,

sull’ultimo vaticinio astrale,

che carino il tuo cappellino

che ora sollevi fissa e triste

alla Feltrinelli, ultima martire

dei tuoi astrusi rotoli confusi

raccolti e pubblicati,

il senso questi tre grammi d’erba

finissima ed odorosa

lo danno solo se bruciati ed aspirati.

Inutili spasmi da rigurgito morale!

E che sguardo carismatico,

la realtà tornerà fiera,

cosa diremo e che faremo? Non importa,

non ora, continua a parlar…

Impulsi elettrici,

impulsi magnetici,

impulsi elastici!

Respira senza fiatar

ora Persefone

e ci guarda, la distanza inganna,

seguivi i campi d’ulivi,

i sempreverdi pungenti e soli,

un po’ corrucciati,

un po’ svogliati,

assi rossi a vertigo

arrotolata e minossica,

giudizio perfetto

da teoria del discorso pratico

particolarizzato

in argomentazione giuridica

spiccata a dorso di limone,

acre il pendente,

reale il razionale

ma trascendente l’istinto,

tabula rasa sapiente,

saggio è colui che sa di sapere

perché corrispondente

allo stimolo della natura,

la realtà sensibile

nostra creazione

rende immortale

ogni nostra azione.

Agitazione,

magica intrusione!

Così l’apparenza vince

e trasmuta l’essenza in verità

ovvero realtà plasmata,

giusto un attimo ed arriva

la principessa del mondo

sotterraneo, giusto un attimo

e superiamo l’oscuro Tartaro

con la luce e la grazia divina,

è già mattina.

Le connessioni sinaptiche

sono manifestazioni spiritiche!

La storia schiude,

la sfera dell’assoluto è l’ultimo astro

percepito nell’umore del fumo

aspirato in estasi,

la grande opera dell’Architetto Divino,

la sezione aurea

del dio matematico e simpatico,

e nel sortire sentenze carine

togli ancora il copricapo,

fili tesi dall’ultimo fiato,

risultati seriali scagliati

e resi unici.

Ulteriori agitazioni!

 

Alta la mano fino al cielo

 

Alta la mano fino al cielo,

la rabbia nel pugno chiuso,

l’urlo diffuso

irrompe il silenzio

e si spezza il barcollante

potere come se fosse gesso,

argomenta dialetticamente

con quelle facce di bronzo

ministeriali

che sputano le loro sentenze

come fossero lama,

abbiamo noi da distruggere

i principi e costruire

su nuove fondamenta la realtà,

abbiam bisogno di concretizzare

la nostra più pura verità.

Dimmi un po’ perché ti arrendi,?

Non intravedi già nella tua mente

una luce soffusa e lontana?

Dimmi un po’ ti sembra il momento

di deporre le armi?

Il mantello scintillante

riflette le mie speranze,

quelle che erano anche le tue,

quelle che sono anche le tue.

Sfida ancora con una lancia il cielo,

innalza la torre contro il potere

morale figlio della moneta sonante,

della moneta invadente,

della moneta viscida e strisciante.

Dimmi un po’

piccola pulzella ribelle

dov’è finita la foga

dei tempi ancestrali? Dov’è la rivolta?

Dove sono le nostre candide ali?

Dov’è la fortuna

e il destino

del nostro servo arbitrio

che un tempo ci guidava,

che un tempo ci sfidava,

che un tempo ci seduceva,

che un tempo ci dominava,

che un tempo ci innalzava?

Guardami fisso negli occhi

e per un’altra volta fiorisci,

per una volta ancora tendimi

la mano, per una volta ancora

questa subdola ingordigia umana

condanniamo e soffochiamo.

 

Sfiorasti, ne hai memoria?

 

Sfiorasti, ne hai memoria?,

l’animo mio in colloquiale tesi

di cazzimmoso frumento,

un corpo docile e perfetto

il tuo sotto il dominio darkettino

del senso polemico,

le fauci man mano

dall’allontanamento

hanno triturato e maciullato

le caramelle filanti,

gommose e zuccherose,

hanno ingurgitato carne compressa

macchiate di salsa rosa,

in preda all’affanno ora

ogni tuo movimento.

Assurdo leviatano adagiato a sultano,

con un giro di volta si impostò

e smaltì tutti i dubbi

in certezze fameliche e insaporite.

Guardati come sei,

stazionaria in quiete

e cinematica all’apparenza

ma terribilmente conservatrice,

quasi bacchettona agnostica

e bigotta atea,

ah quegli occhietti di metilene

si sono trasformati in un puerile

turchino da sedentaria.

Sfiorasti, dunque dicevo,

il mio cuore,

gli avvenimenti susseguiti

da ideologie scarne,

che romanticismo da cuore

nelle freccette spezzate,

fai pena al collare di un cane.

Guardati allo specchio

sei minuziosamente inutile

e depressa

quindi colma di serena felicità

da armistizio americano,

democratica alla McDonald,

ah ricordo le avversioni stupende

ora che hai impresso sul petto

il marchio del silenzio.

Cara non vale la pena idolatrare

altri che non siano sé stessi.

Ok passeggia in sulla strada,

il corvo ridacchia e ti beffa,

dunque resta dell’alma la rimessa,

succube a una stanca vendetta.

Dai continua,

prendi in giro chi ti pare,

poi fai le fuse a chi ti dimentica

e a chi ti intriga,

solo perché figlio di un successo

che tu odi in quanto brami,

monete scintillanti,

vanno bene per te,

ma chi le possiede è figlio della

perdizione,

condanni cioè solo chi ti assomiglia,

ti ci vedo proprio bene, guarda,

in mezzo alla tua stessa fanghiglia.

 

Eh sì, è così

 

Promana essenza di bacco

sul lastrico sciupato

del ricordo ormai andato,

un dolore e tre pagine mute,

il senso non perde il contatto

col tempo, è stato il mio scuotimento

ditirambico a dorso di fluidità,

il simbolo che rimanda

all’intelletto, la passione da incendio

a sponda di letto sulle tue pelli

delicate l’estate, alla sbarra solenne

mi adagio ed intarsio i sibili

e i clamori di Labeone

in topiche ciceroniane,

prego, volga la civetta

e la bilancia della stordita pulzella

perversa e bendata.

Intanto la sua ondulazione

vitrea scaglia i principi

d’integrità vitale e mai morale,

puro libretto lirico

dell’unità pasciuta nella terra

del lavoro e nei rotoli

della reggia resistente,

viale lungo e rettilineo

da miglio interiorizzato

e scardinato come le ipotesi

vaghe dell’accusa basate

sul preconcetto pregiudiziale,

intervento incidentale e patetico

gesticolio invernale,

spezzi il crinale e monti in sella

alla tua figura bella

in preda all’ultimo godimento,

lei rimane, tu rimani,

il letto ormai è agitato,

le coperte in fermento seducono

il limite oceanico,

la cucitura del vestito è selvaggiamente

squarciata, pronti alla marcia forzata

sul corpo dirompente.

Immagino e vedo,

si materializza il rapporto ancestrale

ed astrale, un’ influenza

sul tuo tema natale,

giornata perduta e vissuta

in funzione di questa sera

che accenna a venire,

che tende all’infinito

essendo la somma dei nostri amplessi

il numeratore di uno zero divisore

e pastore del verbo incarnato

nel nostro congiunto fiato,

una scusa, non possiamo,

allora c’è gusto maggiore,

ricominciamo,

c’è qualcosa alla parete,

forse un’ombra o il caro gioco

di specchi riflessi,

prendi la tua arma migliore

e mira al mio cuore,

palpita il pulpito e non si arresta,

incessante viandante sperso

sulla via di Santiago,

allora improvvisa ti scosti

e divertita fai le bollicine sulle gengive,

sembri prendere piede

nel trastullo beffante,

il luccichio del tramonto ancora,

sotto il ponte l’aurora.

Ed ecco, mia caruccia,

pietra celebrale

quindi amigdala serale,

razionale la sfera del sesso,

la conservazione della specie,

darwiniana evoluzione,

ma nell’altro emisfero irrazionale

c’è l’amore che senza senso

guida l’universo

in un abbraccio

e tu continui a sussultare

ghiotta di piacere,

estrella stupidina,

il rimmel da diva

è il baluardo in salita

del dito voluminoso

posto tra l’incisivo e il canino,

mangiucchi l’unghia,

la lingua è in trepidazione

come pendolo mi invita

al proseguo di ‘sta storia

mai finita.

Eh sì, è così!

L’entropia nel tropico

del cancro giaciuta

è la tua ultima scusa

che ormai neanche commuove,

vestito a righine sottili

di un verde intenso

giace a terra in contrasto

con le guance viola e stupende,

sbattuta ancora e ancora,

vissuta teneramente.

Intanto due o tre tulipani

costernano il contorno

dell’orecchio sinistro

mentre sciogli l’essenza

di papavero nel cucchiaino,

le tue vene sottili attendono

lo sbarco enzimatico

e scansano doppi sensi,

è una battuta tanto dolce

quanto una venere triste e annoiata,

magari elfica,

dell’ultimo cetaceo la corolla.

 

Arcadia Sannazaro

 

Leggimelo ancora nell’orecchio

quel verso che hai già detto

distratta tra una bevanda

e un’altra,

le tue mani mi carezzan

e sfiorano le corde dell’ardore,

pure eppur così perverse

come mandorle dischiuse,

in fiore i tuoi giardini dell’oblio,

ove ponessi i tuoi riccioli biondi

come limite del senso

credo avremmo dei problemi,

le questioni dell’umanità insolute

da noi risolte e rivolte

alla noncuranza,

stretti sulla stessa barca

e comunque così distanti,

il mio corpo idiota sprigiona

clamori ormai celati

ma la tua mente va già altrove

e si perde nei miei occhi,

io,

fattorino del destino.

Arcadia mia della luna a mezza falce,

riflessa all’acquitrino

io a sbuffo vorticoso,

cigno solo nei tuoi sogni,

viaggio e parto più lontano

nella nostalgia del tuo ritorno,

di allori adorno,

mi innalzo e tu mi scansi

e sorridi,

forse ti perdi,

affinché gli occhietti verdi

alla Baricco possan indagare

il limite del professore

o del pittore dalle frasi sospese,

tu raccontami di te,

io ti esalto ma mi eclisso,

resto in un angolo,

piattino in mano,

due o tre grammi d’amore

riflesso me lo danno

i tuoi nuovi sorrisi,

sugli scogli a Mergellina

il sole inzuppa il mare

e gode nell’eco perso.

E coll’asticella del violino

a fare esercizi di solfeggio,

ho composto la nostra tensione,

non hai voglia di esternarla

ma leggendo una lacrima

dal cuore scende fissa

ed è un minuto e un rigo

che il saluto è già svanito,

sul fiume a naufragare

le parole come dai tuoi occhi il sale,

scrivo solo,

sembra inutile,

ma continuo, guarda,

e fremo,

un po’ stanco mi rivolto,

tu mi ignori ancora,

ma va bene,

resta il vento tra le foglie

e le tue canzoni spoglie.

Allora invadiamo

le regioni mai imparate,

tu fai conti ed i bilanci,

tu dai segni di resa colle dita

e ti adagi sugli specchi,

impressa e non arrampicata,

tu sei la gioia di questa sala

che ti attende e l’ultimo fremito

spende,

un applauso folgorante

nei tuoi occhi scintillanti,

gioie mattutine

e tepori di primavera

tra i fiori di pesco

e le gocce di pioggia

imposte dai nostri silenzi.

Coll’elmo tra le mani

mettiamoci a danzare,

le tue dite intrecciano le mie,

è un momento di fermento totale,

è un momento di tormento

mai così sincero ed infinito.

 

Varrà a qualcosa questa atmosfera?

 

Alte sino al cielo

le mura della paura,

fosse concentriche attorniano

ed ostacolano l’accesso

alla conoscenza estrema,

come magiche serate

all’ombra dei silenzi,

un po’ a ricordo un po’ a memoria

un po’ a fantasia un po’ a seme del vero,

prima di bussare non dimenticare

il bastone eretto verso l’ignoto,

l’ente goto del trastullo neoabissino.

Lo sbarco sulla luna,

la duna delle tue baggianate,

stese su triclini come in salita

i gomiti giù di brutto,

la vetrata araba e senza fiato,

sul tuo polso l’effige dell’esistenza,

postato il pensiero condiviso

e sentimentalmente oscuro,

la voce interiore che mi dice

non ne vale la pena,

ma è il substrato,

il riflesso platonico del pozzo,

guarda, io comunque vado a fondo.

Ciò di cui hai bisogno

è continuare col sobbalzo

nel treno a ripetere

la lezione di tedesco,

labbra che si muovono

come a recitare il mantra

intellettualmente affine a Goethe

o alla sintassi a metà strada

tra latino ed indiano,

le tre voci della declinazione

sincopate nella tua illusione,

tu che pensi al tuo demone

senza accorgertene

e il fragore del mattino ti assiste,

un solco di netto nei pressi del tuo cuore

per fondare una cattedrale

su cui poterti contemplare

per sempre.

“Natura natura”,

è un rimando al nudo volgare

o all’opera introspettiva,

un dolore da tarlo mentale,

mai sopravvalutare gli individui

ma cercare in loro un che di personale,

cara MT, qualcosa di tangente

al tuo ricciolo da crinale,

spoglia come i binari

che ti assistono,

ad ignorarmi,

dimenticarmi in fondo

mai avermi conosciuto,

come ogni essere umano

che non guardi e definisca

l’assoluto come bambino balbettante.

In fondo sono quelle mura

che ci limitano e proteggono

da noi stessi,

ma un colpo accorto

da auriga attento

potrebbe guidare senza spauracchio

l’animo nostro e concretizzar lo spirito,

se solo guardassi, un attimo ti girassi,

c’è l’incrocio di sguardi,

varrà a qualcosa quest’atmosfera?

 

Coppia Unità molteplice e divina

 

Un cappello a mo’ di velo

ti nasconde il volto,

la canzone ormai scordata,

quella che hai appena cantato.

Ciò che hai appena detto

si interseca al tuo corpo.

Le scaglie macedoni

aduse a rintracciare biblioteche

ormai sepolte,

colossi ormai distrutti,

meraviglie babilonesi rampicanti.

La moneta nella bocca nascosta

ti servirà se Caronte si cruccia.

È stupenda questa desolazione

qui nell’Ade,

mi ricorda il paesaggio

che vedemmo mano nella mano

col sole di mezzanotte sulla fronte.

I giganti ed i bestioni

di Vico

rinchiusi nell’oscuro Tartaro,

mentadent quell’orgasmo orgiastico

e ditirambico, sacrifichiamo,

siamo pronti all’olocausto.

Che piacere sovvertire

ciò che abbiamo ancora da dire.

Socrate malato e catatonico

crede di non sapere

ma spreca la sua vita

da caporale in riserva

in onore sublimato da Platone

che non lo credeva e mutava

le sue parole,

maieuta da osteria.

La tua lingua fa il periplo

del mio contorno e l’aura lilla

scende sul mio polso,

in coppia diveniamo

Unità molteplice e divina.

 

Pelide adirato

 

Pelide adirato,

trapassata spoglia e tu

Patroclo ardito e timido

assopito sul terreno

maciullante d’armatura

scintillante, cascate tonanti

di deodoranti.

Rimandato a settembre

il rimando al tuo pendente,

meglio sorvolare e tagliuzzare

i resti del deficiente.

Il midollo della questione

è sviluppato in conclusione

affrettata e coperta di vocali

ridondanti e allitterate,

dalla falce di luna allattate.

Sfida sotto le mura

in ritorni nostalgici e nottambuli,

deve pur finire l’ora

della riscossa acre

alle porte della bicocca.

A questo punto il soprano accenna

animose scorie introspettive

rende tutto più bellicoso

e il rostro si adatta alla situazione

miagolante della casa stregata

e malandata.

Non te l’aspettavi

un nuovo giorno nuziale

da freccia avvelenata,

Briseide da legnaia

contenente la rima sorprendente

figlia della bocca spalancata

nel gorgheggio di traverso

allo scempio duodenale attivo.

Ciclica l’attesa

del canto rimbombante

e claudicante, zuccheroso

da senatore a forma di cavallo,

la lingua e la punta marina

della pinna che arzigogola

la pretesa attesa di Lacoonte

articolata.

Lenta la scoscesa

rimessa in forme di bollicine

che arde e preme alle mie mani,

ubriachezza da milizia in festa

e balestrata in desiderio sibillino.

 

Nunet

 

Caos cosmico primordiale

tra le ciocche ancestrali

dei tuoi cirri ineludibili e sinceri

quasi puerili e diretti,

l’entropia dei tuoi diamanti marini,

per intanto è respiro atroce

dei vespri dei tuoi occhi

magicamente inzuppati.

Edenica realtà

nel gorgheggio prebabelico,

un’unità indivisa nel silenzio

antitetico al tempo incalzante,

una scusa immisurabile

ma ad un tempo vettoriale

è il fruscio della tua pelle pura

seta da carezza,

è un tramonto mozzafiato

il tuo sguardo agli onori innalzato

che precoce ed indulgente

pone il labbro sul mio polso.

Ippopotami onirici sbiaditi,

il suo volto da guerriero,

il mio da alabastro incantato

e bellicoso,

l’acqua cabalistica

trattiene il senso

ed il nuovo feroce e incantevole è.

Genesi naturale,

più che abissale il relitto

dei tuoi giorni andati ed esaltati,

tu conchiglia imprimi indelebilmente

melodie musicate dalle sfere congiunte

e succubi ai tuoi ordini,

ai tuoi voleri capricciosi

ma mai così armonici,

desio di umana stirpe,

di ogni ardore ribelle ed intenso.

L’energia sinaptica

è sincretia spirituale

con l’assoluto e spiritico

comando naturale

delle nostre arcane potenze

micidiali.

Il mio cuore ti appartiene

e ogni riflusso califfo del dominio

del vento rimane,

la tua smania da “V” permane

e l’infinito capovolto già è.

Lenta sorge ormai

la sera nell’odore di primavera,

in riva al mare stesa e abissale

divarichi le gambe,

sei l’Uno visibile e intuibile

in intenzioni di riscosse,

gomitoli di storie perse

e rese immortali.

Un risvolto capovolto

da riporto indefinito

è il bramare quel tuo perfetto corpo,

possederti in riva al mare,

godere del tuo abbraccio universale.

Il tuo nome è scritto sulla sabbia,

l’acrobata lo lascia al vento

perché sia dominio di tutti,

il tuo volto è in visibilio

e il rossore del cielo

un suono terreno, celeste

e divino ormai è.

 

Picciola

 

Esaltò la potenza dei miei gesti,

stesa austera sul letto,

notturno l’adagio,

un ricordo mai così vivido

di galassie inaudite

e paralleli universi transfert

ed infinitamente piccoli

come i suoi occhi

che spalanca nel momento

dell’amplesso che eccitante

stringe nella seduzione,

la lingua fuoco bibliofilo

e simpatico nella lotta

tra i cieli di cartone.

Picciola il pigiamino

è traduzione veemente

ed inventiva fedele

di versi inumiditi

e così secerni scaglie d’incenso

dalle narici, il tuo nasino

non è stato mai così carnale,

la tua bocca dischiusa

mai così intenzionata a spandere

essenze multiformi ed intense

di parole ormai già dette,

tramandate dai saggi

in barba bianca,

i due opposti figuri,

il buono ed il cattivo Merlino,

l’assenza di candore

nel fumo dell’erba pipa,

la metrò è in tumulto

per la notte bianca.

Ragazzina dai silenzi evinci

ciò che è maggiormente presente,

la fondamentale premessa

dell’euristica verità,

analogica e comunque

tremendamente evidente,

l’algoritmo tralasciato

dal tuo alter ego

in preda all’ultimo anelito dell’Es,

tra marosi spume d’entusiasmo,

di sballo,

scansi l’ostacolo del tuo formato

introspettivo,

calcoli le distanze

tra i nostri corpi

a mo’ di gesto d’amore.

Ragazzina è un ritorno

soffuso il tuo sbuffare

da locomotiva tragitti

di praterie spinoziane

lungo distese d’oppio

nordamericano e cabalista.

Nel momento del saluto

il labbro varcò la soglia

dello scibile, la Scilla

delle colonne d’Ercole s’inabissò

nel momento del folle volo

traslata nei pressi

della sicula Nigeria dantesca

montana,

lei disse ciao

ma era un addio,

e brucia la barba caprina

per mano delle truppe napoleoniche

a Berlino nell’hegeliano pensiero deluso,

non c’è scampo per questo clamore

disposto ad esulare il comando

dalla norma corrosa,

finisce lo stilita

tra rottami di automobili,

tra gli inceneritori campani,

i giacobini irrompono

nella terra pomiglianese

tra lo scontro del popolo fedele,

gli striscioni proletari s’innalzano,

la nuova povertà millenarista

e neoborghese,

lotta per acquistare l’Ipod

e trasmutare in immagine televisiva,

soglia di sopravvivenza voluttuaria,

mi volto a questo punto

e lei strizza per l’ultima volta

l’occhio sinistro.

Ragazzina da converse apodittiche,

parusia femminea,

parole senza vocali impronunciabili,

tal altre senza fonemi

ma fatte di cenni d’autore.

 

Anima mia, cosa resta?

 

Anima mia, cosa resta?

Un frammento di bellezza.

Non può essere tutto inutile,

tutta viltà.

Cerchi te,

docilmente restia,

talora dolce e pura

dormi mentre ti ammiro

tra frastuoni di squilli storditi,

tu come d’incanto

sui banchi rimandi a dopo

la realtà.

Novembre di marette distorte,

di rivolte edotte dai tuoi passi,

il tuo respiro lento intuisco

tra i clamori di un giro rovente

attorno al tuo corpo.

Mia sentinella e mia generalessa,

stai all’erta su fruscii

di foglie giallognole,

spogli ciò che c’è di più vero,

mi hai sedotto col pensiero.

Dormi mentre staziona

la formula alchemica. Bacone

e il tuo anione affetto

da attraente negatività.

Novembre di bui nascondigli,

tra le spine di atroci intuizioni, sembri oggi

come ieri

al mio fianco,

effimera e voluttuaria donzella.

Novembre col libro semiaperto

tra mani d’assenzio,

puoi avvelenarmi con un altro

sguardo

attraverso il tuo manto

getti in aria sul finire del giorno

il misterioso baluardo.

 

On the road

 

L’aria rarefatta alla stazione

mentre chiedevamo venia,

l’autista a fare il pieno,

due stracci disillusi i nostri indumenti,

tanti sogni e tanti ardimenti,

promana l’incubo e s’impone.

Già c’è l’intorno e la questione,

è qui la voglia di volare,

è implicita l’atroce rissa,

e non si può dimenticare

ciò che non abbiamo saputo fare.

L’albero cresceva, crebbe

ed è cresciuto anche il nostro cuore,

sì è imprigionato il pudore

ma le voglie ormai svanite

hanno reso il sentimento inutile

e meschino.

Più non c’è la censura

che ci accalorava,

passato il ritmo del west

che incalzava,

arrugginita l’altalena delle paure,

e noi stanchi e ormai inutili

a trapassare ricordi ed infilarli

in collanine che strette

tra le mani inviano segnali a te,

ti lasciano immaginare me.

Allora non avremmo immaginato

che l’estate già finita

fosse solo la sordina

per passioni impresse su velina

trasparente, l’anima, il tuo corpo,

la tua mente.

C’è ancora l’ingiallita foto,

è eguale la primavera muta,

ci sfidano: l’intima prova,

ed io distratto qui penso a te.

Nel momento del risveglio

sento un sobbalzo intrepido

che si ribella,

dice guarda l’alba e poi…

Evidente lo spettro del tempo,

intravedo l’occhio furbetto,

immagino l’odor dei tuoi capelli

che non dimenticherò mai.

 

Lo specchio della divinità

 

Vortice potente

assorbe ogni passione,

nell’ora del giudizio

è tutto indifferente,

guardi un po’ sopita

il mio corpo che ti implora,

due sentinelle marciano

e tu che attorno fai la spola.

Io no, non cerco più un perché

ma vivo dubbi da caffè,

macchia sul tuo corpo

e voglia di me,

intuito paradossale

come carica opposta ed invertita,

lo dissi, l’hai intuito

e sale sulle scale fissa

come luccichio dell’est

questo nuovo fumetto

che ormai si brucia

e si trasforma in immagine visiva.

Sai, sai già dove vai,

non hai memoria che di te,

non hai più voglie e sorseggi il sake.

La sacher è a gusto malto,

maggese e un po’ assopita,

gira in tondo la tua testa,

mi hai preso di sfuggita,

sguscio come strisciante formica

dei tuoi sogni al microscopio,

alien da spade laser,

da attrici consumate.

Io no, non cerco altro riparo

sessantottino,

cerco il frumento del mattino.

Penso colla schiuma

del mare incollata

e sbaciucchiata la gola,

un brivido che pensa e si materializza.

Tu sei la donna degli dei,

non ti concedi ma cedi spasmi

di sapere e lasci mute

le tue statue di cera,

le puoi sgretolare mia Kalì,

surrealista da Dalì

che brama nell’inconscio

del sussurro capovolto.

Vista aguzzata

nel trattato sulla caccia federiciano

che simboleggia astrusi passi

di fauno nella poetica di Mallarmé,

vuoi altro caffè?

Spugna primordiale,

uncino da sveglia divorata

dal drago che non c’è,

ricordi la stagione,

perivi o tenerella,

e no,

morir di maggio no,

fantino il tuo delfino

da Dumas per tutti o per nessuno,

mentre ritorni e mi dai il la.

Pernicioso il savoiardo

con Nietzsche re d’Italia

o folle del cortile,

vegano e alessandrino

tende la mano al cavallo martoriato.

Lo sai, per un’idea te ne vai,

patologia mentale altro non è

che possessione demoniaca,

demoni boschivi ribelli

alle scorie ed al cemento

e poi non va curata l’inclinazione

è estro o contemplazione,

neurotrasmettitore accordato a mille

va solo indirizzato ad armonico fiato.

Poi tu non mi guardi e sorridi,

pensi già all’abbraccio da mulino bianco,

ad altre cretinate,

i valori, la famiglia,

dimentichi l’umana verità,

la terra e il din don dan,

l’indice al cielo,

lo specchio della divinità.

 

Dona i tuoi capelli al flusso delle stagioni viola dal tepore

 

Dona i tuoi capelli

al flusso delle stagioni

viola dal tepore,

non c’è verità che non sia tracciata

sul tuo corpo.

Che dispiacere dici guardando

fuori, mossa dal silenzio

di questo giorno di fasti,

il pendolo della tua lingua

ne ha bisogno

ma fa bene anche senza le mie parole,

potresti anche chiamarmi per nome.

Ed improvviso un gelido antico pianto

coltivò ortiche eccitanti e divaricando

la mente estesa ti accorgesti finalmente

che la tensione dei nostri discorsi

era ninfa vitale per i posteri.

Non c’è pietà tra la sabbia primaverile

azteca, donami la spalla velata,

ricordati la passata visita transitata

verso l’iperuranio sentimentale.

Cerca di lanciare il peso dell’inibizione

più lontano che puoi,

non sollevare mai le mani su un essere vivente,

non cercare assurde promesse,

non versare sangue,

e ricordati che per sempre

la vita oltre la vita

e per la vita vive,

nell’infinito il naufragio

non sarà mai arreso.

 

Wilm i Milosc

 

La goccia è già schiuma

rarefatta ed intatta

sulla tua pelle lucenti

le stelle,

primavera boschiva

tra i rami in fiore bocciati

di prima mattina.

Ascolterai nel silenzio

il brivido che hai nell’anima

e che sussulta e che esulta

alla parola muta

di questa tua magica aurora.

Tra selve dimenticate ed intatte

hai socchiuso gli occhi

leggendo nella mente

il verso che hai davanti

e viaggia il respiro,

investe il tuo viso, appanna

i miei occhi che fremono,

che bramano le tue mani

su me.

Ascolterai per sempre

il senso di ogni parola lontana

e già volta a ciò che il gocciolio

ti dice,

è già mattino, leghiamo al polso

il nostro destino.

E carezzi la pelliccia

della feroce bestiola ammansita

da saette dei tuoi sguardi alteri

ma così dolci,

il chiaror dei tuoi occhi

è tutto ciò a cui penso.

Ascolterai ancora

il suono delle tue storie

raccontate a bassa voce,

non dimenticherà mai il mio corpo

la scossa che la musica

della tua voce invasrice e ardita

mi ha donato.

 

Amorosi intrugli silvani

Dicembre Bavarese

E dai,

non lo so,

cento grammi di follie

sotto il campanile del cielo,

credo sia impossibile

interloquir con te compiutamente,

 

facciamoci un’altra pinta,

folleggiando,

Monaco e la Baviera conquistati

solo per te.

 

Pongo lieve assedio,

 

tu altrove volgi lo sguardo.

 

Ah che gelo,

è quasi inverno,

fallo ancora,

carezza inumidendo le labbra,

linguetta accorata e accaldata,

frescura umideggiante.

 

In più

assumerò

emissari scaltri ma inconcludenti

perché da te intuiti,

o sì,

magari già,

ero proprio io mascherato da velo squarciato,

 

addenti di soppiatto

quel dolcetto nespolato.

Ti asciugo le gote,

 

tu scarichi in sbuffo indolenza su di me.

 

Ti accarezzo la fronte,

 

tu stendi le dita sull’invisibile piano.

Oh, teresettamente guardi,

 

io ti cito il canto della malinconia,

ma chi sei tu intermittente membrana,

 

seduta resti ancor sulla panchina.

 

 

Campanellini

 

Dolce amica

guarda questo promontorio steso.

 

Campanellini.

 

Dolce inabissata

piangi tra sollievi

spumati qua e là.

 

Campanellini.

 

Vorrei disegnare incautamente

la veduta sannita

per porger il limite più in là,

 

questa nostra spedizione senza fondi

né bottiglie,

un paio di pall mall,

nell’istante dello sbuffo

il naso tuo sfiora il mio,

 

dimmi se hai scalfito

il canto restio.

 

Campanellini.

 

Dolce scapigliata

sciocca e astuta

ti copri di sabbia.

 

Campanellini.

 

Dolce scalmanata

prestami le borchiette.

 

Campanellini.

 

Vorrei tanto porgerti

le mani sulle spalle,

intelaiare quel tuo braccio,

renderlo a ridosso

di uno spettro

che se c’è magari batte i colpi

ed io ti sbatto sul verace giaciglio,

 

non so se hai reso l’idea

confondendo l’ondulazione delle mani

coi tuoi occhiali inamisati.

 

Campanellini.

 

Dillo ed esponilo,

vai tranquilla che ti ascolto,

parlami di te per allegorie,

poni a due passi le pazzie,

oppure taci con abilità.

 

E vorrei sognarti

desto in conclusione

ricattatrice d’amore,

scribacchina viola del rancore,

smozzicante sentinella d’ardore,

 

forse hai gli appunti.

 

Hai scoperto il nascondiglio

del mio cuore

ed hai appiccato il fuoco,

 

casomai te ne pentirai

allestirai un paio di tempeste,

tanto la natura

aspetta i colpi della tua bacchetta

per vendetta,

 

oh che disdetta

lo hai detto

non ce l’hai!

 

Ipazia Palladiana

 

Come mi vedi

anelito del mare?

Scopri le spalle,

dai,

scorgimi gli affanni.

 

Un capriccio al di là della soglia

dell’amore, una simpatica

disquisizione sulla noce.

 

Sei stata bistrattata come il sole!

Albigese!

 

Spaventami dai un po’,

porgi in scacco i passi,

delle tre essenze poste

scegli la seducente,

frescura dal palato magico

e ignorato quel portamento

furbettino

e il mal d’aria

che ti scaglia

i carmi nel padiglione.

 

Sei svogliata e innamorata,

ma di chi?

 

Sei sciupata dal ricordo

e dal mio conforto!

Catara arresa!

 

Ipazia Palladiana

mi scrolli due note legate,

stupenda assolvi

la tua parca funzione,

 

l’intruglio di lumache

e acqua tofana

è il tuo cocktail migliore,

 

ah belladonna,

viola del pensiero.

 

Sei imbrattata della schiuma

nella sala!

 

Sei oriunda e romita

ma orientata!

Pura cortese!

 

Sei svestita

sotto le stelle

come orionica danzante!

 

Sei trapunta

delle scorze di limone

e di melagrana!

Docetica apparsa

 

 

Amore del pensiero

 

L’inverno sboccia cauto

tra i rami,

il riflesso del mio cuore

tra le tue dita,

e scrivi d’amore

senza fronzoli di sorta,

affidandoti al Fato stolto,

 

oh la volta cobalto!

 

la luna!

 

E tu.

 

Tu piccola dominatrice

umile con lo sguardo fiero.

 

E me.

 

Io alla porta,

chino con sparsi i fogli

tra le placche del marmo.

 

O piccola aiutami

a metter ordine.

 

Oh cielo!

Non ricordi il nostro rifugio?

 

E socchiudi la porta,

hai focalizzato gli occhi,

mi hai carezzato gli zigomi,

ridato luce alla mente,

pizzicato la tua arpa

senza profferir parola,

 

posta sul capo la corona

e non sai più cosa cerchi,

cosa vuoi da te,

si riapre da sola

la porta

e non ho vie di scampo,

rifuggo nel tuo sguardo,

sai sono sperso anch’io,

 

tu,

tu piangi,

tu mi osservi

e piangi,

 

ti guardi allo specchio

e pensi al futuro.

 

Non stai sbagliando,

la via è quella giusta,

mia cara, penso a te,

ancora a te,

mentre da lontano guardi oltre,

ti asciughi gli occhi,

riparte il palpito

mai interrotto,

 

ci sei,

tu ci sei,

lo sento,

lo scorgo dall’orma sul muro,

dal segno indelebile dello spray,

dal vetro della finestra appannato,

dall’umido della fronte.

 

La porta si richiude,

non ho che te,

amore fugace e perenne,

indenne esposizione

di fiori raccolti,

crestomazie

dal sapore di fiele

 

e inizia l’amor mai finito,

l’amore germogliato

dalla brulla e spoglia diramazione

del ligneo tronco,

 

il fiore invisibile e meraviglioso,

quel fiore invernale

che scorgono solo i miei occhi,

che scorgono solo i tuoi occhi

e resto ancora alla porta,

con te,

 

amore dai lucidi capelli,

oh sì,

amore del pensiero.

 

Sorge una stella nel tramonto

 

Sorge una stella nel tramonto,

il mio cuore innanzi geme,

alma serafica

non sei affianco a me,

dove sei ragazza mia?

dove sei?

E chi c’è con te?

chi ti stringe le spalle?

 

Lo sai che sei,

sei la sorgente

pura del mio spirito,

dentro me sospiri

e candidamente scosti l’aria,

 

che movimento puro,

che disincanto sospeso,

che pensiero disilluso

amor mio,

 

la vita non ci dona

la candida rosa,

la scorgiamo solo da lontano

come emblema

del nostro cuore. Il sapore del vento.

 

Ticchettio mio dove sei?

Amore livido e seducente,

 

dove sei mia attrice,

lunare effige plastica,

ciondolo siriano al collo,

mio speciale barlume lieve,

tu dispetto buffo,

paonazza e bronzina gioia,

goccia vespertina,

acrilico scardinato

ma possentemente intriso,

musica dolce nelle vene,

sole notturno e gelido,

melodia stampata indelebile

sul vetro.

 

Sorge una stella nel tramonto,

ti amo credo

e te lo dico senza perifrasi,

tanto è come staccare un fiore

ed annusarlo, lo sai che preferisco

contemplarlo e immaginarne l’odore,

ma stasera sento un tepore

che dai polsi mi invade la schiena,

scende a perpendicolo

e mi scuote il capo,

ti prego, vieni qui con me,

sogniamo insieme nella radura,

so che ci sei,

so che verrai,

se sei mancata a tante albe

non potrai dimenticarti di me

proprio ora che riscende la notte,

sì so che verrai,

 

sarai qui appoggiata

alla mia nuca,

noi di spalle

gli un gl’altri

a guardare il cielo

e poi chiudendo gli occhi

a raccogliere l’attimo profondamente,

trattenerlo e non perderlo più,

per sempre insieme.

 

Ti amo, ti amerò per sempre!

 

Sorge una stella nel tramonto,

senza di te la rimiro e penso,

dove sei ormai non lo so,

amore!

 

Sorge una stella nel tramonto,

vago in speranze lontane

con te distante, mi volto e piango,

tu non ci sei,

 

sono assordato da questo silenzio,

amore!

 

Sorge una stella nel tramonto

ed alzo le mani,

saluto e scanso le foglie caduche,

ti attendo e mi asciugo gli occhi.

 

Amazzone

 

L’eco lontano

rimbomba tra le stalagmiti,

odore di fumo e tamerici.

 

Nostra dama sull’orchestra,

oscura e viscidamente funesta.

 

La gabbia dei sinceri addii

che tristi rotano lì intorno,

 

la fiamma dei cabalistici ulivi.

Follia e Dionisio,

 

vivi nelle vene

e nella scure,

amore bazzicante.

 

Sento la forza arcana,

la potenza ancestrale,

la violetta scismatica ragazza.

 

E poi l’incanto dei pensieri,

scuri dal sapore lieve.

 

Amore,

dici a tua volta,

il maestrale nostrano

non è la furia scandinava

dei tuoi servili temporali,

succubi domani deleteri.

 

Sei stupenda

scandita dalle percussioni,

sbellicata dagli archi

e dai mesti sultani

che si inchinano

e che fremono al tuo giacere.

 

Io sono qua,

l’alba dell’età,

l’anima del sagrato,

l’ombra del segreto.

 

E non ho le seducenti mani

a tempo sul ripiano,

sgomito nell’altopiano,

banalizzo i sentori

dell’incauto oltraggio.

 

Sei di sbieco senza fiato,

sei svilita e xilofonata,

 

spiega e metti in piega,

subisci pure gli odori.

 

Sento un po’ la pioggia

e non ho quel gomito carnale,

quell’archibugio astrale,

quel rimpianto sconfitto,

quel petto trafitto.

 

Resisti a quel sopruso,

mangi pane e burro,

 

scruti la soffitta

e non è eclissi il sole nero,

 

l’atomo del vero.

 

Ti ricordi ancora,

 

ho lacrime d’assenzio,

germoglia lo smeraldo,

travalico i monti,

 

ti guardo negli occhi,

la mia testa sul tuo pallido petto,

rosa ebenacea sul mento

e cuore in fermento.

 

Oh godo alla vista della luna,

oh godi al verbo incarnato,

trasfigurata effige catara,

provenzale sonata,

tubinghese teologia,

atavica pazzia,

orda indoeuropea stanziale,

cornuto vitello d’oro,

taurino messaggio,

belante miraggio,

allucinato istante bendato.

 

 

Ludica la sinfonia del giglio sotto assedio

 

Ludica la sinfonia

del giglio sotto assedio,

adornava di scalzi misfatti

la seducente sagoma,

 

lati obliqui

e servili inclini

all’inchino pianeggiante

mostravano intrepidi

fermenti bellici,

 

slacciando le vesti

e tu ti spingevi

oltre la guardia

lasciando intuire

mistero e fermento,

 

sincero cimento.

 

Maglietta rossa,

lastricato,

poi pioggia,

infine livore.

 

L’importante è espandere la mente,

come se fosse l’universo

che si avviluppa non sviluppa

ma statico volge centripeto

verso il vero,

che è sempre esistito,

non si è trasformato,

non è stato creato,

 

Dio immanente

nell’universo finito,

dov’è l’infinito?

semplice,

immagina il tondo talismano

se ellissoidale

assurge a gemito temporale

kronoide baalico!

 

Indotto in meditazione

al quanto soggettiva

divenivo oggetto,

quindi persona

anche se sembra paradossale

ciò è reso concreto,

 

come?

 

Eh eh,

sono i tuoi occhi. Saltimbanco

romano

alla corte del pontifex maximus,

se non fa ridere allora

allestiamo un rogo,

incendiamo ‘sto lurido rovo,

depuriamo,

chiariamo,

cioè diveniamo oscurantisti,

rosacrociani,

 

oppure andiamo a quel paese,

il paese del miglio,

patate sbucciate,

canarini e sottane.

 

Volgi lo schiribicchio di rame

verso l’infuso sopito,

mettersi l’anello al dito

oppure lasciarlo ciondolare?

da Angelica al rimpianto incatenato e furioso sesquipedale

 

L’importante è frastornare,

due o tre sofismi,

in santità velate,

 

devi sapere che dalle parole

è nata la vita,

 

la vuoi la scintilla della materia,

eccola perché dunque ecco il verbo.

 

E, dici,

la materia inanimata?

 

Dai ti rispondo,

bios è anch’essa,

l’anima è ovunque,

non perdiamo alcunché,

non mi credi? Allora sovverti

un altro po’ le coperte,

 

agita le lenzuola,

allestisci laude colline,

vitigni toscani,

scaldini equatoriali

 

e se arriverà la penombra

non mostrerò indecisioni.

 

La vedi la pioggia?

Batte ora più forte!

 

 

Crolla l’Impero

 

No, non c’è barlume,

siedo sulle scale,

ti vedo silenziosa

carezzare il naufragare

nei pensieri,

 

le oscene scene,

la nostra stella.

 

Arde a tempo,

arde fuori l’arioso

e freme. A me,

a me echi ancestrali,

a me, potenza indomita,

 

a me.

 

E dalla sera

sorbisco i dissapori,

le scarpette fulgide

alla porta, entri? si dai entra pure.

 

Tu cosa vuoi?

Tu che non piangi,

tu che respiri col dito,

che sei di là,

lontana ma ferma

all’uscio timorosa

e ardita,

 

faccetta di neve.

 

E ti scordi di nuovo,

ti viene da ridere alla follia,

simultaneo il sopruso,

lo sberleffo

e mi sbatti

nelle segrete dell’animo

senza pietà alcuna,

 

senza gravami,

senza retori

che esplodano sermoni

o arringhe

di ogni branca per me,

tu credi invece parli

dell’autogemmazione squamosa.

 

Eccoti qua, eccoti qua,

sei venuta guardando ovviamente

altrove,

 

non ti degni nemmeno

di entrare

accenni già di andare via,

 

di fuggire con altri valenti

e beffardi segreti di marmo

come gli occhietti vivi

che sfiorano e non si riposano,

 

che vedono tutto

ma non scorgono

il particolare,

 

fai ancora le tue belle generalizzazioni

ma dimmi,

la rosa non è meglio

della distesa verdognola

intorno che la contiene?

 

L’intorno d’altronde

ausilia soltanto

la definizione del limite

ma la stessa sussiste

intrinseca solo nei petali, sai.

 

No, dov’è la luce?

dov’è il sole? dov’è il cielo?

 

Non c’è speranza ahimè,

la scala crolla

mentre rovino con lei,

 

futile oggettino antico

nel postmoderno,

 

nel ripensamento inutile.

Noi, mai più noi,

 

anzi mai e basta,

non c’è mai stato passato,

soltanto gemiti,

le lacrime dal cielo carmini versetti.

 

Sento già

che non è perduto

ciò che non si è mai avuto

 

ma la libertà,

lei è in rivolta

e non resiste alla rappresaglia

del potere quieto e subdolo,

 

cerca un appiglio

e stende le mani tese

alla volta turchina,

 

nuvole rade non ostacolano

il gesto ribelle,

 

il giavellotto o la torre

dalla unica voce,

 

la piattaforma della pace

svilita dai nostri rimorsi,

 

dall’albero dell’amore,

dal frutto di sapienza

ed il gusto di reciprocità

e rispetto

trafigge non il nemico

ma il nostro stesso petto.

 

Ci sei o no? Diamoci la mano,

varchiamo il confine

anzi con la gomma pane

smacchiamolo e poi resettiamolo,

siamo qui per questo,

tu già lo sai,

il tuono non spaventerà

la moltitudine sola, dai.

 

No, non c’è pietà,

in eterno esilio

dalla verità,

 

le camice sulla cruccia

accanto alle scarpe.

 

No, non c’è lealtà,

dove sono finite

le armate invidiate

e indistruttibili? A vele spiegate

tutti scappati.

 

Arde, arde e freme,

la città,

fiamme a gola altezzosa,

 

via, via l’umiltà,

non c’è pietà.

 

No, non c’è dignità,

tu te ne vai,

e così finisce quest’istante.

 

No, io non me ne andrò,

solo resterò

ma con te affonderò.

 

Finisce il tempo, crolla l’impero,

crolla l’impero.

 

 

Astri Estrosi

 

Tu,

specchio,

valvola trascendente,

tasto d’avorio,

scala in si minore,

giro ossessivo,

armonica compulsione strumentale

 

e la testa sotto il cuscino.

 

Tu,

 

tu già lo sai,

sulla sponda del molo

sfoglierai la luna,

 

oh frastuono di miele,

oh onda spumeggiante

e lastrico di schiena bianca,

tondo violetto,

 

clavicembalo alato.

 

Sto con te amore mio,

guancia a guancia a fissare

impietriti il mistero,

e arriva il do,

 

hai voglia delle mie labbra,

 

mi sussurri.

 

Oh, i tuoi capelli sul mio petto!

 

E non hai l’ortica istigatrice

sul ventre, continui.

 

Sarà il nostro segreto

l’aurora,

 

vaneggi mentre protendi

il tuo dito serrante

sulle mie labbra.

 

L’albero esplode

di vigore nei tuoi giardini,

 

sono tuoi gli altarini.

 

Ascendo tra le foglie,

sono superba,

 

strafai.

 

Astri estrosi

incrociano i nostri sguardi

mentre li orchestriamo,

 

accordiamo le falle,

nessuno può fermare

il nostro palpito furioso,

mai,

 

la tua veste candida

sotto assedio,

 

mistero di vetro è questo,

 

cristalli condensati nel tempo

e rimessi al vento,

rimessi al senso,

 

assi e travi urbane

a sostegno dei giorni,

 

paonazza sei, ragazza,

affronta i ridenti,

angosciosi fermenti,

lividi inospitali

sul polso violato,

 

docile riporto,

matematico sfregio naturale,

vasta alleanza sui binari

dalla fiamma antica

della fiamma amica.

 

Bacchetti la corda

con forza tra le nubi,

 

vai mia piccina instancabile,

continua a suonare,

le carte le puoi giocare tranquilla,

 

sono paziente,

squarcia il velo orientale

dell’illusione,

 

e sorgi luna

in luogo del sole,

 

ridona la potenza

alle selve,

 

riaddenta la mela,

 

volgi lo sguardo alla luce,

 

un lieve sentore

sobbalzerà in te,

serva e padrona d’assoluto,

maestra e scolaretta,

 

demone angelico.

 

Astri estrosi

ruotano intorno

mentre scriviamo,

il piano stonato,

la vita nostra sintomatica

svilisce il potere superbo,

 

sorge per sempre

il bagliore pallido,

nell’abbraccio possente

 

fondiamo e creiamo

staticamente la sostanza.

 

 

Serenellosa

 

Il carillon suona,

ostile, incantata e stupita

sorseggi il tuo cioccolato bianco,

 

nessun rimpianto

visto dal rifugio,

 

quel cantuccio caldo

 

magari toscano.

 

Pioverà,

già un po’ sgorga

la serenità,

sole spagnolo caliente

e sordo,

calante

 

e l’astro nascente,

dio mio che caldo,

 

dammi un beso

però serrato.

 

Prendi il panteismo,

va bene,

ma fa comunque troppo caldo,

 

due scritti di Coelho

magari pleonastici.

 

Ermete Trismegisto,

dai punta all’Egitto,

mentre intrecci

la tua collanina di perle,

 

bella, grazie, è per me,

iridea oserei dire,

 

un po’ di impasto

e il dolcetto è arabico,

 

caramelloso il tuo leccalecca,

 

il piercing e l’andatura da emo,

ti lecchi i baffi invisibili.

 

Riccettina vola,

dolce ausilio viola ondaccolante

 

dai, mentre afferri i soffi incliti,

il più bello si confonde

col tuo cappellino viola,

 

sei un uragano ottagonale,

allucinante l’orecchino

da circo,

 

togli le converse

e sfreghi i tuoi piedi,

 

la scintilla è la risultante

algoritmica ed oligominerale

dell’animo.

 

E lo scherzo

sembra quasi finire,

 

il maestro è furioso

perché non rispetti i tempi,

 

allora dimmi

che hai un bel gattino

arruffato e sbadato

che ti mischia le carte

 

e proprio non puoi studiare,

 

passa ai canditi,

formaggio filante,

così dai un bacio

al sapor di big babol

 

al tuo finestrino

nel traffico volgare e irreale,

diciamo va’, nuovamente sesquipedale.

 

Serenellosa la serenata,

scorgo la luna,

stil novo partenopeo,

 

e tu fai le bollicine

non di sapone ma di tè.

 

Boccolosa doppio malto

e chiara,

 

mostrami la strada,

toh che carino il braccialetto!

 

Scarti qua e là,

dormi dai un po’,

ti carezzo la coperta,

e la scorza zuccherosa

nel palato stringe

il fiato universale,

 

così poi tu puoi tranquilla

far l’elastico filetto gommoso,

 

l’impronta del tuo rossetto

sulle mie labbra.

 

 

Ohibò

 

Avessi fiato parlerei di te,

magari in barca

solfeggiando il golfo

costeggiato ed ingolfato

veicolo stellare,

 

la sabbia che sporcò la stiva,

 

vestigio umano

del ricordo,

 

padroneggi con rispetto

il mio timone,

nocetta buffa,

 

vocetta candida e serpentina

cassi le mie casse

con rinvio, formale l’errore

illogico il dolore,

 

manifesto marxista infondato.

 

Accendi la siga e tiri sorridendo,

il tuo fumo appanna i miei

occhi portali,

in sogno portuali

 

appigli sepolti

e sepolcri, spogli nichilisti

da canarini che tu sai,

 

sbottoni la camicia in trance,

meditazione ondulata,

 

e già!

 

Dagli un nome a ogni creatura,

va be’ ma questo è proprio orrendo

nomoteta arruffata,

il suono fonetico deriva

dall’onomatopea,

fumetto primordiale e astrale,

 

studi la parola e allora,

perché babeli ancora?

 

Il gruppo clanico

cambia forma

non sostanza né apparenza,

 

vedi l’allitterazione

tra suono naturale

e pronuncia umana vocale,

costante consonante,

impronunciabile e sonante,

 

il nome di dio lo puoi intuire,

e la cravatta non ce l’ho.

 

Un altro paio di tiri

perché me ne lascerai due,

già lo so,

mi offendo così però,

 

contrasti la trinità,

la verità non è duale

o manichea,

ma unica

perché il dispari alla lunga

fa unità,

 

l’infinito è un otto capovolto

anzi diciamo steso tramortito,

pari ma impari

dunque impuro,

 

cadi in contraddizione,

accendiamo un bel falò

e ammettiamo l’inesistenza

del pari allora.

 

Piangi ma che fai?,

ti disperi,

in realtà mi accorgo

fingi e poni il piede sinistro

in avanti

il destro ben saldo

e dai fiato al fumo:

 

esiste tutto quanto,

il pari in realtà

è disparico in disparte

quindi dispari se si completa,

dunque il pari è parte

del dispari risultante

e di conseguenza l’infinito

finito incompleto.

 

Ohibò!

 

 

L’intro pensa se stesso

 

Ti incontro, ti scorgo,

vedo i tuoi occhi spalancati

e abissali,

 

sorridi,

e poi…

 

Insieme tra le gemme,

il silenzio intorno è irreale,

 

innalzati io e te,

tra i segreti nostri

 

domani imperscrutabili

ma chiari,

 

comunque vividi

per noi che siamo…

 

voltati guarda,

spacco in sezione aurea,

le mie valige,

la tua effige plastica.

 

Tic tac, tic tac.

 

Noi qua,

 

faccio il suono vocale più intenso,

si presta meglio,

 

canzone che pensi te stessa

vai, il progetto

sentimentale assoluto,

 

karma intrinseco,

e piangendo sdruccioli

ciò che c’è cioè,

 

non so,

perché il ritmo incalza,

o amor e viaggia

la mente lungo i nostri boschi,

 

le bianche nubi cherubiniche

metalliche

dove finalmente trovi

l’accordo fatale,

l’altisonante verso vitale,

 

e vai via,

resti qui comunque sai,

 

e poi in ogni caso materialmente

tornerai, fiduciaria del cuore,

vassalla dal sapor di neve,

riccetta ammiccante,

 

e riparto in sol,

 

vado verso ciò

che non so,

 

la simpatia e l’intrigo

tra me e te,

 

mostri pietà.

 

Va, lento va,

il motivetto che è un passante

battuto e infreddolito

che si avvita sulla scala

metafisica e lo vedi meglio,

 

la testa è capocchia

di fiammifero rubino

e poi il din don

ticchettante.

 

Tac. Tic.

 

Urticante amica,

bruciacchia il naso ardita,

vai cambia tonalità,

 

le sentirai le mie storie,

sono simili a ciò,

linee melodiche che si rincorrono,

si cercano,

si scrutano,

poi infine al momento

di accostarsi,

 

senti là il sapore

del bacio quasi vicino,

 

prossimo,

 

senti il fiato sul tuo,

vorresti incrociar le labbra,

 

ma il dito continua a salire

e discendere,

 

sembra lontano,

ma ci distraiamo ed è scintilla!

 

Ah passione!

Vampa umida elettromagnetica

in corrente,

 

vero archè,

l’energia secerne,

potenza cosmica,

 

vero archè

dunque il bacio

 

e lo sai dura un istante,

 

il verbo del principio

insufficiente, si arresta il sistema,

non è attimo,

non è tempo

è nuovo logos,

è senso della vita,

anima, spirito

dunque anima in azione

e materia a un tempo,

 

genesi ed epilogo,

punto immisurabile,

scena indipingibile,

melodia appena intuibile,

 

infinito!

 

Ah passione!

 

Dionisiaco, apollineo

e poi hermetico,

 

potenza dell’amore,

vaso colmo

e vuoto di ogni nulla,

 

arcobaleno a banda

da tredici colori in filigrana,

 

bello e buono

a un tempo,

 

essere e dover essere,

 

immanenza e trascendenza.

 

Ah passione!

 

Veemenza e temperanza,

riso, pianto e poi sorriso,

liturgico ed orgiastico,

canone, precetto, disciplina,

volontà e azione!

 

Ah passione!

 

La pace!

 

 

Evanescente il dolore spento

 

Evanescente il dolore spento,

la rosa dischiusa in silenzio.

 

Dolce effusione

mentre fissi la tela.

 

Vorrei scrivere effluvi,

vorrei partecipare al simposio

tracimando lo spirito.

 

Sognami.

 

Quel canto elevato mi scuote.

 

Granelli tanti

quanto i giorni in giovinezza.

 

I segni del tempo

sul volto cedono

alla potenza del bello.

Le palpebre sbattono al vento,

 

portoni di cortine incartocciate,

sbadate e sincere

mentre studio i tuoi sguardi

di sbieco,

 

tu assisa sul bordo

della fonte centrale.

 

Ragazza guardami ancora,

sono nel punto genealogico

delle realtà oniriche,

 

ditirambica, filippica,

estrosa e sofista.

 

Tu, prediletta dai numi,

il mio fiato è per te,

 

io frollerei solo

per un tuo fugace approccio,

 

uniti, indelebili,

te lo ridico, sei la voce

che da corpo ai miei pensieri,

 

la tua essenza mi guida

solingo con verga e lanterna,

ed io non posso tradirti

o abbandonarti, non voglio.

 

Sussurri come brezza d’inverno,

la tua voce non copre il gemito,

 

lo vuoi il mio cuore?

 

La mia anima?

 

Il mio spirito?

 

Il mio corpo?

 

Materializzati allora

dolce eterea,

 

la tua voce intensifica il suono,

diviene strumento essa stessa,

e allora drummeggi e sorridi.

 

 

Iannara misteriosa

 

Proclami l’inverso

come assorta,

l’incubo si raddolcisce

in un istante,

 

l’eremo tra la vivida

vegetazione,

 

l’ermo domani.

 

Imbellito il vascello

dei pensieri,

l’ultimo eco è risuonato,

dardi di fuoco in campi di spine,

 

non diamo spazio abbastanza

all’incanto del dominio

senza armi e armature,

con egide dagli occhi gorgonici,

 

nemici atterriti,

la spada del verbo,

la ruota dentata

con te minacciata.

 

Iannara misteriosa

vai senza aspirare,

 

fuma tossendo,

precludi un assedio,

 

tranquilla, l’aurora è vicina,

già vedo venere e luce

dell’angelo ribelle,

 

già vedo il fuoco

e la maledizione, il grifone

che rode la bile,

incessante il dolore,

 

ciclico il riapparire

con fasti dionisiaci,

 

con mandrie gelate,

o dissi offuscate (?!?)

 

il frutto e la conoscenza,

cioè consapevolezza

e libera scelta.

Poi il brivido dorsale,

certo ci vuole,

 

e ti affanni a rinsavire,

vorresti trovar la formuletta

anche per questa sconfitta

benedetta,

 

allora ti alzi austera,

aspetti i canti di gloria,

 

le sonate del furore popolare,

dell’arca trainata,

 

tale sembra il tuo

perverso sortire.

 

E mugugni trasognando

nel vuoto della stanza,

la radio a mille,

a mille il cuore,

 

lo tracci un sorriso,

cominci ad inveire,

a spegnere il verdetto di fuoco

coll’umore del corpo,

ti arresti improvvisa,

 

la pelle che freme,

la luce che accenna,

spegni la lampada,

scaldi le gambe col fiato,

slanciata in avanti

coi muscoli tesi,

 

gli occhietti furbetti,

 

la piazza in fermento,

 

l’odore di polvere e vento.

 

 

Dal Caucaso spedizioni albeggianti verso il tramonto

 

Dal Caucaso spedizioni albeggianti

verso il tramonto,

ampiezza frontale e vigore,

radure di primi eredi edenici

incontaminati rubicondi

ma pallidi, nubi

intorno alle loro parole,

 

eroi dimenticati,

gelati,

equilibrati,

 

ragazze avorio ed oro bianco

sui ciondoli e il volto vitale,

 

lo slancio floreale,

sonate martellanti

ed echetti in falsetto,

 

marce di pace.

 

La falena variopinta

sulla spalla,

 

l’anello intarsiato,

coleottero libero.

 

Nella vasta distesa

verso l’ignoto,

l’indomabile vuoto

sarà colmato,

 

il messaggio di speranza

proclamato,

 

gli strilloni in silenzio

loquaci mostreranno

il percorso di verità.

 

Urlettino soave,

scisso sensazionale Liocorno,

 

regno dei magi,

 

foglietta di sapienza autunnale

col verde scalfito dal viola

di transizione e rivoluzione.

 

Proseguiamo io mesto,

non indugiamo l’orizzonte è vicino,

la ghiacciata terra

a tre lati sul mare,

la caliente terra

a tre lati sul mare,

l’una di fronte all’altra,

 

scindiamoci,

 

istruiremo in conoscenza d’assoluto

la rozzezza,

la lotta armata scomparirà,

muta si dissolverà,

 

diremo loro che il male

è ogni forma di violenza.

 

Vedranno il frutto del risveglio,

o dormiranno ciechi nelle loro zuffe,

 

l’amore dominerà e vincerà,

col tempo si capirà

il senso del nostro vagare.

 

 

Ah scaglie di fuoco!

 

Ah scaglie e fuoco!

Piange il mio sospiro,

 

lacrime, cenere,

amore, con te.

 

Ti ho qui,

muta oh Sophie!

 

Qui,

le tue mani intrecciate

alle mie.

 

Si alza la fiamma

e resta il verbo,

 

i nostri discorsi,

la nostra isola lontana

senza più approdo.

 

Ipocrite le orazioni

degli incappucciati

intorno al fitto dardo

che ci ha trafitto alle spalle.

 

Ancora no,

fauci secche,

 

neanche più spazio

per gli affanni.

 

E la melodica

in do minore

discende intatta,

geme,

 

vuol rivoltarsi,

armeggiar la piazza.

 

Ah le illusioni nostre!

ah i nostri rotoli!

le rimostranze dialettiche!

trivio e quadrivio!

 

Ah sì, l’esilio!

ah le fontane del chiostro!

 

Sale, sale, sale,

l’urlo muto riarso,

l’umidità combustibile,

le perse nostre parti fredde.

 

Ora sì, ora sì,

vivremo nel sussurro del vento,

nessun limite, ora sì,

 

nessuna damnatio memoriae,

 

solo liberi,

già intravediamo

nell’opacità oculare

sempre più vivida

la riva da noi sognata,

per sempre nostra,

 

adesso.

 

 

La lezione di Iside

 

Ma quanto sei sospettosa,

languida e timorosa,

cicalina dagli occhi oscurati,

velati, mesti e sbadati.

 

Ti alzi e te ne vai via,

ti pensierosa sbatti

le dita sul labbro,

ti cambi e ti trucchi il viso,

 

passi allo sfondo

e il mascara ti manca un po’,

metti malachite preziosa

e galena da atmosfera,

ocra labiale,

 

sei pronta e con le gambe vai giù,

 

sì ti tiri le calze

in virtù titaniche e simpatiche,

 

l’impulso ti palpita il pensiero,

lo deponi il silicio del vero.

 

Questo tepore di fieno

che pone in dialettico intruglio

il veliero pronto a salpare

è un rimorso micidiale

nella tempesta portuale.

 

È vero la voglia stanca

peggio del pavesiano lavoro

ma la lezione di Iside è austera.

Sei un po’ svogliata ragazza,

 

mangia la cioccolata in terrazza,

 

visto errato il riporto,

guarda il sale precipita più sotto.

 

Una miriade di sanfedisti valenti

erano ancora più tristi,

spedivano indulti,

indulgenze plenarie

e sigilli papali

ai briganti.

 

Crolla il mondo se torno,

quindi godo e comunque,

guarda, lo faccio,

 

mastica le foglie di coca,

bevi pure una scoria di basalto

liquefatta

quindi tornata all’origine

ma raffreddata in paradosso.

 

Il sergente Trisiani

suona il flauto avvitando le travi,

a me sembrava felice

tanto che sciolse le camere e si dimise.

 

D’altronde la Legge leggeva poco,

legulei e clero giurista e scaltro,

si ispirava piuttosto ai fumetti

ma guardando solo le figure,

era un surrogato e un rimasuglio

di etica e morale

allora laica lucidò del potere le scale.

 

Il destriero nel vento meticcio

assaporò il languore del maestrale,

fu cavalcato a pelo

e senza redini

da un auriga senza vettura.

 

Un colpo di spugna

e tu ripensi al trucco,

 

soffi aria tra le mani

mentre ti senti distrutta

di prima mattina,

 

l’alcol ancora nel sangue,

vai in visibilio ondeggiante.

 

Meno male,

oggi non piove,

tira aria gelida ma buona,

 

dormirò avvinghiata al termosifone.

 

 

Virtù diademica

 

Cosa vuoi

trasparente essenza luminosa?

Abita in me il rimorso

buio del tempo.

 

Chiara vita

scorre nello sgorgo

della finestra,

 

non violenza

ma scintilla lieve,

 

a cavallo d’ippocampo

vibra nell’aere

come tra abissi

il tuo esercito imbattibile,

 

e sembra giunta l’ora,

l’ora della verità.

 

Ah il rossiccio ardore!

 

ah il pallido incanto!

 

ah lo smeraldino furore!

 

Divento come se il mio corpo

fosse scisso,

 

poi di colpo

l’anima ritorna in lui

salubre,

 

e io so volar,

le mie mani schiuse,

mi guardi e sì,

boicotti i miei progetti terreni,

 

e stai faziosa ancor sospesa.

 

Oh virtù diademica!

oh bellezza angelica!

oh firmamento marino!

 

L’arco da mille foglie

e dodici varietà cromatiche,

 

non è un dolce ma temperanza

statica,

il dormiveglia stride,

unghia sul marmo

in acustico bagliore elettrico,

 

vai, tu sai dove mirare,

tanto sono tuo,

 

vivido il violetto

 

alfa e omega

del circuito universale,

 

intermezzo spettacolare,

 

progresso generato

dall’errore ribelle,

 

uomo tale perché cade nel vizio.

 

Uh magmatico limite!

 

uh sinaptica percezione extrasensoriale!

 

uh magnetica dialettica metallica!

 

 

Resta qua

 

Non trovo più il disco

con inciso il verso,

quello dei porticati,

non hai idea

di quanto mi dispiaccia,

piangerò se non gli dai la caccia.

 

Non scherzare con il fuoco lento,

soffia pure il perdimento

controvento in paramento,

 

la fiamma risplende d’incanto,

la mia vera mistica ascesa

tra le tue braccia.

 

No,

non è amore,

 

sembra condimento puro,

fondamento della sostanza,

sua linea e chiave di volta

e sostanza stessa infine.

 

No,

il viaggio può aspettare,

già lo sai,

 

l’importante è l’ altrove

dei nostri pensieri,

 

siam lontani,

sospesi,

inauditamente protesi,

 

siam plananti

in giubilo festanti,

nella ciurma in calca,

 

sulla pista ghiacciata

scia di pattini.

 

Volge il sole al tramonto

ormai omelette,

 

scorgo l’ombra

e non è stavolta sul soffitto

ma miscelata alla mia,

tu meta e non metà,

 

il tuo sorriso sensuale

stampato a Gutenberg

per scherzo immobile,

 

non parlo della città

del metal melodico

donna e ragazza,

amica e compagna.

 

Non vorrei amor divagare

come d’uso,

 

stiam giocando

col dispetto nostro

e col sospetto loro,

 

regoliamo il volume

al minimo

e socchiudiamo gli occhi,

 

come son carini

i nostri due nasetti

che si sfiorano appena!

 

No,

non voglio,

non lasciarmi le mani,

l’alba tarda ancora

e non fronteggerò

la transizione

senza il tuo sguardo,

 

puoi restare,

 

dormire qui se vuoi,

 

i nostri sogni mattutini

saranno fiori germogliati asciutti.

 

Non mi abbandonare amore,

io sempre ci sarò

se chini il tuo volto

sulla mia spalla.

 

Non credo sia importante il perché,

basta un attimo

e riappari fulminea

nel limpido sfondo,

 

ti penso,

come se non fossi qua.

 

Non credo sia importante

il risplendente sole

senza il tuo volto nel giardino,

 

scendi dai monti

come ruscello benevolo,

 

neve sciolta e odorosa.

 

Non c’è più l’affanno

sul vetro,

nell’attimo concentrico

d’assenzio sei già qua,

come fonte di splendore

autentico.

 

Non miscredenza

nell’essenza del simpatico

 

fare estroso,

magari candida nube

 

di gloria eterna.

 

Non clamore frastornante

ma rivoluzione silente

cioè scarica vitale,

 

pulsione indomita d’amor.

 

Resta qua!

 

 

Qualcuno inveisce con forza nella mischia

 

Qualcuno inveisce

con forza nella mischia,

sincopato il labbro

come pastasciutta,

 

questo pseudoepocale manto disilluso della folla

è scostato e snobbato dal volgo stesso.

Invece quel nostro ingorgo a trotto

è così finito:

altro non era che libro dei sogni,

il burrone abissale dei ricordi

svelati come fossero mobili.

 

Girano quei fogli enciclopedici della nostra vita,

passa il tempo

e resta il disincanto

quindi, le magliettine,

le bende e le bandane,

i cagnolini e le grosse belve domate,

l’apostrofo e a capo dell’epiteto.

 

Un passante stranito

guarda e sorride,

 

le nostre parole stese su panchine,

gli amoreggiamenti, le effusioni

e le questioni insolute,

 

presumete orbene

che il sentimento puro

sia deducibile solo

da una stupida trasmissione televisiva

di Bercoglioni

o forse un post del Grillo parlante genovese di Cortina,

o ancora del nostro Dalaipapa gesuita?

 

Trasudante il sangue vespertino del cielo,

postilloso e cavilloso

il callo scrivano,

 

un tantino amarognola

l’offesa,

 

più che altro indifferente

la massa proletaria,

 

sorprendente il manico di scopa,

però.

 

Oscuro l’Efesino

stracolmo nella cruna

mentre filan le Parche dolenti,

 

pubblicherei per cambiare pagina

un pezzo sui siriaci serpenti.

 

Magdalena

 

Sguardo svanito,

nell’anima del bosco,

solitario un fruscio lontano,

il vento ti carezza i capelli

lo spirito inonda i tuoi occhi,

dolce la neve sul volto

inondato di speranze,

come fosse vivida fonte

tra l’aurora del tuo domani

 

I canti antichi

impressi sulle pareti

le tue dita in cielo

volteggiano e guidano

le tue parole

come il nascere del sole.

 

Sei luce,

immagine sincera,

 

torre d’avorio ed oro bianco,

 

lo sguardo si acuisce

e la mia essenza si eleva

 

e non c’è più vuoto o buio

dentro me.

 

 

Notte ai Decumani

 

Stanotte ai Decumani

la consorte del principe di Venosa

coperta solo di lenzuola

maledice i madrigali verseggiando,

intravedo il barlume corneo nei suoi occhi.

 

Sansevero che cauto miscela arsenico

e belladonna sulla tela

poi come un caimano piange,

ah la sua cura sforbiciata per il plasma!

 

Sai, vorrei bruciare l’odore

dei tuoi pallini d’incenso in combustione

privi di allori e seducenti,

 

è ora:

il venditore di giornali sembra

aggiudicatario battitore,

 

picciola mia stai attenta e non dimenticare

di trasmutare la morale.

 

Croce, il diplomatico mancato,

estetizza estasiato in biblioteca,

 

l’arte è una parte,

direi però la fondamentale,

la molla della storia

e del circolo perverso della gloria

(i poeti laureati tra le piante dai nomi poco usati).

 

Patteggiamo col divo Nerone!

 

Era un tempo l’era dei fumetti

letti in piazza

tra il gomito e la tazza

di solfuro intarsiata

stracolma di folla indispettita,

 

le cicche fumate a metà

raccolte dal senso e finite.

 

Varia l’effige!

 

Bruno studiacchia

nel chiostro e si distrae,

poi butta all’aria le icone

dei fratelli

e le sostituisce con scritti

babilonesi o neoplatonici.

 

Virago celtica!

 

Ed affinché

non dimenticassimo le beffe

con le cornamuse contuse

facemmo il verso al gesso

del docente inconcludente.

 

E spaziamo con la danza!

 

Ondeggia a sinistra o di là,

vedi

vai già

più lenta della musica,

ritmata la tua scorza di limone,

candito

inflitto a pizzico di dito.

 

La violenza sconfitta

con un bacio in palafitta

dell’invasrice indoeuropea

ancella di Brighid,

 

epoca remota,

l’edenica scena

non fu mai più riproposta,

 

son fiori colti nel deserto

e tradotti in sanscrito.

 

Non manca fumo pel digiuno,

 

C’è cenere e amore se ti volti di là,

 

il capo piumato è scolorito

allora rinunciamo all’allettante invito.

 

Al far della sera si cacciava

e per maledizione

non ci si nutriva più

solo di frumento e bacche,

 

la simpatica ragazza

faceva l’occhiolino

ed incrociava le braccia.

 

Tu sai,

conosci il nome del silenzio,

 

vuoi avere le cartine al tornasole,

le patrie senza limiti e frontiere.

 

Le musiche non cambiano

da popolo a popolo

c’è comparabilità nell’identità

l’essere diverso

si identifica solo con l’incontro

e col confronto

ed acquista così unicità.

 

Mi conceda infine l’ultimo passo di danza

(d’altronde hai intuito l’uno e l’altro canto, il verso stravolto e il suono).

 

 

Si svestì dinanzi allo specchio

 

Si svestì dinanzi allo specchio,

il mio,

se ha un rimorso lo scuce

nel letto,

 

la voglia forse non rimane,

ma lei sembra la scia

di una stella

o magari della viola

la corolla,

 

colta da una donzella estasiata.

 

Tutto negli occhietti,

brivido pensante

ed astraente

in quanto manifestazione,

spirito apparente.

 

E il corso d’acqua

risplende ciclico,

 

ci bagniamo sempre

nello stesso fiume statico,

 

unità triplice della natura,

 

dio ad un tempo anima,

spirito e corpo,

 

ti prego ricorda

l’impresa ardita

 

tra i flutti,

le colonne d’Ercole,

antidoriche,

 

il muschio ridente poi.

l’ultima stazione,

il vagone sonante,

te che parti,

che fuggi,

 

tornerai?

si schiuderanno più le labbra?

 

sussurrami il versetto.

 

Giradischi affetto

da dolori al petto,

 

e stride al contatto

col corpo lucido.

 

Io tendo le mani,

la luce si riflette,

cado in estasi

come se scorresse

latte nelle vene.

 

Assopito penetravo nell’assoluto,

spesso un ronzio mi distraeva,

il mio annullamento volitivo,

è nostro potenziamento giulivo.

 

L’orologio batte sugli attenti,

l’incubo si smorza

e il sapore della svolta,

mi pone nel dubbio,

ti fa sobbalzare.

 

Scende ora la pioggia lieve,

parli quasi sopita,

i boccoli e lo sguardo vago,

le lenzuola stropicciate

al vento,

ombra soffusa

al chiaror di luna,

 

pura immagine,

la sonata è mancina ed estrosa,

la veemenza del silenzio,

 

il viola tra le dita,

macchie soffici d’inchiostro,

 

picciola la magica orchestra

è dipinta nell’aria,

 

sei speciale sai,

penso a te.

 

Sento già il brivido dorsale,

le mani tremano,

la voce tua sublime e dolce

in me,

scendo e salgo,

guardo il cielo,

c’è lassù la stella

dai contorni tuoi,

illumina,

guarda qua,

 

si dirama in costellazione,

e così prende forma

di te.

 

Scorri a fiumi,

ti sento dentro me,

 

il cuore palpita,

la voce tremula.

 

E credo non dimenticherò

il tuo sussulto,

la musica della tua voce.

 

La notte domina più in alto,

il tuo sguardo obliquo

di nuovo alla parete,

 

cosa darei per vederti così,

per racchiudere

e non dimenticare più

quest’attimo,

 

vorrei dirti più

di quello che posso,

ma tu sei più

di quel che so,

 

fermati attimo

e lasciala impressa,

sì.

 

Guarderei solo te,

non vorrei mai più perdere

i tuoi gesti, i tuoi sogni, le tue parole.

 

Voglio te,

i tuoi occhi

e i tuoi soffici capelli,

 

non dimenticarti mai

di me.

 

Scende ora la pioggia lieve,

i pensieri non vanno però altrove,

 

diventi fluida come l’acqua,

pura e sincera

coi tuoi problemi,

le tue dolci esitazioni,

e io ti voglio veder

per sempre così.

 

Picciola mia!

 

Sei splendida stasera,

fantastica sai.

 

 

 

L’alba del domani sarà petalo tra le nostre dita

 

“Cosa fai lì sconfitta,

stesa e un poco afflitta,

direi dalla luce trafitta?”

“Dai se proprio insisti,

tolgo il cappellino,

agito i capelli”

“Sì,

vibrazione austera,

sento in te il sapore della sera”

“Vorrei dirti una sola parola

ma la nebbia mi scolora”

“Se credi sia giusto,

socchiudi gli occhi,

col dito sfiorami,

materializzati,

l’inverno non ci può avvilire,

ti prego, dai,

non scomparire,

non dissolverti ancora”

“Deh mio simpatico amico,

non ricominciare,

io non mi soffermo mica”

“Uh guarda che carino,

il piercing e il nasino,

l’introverso giro in tondo fino”

“Ohibò,

che dolce l’hai notato”

“Dimmi un po’ allora

cosa ti trattiene?”

“La sabbia, il vento,

la maglia, il tempo,

l’ultimo elemento”

“Quale?”

“…”

“D’accordo fa come vuoi,

lo scoprirò”

“Non c’è numero che tenga,

ma un’unica sostanza

allora stringimi forte amore,

dimentichiamo tutto

e scopriamo l’assoluto

avvinghiati come ultimi eroi”

“Sono stupefatto

dal tuo sguardo, dal tuo volto,

dal tuo corpo,

credo che la notte

sarà l’ultima vittoria,

se il mondo crolla,

i nostri sogni sfumano,

l’erba cessa di crescere,

noi ultimi reduci

ricostruiremo la vita,

l’alba del domani

sarà petalo tra le nostre dita”.

 

Il Giardino di Epicuro

 

Goccia di rugiada,

quattro di mattina

il giardino respira di follia,

 

si prepara la festa frugale,

feta, orata mandorlata

e un cotilo di vin mielato.

 

Passa la ragazza,

capelli raccolti,

trucco accennato,

corpo snello,

 

vademecum sotto il braccio,

 

pulsione di vita in petto,

 

è stupendo il profilo!

 

Un bacio sulla guancia,

l’altro mi sfiora le labbra

 

con sapore fulgido d’incanto,

 

e poi il ciondolo e il pendente,

il braccialetto spigato,

finemente intagliato in bronzo.

 

Entra il maestrino,

solleva lo sguardo,

anzi lo abbassa in alto

ascetico ed intorno fa le mosse

mentre lei con due o tre smorfie

si inchina e si intarsia,

si strapazza,

 

vai giovine pulzella,

vai piccola frigente

e fringuellosa slinguacchiata

e decorosa.

 

Cara siamo soli,

cogli le asciutte parole.

 

Volgi l’indecente,

ci basta poco per essere felici,

dai con la bacchetta

dirigendo austeri

l’orchestra con la pace,

con la gioia,

con l’amore e la fortuna

dei nostri anelli

 

eliminiamo dal mondo

violenza e guerra,

 

le scritte nei cartelli,

 

i disegni sui fumetti,

 

sui manifesti l’orma

dei pennarelli.

 

Vai raccogli l’aere,

 

inspira l’anima della natura

tramite lo spirito diventa pura.

 

Vai distesi a terra,

poniamo la brezza egea

e chiamiamola flemma e purea.

 

Vita straordinaria,

il sussulto divino si scorge

nel semplice barlume affino,

doniamo noi stessi alla causa,

al bene comune,

 

l’orticello del dispetto

devastiamo coltivando il rispetto,

 

e vita eterna nell’amore

e nella cenere il mutamento statico e ciclico.

 

La ragazza di Dublino

 

“Spremi il tuo cuore!

Con speme scandisci le parole!”

 

Sto svitando cardini e cancelli,

le fondamenta

della mia passione

sono obliqui raggi di sole,

vasti scoscesi campi da arare,

vitali illusioni da nutrire.

 

Mastodontici colonne,

templi castrici a coda di rondine.

 

L’architrave sembra seducente!

 

“Cogli il fiore!”

 

Sono assai distratto dall’incanto del vento.

 

“Poni ardenti assiomi…”

 

Ho mangiato,

in fretta il mio panino,

struttura cellulare,

impermeabile membrana,

pompa sodica e spola del potassio.

 

Nel silenzio vibra un phon,

la musica ancestrale in profondità.

 

Livido scolo.

 

Canuto argine dell’acquedotto.

 

Potrei divagare, impostar la voce nell’anfiteatro.

 

“Vai tranquillo!”

 

Sembra divagare

la previsione astrale.

 

“Scorgi le scale?”

 

Scade la ricevuta,

alto là,

l’imposta sudicia,

la baratteria dantesca.

 

“In anime ribelli

la chimera del tempo”

 

Scesi poi bazzicando

tra le strade del borgo.

 

“La corrente è un po’ avversa,

mantieni la promessa”

 

Ero un po’ assorto

nei miei pensieri.

 

“Lascia stare,

resta in piedi”

 

Passò d’un tratto

la ragazza di Dublino.

Il flusso allora si arrestò

e mi misi a parlare.

 

Come stai?

E perniciosa dove vai?

 

Rideva, dispettosa

e cinica non rispondeva.

 

“A volte il silenzio è l’incubo del portamento”

 

Ma poi d’un tratto iniziò a sciorinar parole.

 

“Vedi, è fiera!”

 

Le sue scodelle.

 

“Dove è il pragmatismo?”

 

Accordò la lingua

in intenso spulciare indecenze.

 

“Non disperarti amico

lei ti vuole bene”

 

Allora le coprii

le labbra con un dito.

 

“Guarda che occhi!”

 

Non so,

il mondo è sul suo volto,

la storia nel dondolare,

la conoscenza nell’indicare,

la sapienza nel fiatare.

 

“L’atomo è in paradosso scindibile

ma il legame no,

è solo apparenza,

resta saldato”

 

Mi colpisce più di ogni cosa

la dolcezza che ha nel parlare

ma soprattutto

la grazia nel baciare.

 

L’immagine dell’assoluto

nel cenno della testa.

 

Dodici chiavi ed una serratura.

 

“Non ti distrarre,

continua a fissar lo sguardo,

innamorati appassionatamente,

le gioie al petto e al braccialetto.”

 

E quando smette

carpisco il suo discorso,

mi svesto dell’orgoglio,

scaccio la vanagloria,

mi fisso allibito,

bocca aperta

e lei sporgente.

 

“Le sentinelle del sinedrio

parlano di vendetta,

lei resta estromessa

e allora espande letizia”

 

Schiarisce un po’ la voce

non tossendo ma ispirando

e mi mette al corrente

degli opposti, immanenti a loro

c’è la sintesi che li ingloba

ma allo stesso tempo

li contiene e quindi

annulla differenze,

c’è un’unica sostanza

e quindi il male si scorge

solo dall’assenza.

 

“Le virtù son sante e beate,

dal cielo e dalla terra benedette,

se scordi ciò che c’è in te,

perdi di vista il divino”

 

Irrompo e mi trascino estasiato,

educato alla libertà,

alla dignità, all’amore

e alla parola.

 

“La simpatia è universale,

ponila come premessa,

siam ginestre vesuviane,

stringiamoci in un unico abbraccio”

 

 

Cleopatra Selene

 

E va la gazzella,

carta attacca,

volge intatta,

preda al corso

d’acqua,

oddio che scacco!

 

La ragazza morsa

dalla taranta danza,

 

ondeggiamento sub sahariano,

regina della savana,

 

estasi statica.

 

Warhol fa graffiti urbani,

la ragazza domata trasforma

il lamento gutturale

in lemma soprano,

indossa le borchiette dark,

la zattera a triplo tronco

alla sorgente del Nilo azzurro

va .

 

Reginetta a pesca in apnea

stretta al timone,

 

allento la corda

e il tronco divarica

in trotto,

 

viandante va’.

 

Fiori cretacei tra i capelli,

cacci lo specchio,

trucco cretese,

labbro fenicio

semi sporgente.

 

E in un rollio kilimangiarico

sembri crapettare,

austriaca scura.

 

Vai,

comica zuffa,

luna violetta,

lingua sorretta,

patina asciutta.

 

Sogni il megafono francese,

il punk senese o berlinese,

la dedica con scredito,

l’urletto sollevato,

la seducente ondata,

il Clysma cobalto-cinambrico.

 

Cambia il taglio dei capelli,

il colore dei sentimenti,

la danzetta sta finendo,

rinforca gli occhiali da sole

e pensa,

riprendi il clarinetto,

scuotilo per dispetto,

nell’indecisione mistica

crea una moda,

una parola,

o una vivida storia

già fritta,

 

un aspide che insidia il calcagno

della tua discendente,

 

la flotta nemica

salverà qualche libro?

 

Kimery

 

Dam dam,

le spoglie spirituali,

zam zam,

sostanza al sommo grado,

la la,

astute simmetrie,

quo quo,

superflua venalità.

 

E scivolo sul piano inclinato,

mi manca un sostegno,

forza trasversale

e vettoriale inverso,

sditato un po’ cucito,

svampito twilightiano,

ennesima eclisse consoliana,

ambasciata emo zigzagata.

 

L’espansore a incudine

falcia il martello,

l’ultima occasione,

l’incubo del sonno di ragione,

nottuccia amore,

 

illuminista romantico

e decadente enciclopedico,

 

rosa e biancospino,

 

acca un po’ aspirata,

 

capo o coda o smilza

bicocca da sfinge.

 

Set set,

pentole bibliche,

pam pam,

sbrigata statica,

bum bum,

sorseggia mandorla sudamericana,

ven ven,

veltro spoglio da addobbo intrinseco.

 

Cado come sabbia,

clessidra formativa,

body modification

da scettro maledetto,

anello gianico e ceccato,

 

si fossi fumetto andrei all’inverso.

 

Beng beng,

golfo tarantino,

can can,

suono asciutto israelita,

bon bon,

maya nutelloso,

br br,

cancro in capricorno

uniti all’ordinata g

ascissa p-melissa

dell’equatore milleriano.

 

 

Lady Nietzsche

 

Agalma sbiadita

dall’incuria dei giorni andati,

non è finzione,

sei vivida in proiezione,

riflessa e maledetta,

in un angolo col libro

semiaperto,

e poi diretta al piano

ondeggiando.

 

Il silenzio del vento taurino,

la seduzione e l’ossessione,

natura e sonata frastornante,

pessimismo ridondante,

il bel sì alla terra,

elevazione spirituale diretta,

il litio in provetta

e sei più calma.

 

Dov’è la parola ardente?

dove il furore? In te si chiude

la storia come girotondo,

 

danza sugli specchi,

la tua gioia,

la fierezza permane,

e la voglia di sovversione,

 

trasmuti l’alma

e ti trasfiguri.

 

Booom!

Dondola la pioggia,

va.

 

Piange il sole,

luna altrove,

nero ardore,

corvo in Mole.

 

Strisciando intanto

sui rimasugli,

la vasta quiete

del sussurro

interrotta dal vascello silvestre,

 

le danzatrici,

la fruttaiola e l’uva,

l’intentio,

l’inaudita verdognola

pozione amarognola,

il rosmarino diluito

tra i capelli,

il rito sabbioso,

il rito tenebroso,

la voglia d’incenso,

la mitriaca valenza,

lo schizzo alla fontana scissa,

la solitudine vana,

poi la virtù velata,

la tracotanza infetta,

la magica rimessa intatta,

il rigurgito vitale,

la passione scardinata,

la sincopata arsura gelida.

Infine un ululato lontano,

 

poi il silenzio.

 

 

Da qualche parte

 

Da qualche parte,

forse proprio lì,

oltre il confine del mare,

alberga l’indicibile,

 

sguardi attenti, rivolte, gesti.

 

Sfiora il tuo viso l’inverno,

accenni un sorriso di nuovo,

piano, calma, non c’è fretta,

 

calma.

 

L’astratto, discorde, pudico,

velato cenno cinereo,

vita in versi, forse indifferenti

i gorgheggi preliminari,

 

eh eh, vedi la luce

intralciata dal velato

dolore lacrimato.

 

Dammi l’attacco,

l’ingorgo.

 

Dammi il soffuso,

l’illuso dischiuso,

 

poi zitta!

 

Qualche cosa dentro me

si muove.

 

Noci celebrali, impulsi magnetici,

meschini corsari dimenticati,

messi elettrici,

cause motrici attente,

teorie disdette, paralogismi,

canti come mandorli in fiore.

 

Dimmi di sì

sul predellino del sapere.

 

Dammi l’accenno

sul fiato ondulato,

 

magia del creato.

 

La pioggia!

È così che va la storia.

Così soffice il guanciale

del tuo corpo,

incantato il posto.

 

Così mi guardi di sbieco,

sempre sgocciola neve,

neve.

 

E scrollo le mura,

gli architravi dei miei pensieri.

 

Avvolte come cialdoni,

avviluppati discorsi

carichi di forza

e molecolari inscindibili,

indiscutibili, limiti intrinsechi,

 

a volte umidità labiali

tra me e te,

 

madori vischiosi,

calcoli finali,

 

trovami l’intro.

 

Dimmi lo so,

non lo trovo però.

 

Dammi il misto focoso

di ardore strepitoso.

 

Amplessi Escatologici

Imbacuccata dal caro foulard

 

Imbacuccata dal caro foulard,

capelli mossi e sbadati,

nello specchio da trousse

immersa, gigli intrepidi

sbucano qui e lì,

iato di verità

evitato nell’antichità,

con sincerità atarassica

ed orgiastica, spuma in cielo

 

ammiccante, protesa.

 

L’encomio profuso

sembra tardare,

sibillino e scostante,

una croma perduta,

una glossa diffusa,

un parere bartoliano,

un consulto citando Quintaliano,

 

non crede che la donna

sia quel che sia,

sublimità,

e lei che fa? Si distrae!

L’attimo genealogico

perde intensità,

 

allora ammicca e si ficca

tra vocali spurie e spore

precambriane orribili da ascoltare,

impronunciabili, da cestina’!

 

Allora purifichiamoci, dai,

slinguettando diamo fiato

alla dolcezza,

le prebabeliche lingue germaniche

dai suoni rudi, esuliamole,

 

esiliamole.

 

E inizia una nuova era,

l’era della purezza vocale

e del silenzio consonantico.

 

 

Ti vedrò

 

Ti vedrò,

giuro che un giorno ti vedrò,

cara mia carta vincente,

 

non esiterò,

per passione

ed intanto un rombo sonante

impenna, mi dirai,

 

so che le parole giuste

quelle sì in silenzio sussurrerai,

adesso che ti attendo

come fossi ultima luce.

 

Vieni,

so che tu sei l’essenza

della mia vita,

l’unica ragione di esistenza,

l’unica molla intensa,

(l’ondeggiamento della penna sdrucciola sul foglio).

 

Vieni,

attendo le tue note

di stupore,

mi sembra di scorgerti

tra la folla, il tuo riccettino,

l’ombra del mascara,

 

ma mentre l’ombra sfiora

il tuo corpo

ti dissolvi.

 

Verrai o no? L’illusione avvampa,

chi lo sa se l’attesa

è l’ennesima follia,

sarà l’ultima occasione

o forse il nulla,

 

prigioniero del mio sogno

e naufrago barcollerò.

 

Vieni,

ti prego le mie mani

stan tremando,

l’albeggio è forse il traguardo

 

l’inevitabile speranza

che già geme e implora.

 

Vieni,

i tuoi inverni saranno anche i miei

lo sai,

 

è sempre pronto l’ermo viaggio

ma non so,

non so più se resisterò.

L’attimo scivola via,

 

di nuovo trasparente ti fai.

 

Vieni,

mia cara l’intimo sussulto

attende, attende già lo sai

il cenno delle tue soffici mani,

la cenere aumenta

e dal silenzio cinereo

l’anima risorge.

 

 

La pulzella di Lorena

 

Demoni in tumulto

sussurrano in te,

c’è un’aria gelida,

l’inflessibile decisione

è stata presa,

 

arderà la paladina stolta,

la santa introversa e ammaliatrice,

la meretrice battagliera,

sole invincibile punirà

chi d’ardore è spenta ormai.

 

Prega pur se vuoi,

brucerà il demonio che è in te,

inchinati alla croce

o morirai nel dolore.

 

Hai osato fanfare diaboliche parole,

la tua follia è finita,

non hai speranze

orribile ingannatrice,

 

fiamme per l’anima e pel corpo,

non ascolteremo più la tua voce,

astuta donzella, la vendetta

assedierà le tue membra,

 

brucia pulzella,

non darai più retta

alla possessione che t’invade.

 

Urla,

gemiti,

urla

e sputi.

 

E tu

in quell’istante

chiudi gli occhi,

 

ripensi alla luce

che invase i tuoi occhi

genuflessi in cattedrale,

 

rimembri d’un tratto

il sogno di femminea

pace universale,

 

matrona e ragazza

della congiunzion paonazza.

 

La provincia geriatrica

ostenta leggi infami,

 

i tuoi sostenitori

e i vostri sogni svaniti e vani,

la ciocca rossa cade ai tuoi piedi,

il boia gode da belva infetta,

gli occhi cobalto

tra l’invidia della folla

che inventa un misfatto,

ed il sacerdotal ricatto.

 

I soldati d’ Orleans

non saccheggiavano,

i dardi si piegavano,

diana,

daino e

dannata.

 

Un altro urlo c’è,

il braccio armato freme,

il temporale preme,

non purificherà le loro colpe,

le streghe torneranno,

vendicative Erinni,

non esorcizzate

e non intimorite.

 

Arriva l’effige,

putrida contadinella,

 

volevi far la santa,

generalessa unta e diabolica,

il re l’ha spuntata,

non ci sarà pietà,

sognavi libertà,

 

eccoti la realtà.

 

Passano gli anni,

il tuo volto giovane,

non dimentica l’uomo

che ti era affianco,

 

chi non ti ha tradito,

senza farsene accorgere

si avvicina a Thanatos

corrucciato e in sé assorto,

 

l’asta e la falce si spezzan,

come cristalli in frammenti

la lama del pugnale di Ares.

 

Anello del potere sul fondale!

 

 

Un urlo metallico

 

Un urlo metallico,

sinfonico maneggio

da manovella attenta,

mandria valvolare,

veemenza sentimentale scarna,

sentore d’ atomi tomistici,

scolastiche profusioni,

vaneggi santi e macchinosi,

interpretazioni autentiche,

relatività suadente,

nulla,

morte,

tempo ed essere.

 

Brume viandante,

cogli il frutto distante,

tra laudari stridenti,

scansa i fendenti.

 

Senti il cuore che batte?

Sogna!

 

Cosa c’è

nel vespro alessandrino?

 

Solo l’incubo di uno spritz vitale,

di un cocktail virale,

dadaismo intenso,

metafisica del soprano,

surreale ad uso corale

e baritono dantesco.

Spasmo notturno. Cattedrale bianca

e pleonastica ridondanza.

 

Vedi l’inizio?

L’inizio dello scisma.

 

Atonale,

attonito,

attratto

e allitterato.

 

La paura è una nebbiucola,

sale trasudante,

inversa e danzante.

Esca per il refrigerante

liscio della mente,

come palpito stimolante

l’idea fugge in volo,

 

termine di paragone poliglotta,

rovina scadente,

morale teleologica e canonica,

anagogia figlia dei lupi.

 

Barbarici farfugli,

lotte preedeniche,

miscele di terriccio,

materia plasmata e non creata,

 

in principio fu,

poi era,

ora è,

infine sarà.

 

Congedo in concreto

le tue parole

 

e arrivederci.

Fruscio intenso!

 

 

Come pioggia

 

Come pioggia

che bagna i sorrisi

accennati

le note misteriche indugiano,

l’ingresso alla soglia

del silenzio, l’aria si schiude

e il pensiero va altrove,

 

sei già qui? Ti attendevo

tra i volumi e le colonne,

specchio mio d’acqua dolce.

 

Dimmi se hai conservato

le missive, i sigilli, le piume,

se sei rimasta marmorizzata

sulla sponda del letto,

se il dolce sciupio del frullio

ti ha sedotta ancora,

 

petalo fucsia meticoloso tra i rovi,

le strade di Tubinga sorridono

al tuo sguardo tra i vetri,

il cofanetto dei segreti

scandisce il motivo,

 

sbiadita l’immagine,

vai verso i quadretti ondeggianti

e luminosi,

gli occhietti persi nel vuoto,

nel sogno vivido l’intento,

tre fuochi accesi

impostando il rimasuglio,

 

la cera livida sul foglio

scribacchiato, e poi un bacio al vento,

accenni un sentimento.

 

Naufraga l’anima idealista,

mio spirito, mio viso, mio pallido

segno.

 

E fiammette scaltre sul fiume,

la città è un barlume,

incontro intarsiato tra le idee,

le forme divine,

le scappatoie empiree,

stringi le mani alla ringhiera,

sporgente il corpo,

 

sacro il fiore ottagonale,

guarda lì lentamente

il dardo scinde le passioni,

 

nostalgiche effusioni.

L’argento silvestre,

non voglio perderti amore.

 

Sei in me stivaletta,

sei in me anfibia principessa,

stretti in semiotica promessa,

filologica valenza,

stilistico orizzonte.

 

Tre gocce purificano il mio capo,

lo sgocciolio dal tetto spiovente,

grottesca pietra nascosta,

potente e vorticosa,

laccetto e pendente

con le scritte impresse,

 

regina, i miei onori,

regina, i nostri errori.

 

Immagina le distese sconfinate

dove alberga il tuo esercito

allerta armato di brezze,

 

sembra già inchinarsi

al tuo portamento,

al tuo celestial volteggio,

le forze immani dell’est,

terre inesplorate non temi,

sostanza altera e rubiconda,

espressiva imperatrice

 

il tuo regno ti attende,

 

la pace universale

il tuo cenno porterà.

 

 

Vespro seducente

 

Entra il vespro seducente,

sfoglia le tue mani

nude infreddolite,

le risate, le giocate,

le valide occasioni beffate,

valige senza tempo

sul ripiano serale,

l’incanto di un protendersi

verso il notturno corale,

l’albore lunare.

 

Penombra fiera,

vista acuta,

falco librato federiciano,

manuale sadico posizionato,

 

i cinici sputano sul galateo

cerberati,

 

l’arietta prosegue allegra

ma sinestetizzata,

più può il panistico flauto,

l’armonica fisiognomica e slava,

organello sottile,

 

vai ondulata, sciolta e scaltra,

piccadillica, cattedratica,

oppiettizzata,

canone cannabinoide,

etica etilica,

estetica ad est,

vistosa la collanina,

 

fresca la fronte refrigerata,

scende la temperatura,

parte fredda eclissata,

conico l’antro sibillino,

sotterranea la cella,

secondino da barba caprina,

cellerino d’abbronzatura,

pomata reclusa e profusa,

 

lode al soprano,

la viola maggiore è distratta,

scala discendente darwinista,

zoologia simbolica tardo medioevale,

ciclope, gigante e sciapode,

liocorno, furetto, chimera,

centurione-centauro,

 

in piazza Ipazia tra una sigaretta

e l’altra,

 

al bar Hegel paonazzo e ingrassato

per falso rapporto di Venere,

 

alpina lucertola gigante dei ghiacciai,

impressa nel rullio del rullino estinto,

caro viscido sarcofago,

mummifica il portamento,

rendilo edotto.

 

E va sbiadita,

stringi quelle labbra,

poni un intatto cielo cobalto,

limite del mare,

l’onda sale ripida,

l’acqua sgorga e casca,

filmino straripato,

 

magica quiete invernale.

Ma che solfeggio altezzoso,

che diadema putrido

da belva del mare,

quella che lentamente sale

e trascina rovinosa

un quarto di stelle,

 

ma la lancia ferendola la umilia,

non sopravvive al taglio di spada,

non ci inchiniamo,

la ribattezziamo inutile violenza

intesa come qualcosa che manca,

che meschinamente lambisce

l’inutile di uno spasmo,

 

spasimante del nulla.

 

Ed è ripieno farcito,

l’essere, l’esserci,

le diverse declinazioni tedesche,

le congiunzioni mediocri,

l’asperità, la vacuità,

il fine a sé stesso ambito,

 

vai valica il monte Ventoso

petrarchianamente o da tour de france,

in ciclica vendetta esule,

in pagina vandalica,

voglia sopravvissuta,

stirpe ottusa,

priva di mandorle e d’incenso,

sapore ortodosso, giusta icona,

santa tunica, imponente toga,

dito all’infinito collegato,

 

non dimenticato.

 

 

 

Wiesbaden

 

Ametista e opale

congiunti sulle scale,

ascende dolcemente

colei che protegge

 

il dono divino,

la misericordia,

carminio il vestitino.

 

Ok, pian piano,

druidetta furbetta

guarda i tuoi occhi.

 

Che bello,

scartiamo i ricordi,

 

che bello,

manteniamoci ai bordi,

bellina stridente,

visino invitante,

seducente.

 

Appoggiamoci su quel muretto,

hai le labbra che non so risolvere,

ponenti, ardenti e vezzeggiate,

l’ albatros è un po’ inutile,

diciamo manca in concretezza,

meglio il vino se vuoi Baudelaire,

dai si ubriacamoci di qualcosa,

tè corretto e sciupaletto,

fraintendimento e capitale

del tuo Land,

 

ti manca l’università,

due giri in terma,

scientifico aforisma pliniano,

 

ansia anzi panico

dimenticato.

 

Andiamo su per monti,

giù per ditirambi stolti,

che freddo stringimi un po’

anzi mettiti di lato,

obliquo e un po’ svogliato,

sulle scogliere dei ricordi,

calcare sulle rocce bianche,

voglia di gabbro, di basalto,

oh ti garba! Parla a tu per tu,

ah l’hot dog! Così non l’ho mai mangiato!

 

Uh Abat-Jour ! Diffondi il cardigan.

In scivoli e altalene,

mania d’elevazione,

paura dell’abisso in discesa,

ondeggiamento, buttiamoci sul letto!

 

Che stupida,

ed io ti do anche ragione,

specchio dell’oblio, pluripersonale,

immotivato, gioia impersonale,

collera e desiderio.

 

Astuta e quasi perfettamente

sconosciuta, amica arresa,

io bitume ignorato,

vai brucia ‘sto straccio,

benzina e cherosene.

 

Camice e saccarosio

nell’assenzio, squallido silenzio.

Facciamo un tuffo,

trattieni il fiato,

 

leggi o fingi,

sei stupenda uguale,

il primo passo lo fan i capelli,

sfiorano astuti bombardamenti,

 

fragore,

fervore

e fragrante frasca,

 

l’albero nasce dal frutto,

ricorda il fine è più importante

del generatore, ciliegina ibernica

e squisita,

io non posso far altro

che ammirarti, fossilizzarmi

nel guardarti, restare muto

ore ed ore, il tuo nome

è un rimando,

 

quattro semiminime, una croma

e due biscrome,

 

ricotte, precotti, biscotti,

scegli tu la direzione,

l’intrusione,

l’effusione eventuale,

bellina al sapor di semplice

grandezza, magniloquenza e speranza.

 

E il rapporto servo padrone,

dimmi un po’ chi è più importante,

l’amata, l’amante

o forse lo sguardo intrigante,

lode a sé, per sé e di sé,

uh che fiorellino,

freschezza del mattino,

 

uh lo dico ancora,

per te.

 

 

Musica indimenticata

 

Passeggi tra la nebbia,

già immagini il motivetto,

lo ripassi in fretta,

 

ed esplode il discorso.

 

Sai bene cosa vuoi,

ritratto accennato, sbiadito,

in filigrana, lucido sol,

e tu malandrina,

cosa vorrai ancora,

vita mia, non dimentico

e non dimenticar

le nostre assurde follie

incomprese,

 

gli sberleffi, le tue manie,

in un minuto avvisti già

le schiere d’ elfi armati di lance,

le nostre spiagge abbandonate,

 

sfiorate appena le note.

 

E precipito già,

guardami trotto,

mi spoglio, vivo di te.

 

E sognami stanotte,

le ombre che fuggono

ritorneranno come un inciso,

sbalordito il tuo viso.

 

E parla un po’,

magari da sola,

col gatto,

guarda che faccio,

sorrido un po’,

 

vibro sospeso

come te nella mia mente.

E poi i pastelli,

 

le sfumature impresse,

i nostri sogni, guarda,

ridi, beffarda amica,

non dai scampo,

 

nocciolo spoglio e fruscio.

 

Per te si apron i fiumi,

la purezza invade l’animo

e poi ancora brulica pace,

 

vai vivace,

audace cappellina,

tessuto prezioso.

 

E poi mia cara,

mia dolce scarpetta

non senti l’aria

che scorre nelle vene?

non percepisci il calice

della vita eterna? questa musica

indimenticata, riscritta,

riamata, formula dello spirito,

dell’azione, dell’intenzione,

 

ciao amore!

 

 

Scariche magnetiche

 

L’intimo rimorso

è dolore che mi assale,

l’estro nel silenzio

si spegne piano,

 

la cera del tempo

lenta dissolve,

con noncuranza sigilla

il ricordo.

 

Furtiva la notte piange lacrime,

sciupate dal vento

le ultime foglie.

Sembra ieri eppure

è già domani oggi,

il cambiamento epocale

sembra sempre più tardare.

 

Fuggi rapida

vita dissipata,

ai bordi del fiume

l’anima sorride dell’ardimento

che sgocciola passione

riflessa e genuflessa,

si arresta soltanto alla mano

che sospende il vento,

l’aria, il fiato,

il corso.

 

Poi lamenti lontani.

 

Scariche magnetiche

 

sfiorano i nostri corpi,

l’attrazion fatale

da concretizzare,

nell’astratto bosco

il rifugio è perso,

la contemplazione resta un’illusione,

e le menti rozze e stolte

bramano il potere

come svelte scimmie,

e io qui mi acquieto e riposo,

 

in te cerco ristoro.

 

È così difficile trovare le parole

mentre l’attimo sguscia

tra le mani inumidite,

la parete è ultimo sostegno

del sogno infranto.

 

Vai, accompagna la vettura sbrigliata,

in balia di sé,

sorprendimi,

le saette non potranno

mai colpirci, ferirci.

 

L’incauto misterioso

intrepido non congelerà,

non distruggerà la corazza

di cartapesta, non piegherà il gesso

di semplicità,

 

si arrenderà,

le armi esausto deporrà.

Poi sentieri sinceri

aperti dinanzi a noi.

 

Poi la tua presenza

sbiadita chiara apparirà.

 

 

Brigith

 

L’imperatrice

 

Era novembre

 

Era mattina inoltrata,

sdraiato sul letto fissavo la finestra,

i pensieri vagavano sonnambuli oltre il monte,

desideri di ascese verso verità celate

ed inesplorate.

 

Chissà se mai sono

nella tua mente,

nel candore della tua pelle,

vorrei vederti di nuovo intorniata

di perline e maestosa,

 

mi sfioreresti il viso?

Vorrei davvero abbracciarti

ancora, vorrei che le tue mani

guidassero i miei gesti,

vorrei planare nell’aere

e seguir i miei pensieri,

non ha ormai più senso

la mia volontà ed il mio agire,

intorno alberga il vuoto

e dentro un mondo esplode in sé.

 

Era novembre e nulla cambiò,

resto attraccato al molo

in attesa di improbabili maree,

 

noi

improbabili eroi d’altri tempi.

 

Canto cadenzato

 

Parlume di bitume

mascherato di amianto dorato,

sentimento scarno e bazzicato,

destinato al silenzio

ed al fermento stupito.

Damigelle ai posti d’onore,

 

flauti magici,

 

incantevoli corpi nudi,

 

masticanti profusioni,

 

ardori assunti e meticolosi,

 

forse scialbi piatti decorati,

leccornie carnali sui tuoi fianchi,

 

animali graziosi poggiano

le rime altrove e miro te,

lì dinanzi a me,

 

docile fermento mattutino.

 

Cade il canto cadenzato,

poni assenzio mandorlato,

atomo perso nel vuoto,

ogni parola si arresta,

il tuo sguardo resta,

i tuoi fuochi inestinguibili,

i tuoi braccialetti fruibili,

pelle dolce da assaporare,

da lodare,

contemplare in estasi,

il fiume di verbi.

 

Lenta poi ed improvvisa

una viola distoglie il pensiero

e tu come fosse solfeggio intonato

volteggi, spiazzi e spazzi

con le partiture, un basio,

slinguetti dispettosa,

sbatacchi l’anima

secernendo spirito,

 

grazia etilica

e valente effige impressa,

mai dimenticherò la voglia

e la volontà di te.

 

Riprendi l’opera di sensi

sviliti ma rigenerati dalla tua passione,

che labbra vivide, intense,

pure sentinelle in guardia

e pronte a sfiorare l’etereo clamore,

a soggiogarlo, renderlo servo,

al guinzaglio, purificarlo e girarlo,

rivoltarlo,

 

poi chiaro consolarlo.

Attimo di suspence,

 

entrano i cortigiani.

Cortesi direi i tuoi servi,

le tue soluzioni,

in trono dirigi e sorridi,

poi riondeggi come fascio luminoso,

caloroso, inaudito, colorato,

cristallizzato, decorato, declinato,

inviolato, e infine donato.

 

 

Sonata

 

Due bestiole si presentano,

che graziose, che portamento,

che quiete sentir il fermento muto,

l’incanto, il canto tuo, è così sublime

 

(e sei col libro chiuso).

Sembra quasi la musica

non si percepisca,

solo un lontano bagliore tonale,

è un’arpa rinascimentale,

un inciso spirituale.

Il risveglio fischiettante dei folletti,

con gli intenti furbetti,

 

dolce fiaba emo,

 

tra Selene fremo,

Eos avanza, che temperanza,

la giostra gira cara ragazza

nel carillon protetta,

 

sia benedetta la tua faccetta.

 

In punta di piedi

tra viali scoscesi

saliamo i gradini,

sfidiamo gli altarini vicini

vicini, scansiamo il nemico

e facciam l’occhiolino

 

e tu danzi avvinghiata

a te stessa sotto le stelle,

 

dio mio che splendore!

L’acconciatura francese

ti sfiora la palpebra distratta,

allora oscilli trottolina vorticosa

e scomposta,

 

dionisiacamente risorta.

Ciclo naturale

e metempsicosi corporale,

batto i tre quarti,

 

figura perfetta e stellata

da musichetta pitagorica,

 

le etalage di turno

congiunte in Saturno

hanno la luna storta

e contorta.

 

Il meridiano divide il limone

in atteggiamento sospetto,

 

in dolce compagnia sul letto

aspro e strisciante,

 

la corda pizzica ancora

come formaggio l’asola.

 

E c’è una festa in piazza,

si sente dalla terrazza,

più altera va la ragazza.

 

La spola fan tre o quattro

appostati sotto il palco autunnale,

il vento soffia,

l’amplificatore, la spina, le cuffie,

il motore.

E poi gli stralci,

 

sonetti o minuetti,

il maestro si sbatacchia,

poi vede la ragazza,

 

non è distrazione

ma entrar nel vivo della questione.

 

La musica infatti avanza,

avvitamenti,

piroette maledette,

odore di fumo, sbuffa la pipa

all’inverso.

 

Siamo ancora all’inizio,

ne passeranno di ponti

sott’acqua, archi romani sprofondati

e corrosi dal flusso,

 

il maestro spettinato

indossa il cirro stonato,

copricapo lodato, disimparato,

frastornato e sciupato.

 

Vai in re minore,

te lo aspetti,

non sei dodecafonico,

allora l’orchestra sbadiglia,

pastarella e amarena stanca,

vorrebbe inchinarsi per sopirsi,

 

il pubblico bivacca,

divora le note indigeste,

scucite e scandite

dal ticchettio di novena ripiena.

 

Eccolo,

entra in scena,

proprio mancava, l’assicurato

impresario che lancia in aria

i tre danari, mette da parte

e investe i talenti

ad uso contadinello ottuso

ed imbevuto di pesticida laureato,

 

di sandalo arricchito e deluso.

La ragazza sonata si ribella

alla disfatta, gambe all’aria,

è tutta fatta,

affonderà col transatlantico,

 

vicino mio dio,

l’incubo mio,

tra le fauci del coccodrillo

ossia il serpente antico

 

riversa sincera la chimera

e le partiture, tutte le arsure

e le violette infine.

 

Mi alzo dal letto al frastuono,

il pragmatismo ha svilito il suono

docile e contemplativo,

 

l’anima e lo spirito si ribellano

ad un corpo che non vuole piegarsi

ad essere semplice contenitore

e strumento dell’una e dell’altro.

 

E scorgo lontano,

la vista aguzzo,

dicevo scorgo un lamento

materializzato di un mondo eclissato,

un mondo lontano e ovattato.

 

Poi uno scalpitio,

il mendicante ritratto,

armato di bastone,

nell’incedere distrae.

 

Folle, folle,

folle il venditore,

freme, freme,

freme la bancarella,

fruga, fruga,

fruga sotto il suo velo.

 

Il nostro cuore è l’ultimo rumore,

il vento ancora più forte respira affannato,

mi hai già dimenticato? Ma dai,

eri sopra poco fa.

Che cosa diresti al mio posto,

fischietti e mi ignori,

 

padrona dell’oblio notturno.

 

Cambio di scena repentino,

la ragazza mi riabbraccia,

cade in trance,

cade in estasi mistica,

in un attimo è trafitta dal dardo d’amore,

il fanciullino alato ha di nuovo vinto

e perverso è il seguito…

 

Va tra le note di nuovo,

godi la musical vitalità,

vai spogliati,

leva le lineette nere,

bianco il foglio dipingiamo

ed annotiamo.

 

Che carina la mantellina

incrinata sul ruscello,

mi guardi fissa e risplendi,

mi copri il labbro e la tua bocca sfiora

la mia fronte, la mente in refrigerio.

 

 

Acustico intruglio

 

Acustico intruglio nella notte,

lunare influsso sulla soglia del tempo,

poi sonnambuli pensieri,

destrieri rapidi.

 

Dammi l’attacco,

tra piatto e patto.

 

Sì.

Sona il bel sì,

d’oc, d’oil, d’oui,

cortese l’arnese,

Paride ed Eva, guanta na mela,

Guantanamera,

Patroclo e Beowulf,

iena, lupo e leone,

 

indugio burino sbarazzino,

goccia perforante e claudicante,

dissetante, piangente, petalo brinoso

incandescente, borioso, bucolico,

 

georgico pizzetto.

 

Vai così,

ancora il sì,

paese violato, masticato,

bile il giornale nomato libero,

 

l’eurodance, i Gigi di turno

pop, dance e topini,

accigliati al piano, alle tastiere,

alle groviere,

 

dimmi mai o cosa fai,

la scrivente si arresta e vai a capo,

burumbum cià,

 

annebbiata scolaretta

nella vendetta,

 

l’ayatollah torchio di vendemmia,

tutto è ben quel che finisce in mi,

 

bufera russa o capricciosa,

rivoltosa ottobrina porpora,

zarina, cesarea,

Alessandria paludosa,

 

stop uno.

 

Movimento compulsivo,

pensiero ossessivo,

ritmo assordante

ed estatico ondulante,

pentateuco e pentagramma

cabalistico, sufismo

e panpsichismo,

 

percezione aumentata,

esponenziale mescalina,

astrale vite.

 

Lento, sh,

 

lento sh.

 

Un silenzio lo faran i papaveri,

il cemento.

 

Riprende, non arrestarti,

ribellati il sistema,

kantiano imperativo categorico

kierkegaardiano calar le palpebre,

recitar, il personaggio,

 

gioco dei ruoli,

gioco di ruolo,

gioco di parte,

Bercoglioni,

gioco delle parti,

il Vaticano.

 

Silenzio, ancora.

 

Bum!

 

Il pupazzo in viaggio.

Il ritorno etereo.

Il rimorso sulfureo.

Acqua distillata.

Olio e combustibile ligneo.

Classificazione enciclopedica.

Semitica semiotica e semiosi virale.

Attacco micidiale.

Falsificazioni e fornicazioni.

Formiche laboriose,

il sessantotto e le cicale.

Poi le scale.

Trasfert l’Rna.

Mitocondriale il respiro

e il nutrimento clorofillico.

Poi…

 

Stop et booom

 

secondo e terzo finale.

 

 

Un istante fatato

 

Un istante fatato,

come un film il passato,

una storia sbocciata,

di passione velata,

 

sposta due carmini

spiriti felini,

 

agili le mosse,

le decisioni poste come addii puri,

incontrovertibili sapori dolci,

ed è già mattina sui tuoi occhi,

e te ne ricordi con un sorriso

col quale stringi le mie mani.

 

Ah sì,

che impronunciabile sentir!

 

Sposti col favore del vento

l’abat-jour e scendi dal letto,

 

ti poni alla sponda

il voltaico sentimento,

 

sei mezza nuda

come mezza luna ricordi

mondi lontani, la penombra

ti invade il volto

e inizi a cantar,

 

un adagio lieto splende

come viola in primavera,

come nota d’attacco

alla maniera di cattedrali

barocche e nascoste,

 

novene e filastrocche

sui tuoi umidi capelli,

 

impronte sul vello,

oh il mantello,

sul percepir il bello,

 

oh il Metello

che provoca dolori al poeta,

“malum dabunt Metelli Nevio poetae”

 

sordo l’appello, l’invocazione,

la conclusione dischiusa, assortita,

candita e sì, vai col sospir,

che delizioso l’indice al labbro,

 

il naso e la manifestazione

di un silenzioso animaletto

 

porta fortuna quale sei tu,

mia amata rosa, e te lo dico,

ti dico oh, che cristallo candido

e variopinto al tuo riflesso,

al tuo compromesso stabile,

 

un braccio sul mio corpo,

l’antico modulo scisso

sul tuo libricino, reciti come assorta

l’ultimo verso e poi

l’orma del rossetto

sulla mia bocca.

 

 

E poi vetri appannati

 

Le lenzuola sussultano

nell’attimo di esitazione mi guardi,

 

già altrove i tuoi pensieri,

 

l’estasi dell’attimo ti innalza

e vaghi verso mondi lontanissimi.

 

La foglia tremula pel freddo,

finisci nell’oceano profondo,

 

Atlantide sommersa dominata

e mai più punita,

 

nel frattempo sei già sulla riva.

 

Vai docile, va’,

non ti fermare,

attendo le tue mani zuccherose,

come fossero ultimo approdo,

decoro dei dì passati, sviliti,

 

la notte riprende a suonare.

Vado verso l’atmosfera d’inverno,

 

cosa ci fai tra gli spalti beati?

Cosa c’è nel do diesis minore,

forse l’ardore di nebbiucole

che penetrano il corpo,

dissolvono il trotto della mente

intorno al ripiano sciupato.

 

E poi vetri appannati,

il nostro anelito impresso

come stampo opaco e non dimenticato,

 

il tempo non si spazza via.

Procede,

magari si arresta qualche attimo,

ma la bottiglia si avvicina già

alla tua bocca, sei sciolta

come bacche desiderose e carnali,

 

spiriti notturni infestano le braccia.

 

Così lenta le agiti.

 

 

Arpilla

 

Risveglio in gomito ai bordi

delle radici,

sapienza megalitica

all’aurora.

 

Parte e ritorna,

in circolo trotta,

rissa dischiusa in petalo verticale,

licenza boschiva, arpeggio arioso,

e poi la luce che eclissa

in compresenza magnetica

lo sguardo.

 

È già domani tra me e te,

 

lento moto senese,

accento cortese,

urletto crestese,

spasmo punkettaro,

bestia di fato avverso e maledetto,

morosità del sentimento,

dizionarietto urbano,

l’acume spiazza la principessa,

 

in dono l’ortensia,

ne conosci la potenza?

L’assurda valenza?

Il do e il sol!

 

Poi improvviso

adagio allegro,

non troppo disteso ma ripieno,

 

i richiami di mandorla,

i volumetti cari,

tomi d’alloro ricamati,

e sguscia,

sembra sfuggire

come invito all’infinito,

 

è subito mattino,

tu già lo sai,

io già lo so,

oppure no, restiamo al limite

del vortice e pendiamo.

 

Che cosa c’è? Osa la penombra

rivalere, ribelle mia,

la lotta tra i generi,

trittico indoeuropeo,

la valenza plurima cara eredità,

l’infinito sarà indefinito vagar,

 

tu non ricordi la mandria dei pensieri

inquieti al riposo

ma rimembri la figlia del vetturino,

 

è un incubo mattutino,

la casupola villosa oscilla

 

arpilla, fluttuante

dimora nubilosa.

Incanto solforoso,

canto lezioso,

scontro tra Chimera e Desdemone,

 

la luna celtica difende e sorregge,

magari ostenta l’orpello dialettico

del fermento, astuto frumento,

intensivo furetto diabolico e dispettoso,

innocuo ma fastidioso.

 

Continua l’asola ad isolare,

volta la carta epifania del giullare,

 

improvvisa Ofelia, ninfa negligente,

sembra violare il sacro bosco,

entra nel misterioso borgo,

 

ed è già giorno.

 

 

Attracco fugace

 

Cappa e arsura per il corso,

refrigerio del tuo braccio declinato,

così mi estraneo e ti guardo.

Via Toledo,

metà agosto in trotto con te.

 

Rinascente,

profumi, saponette e collanine.

 

D’altronde non c’è la sentinella.

 

Attracco fugace,

saldato il nasino tuo al mio,

che dolce il viso indaffarato.

 

E il tempo cavalca senza sosta.

 

L’alemanna regione

è un volto di disperazione

 

andantino, l’introito del destino,

 

l’immobile fattorino.

 

Attimi persi

o riacquistati infarciti d’assoluto,

 

l’encomio solenne, l’alloro

corona dalla tua mano.

 

Minuti atroci

ma così lieti, lievi e indelebili,

 

l’astuto riguardo delle tue labbra

pende dalle mie.

 

Candida vita cara,

pura sordina baccheggiante.

Sfiniti sulla panchina,

 

giriamo ormai da cinque ore,

loquace il mio sentire

e il tuo riflesso è denso.

 

Ti sfido,

riaccenna il tuo sorriso.

 

Appoggia i sogni,

di lato come fossero ghirlande,

affidamele saranno impreziosite

col cobalto e colla sabbia,

 

saranno immortali come coretti.

 

Ancora più mite il vialetto,

 

posizionata la tua testa sul mio petto,

 

non dimenticarmi flebile

sarai filigrana selenica.

Il cielo sfuma nel rossiccio, fenicio

 

l’incanto dell’occidente marino,

 

è davvero stupendo ma l’attimo si arresta

e divaghi.

 

E così finisce

siamo già distanti,

la vela protesa sbanca

e noi sbarchiamo in brecce parallele,

 

l’estate tra statue e foglie di lichene.

 

 

Stendi in aria le mani

 

Sì, l’invito tra le fronde.

 

Così l’accenno gregoriano.

La mia vita come tramonto

scorge l’ultimo lamento.

 

Sì, quel breve cenno.

No, l’inutile attesa svilita

 

e svilente silente.

Se penso a te

guardo in me

e scorgo i passi

dell’ultimo giubilo danzante.

 

L’intimo pianto adibito

a fremito spento.

 

Con i pensieri spuntati

affilo i concetti

in patetici versi d’oblio,

vai tu cauta al confine,

il nome giusto qual è?

 

Ricordo solo

che per te oscillava

il ciondolo del mio sospiro.

Sì, bramo te.

 

Si, puro sprazzo

sidereo d’oriente.

 

Sulla via sono perso,

sonno sperso,

piccola amigdala

il mio canto perde ogni senso.

 

Sì, ricordo di te.

 

Sì, emozione d’ultimo fiato.

 

Ovemai ricordassi

questo naufrago perso

 

stendi in aria le mani.

 

 

Passano stagioni velate

 

Passano stagioni velate,

le pagine restano offuscate,

le labbra docili e dolci

restano stampo dell’atroce rimorso.

 

Tu affianco sincera e ridente,

l’attimo assurge ad infinito,

 

immobile germoglio odoroso,

incanto del sospiro vorticoso.

Il simpatico vestitino alabastrino,

proprio lì, a ridosso del senso,

portamento divino,

 

e dicevi in concatenazione parole,

l’emisfero oculare inclinato,

ammiccante e vitale.

 

Sono solo refoli inutili,

dimentica gli attimi indescrivibili,

resteranno apatici intrugli,

sdrucciolo rovinosamente nel nulla.

 

Cosa vuoi che resti?

I frammenti da rigattiere?

 

Oppure testimoni scaltri e assenti

perché assente è ogni realtà.

 

Resta solo l’idillio scalzo e stanco,

parlo ancora a vuoto,

a nessuno

o a te,

 

qual è il significato di questa attesa?

 

Una semplice pretesa

tramutata in remissione arresa?

 

Una docile richiesta

che nell’ombra resta funesta?

 

Cade la goccia dal viso,

 

inumidito il libro, è ormai un rito,

la mistura di odori rimembranti

altro non è che un’offesa qualunque.

Il palpito nella penombra,

 

la luce di un lampione distante,

mi imbacucco sul ciglio in ripicca,

 

mi scopro di nuovo silente.

L’auto sfreccia,

breccia vetusta,

la sigaretta caducante e caduca,

e un ultimo pensiero, il tuo volto

di soffiata che risplende

nell’ondata di quiete.

 

Resta un’ora o forse un giorno,

quale sarà il destino non lo so,

un’altra auto passa e credo

che non ci sarà più niente,

 

che l’illusione bolla di sapone

in sé sopita svanirà.

 

 

Paralleli assunti

 

L’aurora, il volto e tu,

mio testo sconosciuto,

riflesso tra cammei, follia.

 

Simpatica e sconfitta,

hai l’aria da brivido freddo,

carpisco le intenzioni,

 

i residui di noi.

 

Paralleli assunti

tra anfratti di cemento,

vegetazioni, Bastiglie,

all’assalto, l’ombra, la silenziosa

intromissione a dito levato.

A fianco manti da ricucire,

 

le ultime battaglie sono canti

ormai annebbiati dal tempo

e dal colore, dallo stupore

di riguardo e proustiano.

 

Implode l’asserzione,

me ne accorgo sol’io

del fittizio sospiro

trattenuto e sopito.

 

Allo specchio il tuo godimento,

 

nel solstizio santifichi te stessa,

in vergine il capricorno,

il tropico del ricordo.

 

Vis compulsiva trafitta

da auctoritas, potestas e mezzo corporale,

sarebbe magari meglio dire

che futuro c’è.

 

I fluidi in campo

come Rinaldo braccio della furia,

Angelica e l’anello

al vento nel pub,

 

Orlando violato

e spuma doppio malto audace,

 

l’ultimo miraggio a dimensione

plurima mostra il coraggio,

 

nel contenuto circolare d’Achille

il raggio.

 

Scansati all’ultima conquista noi,

offuscati e rigenerati da un accordo

di quinta partiamo in quarta

nascosti e pronti.

E poi l’effluvio nel tuo giaciglio,

 

la lingua tua su di me

è una lieve e dolce spilla.

 

 

Fuggiasco contemplativo

 

L’attimo che sgocciola

tra le tue violette che con cura

incanti e spogli, tratti o fondi di bottiglia,

non tutto è stato inutile,

 

questa storia chiede venia.

 

Attimi di pioggia e ascesi,

non me ne volere dicevi,

l’annullamento volitivo

l’ho preso alla lettera, guarda.

 

Porgi l’attimo ora,

la notte è complice per le tue

e per le altre braccia,

 

resto fuggiasco contemplativo.

L’ombrello cinesino,

l’attimo ancora,

gli spostamenti temprati,

 

tempere fluide e si innalza

la temperatura.

È un momento di distrazione,

un attimo d’effusione

 

e la sapienza eremita

scaglia floreali tafferugli

intuitivi e vivi.

Che bello scodinzolio,

 

trami affabulata i capelli

e ti stendi, aspetto un altro attimo,

estraneo stupore.

Pallina folle come incenso

 

in un attimo è già qui,

muta silenziosa direzione

e porgi intanto il viso altrove.

 

E passano gli attimi,

dai senso al trotto,

 

qual è lo scopo

della nostra intromissione?

Forse solo il tuo sbarazzino

cappellino.

 

Volta in un attimo

la carta e scrolla la sigaretta

a mo’ di scaltro intreccio.

 

Arde un fremito di vento

inumidito, attimo d’intenso

incupito, il giochetto dura poco.

 

L’orologio freme il relativo

attimo d’amore.

 

A ritroso l’alloro,

al passo il decoro,

foto ingiallite,

pulite le strade,

chiarite le brame

dell’infinito attimo.

 

Per sempre, un attimo.

 

 

Pallida effige

 

Dopotutto la spiaggia

che hai tra i capelli

è d’intimo verso, inclito scontro.

Dalle miserie scoscese

 

brulica il piacere.

 

In borge e borghi georgiche

spauracchi notturni,

 

la tua pallida effige

soltanto trasmuta

 

l’assurda viltà cassiopea.

 

Dove sei vivace mia guida?

Sono sperso!

 

Dove sei astro femmineo?

Non posso resistere al silenzio.

 

D’altronde nelle foresterie

straniere aspettavo l’arrivo

in punta di piedi

 

ma l’unica cosa concreta

era l’intuire l’essenza tua riflessa.

 

In volti assenti sognavo,

poi schiusa sbocciava l’ultima speme.

In misteriose attese loquace

mi disfacevo, lo sciupio del pensiero

e la breccia del perso sentiero.

 

Non credo ad altro, forse a poco.

 

Non credo e basta, tanto aspetto uguale.

 

D’altro canto la luce un po’ la scorgo,

immagino, fremo.

 

 

Respiro dell’aurora

 

Passa il frullio delle foglie

sopra le coperte,

l’acume spillato in vino

 

e tu acca accavallata.

 

Puoi pure divagare,

l’erba è già pronta,

sguscia solforosa,

tralaticia viene e va.

 

Passeggiamo con la mente,

vetture in lungomare,

dico e sorridi,

respiro dell’aurora,

stendiamoci, va’,

un carino singhiozzo,

sospiro e il bacio è improvviso.

 

Puoi tralasciare questa vita,

puoi sorseggiare un’altra pinta,

un’ audizione d’amore,

ove alberga una civetta,

lo spirito e l’alfetta,

 

un invito, un trottolino intatto,

l’alterigia tua vitale.

Quindi scorre vivida e non si interrompe.

 

Quindi riporto i segni,

pitagorici riporti,

aforismi pentacolari,

 

spettacolari pantacollant.

 

Poniamo per assurdo

il pensiero discordante,

allora prendi la chitarra,

socchiudi le ante,

 

ci divertiamo questa sera,

eccitata ridi di nuovo,

ma è solo un cenno,

un’ipotesi d’attacco

e la mente in desiderio

visibilante va.

Vai avanti ti sento,

 

percepisco vibrazioni estetiche,

scorgo lo spirito,

se non ricordi le parole

non le dire, è inutile,

 

ti accompagno, stringimi più forte.

Cinabrico cielo

accompagnaci per sempre,

 

chiudo gli occhi, li riapro,

sei in fremito sussultante,

avvinghiati ancora sino all’osso,

 

all’ultimo accordo.

 

 

Silenzio! Ultimo verso

 

Per questo poni il silenzio

come ultimo verso,

piangi in sospiro,

le tracce sul viso.

 

Orchestri per concussione

concerti di delusione,

sembri ordire complotti audaci

ma privi di vita, direi fatiscenti.

Poni un candelabro

con grazia sul ripiano,

 

lume da scrivano,

enciclopedizzi gli aforismi

dell’essere come trolli vaganti

su radure d’assenzio,

 

aspiri possente.

 

Immagini la scena

portandoti traslata l’attimo alla parete,

mangiucchi la gomma trafitta

con aria somma, l’incudine

ripudiata e maledetta nell’espirazione

pone il verdetto in conclusione.

 

Allora diventi

la famelica belva

con mastodontici anfibi

trucidanti e borchiosi.

Vaneggi vespri,

li maneggi ancora desti,

li biazzichi in atmosfere

rarefatte e rifatte.

 

Ti nascondi tra le vetrate,

i lastrichi di serenate,

alberghi solitaria negli altrui

pensieri

 

ed il domani è dell’oggi già ieri.

 

 

Fuggi, deh, vai e ritorna

 

Pulsante vialetto ambulante,

saraceno viso condensato in alluminio,

spasmodico volteggio attento,

scaltro e comunque frastornato,

sale a mille la dopamina

 

sprigionata, arieggiata

mesencefalica giornata,

precisamente condensata,

un po’ svogliata.

 

Fuggi, deh, vai ritorna,

a mo’ d’altimetro cambia e trotta.

 

Fulgida cambia rotta,

puoi invertire coordinate

adiuvate dal vento

o dall’ultimo intenso senso.

 

Potrebbe anche suggerire

con riguardo decoroso,

 

funzioni, secessioni, squallide illusione

 

o anche l’ermo eremo solitario.

Magari è una silente ondata

di valente dorata vanagloria

oppure una ridente giornata di sole

 

o forse meglio una novembrina

serata da serenata.

 

Non capisci l’importanza

dello stupore del vissuto,

dell’intimo dolore che sgorga

a frotte dalle fronde.

 

Si modifica il verso,

adornata semplicità nell’ardimento,

puro fermento, è un vaso capiente,

 

testa nicodemica e nicolea!

Fugge ancora il sussulto sussurrante.

 

Fulge il circolo ritornante e ridondante.

 

Uh fonte pura! Dell’ultima sventura!

Uh fantomatica ardua salita,

riposo indomito, ozio mediante,

mediana del tempo!

 

Puoi vedere l’essenza!

All’indomani della presenza,

vive, respira, si sente,

alla vigilia della frontale guerra

un urlo di quiete universale,

pace sesquipedale.

 

Vai passione, colmati ancor d’illusione,

nutriti di spoglie spirituali,

agisci per il tramite spiritoso,

motto solforoso, arioso.

 

Qual è la ragione dell’allucinata stagione,

frutto di follie da società regredita,

di branchi famelici di vandali

che salvano gli ultimi testi

e incendiano le rovine dell’ipocrisia,

 

ma se ti scorgi troppo l’abisso ti inghiotte?

e allora qual è la soluzione?

vivere in intensione e progressiva

espansione senza dimenticare

la polvere e il sale,

nutrimento e fermento,

amore ed unico senso vitale.

 

Shiaga

 

Partenza ovattata,

sfilata dolciastra.

Le forbite delusioni

sono attese ed illusioni

(magari involontarie pretese).

 

Le imprecazioni verso realtà

sconosciute, piogge da granai

e soffusione in mulinelli

e mulinetti, cosiddetti

(contemplazione floreale

ed azione di gemma astrale).

 

Le mitre indoeuropee trasudanti

(intromissione cadenzata).

 

Le madornali ondette

ritrasmesse in calce firmate,

mortificate ed imprecanti,

 

bendate dee nell’adesione

(oh abbracci fugaci).

 

Potrei poi divagare

ma la scelta è densa

e immensa geme.

 

Proclama l’adagio

(perverso detto),

 

proclama il verbo intenso

(vibrazione cordica e scandita),

 

vorrei dire due parole

( oppure sorge di traverso il sole).

 

Proteggi genealogicamente

( a due metri da terra)

 

col tuo nome cacci e resti in piedi

( vitale profusione)

 

trasvoli e non ti posi,

adesso ti fermo, ti aspetto,

ti ammiro, ti guardo

(prodromo dell’interno conflitto

accarezzato dalle tue labbra).

 

La luce lentamente

si spande tra i rami,

la tua immagine mi investe

mentre bramo.

 

Con semplici parole

pensieri remoti,

li condenserei e poi li sgocciolerei

 

e tutto tuo in inumidite spiagge giacerei.

 

L’opacità ritorna e desto mi volto

di lato, vicino il tuo viso

in sogno confonde assurde realtà,

 

ti scorgo tendendo all’infinita verità.

 

 

Polvere vischiosa

 

Polvere vischiosa

nell’accordo di riflesso e schietto.

La stella vistosa all’orizzonte

unica luce come rosa

nel deserto antico, ove assurda

rispondeva alla richiesta del ricordo,

 

un’edenica pace, un innato amore,

uno stupore per il sapere, la fiamma,

il vento e la goccia

 

per cinque o sette lettori.

 

L’attitudine cela l’attributo,

il divino vincerà sempre

sul terreno dannato, non è l’eco

del silenzio ma si alzerà il tramonto

ed in eterna penombra interno

a noi sarà l’universo,

 

l’eterno circolo infinito

e quindi come tale delimitato

da tre punti, coincidenti

 

eppure in manifestazione

ed ideazione distanti e spersi,

 

poi una voce che lenta sussurra,

non tutto andrà perduto.

 

Mangerai di ogni frutto

di sapienza ma mai la tua mano

si leverà su un essere naturale tuo fratello,

altrimenti ne morrai,

 

conoscerai l’ignoranza della fine.

 

E la maledizione terrena

si scagliò silente e dolorosa,

i frutti son di tutti

e si continua a coltivare un orticello

privato privandosi della bellezza

della congiunzione divina

 

comunitaria ed assoluta.

 

Chiudi gli occhi e vedrai

in manifestazione di luce

l’amore seme di sapienza,

giustizia, libertà, e fratellanza,

 

l’eros inerme e potente vince

e soggioga la violenza claudicante,

 

l’umile nel godimento

schiaccia e distrugge il possesso.

 

 

La Torre litigiosa di Varsavia

 

L’ardore dei tuoi occhi che scende

traluce in illusione ed ascende

spuma marina dalle labbra

 

intense.

 

La torre del tuo nome protegge

come silicio possente

e gemma assente

un alito di vento in refolo

 

vitale.

 

Selve asprose e tutto tace,

nel silenzio scorgo l’imprudenza

del tuo volto incandescente

e pallido in un attimo

 

il cenno.

 

Per le tue soffici gote

l’inverno carezza le fronde

che lievi mutano

in scaglie il sincero

 

sguardo fulmineo.

 

 

Centro inscindibile

 

Ammiravo in silenzio

i suoi occhi vividi e accesi,

torce lente sul mio polso

i gemiti da sponda concupiscibile.

 

Nel momento supremo

un inchino vistoso

e le schiuse mani veline

smorzarono l’affiatato

scollamento labiale,

l’intimo tumulto astrale.

 

Le costellazioni in trotto

scese in questo giorno a contemplarti

in congiunzione al capricorno,

 

genesi della lode furente,

perversa in dormiveglia,

 

quasi per metà etilica.

 

Miscela dello stupore lo sguardo,

occhi portali spalancati

ante e poi stretti a fessura

nel verbo infuocato

scagliano aforismi suadenti.

 

Le schiere di belve ai tuoi piedi

e tu sulle punte a slinguettare

fior di ciliegia soddisfi soddisfatta

il desiderio in disfatta

 

e succube a sua volta di te.

 

Centro inscindibile

di ogni interpretazione

la voglia di afferrarti il volto,

 

coprirti d’oro velato

e mai più dimenticato,

in assurdi cieli cobalto

tramutati in ere di rame

soverchiato dall’ultimo

tuo denso bacio, oscuro

 

il medesimo senso occultato.

 

Lasciavo cadere

la viola del pensiero

e tu mi carezzavi i capelli

 

e l’attimo assurse

ad unico istante importante,

obbiettivo di ogni sbarco,

stagione unica,

candida perversione eterea ed eterna.

 

 

Abat-Jour

 

Abat-Jour,

allo specchio tu,

silenzio tutt’intorno,

 

azioni ab intentio

dell’ultima luce che sa di te,

 

sono discorsi protesi

ad intimo verbo,

oppur intesi in declinazione astrosa

e musicalmente estrosa, asprosa.

 

Abat-Jour,

silenzio nell’adagio bronzino,

dialettico andantino,

compari tu in dimostrazione scettica,

nostalgica, ultima diesis.

 

Scorre il vento venoso,

profumo intenso e vorticoso,

parla vespro inspirando

il vuoto gorgheggiato, sciupato,

sprecato, esoterico il senso

essoterico, nostrano,

villa soffusa e profusa,

disillusa e beata,

violata ma incontaminata,

scoperta e increata,

plasmata, creta micenea,

plebea élite giubilante, sognante.

 

Abat-Jour,

direi discrasia discronica,

bella époque

con l’adolescente che consiglia

ai bordi del nuovo millennio

svogliato, problemi d’amore

algebricamente sottratti,

 

l’ama tematica, il fumo di sigaretta,

l’ultima orchestra lenta,

magari un motivetto a mo’ di fumetto,

passa la stanza, piede adirato

e cadenzato, cambiamo

e scorriamo scrollando l’encomio,

l’adoro e il j’accuse,

 

l’entusiasmo da spasmo rotterdamino.

 

Abat-Jour,

in ultima istanza,

ultimo dirimente rampicante,

sognante, ragazza crudele

e vaticinante, scolastica adiuvante,

 

l’ultimo accordo lo volli fortissimamente,

patto musicale saldato e incespicato,

inerpicato, travagliato, accartocciato

e saldato al naso,

scapigliato.

 

 

D’accordo, sogna

 

Gira intorno ad un pensiero

l’anima silente ed imprudente,

 

tu nel letto a scardinare ogni idea

che dirompente si arresta,

l’assurda intromissione

in compromesso ha tolto il velo,

 

godo dell’immagine e ti afferro,

 

sei già pronta nella delibazione

sentimentale, passi altrove

in fluida concatenazione corporale

rifletti e gemiti adorante ed adorabile.

 

Uno sguardo è già passato,

lo sbieco dell’occhiata

è estasi spiritica e possente

come la tua mano contenente

il germoglio del ricordo,

 

in un colpo scarichi l’etereo,

 

secerni l’assoluto dalle edere,

 

tanti passi, invisibili gli stampi,

 

pure le atroci dimenticanze

sono schiarite da l’ombra del tuo volto

 

intatto nell’altrove della parete.

Brucia la vivida amalgama stupita,

 

il certo vive assente nel privato scranno,

in cime tu e l’erbetta è già tradita

dal dito che invia un segnale nel vuoto

 

dell’essente plasmando l’autentico

dall’inautenticità vitale.

 

Diffidente sbuffi e strizzi l’occhio,

tre volte grande, magnifica,

somma, cenno creativo,

maestranza inerme e virtuosa,

fremente.

 

La dualità distrutta dal femmineo

senso trinitario ed unica somma,

gradiente totale dell’invisibile,

 

risma impressa per sempre.

 

Il desiderio non si spegne

e riparti audace,

instancabile respiri profondamente,

 

bellezza al massimo fattore

nel tuo visino carino.

 

Il segreto non sarà svelato ancora?

 

Decidi pure se farlo o no,

la sintesi si attiva quando il meccanismo

è ingranato dalla chiave e dalla svolta attesa.

 

Il bello deve venire

nel momento in cui trasvola

il vento sui tuoi capelli

dando fiato alla materia,

 

c’è tanto da dire, più da fare,

 

invadente scoprirai il piede

e il metro ribaltato,

i tre quarti dell’attacco,

 

ti aspetto.

 

Puoi dire sette parole,

la formula e trottare,

intimo verso specchio dell’eterno,

due occhietti schegge di ciliege,

labbra fragolina nascosta

nella variopinta collina.

La sabbia segna un solco nella clessidra,

 

si blocca il tempo e tutto scorre staticamente,

in un attimo incontriamo il divino,

dentro noi sorge un inviolabile destino,

 

indecifrabile ma sensibile e percepibile.

 

In inscindibili sentieri fulgidi

passeggiamo e poi improvviso il ritorno.

 

Sei ora stanca e chiudi gli occhi, d’accordo,

d’accordo, sogna.

 

 

Vai tranquilla al dunque

 

Vai tranquilla al dunque

ma comunque io eludo il discorso.

 

Tu stringi i pugni allerta,

dici che è per vendetta

che sfiorisce il rimorso decoroso

e intatto ma non basta una parola

a far svanire il sapore della sera

 

e allora tiri le somme,

addendi riflettenti,

tramuti l’eterna lotta sovrana

in questioncina da sottana,

 

sembra quasi che l’atomuccio

sia un surplus voluttuario ed incendiario.

 

Allora ti chiedi se l’essenza

della storia atonica sia etica

da comare o vidimazione risplendente

nelle sale

 

e l’ente traspare.

 

Credi che l’indecenza

sia frutto di un ricordo o di coscienza?

pura vacuità? nel refrigerio assurdità? oppur passione per metà? trasognante viltà? infima realtà?

 

E ispiri con gemiti notturni atroci e bellicosi.

 

Ti stai sporgendo troppo,

l’abisso chiederà il conto,

 

salato, privato e disprezzato,

 

ascesi mistica superiore

nella perdita di dignità.

 

Credo or io che sia il vuoto

che pone problemi,

vacilla il costrutto,

la medaglia in penombra

 

e fuori piove.

 

Lo dici davvero

oppure tanto per dire? Sensitiva

del manto astrale e sincopata

extrasensoriale velleità visiva.

 

Credi in profetiche brame

e sintomatiche astute trame

ma dov’è la persona? Dov’è la previsione

condizione d’amore?

 

ti porgo dai la mano,

la penna l’hai posata,

ci omaggiamo a vicenda in incoscienza,

 

ti aspetto ancora dai.

Ma dimmi che verrai.

 

Ogni cosa è un pensiero

porto in azioni sepolte,

nascoste,

 

in particolar modo il tuo cappellino,

i tuoi occhi e il tuo viso.

È un’illusione il tuo volto orbene,

il tuo sorriso.

Ma non è uno stratagemma soltanto

 

la brina e la voglia che resta.

 

 

Striscia l’ultimo rigo

 

Puoi pure chiudere gli occhi,

fallo, fallo dai, fallo, fallo ancora ed ora la prima volta

così tutto saprai.

 

Puoi pure tributare un pensiero,

vai, vai, vai, vai, fallo, vai.

 

Brucia la sincretia,

ascesa la vasta simmetria,

e l’astuta mia mania

straccia i lacci sulla via.

 

Valida la sorte,

poco più è la morte.

 

Puoi pure sorridere, fallo, dai,

fallo, dai, fallo, che fai? Te ne vai?

 

Stereotipo sincero,

nero il cupo sentiero,

puro lo sguardo

che come dissi è altero.

 

Candida la sfinge,

polvere in soffitte.

 

Esponi lo sguardo

e traccia su carta

la malefatta.

 

Comunque l’incanto

svanisce col tempo,

il tuo corpo è tiranno,

la tua immagine persa

ed in un inutile verso

stupito è l’intento,

in un attimo è già

dimenticato il portento.

 

Placida dalle pareti

principessa senza veli,

cristallina ed introversa,

un po’ dall’azione interdetta.

 

Si spalanca la finestra,

l’incubo e tu succube.

 

Puoi pure difenderti,

orazioni e retorica spenta.

 

E l’antico vaticinio

sta sbrinando in ascesa,

sta intasando i rimai e le scale,

lenta va la sicura

melodia nell’arsura

e il bianco del reale

stranito è regale.

 

Puoi anche dimenticare

le serate, le risate,

puoi pure… come?

Già lo fai?

Te ne vai?

 

Spurie verticali,

tropiche tempeste e tu

con un paio d’ali,

 

alberi che si inerpicano

sulla tua pelle e tu rinchiusa

nel sogno delle stelle.

 

Porgimi ciò che sai,

ma che fai?

Serio te ne vai?

 

Con clamore silente

striscia l’ultimo rigo

e il continuo è un ricordo

che neppure più dico.

 

 

Hai già dimenticato il nostro segreto

 

Hai già spento il sospiro di me,

ragazza che cerchi che non sia me?

Hai già acceso lo stereo e riflesso,

ragazza allo specchio

quel tuo sguardo

il mio è spento ormai.

 

Ogni volta

cambi rotta e fremi

ma ormai hai appena gettato

il tuo straccio e incendiato

il residuo, mai più io e te?

 

Dove sei?

Amore dove?

Non ce n’è ormai di felicità più per me?

Dove sei?

Amore dove?

Dove sei? Pezzettino sereno,

tremavi un giorno ai miei occhi,

alla mia pelle

ma il gemito è rotto ormai già.

 

Piccola e dolce,

perversa e austera, sveli te,

mai sei stata così sincera,

 

te ne vai,

non resta più nulla ormai,

anche il ricordo è svanito,

chi lo sa se tornerai,

se ti ricorderai di me sperso

in questo frammento eterno.

 

Hai già spento anche lo stereo ormai,

non un solo rimando ti porta a me,

 

ragazza hai ragione al mondo

non serve ciò che penso e sento.

 

Hai già dimenticato ogni frase,

ogni intimo sussulto, ragazza

o resto o vado via nessuno se ne accorgerà,

 

non rimpiangerà le mie dita, è vero.

 

Adesso è già sorto il sole,

il nostro segreto dov’è finito?

 

Non ti ricordi nemmeno del mio volto,

delle mie mani, delle mie passioni.

Sono qui,

vivo.

 

Qui ad aspettare,

fino a che l’ultimo fiato emetterò,

mai la testa abbasserò,

ascoltami se vuoi, amore.

 

Aspetto scalzo, distratto,

la vita mi cade dalle mani,

e il vento è il mio ultimo sospiro.

 

Hai già dimenticato il nostro segreto,

ragazza di te mi resta

solo l’immagine impressa della luna.

 

 

Io non posso più aspettare

 

Tic tac,

tic.

Sì.

 

Parlami ancora,

non salutarmi.

 

Lenta la luce è altrove

ma io cerco te.

In questo modo

sovvertiamo il destino.

 

Tutto ai nostri piedi,

sono queste le due tue parole?

 

Oggi brilla l’eterno,

aspetto ancora,

verrà il magico istante,

ti sento,

non sei distante,

 

tutto è possibile, fammi accendere,

 

paf! Scompariamo!

Dammi il verso di traverso,

 

fuggiamo lontano!

Un’esplosione di colori,

 

dammi per sempre il tuo cuore!

 

Fammi venire il brivido dorsale,

parla, sprigiona potenza,

orgetta ad incandescenza!

 

Fammi sentire l’incanto

fugace,

poi fermati e resta qua!

 

Luci soffuse e profuse

ed illuse,

 

ispirami con fascino turbante e gaudente!

 

Con un bacio

fammi disimparare la realtà!

 

Spogliami

di indumenti e morale.

 

Prendimi,

innalzami e innalzati al di là della verità.

 

Vedrai che l’universo,

la natura e anche tu

 

(follie sideree)

 

si muoveranno e ci proteggeranno.

 

Dammi

il sorriso più dolce,

svelami

la tua volontà!

 

Dammi

un altro abbraccio,

stringimi for ever

and ever!

 

Stuzzica il mio entusiasmo,

chiudi gli occhi e continua a cantar!

 

Portami lontano,

le spiagge inviolate da noi conquistate!

 

Sei pronta,

dai vieni,

io non posso più aspettar!

 

 

Scende già la sera

 

Parlerai un giorno con me?

Hai voglia di ascoltarmi ancora?

 

Il tempo passa,

dimmi se un giorno avrò te.

 

Credo che nulla sia importante

ma io non sono ancora finito,

l’entusiasmo è ancora in me,

 

freme ed arde l’inestinguibile fiamma.

 

E te ne prego soffermati,

non dimenticarti di me,

pensami se puoi,

abbracciami se vuoi.

 

Spero che un giorno tutto cambierà,

ti ricorderai,

stai tranquilla,

comunque mai mi perderai.

 

Scende già la sera,

va via un’altra giornata,

muto chiudo gli occhi.

 

Mille pensieri mi affondano,

i dispiaceri sprofondano,

 

tu dove sei? Io oramai che farò?

 

Lenta muore l’ultima speranza,

non c’è più luce né rumore

nella mia mente,

non c’è altro che non sia te.

 

 

Mia Regina

 

Mia Regina,

il tempo è inesorabile

e si spegne in me, sai?

 

Mia Regina,

ti ringrazio,

la paura ormai non mi spaventa.

 

Lo sai che le cose

spesso migliorano ed io credo

di aver scontato ormai le mie colpe

d’amore

con la tua forza ho studiato,

visto, sedotto e sconfitto l’abisso

ed ora sono meno di nulla e stremato

 

ma vivo.

 

Distratto dalla malinconia,

ti ho pensata e amata,

ti ho desiderata,

ed ora poso le mie armi,

 

hai vinto.

 

E ti ringrazio sai perché

non ho più motivo di continuare,

e credo che per sempre ti custodirò,

proteggerò e se vuoi taccerò,

 

sono padrone dell’infinito nulla

che è in me, e non c’è alcuna cosa

che possa distogliere il mio sguardo da te.

 

Mia Regina,

sono una musica fastidiosa ed inutile,

scompaio e non mi copro,

dissolvo me stesso in silenzio.

 

Mia Regina,

le parole sono tutto quello che ho,

non è molto, non è niente,

è tutto perso.

 

Spero non ti dispiaccia

raccoglierle e unirle al tuo cuore.

 

Nei tuoi occhi l’ultima speranza è accesa,

sei tu la mia forza,

io dal mio scranno disfatto

non ho che te.

 

E ti ringrazio di tutto,

ti devo la mia vita,

mai ti tradirò,

 

per sempre d’incanto ti ricoprirò,

le mie parole sono neve tra le tue mani

espandi la luce che ne riflette lieve.

 

Ed hai tutto ma ti prego,

ascoltami, io ti sto donando

tutto me e ciò che è al di là

di me stesso,

 

non rifiutare l’ultimo mio sussurro.

 

Mia Regina,

eccoti la mia eredità,

poche e stupide parole,

 

il mio umile amore.

 

 

Albero Romantico

 

Cosa farai se un giorno

ti volterai verso di me?

 

L’albero romantico

e sotto controllo lo sguardo.

 

Cosa pensi di me noiosa annoiata?

 

Perdo tempo tra profusioni e illusioni,

immagini tue, parole

ed aliti importanti di vento,

mi nutro di te.

 

L’inverno tende come le tue mani,

è un’astuta passione incantata.

 

L’inverno mente e lo sai,

passa l’anno, il fiore sboccerà? Scema,

mi stai guardando,

 

andiamo sono pronto.

 

Cosa pensi essenza velata? Il tuo sorriso

è chiaro luccichio intarsiato,

lascia alla porta il senso

e perdi il controllo.

 

Su letti invernali e silenti

perverse le tue mani sottili e intense,

io penso confuso a te

 

mentre tu guardi e sorseggi tè,

è al limite il godimento.

 

Non è descrivibile

allora posa la penna,

stendi le braccia,

muta sorreggi la guancia

e strizza occhi in disfatta,

 

è l’effluvio del piacere.

 

Non è concepibile l’intreccio,

tramiamo buffi complotti,

 

prendiamoci beffa.

 

Come sei romantica

ricoperta di scaglie d’incenso,

che portamento! Fantastica, stupenda.

 

È troppo bello, fa silenzio,

getta in aria il fiato e le gambe.

 

Il cielo volge il gomito

a mo’ d’indumento, muovi lenta

il viso, fa’ vedere l’esplosione

in trepidazione, non disperarti,

gemi, sono nelle tue mani,

 

scompare ogni pena, ogni dolore.

 

Dai bellicosa fai l’estroversa,

l’estrella, fai le moine,

che passione indomita,

che conclusione furbetta.

 

Che carina

indossi la scansata scarpetta

e le perline al braccio.

 

Ehi guarda che tempo,

mi bruciano gli occhi,

è il nostro inverno, il nostro vento,

il nostro spumeggio tiranno.

 

 

Inizia l’infinito stasera

 

Dolcezza mia preparati

al folle sbarco,

 

dio mio che sguardo,

quante mute parole.

 

Mia cara ragazza

suona distratta,

ti penso ancora,

ti guardo e ti voglio,

sempre vorrei

perdermi tra le tue braccia.

 

Amor mio!

È ancora sera,

candida atmosfera,

palpito celato

da un sorriso offuscato,

l’oscuro segreto che è in

noi scende come pioggia d’aprile.

 

Amato esserino buffo!

E la nebbia che viola l’anima mia

stende tra le vie il tuo intenso profumo.

 

Io qui for ever

a credere in te,

 

ultima lontana speranza,

freme la piazza,

 

spero che un giorno l’ora giusta verrà.

Tesoro indecifrabile,

protendi e schiudi le labbra,

quale parola potrà volgere

i tuoi occhi su di me?

 

Inizia l’infinito stasera!

 

 

Se il vento soffia

 

Se il vento soffia

sai c’è solo un senso,

un unico senso possibile e sensibile,

 

hai ragione potrei anche

risparmiar le parole ma la loro

inutilità è il mio unico rifugio.

 

Te lo vorrei dire ancora,

ma più il tempo passa

più mi spengo,

 

non la verità, non la lealtà,

solo un’armata spersa nel mio cuore.

Tutto l’amore, il fervore,

l’infinito che è in me,

resterà occultato e ignorato,

 

tra le nuvole la speranza sbrina

nel voltar pagina lo sguardo offuscato

si sofferma sull’ultimo rigo

senza la forza di accettarlo.

 

Cosa resta? Cosa ho?

Solitario tra i flutti del mare

a sollevare assurde declinazioni,

le continue tue intrusioni,

sei un’idea che mai morrà.

 

Tutto me stesso ed oltre,

te lo dissi,

bramo la tua eterea presenza,

ma tu non ci sei.

 

Forse un giorno,

l’ultimo senza te…

 

Io ti vorrei dire di aspettare,

di chiudere per un istante gli occhi,

intanto indifferente la folla guarda e passa.

 

 

Smorfietta seducente

 

Smorfietta seducente,

la tua carta vincente,

il labbro morsicato e fremente,

linguetta scollata.

 

Batti sul biliardo

le astute metriche

e poi ti dipingi il corpo eccitata,

tutto al suo posto,

 

le parole e piccole soste

d’amore nei rimandi

e pochi dorsi e pochi accalorati abbracci,

 

avviluppata sei su te stessa.

 

E smorza l’attesa il vento

e la pretesa fumo disilluso,

rinchiusi insieme eppur distanti

brilliamo desiderosi

 

e tu dici sono qua.

Il decolleté fa uno smacco

ammiccante e sognante

in un istante ci innalza

e tira giù la tua spalla,

 

è misteriosamente una tazza inclinata

ed in un sospiro svelata.

Tre punti,

 

vai tocca a me,

stasera ci divertiamo

togli pure le converse

e dirama il discorso in un bacio profondo,

il desiderio c’è, è in noi sai

l’encomio profumato

da moralità boschive

e saltimbanchi soli pretendenti

dell’ilarità, della sincera dualità

brutale e oltremondana,

 

così faccio centro

e tu ti lecchi le dita,

 

oh yeah!

Incroci e bazziche

non mi riescono ma a gradi

ti sfilo le illusioni perverse,

 

l’extension è rimandata a settembre

ma adesso pensiamo al qui ed ora,

 

costellazioni influenti

e virali beffe astratte e sinestiche

 

le tracci e hai ragione,

tocca a te,

declina in alemanno prebabelico.

 

Il sole tarda ad arrivare,

le spiagge lasciale stare,

stai meglio avvinghiata in pasta

di miglio fritta e imburrata,

 

il rossetto mangiucchiato fa stampo

sul campo stordito e i tuoi occhi sbagliano

il tiro centrando me e ridendo.

 

Ascolti i rumori,

i mercati rionali,

le viuzze serali romantiche

e mai dimenticate.

 

Pozioncina dolciastra,

imbrattata speranza,

il mondo pone altrove le premesse,

ma son comunque nostre le stesse.

 

E l’incanto non manca,

scherniti combattiamo,

le stecche stellari battaglie

spade tratte e pungoli sicuri,

colpi audaci al sapor di miele

e d’ambrosia, nettare condito

al maraschino e poi…

 

Lasciami due tiri,

in tutti i sensi,

dammi il punteggio scaltro

che porge al verbo l’orecchio.

 

E l’entusiasmo non manca,

non manca la dolcezza né la tenerezza,

le doti e il gessetto violaceo sulle guance.

 

 

O boh!

 

Parla di rinunce

e scalza tra i ricordi spalanca

pure gli occhietti, capelli svolazzanti,

cambiamo taglio per ogni cazzata

nel perfetto istante in cui

il nostalgico finir degli anni ’90 ha esposto

bluff e smacchi,

smack!

Puoi canticchiare,

 

passa il secolo e l’attesa,

lenta l’atroce clessidra parla

ormai in sordina, puoi vederla

o ignorarla o ignorarmi

o boh!

Anzi no!

Sorge il sole fulgido,

 

spasmo da risveglio mattutino

e biricchino,

 

che faccetta da carezza

e da sciupatina stretta.

 

La chitarra è frastornata,

ridagli fiato e taglia le corde,

suona me.

 

Che occhietto furbetto

dammi un bacio sciupaletto

e magicamente brucia il tropico

derelitto e sconfitto nel giacere trafitto.

 

Puoi consolarmi

con il madornale vino da strapazzo,

col sentimento,

col diretto canone inverso,

o no,

o boh!

Ah!

 

 

Allucinazione eterea

 

Il letto disfatto e tu

in preda all’ultimo spasmo,

silenzio perché

la penombra scende su di me,

 

che ti cerco sai,

un’allucinazione ed un’immagine

persa sei, mantieni tempo

spogliato e maledetto,

 

che disdetta.

La tua voglia dov’è, dove sei?

I misteri mi sbiancano,

le illusioni fioriscono.

 

Non credo più,

sono muto ormai,

cosa faccio? Nemmeno più lo so.

Lo sai sei dentro me,

impressa e trasognata,

svilita e ribelle,

un po’ più pallida e sghignazzante.

 

No, no, no,

non puoi svanire così,

se vuoi mira diritto davanti a te,

cosa vuoi che altro possa perdere,

non c’è più senso,

tutto falso,

 

anche te.

E il vento mi dà i brividi ancora,

mi eccitano ancora

anche due parole,

e di più i silenzi e gli sguardi intensi.

 

Cado per strada,

mi rialzo sai,

ma la tua mano dov’è, dov’è il sostegno,

dov’è il reale nel ricordo?

 

Penso oppure no,

cosa vuoi che cambi,

 

cosa rimane del nulla

che era solo altro nulla o meno,

verità fasulla, germoglio di betulla.

 

Dai divina

ignorami un altro po’,

fai pure la ola con le lenzuola

e scordati di chi non sai e non vuoi,

di me, spauracchio della sincerità.

 

Velata ti volti,

l’essenza è pronta,

pronto il resto,

immergimi e distruggimi,

 

di più non ho.

 

Poi flebile suono

tra le tue labbra voluttuarie,

e sì non ci sei,

no.

 

Vai lontana,

ritorni, ma sì che cambia

d’altronde, ti piace

vedermi come remoto granello

dell’ ultima spiaggia,

 

spargi il sale sui capelli,

fa come vuoi.

 

Le stelle e il cielo

già tremano al respiro,

 

oscillo in declinazione.

Questa mattina

è già uguale all’altra,

è una sera diroccata,

 

dillo se lo vuoi.

È sì è così,

l’oblio e lo sciupio,

l’ultimo gemito,

i tuoi occhi silvani,

infine l’ultima goccia di pioggia.

 

 

Assurdità

 

Assurdità,

è questo il senso del batticuore,

del lieto rumore,

 

la regione tedesca col tuo nome

è un ricordo che tu sai

e non cancellerai se nell’ignoto

sprofonderai,

 

come sei carina,

volti il viso batuffolina,

che eleganza sbarazzina.

 

D’altronde scorre il sentimento

nel silenzio lì vicino a te,

il ciondolino allibito

pone assunti dolciastri e frastornanti,

mi perderei tra le tue braccia,

 

ecco:

con noncuranza stringerti ancora

in ultima profonda istanza.

 

E tu straniera,

occhi dipinti e trapunti

vinti come il cielo blu,

un diadema sei tu,

 

ho trafitto e combattuto anch’io,

imbellettata sei l’incrocio

dello sguardo e il mio traguardo,

 

la mia verità.

 

Assurdità,

le mie parole,

le sue note,

i tuoi spettacolari intrecci,

hai sedotto e frastornato

il vespro antico,

succube anche lui

e tutta la realtà ricoperta

dalla tua apparenza,

dai tuoi colori e dal tempo,

 

sospesa sei tu come brina viva e fiera,

i tuoi occhi in su,

non capisco nulla più.

 

D’altronde piove,

la luna è stata mia compagna,

mia cuccagna il tuo sorriso

e l’occhio ora strizzato ,

allora consapiente e intelligente,

un orgasmo d’intelletti,

 

gli amorosi sensi corrispondenti,

le affini elettività.

 

Assurdità.

Uh il tuo entusiasmo è lo stesso,

immagino i baci,

migliorati,

 

un po’ dischiusi, estasiati

ed estasianti,

il libro si sfoglia con il vento

e resti in piedi,

 

il sussulto è un maremoto

spiegamelo collo sbieco seduttivo,

io sempre ti pensai,

 

la tua anima mai ignorai,

magari t’amai.

 

D’altronde l’arcobaleno

è variopinto e disilluso

come me inconcludente e sognante,

dai tuoi pensieri distante,

 

sono il messaggio sprofondato

in fondo al mare,

 

raccoglimi e cercami se vuoi

e chissà se la corrente mai

ti raggiungerà.

 

Assurdità.

La candela si consuma

ma la cera il mio sigillo imprime,

chissà se l’aprirai,

se ti volterai,

se il mio cuore ti rivedrà.

 

Assurdità.

 

 

Musica ancestrale

 

La descrizione di te

è catturar l’immagine

di un attimo impellente,

 

d’accordo, d’accordo, divago,

ma con un paio di parole

sembra già tutto più chiaro.

 

Puoi stendere le gambe

e riscaldarmi col fiato,

col tuo corpo, col tuo vento,

l’abbraccio già mi fa sobbalzare

e lento ti scopro,

 

che virtù la tua apparenza,

domina su tutto, la tua seduzione

 

è un sentire i tuoi capelli

quando sei distesa sul mio volto.

 

Mormori albeggianti fianchi

provocanti e ad ogni sussulto

alimenti il mio tumulto,

 

quindi desumo

dal brivido fibrillante della tua lingua

un fruscio di sensi e le labbra

perverse assaporate come ciliege etiliche.

 

Poi sfiori il mio naso ed inspiri,

vuoi prendere il fiato e reggere

capiente il bacio contenente,

un magnetico incrocio attraente,

 

ormai sono scoperti i gemiti,

profondi i gaudenti lamenti,

sfoggi la tua coda migliore

 

e riarricci le parole.

E non c’è vita che non sia plasmata

dalle tue dita, non c’è dolore

che sgorghi se più forte

stringerai questo mio corpo

adibito a prisma caro alle carezze

un po’ estroverse in ondulazione fremente.

 

Ed espandi questo irto barlume trafitto,

d’altronde se condisci con le note

una sensazione

l’armonia stellare ci unisce

in conclusione

e con i fremiti svanisce ogni pudore.

 

Adesso lo sai,

un’altra boccata della tua essenza

provocante e pura,

 

faccetta angelica dallo sguardo

stuzzicante e dalla natura magica.

 

Ora mi copri la bocca con le dita,

poi le spogli di petali

e la sfiori con la tua,

 

il bello deve ancora cominciare,

vai con il sospiro micidiale,

colla guancia sul guanciale,

infiamma l’altra ed ardi me

poi chiudi gli occhi.

 

E getti all’aria le palpitazioni

e le illusioni,

il mondo si inchina ai nostri voleri,

siamo noi l’universo e il nulla,

il vuoto e il tutto,

l’infinito e l’ignoto.

 

Dai è il momento di tacere

perché di ciò che c’è in noi

nessuna metrica

né nota né segno né simbolo

può descrivere lo sai già

ciò che percepiamo

è esso stesso musica ancestrale,

essenza divina,

scintilla primordiale.

 

 

Ultimo decennio ovvero nuovo millennio

 

E il caschetto si impose turbato,

rimasuglio del passato,

che carino, vetrata obnubilata,

fiato mio sul tuo collo.

 

Un po’ di pioggia,

ci vuole,

 

novembre nostalgico,

 

dicembre figlio della genesi.

 

Il potere abnorme

sprigionò dalle mani possente,

vita ed ordini repentini,

sogni e capelli spazzolini.

 

Un ciondolo di fumo,

tre grammi rivoluzionari,

rasati ai bordi,

tanti ricciolini spumati

ed ebbri d’oro bianco.

 

Non c’è scampo,

alziamo gli occhi,

prudenti soffochiamo

il fremito del danaro,

possiamo avere di più

e sfogli i pensieri fissanti

sentieri cavalcati da braccia resinate,

 

e se ti poni altrove

qualcosa la ottieni

o perdi tutto e rovini a terra,

sei nulla e non c’è pietà.

 

E quando ormai è scorso il tempo

getti l’ultimo fiato,

inspiri e trattieni secernendo rimorsi,

 

e sei a bordi,

la tua ultima speranza

 

è un ciuffo calato sugli occhi

e ti sembra che infondo

non tutto sia andato perso.

 

 

Sui bordi di un fiore

 

Sui bordi di un fiore

piangi e dormi,

 

respiri bellissima e pura

pensando all’attimo

furbetta fingi,

 

ogni giorno la stessa storia,

qual è il problema,

l’onirico sistema è scardinato

e sparso incantevolmente,

 

ami una parte del tutto

infatti sbatti per sempre le palpebre

che ricordi, ricordano me.

 

Com’è languido il risveglio

stanco, esplode un fremito di pollini

 

tra te e il cielo sigilli

e suggerisci tre metri

o altre banalità,

 

vai gira la chiave e gettala

in una pozzanghera di bitume,

 

sei felice, che ne dici?

 

Due palpiti

e tre onde violette e clementi

ti porgono ossequi,

mira el sentimento,

como si fuera la ultima vez,

 

pendi atroce, sei felice allora?

 

In me preziosa e vorticosa.

 

È primavera, dunque

e il mondo risponde, tu non hai domande?

 

Hai comunque il vestitino

comprato ieri dall’antiquario,

 

sei ancora così precisa

verginella in bilancia,

casta meretrice orgiastica,

 

prendi me serva di Lilith

dagli occhi cobalto o nichilisti neri,

dall’iride in trasformazione,

 

hai un paio d’ali madornali

e immisurabili, soggetti solo a capienza

in metriche musicali,

 

è questo il senso? Sei felice?

 

Vuoi proprio saperlo dici

e sorridi

poi distruggi e sormonti

la volta turchina di spasmi

e gemiti mattutini,

 

sempre stai sospesa lì

e scivoli sul petalo,

oh dio, prolunga un po’ la vocale

o fa la dieresi o stroncala

completamente oppure batti l’asticella,

 

sei felice, dici,

e scarichi bolle di sapone,

sei lì per me sorvegliando

l’ultimo pensiero

e l’ultimo otre di sorrisi,

 

oltre la vita,

molto oltre ma ancora lì,

 

e parte il bacio.

 

Sei sì dialettica sintetica e sinestica,

apri le porte della percezione

e sciogli le catene

e sei ancora felice, felice

consolata da un sorso

di tè selvatico e aromatizzato

da versi intarsiati di miele,

sei lì per questo,

sei lì e tiri su,

sei barlume e ombra,

sei lì distratta e affondi

l’ultima armada possente,

 

sei vocio interiore confuso

col pensiero ed elettromagnetico,

sei l’aurora del domani,

 

sei bolla d’aria tra rossetto ed incisivo.

 

Spettro oramai opaco del ricordo

 

Erminia

 

Erminia,

et in arcadia ego,

tagliuzzate le vene

più di un anno fa,

musica dell’mp3 nelle cuffie

in riporto

mista di canzoni d’amore.

 

Sguardo alto sotto la doccia,

principessa delle serate

uno sprazzo sereno

e poi pupille dilatate!

 

Il treno che ci accompagnava

nei discorsi vuoto è ormai,

un filo solo si addipanava,

naufragava

verso incogniti prati azzurri

 

cori serali

e lamenti mattutini.

 

Poi le grida di rabbia

erano voci velate

soffocate

e dal tedio offuscate.

Dall’oblio sepolta

 

il candore della pelle

non ha saputo il vento smorzare.

 

Tenuti insieme per mano

tracciavamo costellazioni

sognanti

e veementi sprazzi di noi,

 

frammenti di domani.

 

Il gaudio dei tuoi dolori,

la noncuranza nemica.

 

Muta,

la società la risposta

ai tuoi desideri non l’ha data.

 

Erminia carta stampata

e disegno

di ogni costellazione,

 

nella melodia

del mio ultimo accordo.

 

Discorsi folli

 

Pioggia toccante

e cinematografica nella tua mente.

 

Sete giallognola

e aspra tra le gengive

e gli incisivi sporgenti.

 

Stracolmi di euforia

gli ubriachi della sera

ondeggiano a sinistra,

 

lieve il caduco introito di destra,

spalmati come cioccolata

i neuroni

o pronti all’assedio bellicoso,

 

un grappolo d’uva.

 

Messaggi telepatici

ed incanto bilingue

della nazione destrimane

e cilindrica,

 

sensazioni di quiete.

 

E la tempesta a volte

segue questa calma

nell’incrocio di sguardi,

 

pensieri ovattati.

 

Il vichiano corso e ricorso

dei bestioni e degli umani,

 

dei villani e dei baritoni,

privi di titoli accademici,

 

i maestri distratti dalla natura,

pensieri malandati

dall’incuria guizzante della paura.

 

È la follia la molla della storia,

è questa la verità

neanche amara,

 

ha un retrogusto dolciastro.

 

Siamo in simbiosi.

 

Ci esuliamo come assediati

ma siamo noi lo specchio del destino.

 

Il mondo sbarazzino,

lo sguardo tuo non è da meno,

mangiucchiamo qualcosa,

hai fame?

 

Prendi ciò che sai

tanto la fame si dissolve

come un fantasma,

 

comportamento alimentare

da adolescente sbadata

a ingurgitare patatine vertigo.

 

Il nido d’uccello

è il nostro fisso sguardo,

 

un’altra fissazione.

 

Discorsi folli come la storia

che si muove come quei tre ubriachi.

 

Una sigaretta accesa,

l’odore del vento si confonde

con quello del tempo

 

ed ora leggi a ritroso

quello che ho scritto

e quello che scrissi.

 

Il circolo indo-nietzschiano

è l’inizio dell’origine

e la fine del principio finale,

 

è un susseguirsi di invettive

contro poveri cagnolini

che si mordono a trotto la coda,

 

se l’immagine è il serpente

nella dannazione edenica

il re del mondo

ha maledetto anche il tempo

 

che dissipa e consuma

i nostri corpi giovinetti.

 

L’astrazione matematica

delle cose naturali

perde il contatto con la realtà,

 

ma nel paradosso è quella

l’unica certa verità.

 

La matematica infallibile

dà più volte segni di resa.

 

Il vero iperuranio è nei pensieri

dei poeti

non nelle quattro assurdità

del teorema dei carabinieri

o del coseno di gamma,

 

cercalo piuttosto nella pioggia

sulla sabbia,

 

astratta ovviamente

dalla mente sensibile e cordica,

 

la mente dell’anima.

 

 

La sedicente saracena

 

La sedicente saracena

con un velo che le copre il capo

e le spalle

sorride timorosa alla finestra.

 

Federico il mecenate

nella corte siciliana

a comporre sonetti e canzoni

coi suoi notai ed amministratori,

 

fiduciari di versi.

 

Tartari che scendevano

come nebbia,

beduini sepolti

dalla foschia del fumo

o dalle sostanze  violacee

che inalavano in sostituzione

per mistica ascensione.

 

È l’inverno che tarderà quest’anno,

che mostrerà il varco montaliano

ed atteso,

è l’autunno che libererà

il giogo delle catene,

senza pretese.

 

Lungo il tratturo antico al piano

si abbeveravano i pastori

mentre D’Annunzio sorvolava Vienna

con manifesti

inneggianti alla patria e al pacifismo.

 

È l’inverno che si spera

libererà dall’oppressione afosa

dell’indifferenza,

 

è l’inverno della speranza,

della mia assurda pretesa,

quella di viver la vita,

 

la pretesa folle di felicità

seppure solo sfiorata,

colta in un attimo di verità.

Alle porte del destino

 

 

Alle porte del destino

di nuovo io e te mano nella mano,

con le bocche traboccanti

di bacche balbettanti

e claudicanti

per i temuti incanti,

 

parlare a stento,

come assordati

e respingere le insidie

della paura

cogli abbracci reciproci

e remoti nella loro attualità.

 

Esser pronti per un lungo viaggio

in una difficoltosa foresta,

temere la tempesta,

il vuoto e qualche naturale vendetta,

poi perdersi allibiti

dallo spettacolo dei pini,

degli abeti, delle querce

e sentirsi come ginestre

sperse eppure coraggiose.

 

Dici no, dici che nei sofismi

sull’essenza un ricordo può servire,

alla ricerca di quello perduto

non trovo resa.

 

Passeggiare per le strade isolate

con il calendario tra le mani

ignorando itinerari,

 

domandarsi la conservazione caratteriale

se può avere quell’influsso astrale

di cui tu mi parli sempre,

 

poi capire che la scrittura,

il cielo è tutto e dio con lui,

 

sì è così le scosse telluriche,

i maremoti, le maree,

le temperature

e gli aspetti caratteriali

ce li dan le stelle

nel loro superbo danzare.

 

Oppure no, dici no,

dici non generalizziamo, c’è l’eccezione.

 

Ma ti dico, è questo il punto,

non c’è regola che tenga,

 

le nostre vite sono solo anarchiche

eccezioni figlie però

di un sincretismo universale.

 

Hai da accendere?

L’accendino l’ho dimenticato.

 

Incedi con passo leggero

 

Incedi con passo leggero

coperta solo del tuo velo,

il mare scosso dal tuo adagio

e l’erba cresce ad ogni palpito,

sboccia un fiore ad ogni gesto.

 

E poi ti vedo tracciare le parole

che non sai ascoltare,

con la grazia delle piante rampicanti

ti adagi sul mio corpo e gli dai vita.

 

E sono in preda ad un affanno,

ma le tue mani già lo sanno,

sapienti carezzano un sorriso

che dalle labbra inonda il viso,

 

un’esplosione di colori.

 

E continui a tracciare

storie che non vuoi raccontare,

e continui a ricoprire

questo vento col silenzio.

 

Poi tra i flutti sembri scomparire,

come Venere a ritroso

ritorni sirena generata

da una conchiglia innamorata.

 

Ed è ancora sera

 

La sera stende il suo manto,

un sole rossiccio m’illumina,

 

è incanto.

 

La sera stende atmosfere

celate agli occhi degli orbi,

della dualità trinitaria

persa nei borghi

scanditi da chiare pupille

della docile ragazza

con le cuffiette alle orecchie

 

e un refrigerio nella mente.

 

Sembra che non bastino parole

a smorzare i silenzi,

 

sembra che non bastino silenzi

ad incutere i tuoi tepori serali.

E dallo sguardo sperso scruto

 

rimasugli d’incenso,

le nostre serate

sono leggere ed estive,

indimenticabili ed indimenticate,

come due natanti all’incrocio

di piatti suoniamo

melodie nell’afa sbiadita,

 

può darsi la penombra

un mistero ditirambico ci sveli.

 

Ed è ancora sera.

 

La mia passione è svilita,

sembra infittirsi la voglia

di respirare l’uno ed il tutto.

 

Ma come può un germoglio

sfiorire senza appassire,

 

può nel ricordo vivere

senza svilire,

 

ed è la memoria che mi salva

dal tedio e mi affligge

come rovescio di medaglia

celtica e incisa su bronzo

 

restio all’incrocio di sguardi,

 

e tu ancora mi guardi

e strizzi l’occhio.

 

Ed è ancora sera.

 

Restò una dolce viola candida

 

Le fondamenta del mio pensiero

tracciavo con cura,

vittime dell’arsura

del lavorio incessante

come sciami di formiche,

fisso in maniera salda

il trivio e il quadrivio

come cardo e decumano,

 

la realtà triplice

come pietra di volta,

quella d’angolo

una giravolta etilica

e candidamente rubiconda.

 

Poi mi assalirono mille dubbi,

 

tutto da capo,

tutto da rifare.

 

Poi mi assalirono mille problemi,

 

il tutto è già scritto

con piume d’oca,

 

ma ne varrà la pena?

 

La salda pietra

sotto la scossa del reale

perse il barlume di vero

e a colpi tellurici

rovinò a terra.

 

Restò una dolce viola candida,

 

restò solo una come dolce empirea

rosa candida

frammento di memoria

e flusso coscienziale.

 

Conosci a fondo le mie paure

 

Si lamenta nel tormento atroce

di un’età senza più voce.

 

Conosci a fondo le mie paure

più segrete e già scrutate

dagli attimi fuggiti,

come adolescenze in bilico,

 

passeggiate in bici.

 

Potrei ora divagare,

potrei sfiorarti con le mani.

 

Potrei ora silente

fiatare il mio ultimo lamento.

 

Ma credo che la prospettiva

del domani si imponga inaudita,

 

mi stia fuggendo tra le dita.

 

Conosci a fondo, amore,

ogni mio dolore

per questo corpo vittima del vento,

 

del passo tardo del tempo.

 

Potrei parlare.

 

Potrei dimenticare.

 

Ma la mia voce muta

continua a sognare,

 

tra un po’ è già autunno,

qualcosa cambierà?

 

Potrei dirti ti amo di sfuggita

e poi baciarti e perdermi così

nell’oblio dei sensi.

 

Il peso specifico è annullato

 

Il peso specifico è annullato

da un possente fluido appena condensato,

col bagliore degli occhi

creerei le immagini

 

e la matita è capovolta.

 

Insula in flumine nata,

la tua sveglia nel dormiveglia,

la tua curva sospesa

da elettrochimica resa

d’intenso incenso

gettato a quintali

su muschi e licheni,

 

dai, diamoci un altro bacio.

 

E attraverso il ritorno ondulante,

non è musica quella che esce

dai lobi auricolari,

la tua chioccia è punta

dall’anello di roccia

che solo l’aere profondo

e tenue dà,

 

la tua incudine ed il tuo martello,

la falce e il grano cosiddetto.

 

Giallognole avversità

in tramonti di verità,

 

sopita sei un po’ svilita,

non ti fa più effetto

il tossico detto,

non una sola parola,

non una speranza,

non una motivazione

se non melodie perse nel tempo

che vogliono farmi continuare.

 

Continuare a ondeggiare,

come pazzo in su le scale,

sto solcando un’epoca nuova

e la gente indifferente muore

oppure passa e sorride,

 

qualche spicciolo per le sigarette,

le meno costose,

 

qualche danno collaterale

per poter continuare.

 

E finirei con un bel,

nel blu dipinto di blu.

 

Irrequietezza malinconica

 

Un’irrequietezza malinconica

e trasognata la mia

al di là della realtà,

 

magari un cenno del tuo dito

o un allettante invito intellettuale

potrebbe di nuovo tracciare

speranza nel mio animo

 

in frammenti,

 

eppure l’ansia che mi uccide,

il tedio e l’accidia

dei giorni sempre uguali,

 

sei eterea a due passi

ma mi sfiori appena.

 

Magari mai tutto è perduto,

nella mia gioventù potrò ascoltare

ancora silenziosa,

 

leggere le tue poesie

in riva al mare

 

con quel clamore calmo

delle onde che ci accompagnava,

 

manteneva il tempo la notte

che in refrigerio ti raffreddava

 

e tu sul mio corpo accovacciata,

 

io ora invece mi domando

che ne sarà del futuro,

dei miei giorni,

davanti a scelte sempre più sbagliate,

 

ma il risvolto della medaglia

c’è sempre,

sono un frammento d’uomo

alla ricerca di una luce soffusa

e di parole scritte anche alla rinfusa,

 

sei eterea dinanzi a me e mi sfiori,

non mi abbandonare!

 

Qual è la verità?

 

Lei dove è

se è vero che ti cerca.

 

Tra di noi dei segreti

mia forma priva di sostanza

che rifletti solo bagliori mattutini

 

ma ti manca l’assonanza

con le tue parole,

 

sfiorami ancora,

te ne prego,

sono nulla senza te.

 

Qual è la realtà?

 

È solo la nostra immaginazione,

 

un triangolo sperso e maledetto

dall’illusorio tempo,

 

io ti cerco come limpida

acqua di sorgente,

pura mia assidua brezza mattutina,

ti dirò come sempre

le mie parole gettate in aria

da un sorso di vento.

 

Potremmo fare i sofisticati coi sofismi

e magari avere pur ragione,

 

potremmo continuare a disegnare

questa nostra vita separati

 

ma un filo labile ci lega

e non possiamo farne a meno.

 

Spero solo tornerai ragazza

destinata alla più somma melodia.

 

Qual è la sincerità?

Due parole dette di sfuggita,

 

dimmi quale è il tranello

per uscire da questa miserrima

condizione umana,

 

trascendere noi stessi?

 

Guidami tu,

o mia ragazza,

dall’armatura alabastrina

e il volto paonazzo

e i capelli mossi

di quel carminio così intenso .

 

Mentre la gente guarda distratta

 

E mentre la gente guarda distratta

il libero airone palustre

si lancia al di là del confine terreno,

mondi sotterranei lo attendono,

 

trema già la mano al pensiero.

 

Un caffè

ormai tra angusti rifugi,

svogliati e disincantati,

volati come cenere,

 

smascheri il volto ed è già autunno,

 

il volo di chi va via in migrazione

è un balenare di lucciole

ormai abbandonate

nelle tetre follie cumane.

 

E poi i papaveri rossi,

sangue lucido ed oblio,

potenza dei sensi,

espansione mentale,

 

rigurgito come al solito astrale.

 

Vola nel cielo

resistendo alla calura

e vola che la stagione

sarà un groviglio vago

di temperatura,

 

già vedo le stelle,

il vino rosso nei bicchieri,

mille palloni poetici

in trotto nell’aere,

 

mille spume,

mille effluvi d’incenso,

 

e vola,

dimenticando quanto ardore

il sole sprigiona

intrappolato nelle sue redini

sottili.

 

E l’afa rimane.

 

Giocare a tresette

tra uno spaghetto e un sorso di vino

con nosferatu che è sazio d’assenzio,

potrà vivere già da oggi,

con un cambio di rotta,

la mia più sublime speranza,

 

il desio del domani.

 

Ed è silenzio.

 

Maschere di ghiaccio

sono sulla spiaggia,

rendono oltraggio

all’ultimo notturno spasmo,

 

e che pace l’aurora,

 

l’amore e i colori.

 

Non so se è sentimento

il brivido che ho dentro,

ma puoi guardare languidi

gli occhi al crepuscolo,

plasmati come violette.

 

Vola su ripiani desolati,

avvoltoio di pentimento,

 

frescura, frescura,

tu mi dici e sorridi,

ma lo sai,

già lo sai che cadrà

l’ultima stella confusa

e noi saremo preda

di una nuova serenità.

 

Stella,

vola che si attutiscono i miei timori,

le parole e le esplosioni di incertezza,

vola,

 

non smettere spauracchio

del presente

che sei nella mia mente,

un sorso d’acqua pura

ed è subito mattina.

 

Volano i colori,

nel cielo temperato,

 

vola il tuo ultimo desiderio avverato,

 

vola e non trova pace

l’euforia della giornata

ciclotimica e daltonica,

 

vola e l’incanto scolorisce

nel momento più intenso.

 

O mia Regina

 

E se volessi cambiare argomento,

un fiume in piena arresterebbe

il turbamento,

in fondo un tantino assorbo

quelle parole,

poi ne invento, poi le scordo.

 

Cosa c’è dentro me,

un falco in volo possente

e incatenato

che della vita ha percorso

solo qualche fiato sfumato.

 

Un vortice, il solito maestoso,

quello che spaventa,

la rimessa, la stupida paura

è come assedio che mi storpia

quando in temperature avverse

muto rotta e dovrei disincagliare

il raggio luminoso e porgerlo

al di là dell’ultimo fuoco,

 

hai visto? è già scaduto

il biglietto del tram,

 

il viaggio della mente

un treno in salita che abbassa

l’attenzione ed attendo la tua profusione,

 

l’importante è dire assurdo

quando ce n’è bisogno,

gira a vuoto l’ultimo accordo.

 

O regina nella polvere celata

ed improvvisamente illuminata,

sorgi coronata e districata

tra risucchi di biancospini.

 

Ed io da falco

cerco libero attracco

contro il mondo e per il mondo

ad un tempo,

 

carino il tramonto dei nostri sogni

è la rinascita per nuovi giorni serali

e imbellettati.

 

O regina nella cenere

riarsa divieni

ad un tratto materia eterna,

 

un flusso d’amore sgorga

nelle vene

ed è già passione

 

il bacio in tensione.

 

Perdendo il filo un po’ per vizio

un po’ per capriccio,

 

ti scrivo altre due righe,

è già un impiccio,

 

ti chiedo e poi mi schiudo

pronto a ripartire,

o mia regina.

 

Ad altro non penso

 

Sai, mente annebbiata,

mentre mi concentro

ed entro in contatto coll’Un invisibile

che prende forma,

 

ecco,

comunicazioni celebrali

introito restio

dell’inconscio collettivo,

 

allineata la nostra costellazione

con il bacio che dai

in riva al mare,

 

damigella decorosa

eppure così viola

 

il congedo delle piante

che tramite angusti sentieri

percorriamo,

 

senti già il trastullo delle onde,

il mutamento ciclico,

il nostro allibito confronto.

 

Le spiagge dorate

son granelli della tua vita,

 

l’eternità l’abbiamo conquistata

lottando con schiere di draghi

e cavalcando liocorni d’oro bianco,

 

il piercing è uno spasmo,

una noia vederlo cadere

ad ogni movimento

del tuo nasino intimidito,

unione di spirito e corpo.

 

L’estate schiarisce

e tra un po’ i variopinti colori

degli arbusti saranno pensieri di domani,

saranno speranze e respiri profondi,

come l’anima che ascolti,

 

la musica respiro della stessa,

la musica spirito manifesto,

 

ti bacio

e ad altro non penso.

 

Parole al vento nel silenzio

 

Parole al vento nel silenzio,

nell’intrigo destinato

ad un sussulto per un bacio

sul tuo collo scoperto,

 

incandescente.

 

Quale è il senso

delle tante frasi sconnesse,

 

dei periodi campati in aria

come atolli od emissari

di una nostalgia canaglia

o di un effetto a collo di bottiglia,

 

filtro per le stupidate fatte

con l’intenzione di cucire abiti spenti

dai tuoi occhi sempre più accesi.

 

Tanti sogni e poche speranze

ma nell’ostinazione il sentimento

che permane figlio dell’ambizione

e non di rampantismo

come luce un po’ soffusa

nella nostra dimora ambita,

 

un arredamento etnico

e tre canti al mattino

per svegliare i dormiveglia

che scrutano la nostra vestigia

di figli di un dio dimenticato

eppure così vivido e sentito

nella nostra interiorità.

 

(Pochi grammi di zucchero nel caffè,

pochi baci ma buoni,

io in realtà non smetterei

di stringerti a me).

 

Il viale sussurra nell’estate,

c’è un vento freddo nel ricordo,

il materasso con l’accordo primordiale

della scintilla universale.

 

(Pochi grammi d’assenzio,

vino caldo,

un letto su cui dormire con te,

un altro canto).

 

Piccolo scritto

vai tra paesi, monti, colline

e città, urla come il tempo

che passa

e rendi vivido il ricordo

della sua fascinosa bellezza

che esulta come un mare in tempesta

o come lo scorrere di un fiume

all’ombra della cresta.

 

Ipotesi astruse sul tuo polso

 

Ipotesi astruse sul tuo polso

perché la pioggia ci risucchia

in un vortice abissale,

soli io e te,

inauditamente la questione

da logica diverrebbe estetica

e passerei ad una estrosa

epistemologia ma del metafisico.

 

Ti vedo un po’ stordita

sarà l’effetto della polvere

e del polline tra le dita,

 

credo meglio riprendere dal basso

per puntare al cielo candido.

 

Allora con sospetto guardo

un oggetto od un soggetto

e scopro l’identità, tra l’uno e l’altro

 

non vi scorgo diversità,

 

non sono utensili heideggeriani

ma soggetti dotati d’anima,

 

lo senti il dolce romore

della macchinetta quando sale il caffè,

 

sembra gridare, sveglia!!!

 

non sono solo qui per te?

 

Ma d’improvviso

sarà quel tuo profumo

che si impone sensualissimo

 

e allora lo confermo

 

è un’anima cosmetica

la tua dolce essenza di cobalto.

 

Tutto cambia in mutamento statico

 

E sei arrampicata ai tuoi spasmi,

fumi un’altra sigaretta in silenzio

mentre lo spirito del diamante,

supremo ardire,

sfacciato ti sfiora un po’.

 

Alzi un poco la testa nello sbuffo,

chissà a che pensi,

se al tepore dell’autunno

o alla congiunzione astrale dell’inverno

che riporterà tutto alla normalità.

 

Riflettendoci sopra

un po’ d’erba cresce

sui piedi fatti a conchiglia,

 

i pensieri assorbiti,

una eco lontano,

 

mi sfiori la mano

 

mentre si agita la maretta

della rivolta studentesca.

 

“Siamo noi soli”,

 

dici e sorridi e tremi,

 

hai voglia di me.

 

Ed allora un abbraccio plurimillenario,

un approccio geologico e atmosferico

dei nostri corpi che si sfiorano,

 

la pazienza delle tue nobili trincee,

le placche della Pangea

che si dividono ma un giorno

in congiunzione questo eterno movimento

sarà la libertà tanto sognata

dal nostro fermento,

 

poi un sorso di vino,

 

mi stringi un po’ più forte,

 

ti do la mia coperta

 

ma restiamo mano nella mano

 

avvinghiati all’abisso.

 

E finalmente dalle tue parole

tradirò un ricordo,

sarò sempre più libero,

un Icaro distratto

ma fremente come il segno

che hai impresso sul tuo polso.

 

E in silenzio prolungato,

quasi meditativo,

 

scompare dalle cose

e dalle persone

ogni tratto negativo,

 

i valori hanno fallito,

guardiamo ad una nuova filosofia,

lo studio sistematico

dei fondi di bottiglia,

 

fondi dove alberga

l’anima più pura

e che deve esser solo manifestata

dallo spirito.

 

E stasera, ti dico,

tu lo emani.

 

Tutto “peace and love” il nostro incontro,

bandiere d’Assisi con la pace,

spillette trasversali con i teschi,

un po’ un “memento mori”,

un po’ pars destruens.

 

Ed allora zitti

costruiamo con un bacio arrogante

 

nell’etimologia distruggeremo

questo inferno di schifo,

 

questo impero claudicante.

 

E passa il tempo,

ormai un ricordo lontano,

fondo di pietrine di fumo

e di rimasugli di ciliegi sottospirito,

 

magari tu che sei l’assenza ,

dimmelo per sempre,

 

dimmelo tesoro

che ti adoro e ti rinnovo

i sentimenti come clandestini a bordo,

 

perché sei la più bella,

tira un’altra pall mall

e scorgi il sole che sta nascendo ad est,

ci illumina l’intenso,

 

ci apre le porte al mondo sconosciuto

del domani che poi altro non è

che una nostra speranza,

includibile nel presente.

 

E tutto cambia in un mutamento statico,

 

sei la dolce essenza

fluorescente della vita,

 

sei il pensiero,

 

l’aurora del mattino,

 

sei il mio sonno,

 

compagna di Morfeo nella notte,

 

mia dolce Selene,

 

Artemide cacciatrice

 

e Pallade rivoluzionaria,

 

ti coprirei di baci

come fosse pioggia al sole.

 

Ti amo così,

un po’ pateticamente,

 

e tutto il resto

domani

sarà un surplus ma immanente

nell’animo nostro.

 

E’ scesa l’ultima goccia

 

E’ scesa l’ultima goccia giù

del tuo sapore viola,

credo che sia il motivo

della nostra trattenuta

nella stiva pleonastica e fantastica.

 

Il gran cerchio del tempo

rosso e blu

più lungo di così,

da pi greco alla sponda del sollievo,

 

in realtà sei il mio sogno per metà,

sola contro il mondo sei tu.

 

Non ti aspettavo sai,

stasera più che mai

il mio corpo è proteso

alle tue gambe intrecciate

ai mie capelli.

 

No, non farlo, non distruggermi,

 

nel tuo pensiero lascia spazio

al mio futuro.

 

Poi ritorna quel nostro circolo perverso

menato per l’aia

come fondo di grondaia,

 

i tuoi occhi dal luccichio insolente,

i tuoi sogni da sabarazzina un po’ invadente.

 

Nel puro,

intenso godimento.

 

Godimento.

 

Agitazioni spastiche,

tardo rock.

 

E passi di sfuggita,

mordicchi un po’ le dita e mi dici,

sono stanca di viaggiare,

posa l’auto all’autogrill.

 

Posa?

 

Un panino e poi,

cento lire nel jukebox,

 

ondeggi a stento quando premi

il cuore lento,

 

sei bella sai quando sospiri

e alzi le mani,

 

come a dire non lo so.

 

Tra gli accordi sei distesa

come arresa e me lo dici

come pupilla dello stelo un po’ inclinato,

un po’ svogliato,

dai tuoi sogni agitato.

 

Novembre

 

La marcia ingranata

nell’accelerazione infestata,

qualcosa da dire,

 

pensare col tempo agli errori

e all’ipocrisia per scoprir

se il domani è congelato e insicuro,

poi ad un tratto dirsi

che non ne vale la pena

e sorpassare senza accostare.

 

Ti amo e lo sai,

vado via e ne soffrirai,

resta pure a fianco a me,

 

non arrenderti mai.

 

Porsi degli obbiettivi

a colpo di chitarra,

schiudere le porte,

sorseggiare una birra scura

piangendo della tua frescura autunnale.

 

Le violette sedentarie

ma attente,

i baronati e gli inciuci,

le chiacchiere da comare heideggeriane,

 

in questa riunione sovversiva

cogliere l’egoismo dei fiori,

 

scroccare un passaggio

se va a fuoco l’autovettura,

 

sentirsi immortali,

e rider di gusto degli errori,

agli errori

 

poi piangere di nuovo ed aspettare te.

 

Ti amo e lo sai

che mai ti dimenticherei.

 

Impastare del formaggio

 

incrociando nuovi sguardi

ma lasciandoli alla deriva

per tornare da te

che sei la mia vita.

 

Passaggio inconcludente,

 

fine deludente.

 

Gradisci del latte nel caffè, amore mio

 

Una parola non la puoi mai consumare

se sopra l’acqua volteggia

a dorso come un crinale,

 

e regge il mondo

su queste circostanze indissolubili

mentre io e te passeggiamo

come due stranieri,

 

quanto dolore è esploso

in un attimo in me,

 

che confusione hanno generato

le tue azioni,

 

ho studiato a fondo le intenzioni,

capendo che è l’attimo che conta,

 

la nostra pura apparenza

che volteggia in aria

come un pallone a incandescenza

col gas nobile e stizzito

che ti fa perdere per un momento,

solo uno,

il fiato.

 

Sgocciolano come arpeggi

le parole e cerco appiglio

nel mio cuore docile,

 

ma sei in riva al mare,

il cielo minaccia un temporale,

le onde investono il succinto vestito

che mi fa impazzire,

 

ho creduto a fondo che fosse l’infinito,

non ti so scordare,

 

anima graziosa.

 

La spiaggia imbevuta

e tu tra il telo imbacuccata,

 

credo che metà del sogno

l’ho già scontata.

 

Partono prorompenti

i treni alla stazione,

senti il fischio e immagini i vagoni,

 

i nostri pensieri fuggono

ed è già ieri,

 

tutto statico e immobile il destino,

 

due dita incrociate, la follia del mattino.

 

Mentre continuo a scrivere

e parlare al vento

i tuoi capelli sono mossi

al mio fermento

 

e mi stringo questa volta

un po’ più forte al cuore.

 

Guardo una foto

e si scatena la rimembranza

dell’attualità,

 

le scorciatoie rese viole del pensiero

per raggiungere un sentiero

in cui io ti tengo la mano,

 

tu mi dici di sentirti strana,

sarà colpa del tempo

o delle Parche il lamento.

 

Magari il futuro

cambierà tante cose

perché figlio della nostra più intima

speranza,

 

ma devi crederci, amore,

 

anche se a volte rallenta il cuore,

Davide disse, fermati o sole.

 

Sgocciolano altre parole al muro,

impresse con l’acrilico

della ripetizione,

 

lo sciocco riff dell’azione,

un abbellimento per la colazione,

 

ho creduto e vincerò

anche se resto attento,

solo, in un mare di frumento.

 

Parole sulla tua bellezza

e sulle nostre perversioni,

gradisci latte nel caffè,

o mio amore?

 

Riff

 

Penso dunque volteggio

come solfeggio

e vado all’inverso,

 

la percezione extrasensoriale

è fluido nel fruscio degli spiriti,

Dostoevskij al bar,

 

non è sperimentazione l’emozione

ma prova pratica pronta

per essere ignorata dal passante

incurante della musica,

 

un altro gettone nel jukebox

e pochi spiccioli al mendicante

col violino elettrico della relatività,

 

o almeno credo.

 

Cosmico il ricordo

fisso in me,

 

una malattia la linea bianca

tra genio e follia,

 

si accavallano le gambe

nel discorso che saltella

come la civetta da un posto qua e là,

 

bene dove canta

male dove guarda

 

e tu non consideri per niente

il fatto che siamo soli,

 

l’io presuppone un relazionarsi

finto e a metà,

 

ciò che guardiamo negli altri

è solo proiezione della nostra assenza,

 

credo.

 

L’apparenza l’unica possibile

manifestazione dell’essenza,

 

il traffico della città

all’ora di punta

è un coltello teso

alle mie braccia

che solca la verità

 

due tre olivastre vestali

e vergini di clausura

in contemplazione

 

come ad adorare

il sapore di un bignè,

 

buono il crauto

di prima mattina

all’aeroporto di Bruxelles

 

mentre il parlamento di Strasburgo

è bilingue

esclude il bel sì,

 

magica speranza.

 

Ok, va tutto bene,

due parole e poi,

 

e poi,

 

stop.

 

Intro estroso

 

Intro estroso.

Dentro noi c’è

l’entusiasmo di uno spirito beffardo.

 

Intro estroso.

Non sempre vale la pena,

non sempre è giusto continuare.

 

Intro estroso.

Parla con lo status divino,

sei apparenza sublime e stemperata,

puoi tacere senza essere ignorata.

 

Intro estroso.

La paura del nostro abisso

muterà solo se ti fisso.

 

Forse il silenzio

dei tuoi occhi

non è che pura fantasia,

 

forse il temperamento

del tuo dito sollevato in meditazione

è sintomo di eccitazione

 

al di là della sensualità

già insita nelle orme

che mostri con pudore,

 

forse dal nulla nascerà un sussulto,

quello che avevi senza dimenticarmi,

 

gira il verdetto della nostra poesia

scevra di senso

e pure così concentrata

in mille navicelle notturne.

 

È giunto il momento,

è venuta l’ora,

cosa sono io per te?

 

dillo senza fiatare,

è giunto il momento di realizzare

i sogni miei,

tuoi e di noi tutti.

 

Intro estroso.

Sono ammutolito,

dal venticello allibito.

 

Intro estroso.

Credo di divagare,

ma saltando da un pensiero

a un altro puoi anche tu volare.

 

Affinché distruggessimo la materialità

della violenza

con l’amore dell’anima nostra

ormai incandescente

 

mi spiegasti il sistema

avviluppato su sé stesso.

 

Guarda il vero

 

(Nella Terra di Mezzo

un rombo sul tetto a strapiombo).

 

Ero fermo alla stazione

con l’intenzione di mirare

treni nella noia heideggeriana

e avevo il viso pieno di furore

 

(guardavi tanto

mentre ti raccoglievi

nel pianto)

 

nel sentirmi vivo

come non mai nel disquisire

con la panchina ,

una qualunque

 

(piacere tangente)

 

ma a volte anche le scritte

rendono l’inanimato immortale.

 

Solitudine,

 

( soluzione),

 

beata inquietudine

 

(dannata volubilità).

 

Continuavo

 

(la tua vita è diversa

se senti l’odore donzella),

 

allunga le braccia

 

(ma se puoi perdi)

 

solo se lo vuoi però

 

( non arrenderti),

 

non perdere in divagazioni

quello che dice il tuo cuore

è puro e semplice e lo conferma

 

(guarda lì)

 

il tramonto partenopeo.

 

(Il pub era pieno di gente)

 

qua usano pinte dipinte

 

(ordina pure un doppio jack)

 

e due crodini serali

per le future prossime

invasioni nelle aurore boreali.

 

(Guardati attorno

rischi di perdere il controllo).

 

Mi colpisce diritto al cuore

il tuo pudore

e quell’occhietto ribelle

 

ma anche il silenzio tenebroso

delle apparenze,

la donna perfetta

 

(le invasioni continuano

nella Terra di Mezzo)

 

che brama in tutta fretta.

 

Guarda bene,

ripeto guarda il vero.

 

Nel sorriso del mattino

riposi ancora,

che carina, mia sbarazzina.

 

Guarda lì,

 

ripeto,

sona il bel sì.

 

(La notte trascorsa da un locale

a un altro,

la birra a fiumi,

prego

esula per i drink

il ghiaccio,

così mi piaccio,

riposa pure,

e tu sorridendo chini il capo

come a dire sì).

 

Il lieto rumore delle tende

 

Il lieto rumore delle tende

mi rimanda sincero a te.

 

Tra le strade viaggia

l’anima tua

che non risponde

ai miei quesiti

 

come un soffio della guardia

di frontiera che controlla

il desiderio perverso

del mio intento.

 

Viaggia la mente

e ritorna a te,

alle serate erbose

tra i fumi dell’incenso.

 

Ed è solo un momento

che mi vedo

sfiorire nell’età matura,

 

vorrei che una foto

prendesse vita

e ritornassi magari un po’ tu,

 

ragazza dagli occhi colore del cielo,

anarchica per semplice complessità,

penserai, chissà,

se qualche volta di sfuggita a me.

 

Sta arrivando il nuovo anno

e chissà se qualcosa

davvero cambierà

o sarà solo il frutto

di una nostra più illuminata umanità.

 

Nella mia stanza un sussulto

e c’è un’immagine di te,

magistra et ancella.

 

E fuori il collocamento chiudiamone un altro,

siamo soli io e te

e non te ne accorgi nemmeno,

passa il tempo e siamo cambiati

ma qualcosa dentro te

di me ancora c’è.

 

Il lieto rumore delle tende

mi ricorda le tue gambe divaricate

al vento dell’estate.

 

Poche parole

su uno scrittoio antico,

questo sono io,

eccomi qui,

tante abitudini che non ho perso

in bilico tra un’anima antica, paura e il nuovo corso

che sbalza e fiorisce,

 

fumiamo ancora la stessa marca di sigarette?

 

Il lieto rumore delle tende

 

mi sussurra che darei ancora

tanto per te.

 

Candido

 

Una speranza inviolabile,

sigillo impresso sulla cartapesta

delle tue emozioni,

ascolta il silenzio,

la via eccola qua,

legami indissolubili,

passioni carnali

intrise di spirito sgocciolato

come dalla nebbia intriso,

sembri ciò che non sei,

come a dire violetta,

 

la passione svanisce in fretta.

 

Candido,

il canto di cicale

nel paradosso invernale,

 

sei luce che sorprende

e inaspettata promessa,

sei il vuoto di una stanza

che è ricolma di te.

 

Candido,

se l’ottimismo è un fuoco

che riverbera,

la sensazione pulsionale

è la risposta che cauta

e paziente ci attende,

 

un saluto,

bacetto estroverso.

 

Dici e sorridi

che ripeto sempre le stesse parole,

ma quando le hai impresse nel cuore

l’acqua raggio non distrugge il colore,

tuffiamoci dagli scogli che c’è il mare

di sapienza che spalanca

le braccia nell’attesa,

siamo soli ancora io e te,

 

che tramonto stupendo

inzuppato nell’acqua

come biscotto proustiano del ricordo.

 

Candido,

se l’eroico furore

ci porterà oltre il confine del sapere,

se la mente si espanderà

oltre il tuo pudore,

due parole te le dedico

e tu per me che fai?

 

Sei gocciolina perversa

e già lo sai.

 

Candido è solo

quello che blocca la scrivente,

dai continua a scrivere parlando

col tuo micino dolciastro.

 

Tu animal grazioso

 

Tu animal grazioso,

tu senza ormai più suono,

dipingi gli ultimi istanti

come nebbie atroci e beffarde,

sale il mi minore

della nostra storia

e rappresenta lui in silenzio

la nostra stessa clemenza,

la nostra verità.

 

Un carillon suona

per rimembranza o triste rimando,

al posto di cose ci sei tu.

 

O animal grazioso,

 

o fulgida sordina.

 

Passa trionfale

l’armata letale

 

e noi ridiamo del gioco di parole,

 

anacronistici in questo mondo parallelo,

 

c’è un sentiero dalle mille biforcazioni

 

e poi c’è il tuo dolce volto

e poi ancora tu,

 

mio passato, presente e futuro

a un tempo.

 

Passa e non dà scampo

se non guardi nello specchio

quel che ti ho detto.

 

I cardi questa sera

struggeranno l’atmosfera.

 

Teologia sperimentale

 

E vaghi per il deserto

senza spalle coperte.

 

Ti sorge un dubbio intramontabile,

le statue non sono più le stesse

senza il sorriso di terracotta.

Le anime sperse negli anfratti,

le scorgi facendo trentuno

e si salva il rifugio mentale.

 

Cosa vuoi che conti

chi tu sia in questo mondo,

 

l’esser sé stessi più autentico

è per il parallelismo non euclideo.

 

Ammide di nucleoside

proteso al vento contrario,

 

l’introito netto della meccanica,

il quanto ed il bosone,

 

la gemmazione delle piante,

tachione

le betulle e la fotosintetica

interruzione delle stanze poetiche

che in un attimo ti rimandano

al creatore, la vita nova

è vuoto contenitore aperto

ad altri contenuti sconosciuti,

 

etica etilica,

nel vuoto si ripropongono

situazioni estrose

che non sai rifare

nella realtà annullando

l’esistenza della stessa,

 

se l’infinitamente piccolo

altro non è che infinito

allora è massiccio il peso dell’elio

nel comunque infinito cielo

dove vola per dispetto il palloncino

e tu resti china.

 

Nelle regole

di derivazione non scorgi mica

la biologia del sogno,

 

l’onirica teoria del sonno.

 

La storia sta sempre lì.

 

Suoni dolci come le mandorle

e il lillà.

 

Dimmi amore il passo tenero,

dove sta?

 

Cerchi le parole

 

Cerchi le parole,

quelle nella giusta ondulazione,

va bene così non va,

ma se sposti il tuo sguardo

il fiore sboccerà.

 

Potremmo periodare senza verbo,

no che non ha senso

ma bastano le tue labbra,

sarà che senza te

è tutto più difficile,

 

anche quella dannata parola,

che volava sui campi di grano,

nelle nottate medioevali

su boschi fitti di lupi,

 

ma io oramai ti conosco,

guardo quel tuo viso,

quello che sogna di navigare

sulle nubi

e condottieri da distruggere.

 

I piccoli aforismi,

ne abbiamo fatti tanti,

generici e bislacchi,

specifici per ogni occasione,

 

ossequi alla signora,

 

e allora tu ti volti

come sai fare

con le lenzuola da violare.

 

Ma questa volta credo

sia la definitiva,

 

non hai altro da espormi,

mi soccorri,

ma non è solo della tua carne

e delle tue parole che vivo

ma anche del tuo profumo

delizioso,

 

quel profumo che inebriante

sboccia come fiore tra le piante.

 

E se proprio vuoi sapere

qual è il segreto,

tu sei,

 

prigioniera scalza nel tuo tempio,

 

ed ovemai di me dovessi ricordarti

strizzami l’occhio

e manda sopra il mio respiro

quel tumulto

come quando.

 

Ora mi guardi,

sorridi come sempre

e sempre altera sei,

io sotto il tuo manto sapiente

sarò un piumino incandescente,

 

ho voglia di una birra doppio malto

per smorzare un poco la tensione

e tu che sei ovunque

la dipingi ed io già sorseggio

quello che è il mio piumaggio

e punteggio.

 

Ponendo un punto fisso

 

Ponendo un punto fisso

e ben nascosto

sul tuo profilo ingiallito

mi accorgo attonito

che le parole sono lontane

dai gesti,

 

risuona nel mio inconscio

un pensiero sepolto

ed è questo il motore

delle mie assurde confusioni.

 

Ti vedo ancora passeggiare

incappucciata per le nostre vie

e chissà se ancora ti ricordi di me.

 

Passa un altro giorno

nel tempo che non esiste

ed allora ti chiedi insolente

se sprechi cosa,

 

diamogli un nome a questa inesistente

dimensione vissuta e cresciuta

coi nostri patemi d’animo

 

e con le nostre gioie inconcludenti.

 

Non so davvero

se ancora mi pensi

se il tuo mondo così vicino al mio

si è ormai dissolto

 

senza mai venire al dunque.

 

Nel silenzio tu,

 

chimera eterna

 

non ricordi e gira la banderuola,

il pensiero è sempre di traverso

dove quel punto è l’unico

immisurabile granello

che ci tiene ancora uniti

e di cui tu forse

non hai più memoria.

 

Non puoi dimenticare

quando schivavi i miei passi d’amore,

 

quando non c’era altro tra noi,

 

quando assaporavamo l’anima

dell’assoluto quella notte

da soli seduti,

 

quando ascoltavamo

le nostre parole,

i nostri monologhi

erano inconfondibilmente

l’uno per l’altro,

 

con te tornerei

mia epoca lontana,

 

in un attimo le cose cambierei,

ma il passato è dell’oggi il domani.

 

Tutto è nostro

 

Sul piano di un abisso ti miro,

tu sei dissacrante come sempre

ed io coi miei occhi ti investo,

c’è qualcosa che mi insinua,

è il tuo pensiero anzi il vederti

così chiara nella mente,

 

tutto si è adagiato ai nostri piedi,

tutto risponde solo ai nostri comandi,

tutto arriva dall’assoluto,

tutto può essere nostro.

 

Ascolta la melodia del sempre

dalle pupille sgorga l’incenso,

 

sprizzi di nubi oscure

per chiarire il nostro punto,

 

tutto è nostro,

tutto ruota attorno a quel segno,

 

tutto anche l’amore più urlato,

 

tutto anche l’amore mai esistito,

 

tutto anche me e te.

 

Tutto!

 

Sogni astrusi ma convinti

per sanare le tue indecisioni,

guardo ancora più giù

con vertigini audaci aspettando tu dica

 

sì,

 

è pronto l’ormeggio del desio intramontabile.

 

Tutto è nostro solo per amore,

 

tutto è nostro solo per capriccio,

 

tutto è nostro per delizia

 

tutto anche me, il mondo e te.

 

Due o tre parole

 

Due anzi tre parole nel vuoto,

aspetta un minuto che guardo,

due o tre parole nel vuoto,

aspetta.

 

Le storie di signori

incontrastati dal dominio,

nelle ore perse tra il Danubio e il reverse,

si avvicina la festa di Berecyntia,

allora Lilith pone un guanto nello stagno

con la dolcezza di una quiete mal dimessa.

 

Gli orologi a pendolo

con il cucù,

 

l’integrale inverso

che scapita sulle scale.

 

È tutto un caos,

 

ci pensi tu?

 

Due o tre parole

e salgo su,

 

guardo all’orizzonte il mare,

 

due o tre parole

e mi tuffo nell’immensità

del cielo di Modugno.

 

Sognai passioni inconfessabili

che in limo litis et salis agli opposti fisici

delle sinapsi fecero da giudice,

 

io ti invoco,

 

scendi o dea dai mille volti,

 

il tuo gesto è scaricato dall’ira.

 

Ho perso il sonno

in questo sogno

dall’incenso adorante,

 

le storie non si inventano,

 

scendono da sé

 

come calzate da febbraio

accanto al rimario.

 

Parlami un po’ di te

e delle passioni,

 

io ti invoco Brigith,

 

e mi scordo della 7up.

 

Le ombre della polvere

umanizzate dal soffio di vento,

 

oh passione, passione eterna,

 

rigira l’ LP da te

in mancanza di THC.

 

E la musica va.

 

Trallallero trallalà,

 

banalmente ti amo,

 

dimenticando i fiori.

 

Due o tre parole,

un tiro,

ti adoro Hathor delusa.

 

Ah!

 

Son coriandoli

i tuoi,

buttati all’aria,

vibra il suono,

penso o no,

la mia base musicale

che si perde tra i grovigli

di storie serie

e mai inventate,

 

sentirai la verità che ascende

quieta fin lassù,

dammi il mi, nel bel sì,

tutto fatto alla rovescia

 

e lo dico, ti sei svestita,

campata in aria la pretesa,

e non val la pena sprecare

altri fumetti se fai l’indiana

sulle scale tutta dipinta

tra le tue stesse brame,

 

ok, d’accordo va bene,

scacco alla regina.

 

Ah! che bello il riporto!

lo stavo aspettando

in questa realtà frazionata

 

quoto perfetto,

 

e non parlo del social network.

 

Ah! che bello l’inverso!

 

Lo componiamo

e poi facciamo il reverse,

 

credo che così ti senti perfetta.

 

Questo è il ricordo,

da sfiorire e da capire,

poi aspetto Godot,

poi mi perdo

nella tundra adagiata a dessert del desio,

 

e siamo alla frutta.

 

Questo è quanto,

 

suggerimento,

 

ascolto ancora,

quel folletto,

gira nella mia penombra

il monacello un po’ ubriaco,

è prima mattina,

pensa al tempo,

 

non ci sento

e non penso.

 

Ah! marasma perfetto!

se lo dico e scrivo

ti oscuri e dai senso

al flusso di parole,

ulissico e filmico,

 

ciak al primo arrivato.

 

Ah! che bello così!

Dai non ti spostare

dall’asse cardinale,

vedo che ci sai fare.

 

Questo è quanto penserò

quando in silenzio per non svegliarti

me ne andrò,

 

e non è un tabù,

 

che ne parliamo a fare.

 

Te lo dico così

 

L’antropologia culturale

dell’atomo di idrogeno

che esplode per contorno,

forza, dai, continuate

che le storie sono semiserie,

c’è il fondo di verità nella follia,

puoi pure rimarla.

 

E cosa vuoi che dica del mondo

che mi aspetta,

delle persone che passeggiano

indifferenti e dispettose,

tal altre vanagloriose,

piene di sé e senza rimpianti

cancellano con un colpo di spugna

la gente che diventa fluorescente fluido

da rigettare per i gomitoli di lana

che non sanno tessere o aspettare.

 

Te lo dico così, senza pudore

e farneticando un po’,

 

la folla che ostacola i miei pensieri

mi sta in sordina

se penso fremente a me stesso

incandescente e pronto

ad esplorare ciò che voi non sapete vedere.

 

Un’altra apparizione,

la madonna e la pietas,

nella tundra oscura

 

una ragazza che addomestica

la lonza, la lupa e la leonessa sbronza,

 

le rivoluzioni culturali

seguono soltanto la stima

della musica

e son frutto di una realtà sfiorita.

 

Cosa pensate che vi dica

 

se non c’è più fiato dalla mattina?

 

Sono un semplice balbettante

dinanzi alla verità divina.

 

Che dolci illusioni atemporali,

 

ah! che passioni!

 

Il pensiero nuovissimo

non lo riesco a scorger.

 

L’epoca della vendemmia

è giunta all’ora terza,

 

pensaci un pochino,

se vuoi faccio l’inchino.

 

Sei un miraggio come reggia diroccata

 

Sei un miraggio

come reggia diroccata,

la tua immagine che riflette

sul mio corpo

e vive ancora in me.

 

Sono in un giardino fatato

appisolato

mi immergo nel verde

ma non dimentico te

che sei in ogni cosa

stupore e disincanto.

 

Ho una vertigine

 

assurda

e mi viene la voglia

di ritornare a un passato

indefinito e lontano.

 

Un sapore disperso

e spaurito sono ora io.

 

Nei roveti roseti turbati

e tanti diademi trapunti

dalle dodici costellazioni

ed immensi come un retrogusto

d’infinito sono i giorni miei

che trottano a ridosso

di un eterno ritorno.

 

Nella foresta nera

un’atroce rimessa di fiati

che accordano la voce

ad ogni tuo passo felpato,

 

come pioggia il manto

che hai appena tracciato.

 

E come vorrei fissare questo momento

su filigrana

ma passa il fluido nascosto

del senso della parola

ad una velocità superiore

alla luce

ed ogni tempo si confonde.

 

Piove

 

Piove

sulle tamerici riarse

dal tempo perdute

e dal senso delle tue parole confuse.

 

Averti è ormai il passato

ma sei atroce.

 

E sento che non c’è più

il verso di ogni lacrima

che ha perso direzione,

 

ti schiarivi nell’autunno

mentre l’estate mi aiutava

a conoscerti ma come eri

e sei veramente

lo avevo solo sospettato

 

e, credimi,

fa troppo male

il sole del mattino

quando sveglia tu non sei più

al mio fianco,

 

e ignorami,

inventa un’altra scusa

ancora ora

che non siamo più insieme,

 

spreca una parola maledetta

ora che non mi puoi far male

perché ho già sofferto

e questo non lo puoi sapere.

 

Piove ancora

nel campo dove i fiori

germogliano malgrado te.

 

Averti è ormai

solo un sogno

ma adesso che non ti ho

più al mio fianco

forse

potrebbe essere il futuro,

 

un sentimento che sgusciava

via dalle mie mani

e credo che era solo un sogno.

 

Piove e non so aspettare.

 

Aspetto

 

Ma sono solo fitte speranze

quando respiri piano

appesa a un punto di domanda,

oppure all’angolo di quella strada,

 

così, giusto un po’ immersa

dentro i tuoi pensieri

mentre un attimo di sfuggita

mi guardi,

 

come un passante che attira attenzione

chissà per quale misterioso rito

ti ascolto e ti sento

a me un poco più vicina,

 

saranno gli occhi

o forse il tuo cappello,

sarà il tuo volto

che sembra da ragazzina,

 

così, dicevo,

ti ho più vicina,

 

guardi l’orologio

come fosse l’ora determinante

in un rapporto

e poi ti accarezzi

il polpaccio con la suola,

 

guardi a terra rimuginante,

è solo fiato sperso tra le piante,

credo sia questa la tua conclusione,

 

scisso lo ione come fosse

indivisibile iato,

 

sillabeggi come fosse niente,

e me ne accorgo dal tuo dito

sospeso

che come in bicicletta ondeggia

e divide con sapienza

le mie parole in sezione aurea,

rispettando metriche duecentesche,

 

è solo un attimo per le chiare acque fresche,

adagi infine il tutto su un pentagramma,

il rigo musicale lo leggo

e un po’ mi piace,

 

ricorrono le stesse parole

ma le note sono così disilluse

da farmi sognare di andare distante,

su una nuvola lontana

o in altri paesi,

 

lo vedi che non ti sei arresa

e neanche io,

è un balaustrino che ci rende

perfetti

 

leggendo le nostre balbettanti

imperfezioni

ed una nuova marca,

un marchio,

un simbolo od altro

racchiuso dentro al libro,

 

per pudicizia sempre chiuso

e sigillato,

me lo porgi con longhissima manu,

sembri avere ius vitae ac necis,

 

che bello quel pensiero di rivolta,

giochi col fuoco, cara,

e si sta facendo sera,

 

in piena notte so che leggerai

o con un dito in bocca solo immaginerai,

 

e giro l’angolo

e non mi hai più in traiettoria,

ogni balistica è stravolta

dai tuoi sguardi

 

che piegano palazzi e sassi,

 

in un attimo è la confusione

che ti raddolcisce,

 

ma poi sicura prendi

e sfoderi la spada triste

dalle tue labbra in movimento inclinate,

pallida e dolce in un secondo,

 

e te lo dico topomasticamente,

non ci giro attorno a quell’intorno

costruito, ma come fai a pensarci?

miri il dito ormai trafitto,

sembri morente quando tutto

è chiaro,

su per le scale del gaudio inesistente

e vago, ecco, vedi,

sei sullo stesso piano

e non ti inclini

con la metafisica di un autotreno,

sei irrigidita ma sorridente,

hai solo un attimo per i pensieri in fuga

mentre ti sento trottare e roteare

come dardo astrale.

 

Comunque se non vuoi è lo stesso.

 

Come ti posso contenere

con la musicalità delle mie povere

e sempre le stesse parole?

Potrei provare a disegnarti

se il tuo volto non mi sfuggisse,

ma in ogni istante di questa primavera

anticipata germoglia già il pesco

e non te l’aspettavi,

 

germoglia dalla mia finestra

e giuri che non ci credevi,

con un atteggiamento sbarazzino

sai socchiudere e lasciare immaginare

le porte del destino,

 

amore

è come mandorlo confuso,

verrà il giorno e avrà il tuo nome,

impresso sulle soglie in declinazione,

santi numi mi pensi!

 

è tutto appena appena sperato

e nato,

mi sai confondere

e come te poche ci riescono,

bellina mia, mia dolce,

per te sta calando il sole,

per te le stelle e la falce di luna

che sorride beffarda ma silenziosa

e fissa ti guarda e sa capirti,

 

ecco che scende la scala musicale,

con la chitarra proprio mi vuoi cercare,

guardi diritto e sai di avermi trovato,

ma poi ti fermi e non sai finire

 

e così dici ho poco da spartire

con i miei stessi spartiti

che viaggiano da soli,

partiture come flussi di coscienza,

 

è l’attimo della tenerezza.

 

Comunque se non vuoi è lo stesso.

 

Ah! o mio dio!

 

La musica governa

ogni evoluzione culturale,

e così lo puoi capire,

adoremici che credete nei numeri

senza contare nella loro

intrinseca unicità sonora.

 

Non credo sia dedotta

la frase che ho scomposto,

Hegel era un coglione,

Aristotele lo sa pure fingendo

che ad un certo punto l’uomo

si fermerà,

ma credo, e qui Darwin non lo sostengo,

che non è mai iniziato

un mutamento

che la realtà è unica

nella sua staticità.

 

Ah! o mio dio!

 

Fingendo indifferenza,

la tua incredulità mi fa un baffo,

sai.

 

Non mi tange la tua stupida verità,

gli ideali, il matrimonio e la famiglia,

che realtà imborghesita e monocromatica.

 

La benedizione fa un ammicco

alla reale condizione di castità,

 

ci credi per davvero all’inscindibilità?

Le tue rivelazioni a mezzo tono

sono sempre le stesse.

 

Che pensieri sociali,

odio la società preferisco

una comunità d’intenti

non viziata dal pregiudizio dialettico

della tua imbecillità parascolastica

e parascientifica.

 

Ah! o mio dio!

Ci credi veramente?

 

È una follia la mia vita,

ma mi sta bene così.

 

L’evoluzione culturale

dipende dal tuo gusto musicale.

Non credere neanche un attimo

di poterne fare a meno,

 

è la sfericità delle iperbole sonore

come Venere strabica

che ti rende perfetta.

 

Ah! o mio dio!

Ci credi che basta un dito.

 

Ah! o mio dio!

 

Piccola Selene

 

Gli odori soffici

della nuova stagione balbettante,

appena appena stonata.

 

Gli odori

mi invadono le sfere eteree.

 

Passeggio tra le strade

gustando infusi di marzapane,

in sul monte della verità

rivoluzioni eterne,

 

c’è necessità di incubi svelati

per divenire esseri entropici dei sogni.

 

Gli odori dal vento cullati

nel mondo inclinato

di questa dimensione

di cui non sempre vediamo

la sfericità imperfetta,

 

sto bene senza,

dici impiegata come un bosone solo,

 

questa frase è falsa.

 

Gli odori della realtà di Maya.

 

Pulsazioni destromani

e perversioni mancine e strabiche,

 

qual è la verità?

nulla indulgentia sine scientia.

 

Custodi un po’ stolti

dei misteri egizi,

introiti in sé incupiti.

 

Gli odori dal senso svelato nel verbo.

 

Gli odori per te piccola Selene.

 

Bacio di Giugno

 

Quando il sapore del canto inviolato

stringeva nel volto

una nuova incursione

del logos che dal fiato

come indomita brezza

portava al concreto

io stesi le parole

e rimasi in silenzio

ascoltandoti ancora

pronunciare le tue superbe

dolci effusioni.

 

Era di maggio

oppure di marzo

che il tempo stringeva

ed andavi veloce,

 

più chiara ad ogni incitazione

ed era solo l’inizio del vanto

e notte si fa.

 

Tu mi premevi il corpo

col ventre dicevi

parla ancora

ma io più mi chiedevo

e più non sapevo.

 

Era una storia scalfita dal fuoco

e ora è solo un miraggio autunnale,

una scusa,

qualcosa che non so più ricordare.

 

Stringimi più forte

dicevi invadente

ed io lo feci soffuso

a palpebre dischiuse

 

mentre il canto proseguiva

ed io imbavagliato un accordo

continuavo a seguire.

 

Era il sapore

del bacio di giugno

o un precluso venir mano mano

nel senso di questa attuale,

spietata eppur incantevole primavera

che i fiori rinchiusi liberare mi fa.

 

Era o è,

cosa mi dici al trasbuardo

 

era l’ultimo sguardo,

una storia che nella genesi

trova l’epilogo,

 

era o è ma così è sempre stato

mentre cambi aspetto,

pure tu coperta dalle viole

o dal pesco,

 

era di marzo,

era che il giugno fiorì.

 

Io criptavo messaggi segreti

e tu li decriptavi paziente e indolente,

dov’è l’arpa? dov’è il pizzico o il volo d’augello?

dov’è il mantra incastrato?

oppure dov’è il mio rimario?

 

Fa un po’ tu,

io resto sullo scoglio a guardarti.

 

Era di giugno

e non me lo scordo

se il marzo inviolato

è passato col rosso.

 

Goccia di te

 

Una goccia di acido acetilsalicilico

nella mente in giro solforico,

ogni cosa a collo di bottiglia

tra le mani agitate nella soluzione.

 

Un ricordo inconciliabile

con la tua celebrale iperattività

ma non mi rispondi se voglio cercare

la fonte imprevedibile

dell’elisir filosofale aureo,

 

come dall’imbuto su posto fluisce

lo scritto di ogni libro

e il certame di ogni libero pensiero.

 

Ecco là, ecco lì,

che si può continuare anche solo sì o solo no,

comunque trovando le risposte

a quello sconfinato mondo

che hai dentro sopito

e che si vuole risvegliare.

 

Pensaci ancora!

 

Suvvia inoltrati

e non aver paura.

 

Ciò che poi nascerà

dal mondo nostro sepolto

non è ritrosia imperiale

ma sapienza sesquipedale

e chiara come la tua mossa fulminea.

 

Abbracciami!

 

Suvvia lasciati andare.

 

Penso a te ed ogni cosa

è stoltezza e miseria.

 

Penso a te ed ogni rivoluzione

è fatta solo a tua immagine

e simiglianza.

 

Penso a te ed ogni intrusione

è solo vispa abbondanza.

 

Penso a te!

 

Ciò che è in subbuglio in me

è frutto del tuo sguardo introspettivo

e di ogni cosa che riguarda il volto

e te,

 

l’aspetto linguistico

di un gioco intramontabile.

 

Poi improvviso un raggio di sole

e un incontro desiderabile

e post meridiano

e direi telepaticamente sconnesso.

 

Adorabile!

 

Scaglia ogni vuoto inesistente

perché stracolmo della tua

magna intelligentia

 

quasi al di là di ogni umana comprensione,

potresti anche stare in silenzio,

intuirei comunque il tuo verbo

perché spirito della tua immensa

apparenza manifestabile.

 

O sì o no

è questo il dilemma,

 

scegli un teschio per porti

sul baratro,

 

ma non sai e non vuoi varcare

il confine se trapunto

ed infestato da insuperabili spine.

 

Ciò che per me rappresenti

è l’oltre limite,

è il limite di ogni destino

ridotto a cenere restia

ad ogni insensato mutamento,

statico è il tuo essere divina.

 

Penso a te e si apre il cielo

perché sei in me

ed al di fuori

mia illuminata rappresentazione.

 

Penso a te

e credo fermamente in me.

 

Penso a te

e spero solamente

in un tuo inclito sguardo traverso

e perciò stesso immenso.

 

Penso a te!

Ciò che ascolto dentro te

è la paura del domani dileguata

e fondata su un pensiero

che irriducibile affonda

ogni flotta avversa

e la rimette a pacifica resa

intermittente del tuo saluto

in me gaudente.

 

Profumo di pollini altezzosi

 

Potrebbe essere vera la conclusione

in confusione,

le spiagge già dicono di sì

con brezze primaverili.

Potrebbe essere anche vero

che sull’asfalto si intravede

la luce della concupiscenza

e flotte ingiallite di sigarette

e gomme atomiche

di stile corinzio come colonne

piazzate a punto fisso

su un filo di Arianna

piantata in Nasso e solitaria

sull’isola mentre assurge il drappo nero

e il Minotauro si rincresce

dell’accaduto attendendo soluzioni

o continuità

curvo e spaurito

alla fermata del treno,

 

regno mai più violato.

 

Il profumo di pollini altezzosi

incupito dal vuoto dei tuoi silenzi,

silenzio alessandrino

e in codice mattutino

di finte speranze

vendute a poco

su piazze giganti e restie

a compromessi dialettici e immensi,

sviliti, traditi.

 

Le mastodontiche sentenze

dinanzi a un rifiuto

smantellato d’assenzio,

 

le prime scorie di basalto

pongono assedio.

Il pianto si confonde

col clamore

 

e si accende di soppiatto.

(Le guardie in tenuta da spola

guardano intralci alla deriva generale).

 

Nel porto un sapore ditirambico,

sguardo nuovamente perso

alla tempesta

che si affaccia in orizzonti troppo lontani,

è solo apparente la momentanea quiete,

sogni mai sfioriti e divertenti,

prorompenti.

 

Lo zoo di Berlino

 

Io ascolterei

il lento soffuso tepore di te

in quanto piangerei

vedendoti ancora.

 

Io annuncerei

motivi di strada

perché la tua essenza più non svanisca.

 

L’ago trabocca un poco interdetto

e scende a lambire la tua pelle svilita,

la ascolto e ascolti anche tu

la mia melodia, la vivi

al di sotto di ogni vera passione.

 

Io spenderei

altre due parole

perché in preda a questa mia follia

ti veda ogni giorno

nei miei gesti puerili.

 

Io continuerei

per farti pensare

ad un anarchico Nietzsche

che fissi atmosfere

e con i miei occhi ti squadri.

 

Riascolto di nuovo la tua voce,

vanagloriose memorie sospese

che raccolgo da inutile stilita

ritirato sul Monte Ventoso,

ogni sua incitazione

mi freme nel cuore

al punto che non la so più scordare.

 

La sento e si trascina sotto pelle.

Ancora,

sì.

 

Il pensiero è senso

 

Ho posto condizioni

in giorni a ciò protesi,

descrizioni minuziose

di mosaici in sé imbalsamati.

 

L’atmosfera è incline a rendimento,

tra le viuzze dei tranvieri del triumvirato,

cardi e decumani attendendo

i passanti stanchi.

 

“Dixerat astrologus

periturum te cito,

nec, puto,

mentitus dixerat ille tibi”.

 

Il pensiero è senso di Diocleziano,

dei compendi e delle istituzioni di Gaio,

Giuliano è l’apostata del significato

ed è imbronciato

nel contemplare divinità silvane.

 

Platone al centro del discorso

scambiando le battute

tra i salmi della Thorà,

prendendo posizione

tentennando un po’ all’inizio

e poi sciorinando versi di Ovidio.

 

“Ecce, recens

dives parto per vulnera censu

praefertur nobis sanguine

postus eques.

Hunc potest amplecti formonsis, vita,

laceris?”

 

Vero e ci credo

 

Il vento tra le finestre,

mille colori la primavera in città,

per le strade ragazzi a giocar,

pochi spiccioli in tasca.

Vero e ci credo

 

che la tua essenza trascenda

l’umana comprensione

per la bellezza che comunica

a chi ha occhi per guardare,

 

il tuo volto intrepido

dagli occhi vispi e sognanti.

Un tempo eri mia,

amica di ogni giorno.

E il vento continua,

 

un brivido caldo dietro la schiena,

sembra spingermi a buttar giù

le tele per guardarci di traverso,

il vero essere di te.

 

Nei tuoi jeans e nel capello

un po’ scomposto,

nel tuo corpo

di quando eri

cinabro tra i capelli,

 

più ci penso e più ti immagino,

ogni lingua tremando muta

si pone ai tuoi piedi

e la diatonica diventa

stupore universale.

 

E quando chiacchieravamo

all’ora di rientrare

era notte inoltrata e già lo so,

non fummo mai prigionieri

delle convenzioni

né lo siamo tuttora,

 

io e te unici al mondo

sincretisti senza aporia

di leggi universali,

 

coscienti almeno

per pura spinta spirituale

del Karma che ci governa

e invade tra le nostre labbra

in visibilio

che fremono amore.

 

Il vento è irrefrenabile,

urlo soprano

sulla settima corda

per precedere la nona,

 

una quinta diretta

con grazia tra le tue mani,

 

e sì, raramente ti incontro

di sfuggita ancora,

anche se il mio verbo esulta

è difficile comporre parole

dinanzi a tale specchio ribelle.

 

Rimarchi la pretesa

 

Rimarchi la pretesa

nella duplice scoscesa

spiaggia ondeggiante

tra le prove e tra le bisacce,

 

le mie tasche.

 

Puoi dimenticare

oppure non fiatare.

 

Chiedi scusa,

posso passare,

due lire tra il crinale,

nella guerra persa dalla pianta

che protende rami al cielo.

Puoi passare,

 

ok hai voglia di gridare.

 

Hai il ricordo impresso

come cartongesso nella mente,

gomma pane ad impostar

la voce senza vocale

impronunciabile e vitale.

 

Nell’aria rarefatta

ti pieghi tracciando

la circonferenza

e senza dualità cominci a fumare.

 

L’inviolabile dittongo

è un miraggio nel giorno afoso

ed infossato,

 

un po’ carino mia biondina

dai velati arpeggi inconsistenti.

Ok parla pure,

 

ma giusto due parole.

 

In ogni verso scorre

senza resa il flusso illusorio

del tempo.

Scaturendo in sensazioni,

 

vai aleatoria,

con la tua unicità superi

le tue stesse insicurezze.

 

L’elmo in capo

è corona d’alloro

nella pax universale,

triplice ardente stuola sola suola

 

capovolta nel trittico intonato,

la musa e l’atomo si scindono

in energie sovrumane,

 

più del vuoto può il sussurro

dell’amore tra le grondaie festose.

 

Le passioni che riponi

si tramutano in legge.

 

Distrattamente

 

Distrattamente

tra la luce della finestra

speravo in una futura ascesa,

 

primavera due o tre pagine

della mia stessa chimera,

 

sogni sfiniti sui libri.

Forse mi chiedevo

se l’inverno è valso a qualcosa,

 

forse non sapevo

ciò che so ora

che sono in confusione.

 

Ti guardavo con occhi puri.

Parlarti non ha oramai più senso

nei miei deliranti discorsi controvento,

 

parlarti era un po’ tutto.

 

Ora tu non sei più la stessa

mia cara,

non sei come ieri.

 

Distrattamente sporgevo

lo sguardo più in là del monte,

le storie velate,

le tue splendide trame.

 

Forse era il dominio tuo

eguale sul mio,

forse non era l’ora,

ma ti ammiravo.

 

Parlarti era ciò che credevo

fosse vero

ma in preda al panico

nasceva la tua indifferenza.

 

E così non sei più tu,

e così non sei quella di prima,

 

di ieri,

 

dei giorni di splendore.

 

Non sei più tu.

 

 

Ciò che penso e vedo

 

Ciò che penso e vedo

è il ricordo di un silenzio teso

all’alba senza redenzione.

 

È quell’innaturale gioia delle persone

tra le mie dita.

 

È il buio totale nelle parole

a vanvera della gente,

è un dissenso come restio

all’intramontabile destino.

 

È  un rimbombo di tuoni lontani,

un fulminio di auto usate e consumate

come tamburelli zingareschi

ed eclissati dal tempo

in cui non c’è più bisogno di senso.

 

Sì.

 

È un po’ un essere desto

nelle notti in bianco

 

è un po’ un dimenticarsi di dormire

vivendo nel tepore,

girati come girovaghi nel letto

ad inumidire gli occhi.

 

Come il passare dei giorni

e l’offuscarsi dei sogni,

come un incubo in realtà mai

così denso

e le glorie di delirio folle

ed infine il suono lontano

di una viola come unica cosa

che resta all’estate che si appresta

e già scioglie la veste

rovinata infondo al mare.

 

 

D’altronde

 

D’altronde

questa baraonda notturna

è influsso lunare sul mio umore.

 

Nell’incandescenza spiritica

un che di spirituale

 

nel flusso notturno in subbuglio.

 

Nella temperanza dei tuoi occhi

accesi come foco,

ci basta poco per volare

su strade trascinandoci

a colpi di libeccio etereo,

 

non c’è la giusta premessa

ma la creiamo nell’evasione.

 

Credi pure a ciò che senti,

non dar peso alla vista fugace.

 

Credi pure alle sensazioni,

 

lasciati andare.

 

Credi pure al di là di ogni immaginazione

e con sapienza sguscia

tra le parole col tuo far felino.

 

D’altronde nella confusione

pensavo intensamente

ai tuoi sguardi abbaglianti e puri.

 

Nell’entusiasmo si incendia

lo spirito amante.

 

Nella verità raggiungiamo

i più impensati sentieri della conoscenza,

 

non c’è spazio per ignoranza

o errore fatale.

 

Credi pure alle mie illusioni,

sono il senso,

 

l’unico reale.

 

Credi pure alle deduzioni

dal particolare nasce ogni giorno

un fiore sbocciando irreale

come germoglio tra i nostri discorsi.

 

Credi pure a tutto,

 

credici fermamente.

 

Dopotutto è questa la strada,

l’incubo non ci avvolge,

non ci tocca

ma sfiora sul filo dell’abisso.

 

“Sicut amaracini blandum

stactaeque liquorem

et nardi florem,

nectar qui naribus halat,

cum facere instituas,

cum primis quaerere par est,

quod licet ac possit reperire,

insolentis olvi naturam,

nullam quae mittat naribus

auram, quam minime ut possit

mixtos in corpore odores

concoctosque suo contractas

perdere viro,

propter eandem rem debet

primordia rerum non adhire

suum gigundis rebus

odorem nec sonitum,

quoniam nil ab se mittere possunt,

nec simili ratione saporem

denique quemquam nec frigus

neque item calidum

tepidumque vaporem,

cetera, quae cum ita

sunt tamen ut mortalia constent,

molli lenta, fragorosa putri,

cava corpore raro,

omnia sint a principiis seiuncta necesset,

immortalia si volumus subiungere

rebus fundamenta quibus nitatur

summa salutis;

nec tibi res redeant

ad nilum funditus omnes.”

 

Da sopra a un albero

 

Da sopra un albero

traccio l’incoscienza

e l’anima la sento

nell’applauso e nella gloria sfinita,

 

parlerò ancora e ancora mentirai

guardando questa scena

come spettatrice esterna,

 

sarai in preda a questo spasmo

tutta dipinta di fragole

 

e di albori nati da poco.

Dall’abisso

mi vengono idee testarde e inutili

 

clamori che vanno

man mano in disuso,

 

frasi sconnesse eterne estese

lacrime dal punto di domanda

del tuo fare interrogative retoriche

 

mai così vive

come quando fuori piove

o trama tra le squame bagnate

e traspiranti dell’assenzio.

 

Banalità ripresa che distrugge

ogni correre qua e là

tremiti intensi

tra vespri e libertà,

 

due nastri grigi tra le labbra e la follia,

soffici bolle decorate

al mio maggiore incanto stonato

e posto come idea

dalla tua veste scintillante

più purpurea dell’intenso

 

scadere tra pagine fenice.

Non fuggire tra i cespugli

e i cespiti ingialliti,

 

non sfiorire

mia eterna unica follia.

 

Poi in silenzio ti prepari al viaggio,

non hai sincerità che possa chiederti

a quando ma soltanto quell’intensità

che porgeva adolescenziale

velleità

a tratti di spuma

 

e resta lì sospesa

a vanità

 

nello specchietto riflessa

e santificata

 

con l’incenso del perdono,

 

nel mio ricordo frutto

di doni imbiancati.

 

Inutilità paonazza posta un altro ciao

tra il cablaggio stanco

di inestricabili domani

vissuti già da oggi

da questo istante che già piange

coperto delle velate ortiche

che incutono timore nel buio

del tuo cenno turchino

 

occhi ormai dimenticati,

vai via davvero

 

e non so decifrarmi più.

 

Non fuggire come cerbiatto tra i licheni,

 

non sfiorire mia inutile verità.

 

Chiuse le porte della conoscenza

 

Chiuse le porte della conoscenza

spalancate nella prima metà del secolo

per coscienza,

 

nel tepore lunare mi svestivo.

L’erba della quinta ondata

sparsa nella celebrale dialettica entità.

 

Credo nella mia incoerenza

con tanta clemenza,

 

credo a volte a ciò che dico

per temperanza.

 

Sapori deliziosi

nell’alabastro delle coppe,

miele mischiato ad ambrosia

per colorire il senso,

 

la mia vera personalità

nel fumo della stanza incalzante

 

e musicata.

 

Credo che questo pensiero

sfiori corde dissipate,

 

credo per sentito dire

all’anima del mondo

 

che come vortice in ascesa

risucchia lo spirito

della resa ad occhi chiusi

e fantastica nell’assurda meditazione

sul cobalto,

 

presenza intensa

di ogni promiscuità eclissata

 

dalla purezza del tuo sguardo

e del tuo strano cenno.

 

La passione

 

La musica col suo riverbero

ha spaccato,

nella penombra del mio passato,

 

comunque le sensazioni

sono all’ottavo grado

nello sfinito astruso mio fiato.

 

La passione è un’illusione

che vampa con grazia innaturale

e accende un fuoco indissipabile

sulle nostre sensazioni.

 

Nelle tue dolci lentiggini

da fiore sbocciato sei protesa

verso confuse irrealtà,

 

hai bisogno di svelarti come sei

o rimanere chiusa nel tuo guscio

inaccessibile e misterioso.

 

La passione mi manda in confusione

e stordisce come intatta

sul tuo volto,

 

tiene un po’ di tempo preso al volo.

 

Il fumo sulla cattedrale

pensando all’oggi,

parlare all’inverso

di Baudelaire e dell’assenzio.

 

Il baldo sul fuoco

Il bardo in bicicletta

timido

Dilan Dog.

 

Sembrare un po’ assorti.

 

Assopirsi.

 

La passione che sfiorisce

è il nostro sommare intenzioni spoglie

e tiene viva la pretesa

della nostra vita intensamente

e un po’ ripresa.

La passione primordiale non perisce.

 

Per te

 

Il quesito scucito

e preciso.

 

Le civette affacciate sul parquet

domandandosi a tratti perché,

 

la ragazza spara,

ha già dipinto il vestito

e si è scurito il viso

 

del dilemma cavalcato

nel lemma aforistico e senza pietà,

 

potremmo sognare,

continuare a farlo,

 

residui della vecchia guardia

a fumare sorseggiando vodka

come fosse caffè,

 

forse erano le tre.

 

Per te.

 

Il fiore ormai è trapassato

ed il moderno è quello che era stato,

 

dolce la fragola nel gin

accompagnata col bignè,

 

santi sono i numi,

canti sono i lumi

tesi in inversa processione

 

audace sulle mendaci trame,

 

questo è il punto

o Lou von Salomè.

 

Con le bastardate i caini del sufflè,

con i piedi nudi in ascensore

scavalcando il giocoliere

che fa a pugni con me

tra dardi e birilli sordi

come trilli,

 

poi all’improvviso un’ ombra sul tuo viso,

 

disse qualcuno,

 

vasto il melodramma

della mia volgente flemma

all’interno dei sogni

 

e allora se è per te

sono al corrente del dessert,

 

visioni si materializzano

nell’inconscio ormai deriso

e io sono qui per te,

 

e piove.

 

Per te, per te.

 

L’alba era rinascita

ma la nuvola mi fa capolino

e l’alma nel mattino

piange attendendo la sera

nello stesso istante in cui parli di me,

 

l’intervista al rostro imperiale,

 

parlare con oltraggio

senza aver timore reverenziale

e ponendo sotto i piedi

il sordido principio d’autorità,

 

ecco tutto questo è per te,

 

potremmo scriverlo

o magari masticarlo

ovvero sorseggiarlo un po’.

 

Per te, per te.

 

 

Cromatura dark

 

Parlando a briga sciolta

nel deserto infausto

del silenzio e del tormento

trovo te.

 

Come stai? Che fai?

È l’età la tua dualità!

 

Va be’ diciamo se l’intenso

inverno si nidifica

e le tensioni moltiplica.

 

Ok.

 

Vai così,

 

strofinio.

Da beata fonte

sorge il mio languire,

 

Artemide è già qui

e tu in ritardo sacerdotessa sei,

volessero gli dei

mi ti ci penserei, vorrei, farei,

 

sciogliti nel gesso.

Cromatura dark.

 

Mi basta già la penna

che possa scrivere

e te con i tuoi urlettini audaci

amore mio già sei

perché dicesti lo dipingerei

 

il volto tuo su filigrana

e tu compari e vai,

ti spargi nel via vai,

ripetizione danzante sei.

 

Bagliori.

E puoi partire

 

con il biglietto obliterato anni fa,

che dolce sei,

che belli gli occhi

per cui perdo il senno,

 

ed è tutto ok.

 

Io ti guardo

desossiribonucleica mia,

 

sei proprio tu.

Ok, lo so che gli anni passano

e come cicatrici qualcosa lasciano

e la partenza ormai incombe

 

su, non fossilizziamoci,

un cambio c’è.

 

È tutto ancora ok.

 

Momento propizio,

Cromatura dark.

 

Vai così sei perfetta

nella giravolta che maledici

e fai lo stesso in vertice

e muretto scavalcato

schizofrenico l’ardire

un po’ frammentato

dei nostri progetti protesi

verso l’attimo

 

che ora rappresenti ed è.

Cromatura dark.

 

Come stai?

Sciogli la neve,

 

piove già mentre ti asciughi

il colore dei capelli e pensi a me.

 

Va bene così?

Mantengo l’elastico

mentre ti snodi e fai.

 

Già troppo dai.

 

Te ne ravvedi

ed eclissi tutto sul rimmel.

E come va? È così ancora?

 

Tu sei splendida stasera,

manca qualcosa,

un nome o una persona

 

ribonucleica.

 

Serata splendida, ok,

va bene,

 

sei fumante ed io ti ammiro.

 

Aprile 22

 

Ciao, mi faresti accendere per piacere?

tre litri atroci,

due spose e tremila deludenti,

scadenti tridenti per sognare

notti al mare, lascia stare,

fra le scuse nelle frasche

sono a respirare aria

da centro sociale,

 

sale sulle scale

delle tue vocali

la mia mano intrecciata

dal legame intenso del senso.

 

Vedo, ciò che vedo,

 

fallo, ti prego, ci spero,

non trovo pace

nelle discussioni intramontabili

mentre ti penso,

 

sei densa come erba,

ti sgretolo tra le mani,

 

preferisci se faccio subito

ovvero aspetto,

 

d’accordo.

Pensi, tu

davvero,

 

ti rincorro per averti in cartolina,

risentirti mentre scruti la mattina,

 

i tuoi piedi intorpiditi nel risveglio,

tra la nebbia delle mie sigarette

ci credi,

 

strizzi l’occhio

come avorio è il braccialetto,

 

l’estensore ti strofini

e dici mai mi alzerei dal letto,

vorrei dire le assonanze vespertine,

ripetute come respiri del male,

mi concentro ancora per due ore,

 

sei davvero complicata con stupore,

guarda fuori come è bello

fa capolino il sole,

se rimani ti richiedo,

vuoi restare? è aprile,

se sul bordo della sera

facendo un altro tiro

ci pensiamo,

 

abbiamo navigato troppo

con la fantasia,

 

o forse no,

mi sai dire il giorno e l’ora

con precisione,

 

si sottende ad un pensiero

ma si stende una vocale sul sale.

 

Io ci penso ancora, anni tanti,

ci vedo ancor quel poco di tenebra,

 

i nostri sogni apocalittici

e gli uguali segnali del destino,

ti direi ti amo, ciò che voglio non so.

 

Io ci penso ancor

a quel raggio che sei tu,

 

un raggio oscuro che investe

e tutto copre con dolcezza

e delicatezza,

 

col tuo solito fare moine

ed effusioni rinate

come catene che apri

e poi richiudi

nelle occupazioni notturne.

 

Ciao, per favore,

mi sfioreresti le labbra

con la tua solita grazia? prego,

sono pronte,

 

manca poco ad un intrecciarsi

di illusioni, sia gentile mia amata,

lo faccia subito,

 

bevo un sorso

mio angelo azzurro

pur inumidendo il resto

 

ma è un residuo del mio nulla,

allora? Sei pronta?

 

Caravaggio sembra

l’incisione del mio cuore,

tu come sei precisa questa sera,

 

ognuno di noi ha da fare,

ma adesso per favore

non ci pensiamo,

 

proseguiamo con le prose liriche

in chiaroscuro,

che docile, cominci a danzare

 

ma sei pronta ad azzannare

le mie labbra come fossero ciliege,

miele,

 

ok, d’accordo,

leggi ancora

manca solo qualche ora.

 

Io ci penso,

ci penso tanto

ed è assurdo lo so,

 

ci penso per ricordare le strade.

 

Io ci penso ancora,

 

ci penso per guardare

i fari delle macchine

e le dita ingiallite

dei freni roventi

sulle sabbie mobili del tempo,

 

ci penso.

Io ci penso

 

come se attraversassi

il sentiero dei mie giorni,

 

vapore l’erba si consuma.

 

 

Nel trapassato soffuso

 

Nel trapassato soffuso

ricordo oscuro,

di pomeriggio,

l’afa ricordo ancora,

con il pensiero rivolto a te

 

ti ammiravo mentre guardavi

la leggiadria delle correnti avverse,

delle ondate iconoclastiche

di pietà mondiale e spirituale,

 

l’anima la tendevi già

verso l’infinito,

per le tue rose in pieno agosto

andavo pazzo,

 

eri la più bella,

sai?

 

Era ciò che poi è stato,

tu mi ascoltavi mentre fingevo

e ti porgevo la mia innocenza

rivestita d’amarezza,

 

il tuo ritorno al paleolitico ingorgo

imbalsamato,

 

non lo ridico per non sfiorire

ma l’attimo davvero ci fu,

 

poi si annidava sopra i nostri occhi

stesi nel godimento la passione

e ciò che restava della serenità,

 

forse è per questo motivo

che l’intento ormai è svanito

ed il tempo è passato

senza conseguenze

ma prendendo con sé ciò che resta

del mio tributo, o cara.

 

Una parola viene o non viene,

lì parlava l’umidità delle nostre labbra

esplose in un bacio,

 

sì ti pensavo mentre ti vedevo

ed era passato l’attimo dell’abbraccio,

 

ti adoravo senza gloria

come un forsennato

e il momento venne da sé,

 

ti desidero ancora, sai?

Ed ora che sono

all’ombra del ciliegio

e penso a quanto ancora sento,

 

le sensazioni vanno e vengono,

mille pulsioni mi rinvigoriscono.

 

Le tue splendide giunture

e il taglio degli occhi riflessi

come su specchi d’acqua bramo

 

perché sei sempre dentro me.

 

Mia cara, dove sei

scissa in prosa e trafitta

 

che sarai e che farai

senza poter mai più rinnovare

il cenno col capo

come quando dici no?

 

Ti desidero e lo ripeto.

 

Fuori da questo illusorio tempo

ci lambiamo ancora

 

come due scampati

all’ultimo sbarco della vita.

 

Perché non mi appunti

più le tue iniziali

e le conclusioni sulla pelle?

 

Hai steso il sogno un po’ sbiadito

e l’hai riposto nella valigia

pronta a partir,

 

all’improvviso ti ho chiesto

se il ricordo è più forte del pianto

e tu sorridendo hai chinato la testa.

 

Ed ora ti voglio più che mai,

lo sai?

Ci penso ancora alle tue stupende

sottolineature sopra i nostri manuali

da sbirciare come facevi

tu quando disegnavi distratta

e vanagloriosa.

 

La tua voglia era immensa

e non dimenticai

perché così è la vita,

 

ti imprime le parole

e i gesti su filigrana,

 

mi fa bene un poco d’aria.

 

Mia cara ora che si fa?

Dove è la verità?

Noi siamo legati da indissolubili trame.

 

Al di là del bene e del male

viaggiamo con la mente ancor,

 

sei qui?

 

Potresti uscire col vuoto della sera

 

Potresti uscire col vuoto della sera.

Non pensi di me per incisione statica.

 

Una soluzione ibrida e tenue,

un pensiero e un ricordo

come dissi e sempre dico,

 

un sogno desto

per illuminarmi di immenso,

 

senza paura e senza panico.

 

Siamo nati dal disdegno

del futuro intrecciato

con le follie della notte

che ricorda fiumi d’autostrada,

 

solchi tracciati e poi sepolti.

 

Parli.

 

Prepararsi con ritegno,

fare il bagno al mare

e non guidare spiriti avversi

affogati in tracce di benzodiazepine.

 

Bruciare di passioni mai arrese,

correre a perdifiato senza più fiatare.

 

Nell’ingorgo americano

cercare melodie londinesi

e sciogliere il ghiaccio nell’infuso,

 

intruso.

 

Ascolti.

 

Accendo una pall mall

e spengo il cuore.

 

Profumo di vaniglia

invade l’olfatto tramutato

il tuo sospiro in candido felino.

 

Duplice parossismo.

La carestia di parole ed i concetti,

 

guarda, sempre gli stessi,

avrei bisogno di mutare il trambusto,

di guardare fisso negli occhi

il mio gatto per ispirazioni

a perdifiato.

 

Come adulati dalla sorte,

in bilico tra cielo e monte

puntare il dito indicando

la prima stella mattutina.

 

Ancora,

 

stop.

 

Andare come un vaporetto,

forza scendi dal mio letto,

 

stai esaltando ciò che non ho fatto.

 

L’incrocio.

 

Lo sgorgo.

 

Canti mia upupa nella calura atroce.

 

Ah però!

Aspetto un po’.

 

La canzone

 

Sosteniamo quelle assurdità

leggendo noi stessi

per imparar a scoprire

il retrogusto delle rose e del lillà.

 

Spingo al massimo

l’acceleratore per calcolare

la tensione

nel momento preciso

del disturbo allo stomaco

come la colomba che vola

seguo la verità.

 

La canzone rispetta

la struttura moderna petrarchiana

e non respinge

la arcaicità leopardiana

della vacuità,

 

noi siamo sempre noi,

tu l’asso nella manica

 

sul molo a guardar le stelle,

io e te sul far della sera

 

dicendoci,

ti voglio.

 

Desidero una birra fredda,

assaggi la vendetta

con la calma lucida,

 

poni assiomi

che son fiori germogliati

come al cuore i chiodi.

 

Ti ricordi se mi guardi

con un bacio da questa realtà evadiamo

non l’abuso di sostanze

ma soltanto delle musicali stanze.

 

La canzone pian piano

si consuma sotto le gocce

violente della pioggia,

 

noi due non siamo più

una trinitaria stessa cosa.

 

La canzone sta sfiorendo

mentre il mio amore sta

gaussianamente crescendo,

 

e tu mia cara dove sei?

 

Tu dolce anarchica ribelle

che guardavi me mentre

ti ammiravo,

 

noi due che il rapporto hegeliano

servo-padrone

non ci ha fatto mai capire

chi fosse il governato

e chi il governatore.

 

“Agli ordini generalessa”.

 

“Son pronta mio unico ammiraglio”.

 

Quante amare delusioni

ma che intense passioni

nella nostra bohemien

vita controvento.

 

Quanti idola e quanta morale

abbiamo distrutto

per poi costruire

dadaistici valori

dai frammenti

ed approdare al nostro sogno surreale.

 

Quante quelle lettere ingiallite

e tu lontana mentre guardo

la luna che selenica risplende

sulla mia parete

e si rispecchia nei tuoi occhi cobalto.

 

Quel che abbiamo fatto

è talmente potente e assurdo

che nessuna forza,

neanche la nostra

potrà eclissare

o soltanto obnubilare.

 

Noi siamo stati e sempre saremo

quel che resta

del controverso mondo intero.

 

Continua

 

Continua,

scriverono e controfirmarono

le tre uniche, indissolubili, fuggiasche

e ribelli,

 

era l’estate ed io neoterico

mi approssimavo ad appoggiare

piani, idee mie

arricchendole di me

affinché fossimo

ciò che resta del futuro.

 

Molto futile l’incontro

ed il saluto della dama dagli occhi blu,

 

dolce ragazza crudele sbarazzina

piena  spilletta

etnica borsetta

 

e dai cani scortata

e tutta calata

percorse a ritroso la piazza,

 

si raccontò da sé

aneddoti e fato

e scrisse decisa

sulle affinità elettive

 

che Goethe era alticcio

ed Hegel un ciarlatano,

 

la battaglia continua

e niente dividerà

storie intrecciate

fuggite e rubate

come saette

tra la vendetta

e la noia del meriggio.

 

E dai sogni guidata

etilica ondeggiata

 

un sorso di vita sul libro fotocopiato

con cura nella calura

lasciò,

riscrisse oltraggiata

la battaglia mai finita

 

Dovrei guardare negli occhi per decifrare

 

Novembre rinchiusi

in una bolla di vetro

io ad annusarti,

 

la pioggia che batteva

con disinganno e distaccato,

credevo che tutto andasse meglio.

 

Dopo dei mesi

cinema da ondeggiamento spiritico

piccola ornitologica indovina,

 

tendevo silenzioso

ad un ideale irrealizzato,

 

pronto dalla strada a passare

alla quinta musicale.

 

E tu carina e rivoltosa,

nella macchina indecorosa

ad espiare qualche colpa

un tantino incasinata

 

ma ci credevi nel profondo

al cambiamento di costume,

alla cultura ed a citare

 

le mie stesse informazioni

che io medesimo mescolavo

con le mie,

 

mi daresti dieci mila lire?

 

E sciorinavo paroline a perdifiato

cosciente che sarebbe un giorno

tutto finito

 

ma consapevole altresì

che il legame covalente

che ci ha uniti ambivalente

mai si sarebbe scisso

in quanto quell’elettrone

a noi comune

era la forza sovrumana

di una potenza vincolata.

 

E poi l’estate un po’ annebbiata

e seduta sul sediolino di dietro,

sdraiata poi e mezza nuda

come se colta dalla spuma.

 

Torna il tempo incatenato,

seduti da mozzare il fiato,

 

quel bacio

la situazione incandescente

si ricreava inconsistente,

 

davamo la sostanza

a quella nostra forma,

 

dualità nell’abbraccio,

sviavi discorsi

e discutevi di strade, vicoli e palazzi.

 

E così imparai ed imparammo

l’odio nel riscontro delle fonti

che musicate da un intorno

scolavano etilici limiti

e solfuree destromani spalle

tracciate

 

delimitate da un integrale.

 

Ed ancora,

ancora il tempo

che restio all’accidente

era noumeno tanto invadente

che noi riuscimmo a governare

 

come incenso.

 

Dovrei guardarti negli occhi per decifrare.

 

Ed oggi è oggi,

riporto solingo

del ieri mai così com’è,

 

altezzoso e inutile,

bastardo quanto te,

bastardo quanto me,

 

imbarazzato e sensibile,

specchio lontano del percepibile.

 

Un tantino furiosa

 

Un tantino furiosa

nell’altitudine barometrica,

sale la pressione enciclopedica,

 

io sono qui,

calmo al tuo fianco,

 

tu che sei l’eternità,

il mondo e l’intero universo

in brume trame,

 

ti aspettavo

come se t’amassi

eclissato

 

ribaltavo continuamente

i  pensieri,

 

dove sei?

 

Tanti orripilanti sogni

in cui noi due sguazzavamo,

servi solo di noi stessi,

 

il mondo era inquietudine,

sfiora l’alba nel decoro.

 

Io e lei unici

 

Io e lei unici,

tre coppie alternate

mai ripetibili

quella sera di luglio,

 

il mondo è ai nostri piedi

in un bacio.

 

Poi un umido soffio di vento

e l’amore lieve discese

le musicali scale.

 

Noi amanti intrepidi

tra accordi inutili,

 

al di là del tempo,

della storia,

dell’umanità,

 

io e lei unici

 

asso e ditirambo.

 

Tra l’abisso e la luce

 

Lilith

 

Pensami distratta

e cerca di apparire

corrente rifratta,

ora ho bisogno di te,

il polso ed i diademi

sono umili giacigli di pietà,

conosci ciò che è scritto,

nel vuoto il mio polso

un tempo relitto,

ora ho davvero bisogno.

 

E fingendo ancora

non raccogli più gli occulti

segnali, l’avido e l’ipocrita

a cerca di complotti

serpeggiano contro di me,

conosci ciò che è scritto,

verrà il tempo e sarà ricordo

approssimato all’epilogo del senso.

 

Reciterai ancora

cantando e pensando

alla graziosa sintesi

di te su corpi gentili

che come risvegli d’aprile

si addensano e sfociano

in voci sottili e bianche,

nel microcosmo dell’alluvionale

pulsione momentanea del bosone.

 

Lilith guarda ad Eva

e dice

quieta e tempestosa.

 

Sei molto importante colpita

in diagonale da flash

e da lampare ottocentesche,

Lilith mentre abbandoni

il tuo trono verbale

ti affianchi al sapere astrale

e all’intimo ritmo mancino

che sai conquistare,

padrona di terre ormai perse.

 

Ti prego dimentica

la autunnale vendetta succosa

e slancia da tetti un po’ ebbri

l’aneddoto mentre siamo accanto,

mi riconosci?

 

Lilith!

 

Non sempre comprendiamo

il potere che ci è stato donato!

 

Tu

 

E tu

sull’approssimarsi

dell’onomastica aurora,

della topomastica tua indecisa ora,

mi guardavi senza saper più

dell’onirica mia dignità

nel livido stile tra vita e realtà,

fumante e controverso il decorso

della sicula spiaggia

che pone al folle sbarco

dei giovani e forti

tre spietate verità nascoste,

senza dirlo arriva il momento

del tuo manto che incute al vento

la sua traccia di sincerità,

mentre tu continui ancora a guardare.

Tu conoscevi

in fondo

più di quanto credevi,

sapevi eclissare le parole

con due algebriche intenzioni,

seduta in sul crinale del muretto,

scorgi una disfida a Caporetto

e segni col dito un’austera parola

che come sabbia mentre ascolti

ti divora,

 

io chi sono e tu chi sei?

 

Beh è vero,

io ci avrei pensato come feci

divorando la realtà caprina

e illogica del tuo profilo,

avendo spasmi folli in digestione,

occultavi segnali e mi stringevi

strizzando l’occhio,

era il traguardo ma più sconvolto.

Tu intanto a sorseggiar passaggi

con schiuma marine e tennens ad oltranza,

con l’oltraggio mai commesso

che senza il tuo impronunciabile suono

era il volto della nuova stagione.

 

Io non scordo chi ha avuto

un meandro di posto ardente.

 

Beh è vero, io avrei vissuto

per qualche giorno senza alcuna

coscienza di me stesso

se solo tu, oddio così!,

se avessi soffermato il tuo repentino sguardo.

Cosa farei nel presente

con il passato stracolmo d’incenso

e il futuro degli estivi baci d’inverno,

mi avresti ispirata te

del quale nome poco fa parlai,

ti avrei baciata dunque e lo sai.

Tu hai forse

freddo

se senti la pressione calare,

avremmo entrambi avuto paura,

avremmo entrambi posto sorriso

di sfida

in essere estatico e prolisso,

avendo paura che faccia giorno

occultami nella tua borsetta

sporgendo la mano intrisa di remore,

stritola foglie e scrivimi di parole,

con sguardo inclinato e basso sul diario,

con sguardo perso nel volume del senso,

è luglio e il sole non tramonta mai.

Ti prego tu,

 

non chiedermi come mi chiamo.

 

Beh è vero, io un pensierino

tra il colle divino l’avrei fatto,

ti avrei posta come regina

sulla sommità più alta

della mia stessa spina

che mi buca le vene.

 

Tu, sai per caso che ora è questa sera?

Guarda un po’, penso a te,

e ho bisogno del tuo volto,

dei tuoi polsi, delle tue gambe,

di odorare la tua essenza

per nutrirmi di vita intrepida

e traballante,

puoi pure lasciarmi il tuo numero

inciso sullo specchio col rossetto,

puoi pure, fallo con ritegno ribelle,

fallo pure prima che sorga il sole.

Tu non mi credi se ti dico che mi sono

innamorato,

non mi credi se ti dico che il flusso

di queste lettere è per te,

non mi credi se ti dico sul serio,

sono io, sono sincero.

Tu, se anche mi stai pensando

cercami

tra i sogni tuoi mai dimenticati,

tra le frasi perse in un libro,

tra la metrica e il suono ghiacciato

di partiture fitte come il passato.

 

Puoi pure continuare

 

Puoi pure parlare

senza pudore

mentre ti strusci sull’orlo del vuoto.

 

Chiedi perché.

 

Dai ciliegi l’illuminazione

del transito dall’umana follia

al varco della disturbata divinità,

gli studi di teologia a Tubinga

con la voglia matta

di crauti e pizza fritta,

una teoria per cogliere l’essenza

non solo nell’umano o nell’animato

ma anche nel rigurgito vegetale

e nella staticità minerale.

Un po’ da ribelli

un po’ da serpenti

stritoliamo senza assaporare

l’atroce fascino della morte.

Prego,

 

fai la ripetizione per antonomasia

del grido mentre ti sdrai

e mi guardi dall’alto.

 

Non credi più a niente,

 

così un’atea da due soldi

fa di me stilita e sé attrice inconcludente

della nostra rima deludente.

Buco fino a non respirare

ed adoro di farmi inquisire

dalla grande meretrice.

 

Tra le sbarre di un edificio abbandonato

o sopra ad un selciato armonizzo

il fiato con il sabba

alle quattro di sabato pomeriggio.

Puoi pure continuare a leccarmi

mentre chiedi perché.

 

Mentre si suona il jazz

andare in un safari con Cole Porter

nell’Africa occidentale.

Oppure tirare ad Harry Potter

il gonnellino scozzese come lesione occipitale.

Il tuo guardar la sabbia

mentre sorridi

e con tenerezza scocchi

un bacio fulmineo ma temperato

dalla tua estrema indulgenza

nella tua visione globale

della tua tenuta estiva minimale.

Non dimenticare la scrivente

mentre parti col tuo ridente

saluto da villaggio infestato.

 

Porgimi l’intimità di un sussulto

tra le note e il tuo scrivere assurdo.

Tra le macerie del rigore

un animo non può e non vuol volare.

 

Puoi pure continuare…

 

Risvolto umano assente

 

Dalle correnti avverse

della strada

ricordo il volto e la rugiada

che ascende consistente,

dal doppio nome stile ed epiteto

nell’oscuro del domani ,

potremmo parlare del nichilismo

d’incenso occulto

ed estrosamente esoterico.

Dai libri incastrati

sugli astri gemelli

nel circolo il centro

del doppio raggio

pone congiunzione

tra ultimo cancro e primo capricorno,

e tu dopotutto profetizzavi

il vacuo candore del silenzio.

 

Filosofie che passano

con gli anni tra le ante

delle memorie,

come canoni e stilizzati diagrammi,

chi vuoi che ispira chi?

Intanto designi il trono.

 

Forse le passioni

eran questioni

di natura prettamente spirituale

che nel tridente da rima astrusa

corporale e madrigale

rendeva meglio di un vocio

di sovra fiato,

tra spiagge, gennai e giugni uguali,

congruenti invece a slacciati intenti.

Ebbene lo sostieni,

l’embargo dei diamanti in folle sbarco,

stracci di vanagloria nel tuo assioma,

 

un curioso chieder scusa,

mentendo come voglio, come vuoi,

come mi attendo.

 

Nella distrazione capimmo

che non eravamo mai stadi avanzati,

soltanto la marcia del rigore

del tuo guardare altrove

avrebbe posto in balia dei marosi

i tuoi specchietti decorosi.

Il parapendio e il fato,

la remissione e il peccato,

la pallida rimessa della tua giunta

cresta d’alluminio.

 

L’aurora dei sentimenti

è un volteggio tra spartiti

e sparuti uccelli, camaleonti

che si addobbano da sé,

ciò che resta di te è il bisogno

o il se.

 

Forse ancora parole,

 

ingorghi e stantuffi reintegrati

capiti e non spiegati,

ogni notte ritorni accompagnata

dal risaputo, dal fasto e dal veemente

risvolto umano assente.

 

Tra i platani dell’Eden

 

Doveva finire,

il sonno di ragione

ha soppresso anche l’istinto,

ed ecco che questo ha posto

la firma al nostro

esser noi stessi più autentici,

come materie viventi,

eccoci ora statici,

un tempo divagavamo,

non un fiato tra il respiro

e il sospiro delle parole diademi

del tempo, del nostro tormento

dipinto, un po’ finto mentre fingi,

ti dipingi, ti schiudi

riaprendo il ricordo,

e pur talor dinamici

nel movente del rimorso

che già invadente mi fa,

piroscafo arreso

alle barbarie corsare

cui stesi protezione

con l’appoggio della corona

e del raccordo ancorato,

eccoci lì come a produrre solfati

tra schiamazzi e scorribande notturne.

Ecco eravamo

tra i platani dell’Eden

e sorridendo ci azzuffavamo

con dispetto nel dialogo tra noi aperto,

appetibile il silenzio,

e scorgevamo il soffio divino

come spirito, lo sgorgo dell’aere

mutato dal cupo, intenso vortice

tra spina e capo,

ed ecco che la nostra

sintetica gradevole allitterazione

divenne clamore condensato,

divenne un altro incanto

che produsse dalla materia

l’intima atmosfera sapienziale,

di scopo, fine, amore,

stupore e caso.

Poi l’essenza

dietro l’apparenza,

nello studio ontico ci correggemmo,

la vera essenza era nell’apparire,

unico strumento del percepire

e per questi motivi via d’accesso

all’assoluto e all’Un visibile

e in sé invisibile

era l’arte od una parte d’intero,

poi non dimenticammo

il solido reso vapore,

la risposta al dilemma

di ciò che assaporiamo

e di quello che strumenti

nelle nostre stesse mani

respiriamo,

il reale ci mostra o no il vero?

La logica guida i pensieri solo

o anche le leggi naturali?

E che ne dici del fato,

del servo arbitrio o della libera scelta,

di traduzioni bibliche a Rotterdam,

del greco, di Girolamo,

del fenicio, dell’ebraico,

del cuneiforme o dell’aramaico? Dici

tutto questo non importa,

guarda alla glossa,

guarda alla mela,

guarda al relativo

e guarda alla materia,

è tutto un empireo di intenzioni,

lo dico per le vie d’accesso

al vero,

lo dico sul serio,

per altre situazioni,

per ciò che ci spaventa,

per l’intuizione senza erudizione,

è tutto il progresso

basato sull’errore,

ed ecco di nuovo un’assonanza

che appare e cancella il tracciato

e l’intralciato silicato

e il nostro duplice trinitario intento

si dileguò a guisa di un serpente

che punge e mente,

che chiude la storia

con volti e con memoria.

Ed eccoci che siamo

manifesti

tra i platani e le acacie

ridenti della punizione,

tragica e dionisiaca,

sparuta ed Euripidea,

e noi ci azzuffavamo per dispetto

e con dolore

nella polvere che mai fu creata,

libera interpretazione dell’evoluzione,

sulla quinta, il verde ed il calore,

sui giudici e sui salmi,

su Samuele, Sansone e Salomone,

sul tempo, due tempi,

Davide la parusia

e la metà del tempo,

poi sulla dignità

e sul sentimento morale,

etico, coscienziale e consustanziale.

Poi il nostro vocio

interno e ditirambico,

il nostro sentiero,

il destriero, il vino e l’inviolato,

il ritratto, il volto,

il mare aperto.

Ovemai stridesse un sogno desto

sapremmo se le nostre assurdità

hanno riscontri.

 

Un solo istante

 

Un solo istante e mutò

la sensazione tra noi,

eretta dalla pioggia

a dorso di colline,

sette re di cui uno ha da venire,

l’austera mossa,

la sfera, la riscossa

della solita onda

dei capelli mossa.

E l’alambicco secerneva

il tuo volto,

così tutto alla luna ritto,

si poneva il punto

al centro del piano letargico a ritroso.

 

Ed è così,

 

è così che la dimostrazione alchemica

si scinde, nasce l’amore,

per pura coincidenza,

disegno divino o parascienza,

per tornanti di abbracci

contratti come Ermanno,

le spoglie sepolte nella sua Wight.

 

Rafforza sé stessa

nella tua immagine stretta,

le mani, un trafiletto,

la sponda, l’arcipelago,

il letto, consonanti atroci,

pure e già spietate

al binario sistema di fuga,

non ci salutiamo, guarda,

un po’ m’ignori orma di te.

Come regole del tempio

e Rinaldo in campo,

 

come Goffredo del Santo Sepolcro,

Riccardo, Federico II

e l’imperio su Gerusalemme,

Corradino e il suo legittimo erede

fuggito nei vicoli di Napoli,

e direi appare un po’ sfocato

il successore al trono che beve

inebriato del sangue reale,

dove è stata fissata

la trincea nell’ultima Nicea,

nella donazione di Costantino,

 

ed è quella ragazza

con le braccia a semianta

che dice sei tornato,

prudente, violente e saccheggiato,

vittima dell’avverso fato,

non ci pensava quell’aprile,

non era nel cortile,

il vento soffiava traversata

dell’ultima anima volatile.

 

Questo è il punto:

 

il flusso onirico del senso.

 

Un po’ come il mare

che si infrange sugli scogli

all’impazzata con te

violetta alticcia,

con te prudente dama,

con te prudente attrito

di ogni rimorso,

 

eccoti,

 

torna tutto a posto.

 

È il punto trinitario di incrocio

e il sator arepo tenet opera rotas,

 

si svela la lettera tra i rovi

e tra i capelli bruciacchiati

e numericamente inversi.

 

Così ti desti all’alba

dell’ultimo plenilunio,

tra il trambusto e il gancio girevole

da perno dell’ultima ragazza

gradevole, graziosa, gravida

e regina d’ogni ordine e grado,

di arbusti notevoli,

nostrani, antichi resti intatti,

tauromachie assordanti.

 

Ed ecco ho detto il nome

cerca trova nell’ultima ora.

 

I segni del corpo

 

“Quod superest,

nunc huc rationis deluit ordo,

ut mihi mortali consistere mundum

nativumque simul ratio

reddunda sit esse”.

 

Nello spazio, scorgi il posto

più incitato al declino

del senso

quando il tempo considerato

e delimitato nell’ordinata tratteggiata

di per sé infinita, sbiadita,

restia al mutamento.

I giorni, sempre gli stessi,

 

un calcolo combinato

dalla nostra ragione e dal tuo caso.

 

“Perfacile est animi ratione

exolvere nobis quare fulmineus

molto penetralior ignis

quam noster fluat taedis

terrestribus ortus”.

 

Puoi sprigionare

la tua energia dalle mani

protese nei quattro segni naturali,

 

il tuo ricordo non sfiorisce

mai.

 

Molte le sensazioni inutili

in quanto la gioia è solo

passata e futura

e, come dici, hai paura

di quest’inerzia che colpisce

sfiorando sulla nostra pelle

i vaghi segni dello scorrere fluido

nella nostra stessa acqua.

 

“Del resto,

per provvedere a uno o due casi

particolari, i quali non sono

affatto frequenti, che motivo c’è

di darci pensiero

per indicare le combinazioni

che siano composte da più lettere?”.

 

“Iamque adeo fracta est aetas

effetaque tellus vix animalia

parva creat quae cuncta creavit

saecla deditque ferarum ingentia

corpora partu”.

 

È vero,

puoi cambiare idea

ma già sei nell’operare

tal situazione

delimitata dall’infinito piano Euclideo

o costretta in altre costruzioni

con assiomi vincolati dalla logica

o più spesso dall’irrazionale.

 

“Ecce homo”.

 

Vento dal vento sfumato

si innalza la terra da te stessa

sognata

nell’ondulazione sdegnata

da una frequenza innalzata

dal tuo palpito

quando mi guardi inviolata.

 

Posti lontani, atolli, guardiani,

tempeste funeste, rissose

qualità di fragole e amarene,

vermigli cuori nella notte boriosa.

 

“La gente mi passava accanto:

udivo il rumore dei passi,

a volte il brusio delle parole

ma non vedevo nessuno”.

 

Il mio polso brucia ancora

 

Il mio polso brucia ancora

per le ferite dell’aurora,

cambiata la musica e schiarita

da lampara, è stonato

il ritmo incalzato,

si pone su di un polline umano

e sa mutare il pianoforte,

la percussione e il fiato,

 

un po’ come un armadio

che contiene ogni credenziale

tra le rime della strada

e l’aspirazione alla inviolata

ragazza del meriggio,

 

del tuo rifiuto inflitto,

 

forse stavamo guardando

quando si distaccò un momento

per distrazione il controtempo.

 

Il mio polso non lo sa

se la mattina tornerà,

un po’ con fatica

accende l’ultima sfiga

della pluriennale siga,

 

è forse incanto

quello macchiato sul vestito,

è forse pianto

quello impresso nelle linee.

 

E guarda e taci

 

e spingi il vuoto

del tuo testo ingiallito,

un po’ rampollo del respiro.

 

Il mio polso brucia ancora,

è un tormento infernale

quello impresso sulla carta

per virtuosismo virtuale,

 

è un po’ così da quando spingi

a forza il tuo sentir,

 

potrete calcolare

il peso del rifiuto

lasciando lo sportello del tempo

ancora in disuso,

oppure potrete sorvolare

ad una falsa partenza,

tutto il resto e l’inclita scienza,

o forse, ancora,

bloccare il mio volto e fossilizzarlo,

 

ma lei già se ne è andata

 

la parola è sfuggita.

Ecco il fraseggio,

l’atomo inchinato

alle voglie del prato,

steso come un’astronave

su una radura stanziale,

i nomadi del centro

si spostano controvento.

 

E non pensarci più,

 

è inutile,

 

e lascia alla abat jour

il rimasuglio del rito del guru.

 

Il mio polso brucia ancora

e ti distendi allucinata

col ritmo solito della strada,

la tundra zingaresca

è una mossa intarsiata

dall’ultima giornata.

 

Eppur si vede, si muove,

non ci rende altro motivo,

 

l’estate sta finendo

da quando hai perso il senso

dell’incontro,

del lucido, dello scontro,

dell’ultimo tuo affronto.

 

C’ero anch’io,

nel momento dell’assenso,

nel momento dell’assolo,

nel braccio ondulatorio.

 

E lascia perdere

 

un’altra nota

a sé.

 

E così sia

 

Era l’era delle consonanti,

posaceneri persi in sulla via,

ecatombi e vividi commossi

mentre ci si accusa di vigliaccheria,

nella vetrina affossata abbagliante

il risorgimento orfico ed incatenato

dell’ultimo senso antico,

quando gridi commossa

che non sai, non sei, non vuoi,

non puoi, il respiro sul collo,

il pezzo di fumo e il mite finestrino,

attaccate le mie labbra a una bottiglia,

 

l’intenso inverno di adesso

è calura intramontabile,

notti e giorni di buio

e buoi cornuti aspettando

la mossa vera o falsa,

pusillanime e scossa dalla tua bocca,

nell’ipnosi.

Il paradosso nell’atrio a ridosso,

 

tu ora dove sei? dove son io?

 

Mentre ti spogliavi

scucivi il vuoto

e poi lo respiravi

e rigettavi il fuoco,

va bene, è una tua scelta

la mediocrità.

 

Il mio istinto mi dice

che siete incompleti,

vi manca qualcosa nello stesso istante

in cui pretendete,

di sapere un po’ tutto, un po’ niente,

un chicchessia di conoscere

non se ne pente,

 

l’auto a ridosso della strada

mentre buco ancora la mia pelle,

sconfigge ogni dolore

l’oblio dei mie sensi

mentre ondeggio distratto

appeso ad un filo

tra palo della luce ed asfalto,

 

in metropolitana sudato

con l’istante bruto

che dice accasciati a terra,

guarda come è bello il mondo,

mandalo a quel paese,

se la sfiga al tuo sguardo si arrese,

scegli almeno una vocale

per dare suono all’impronunciabile,

 

ma se inizi a finger da adesso

non è un compromesso,

scrivi, recita, dipingi,

sorridi, fai lo stesso,

quello che volevi dimenticare

tra il roveto rovente e le leggi

impresse su pietra,

focalizzate da nomi segreti,

 

poi si accende la radio,

l’epoca è quella,

guarda che violenta scossa

di illusioni nelle tue stesse

cittadine illuminazioni,

 

forme inauspicate, inspiegabili

e canute che ti dicono

come un vegliardo, vai, vai,

passa col rosso,

è lo stesso proprio adesso

mi trincia lo sportello

un autocarro rimesso e triste,

non distinguo più il reale, il senso,

il tempo.

 

E così sia,

 

mi alzo e vado via,

 

scorgo il saluto in uso nel resto,

oddio, mi puoi guardare

come l’altra sera,

castello in assedio,

immagine mia,

e così sia.

 

E sì però,

io sono lì

nel tuo ricordo che obnubili

e mandi lì,

nell’ombra tua,

nel tuo esser l’opposto manicheo di te,

il volume della tua regalità.

 

E così sia.

 

Con l’elettroshock

o con un orgasmo

seppellire mille bugie,

vomitar sé stessi,

quando avverti odori

che ti penetrano le membrane celebrali,

che sprigionano inaspettate

dando fuoco ed attivando

un recettore,

quanti neuroni ho ancora,

quanto c’è di vero,

quanto scordo,

quanto non voglio.

 

È finita la storia,

eccoci qui,

ora che siamo.

 

L’autostrada contromano,

il nostro silenzio quotidiano,

il fruscio delle foglie,

gli alberi, le trame,

 

poi trovarsi in un posto

o in un altro senza sapere

come ci si è finiti,

 

ma chi siamo ormai,

uno, due o nessuno,

siamo tre raccordi rinchiusi

nello specchio con decoro,

con decoro.

 

E così sia,

non posso negare

la salvezza dei miei ricordi,

quando sfioristi nascesti,

creasti un non so che di me.

 

Follia alla deriva

 

Postato e prostrato

col sudore alla fronte

chiedo venia un po’ da me.

 

Guardo in me scoprendo

cose che già so,

perdute nel via vai

del mio domani.

 

È stato un lampo contro il velo,

io profugo scalzo contro il cielo.

 

Pensavo ed era normale

ma nell’illusione mi bendavo

abbeverato alla fonte dei perché.

 

Credevo in ciò che vidi, sentii,

ma non era mica così scaltro

ciò che vien servito, idolatrato

come un re e che di sostanza

ha solo imperio sulle mosche

e sulla scarsa immagine imposta

nella vita concupita senza se.

 

Ero distratto, un po’ incupito

dal mio verso incatenato,

dalle idee stroncato.

 

L’alba e tu,

le solite cose ed i tabù,

le tue storielle sull’effige

intorpidita a dorso di dita fragili

e scartate dalla stessa società

fingendo un po’ di pietà, ipocrita, falsa,

bugiarda e che non valuta

l’essenza della rarità.

 

Cosa dicesti?

 

Che vuoi che sappia?

Ogni ricordo è come sabbia,

 

cambia ogni istante

adattato al dì presente,

non c’è oramai mai più passato.

 

Pensavo a spiagge lontane un tempo,

alle fughe, al vento all’anima,

allo spirito di ribellione

ma mi accorgo che ogni battaglia

è studiata e organizzata

per cancellare l’orma del pensiero

da questa poco astuta umanità.

 

Credevo ed ero miope del senso

quando si scriveva contro te.

Ero distratto dal mio stesso tatto

che non era per niente me.

 

Le stagioni e poi, i canti

al vespro o alla mattina,

le parallele ore in vetrina,

i sussulti notturni, pomeridiani,

i baci, gli entusiasmi, i sorrisi,

gli sguardi, scrutare il cielo,

sognare, non parlare,

desiderare, crederci,

tutte ipotesi schizogenetiche,

 

la mia follia è alla deriva.

 

Tra l’indifferenza e l’oblio

 

Stesi da qua all’immensità

vuoti e sazi ma storditi,

quei piaceri ci distanziano dall’essere noi.

 

Parafrasi del verbo

 

Parafrasi del verbo,

senso nel mio logos,

religione nel mio introito emotivo.

 

Ascoltando.

 

Vento nel gaudio.

 

Pensieri del rimorso

 

nell’atomo scomposto,

nel roveto in fiamme legiferante,

tante le emozioni con quelle intenzioni,

pure intromissioni

dell’ondata prima indoeuropea,

 

nuovi sogni nascosti.

 

Seme sperso di Adamo tra

Lilith ed Eva

con la genesi di nuovi demoni,

forza sciogliete la camicia

di forza ai folli in manicomio,

ascoltate i loro neologismi

schizofrenici

e le parole senza senso,

detengono la verità,

non è una disfunzione

dei neurotrasmettitori,

ma è la voce celestiale della terra.

 

Postulando Munch a squarciagola,

orgasmo dell’aurora,

Tzara e Duchamp.

 

Nelle orbite oculari allucinazioni,

nella mia mente un vocio.

 

Lsd e mescalina,

paranoia e desiderio,

possiamo guarire dalle psicosi

con un paio di tiri,

rivoluzionare il mondo.

 

Do you remember?

 

Amnesia totale.

 

Teletrasporto di corpi violati,

 

Tesla ed il controllo mentale.

Mentalismo,

Gustav Rol.

Egis shows santis

hi hi joint

he doesn’t show his force,

he shows virgin,

I’m thirty, I’m virgin emo,

nine get, nine you,

he’s and shows word,

double she and not double sense,

u zuzu shows what you think

and shut up.

 

Collassi interni e magici,

aure magenta.

 

Per trovare le coordinate e la giusta posizione.

poni la questione sul silenzio decoroso

nel ricordo.

 

Cassie

 

Candele nella tua stanza

al chiarore degli occhi

che sinceri ed allibiti

piangono ricordando

il giorno trascorso in solitudine,

non sai quel che sei,

quanto il tuo guardare me

speciale è.

 

Ah il tuo desiderio di vivere

davvero morendo stesa in piedi

su un rogo giocondo

di modo che l’ilarità dolorosa

potrà finalmente dal tuo corpo

esile esplodere!

 

Anni d’inutilità,

qualche anno di follia,

disturbo e crudeltà

della gente senza pietà.

 

Alla finestra la notte

è l’unica fuga dalla realtà.

 

E il sonno disturbato per l’inquietudine,

il mascara sciolto ed il soffitto

mobile per la vertigine,

 

paradossi nostalgici

di una vita che non c’è stata mai.

 

Eccoti qua, picciola a sognar,

eccoti qua, che stile nella tua alternativa

realtà vera onirica.

 

Ma picciola, adesso o domani

mi ucciderai in silenzio,

silenzio.

 

Ma picciola,

verrà il giorno e mi tradirai,

il mio sangue inumidirà

le lenzuola dalle vene,

le speranze tue perderai

nel voltarti mentre ti parlo altrove,

nel non riconoscermi mai più.

 

Passerà?

 

Cosa resterà,

 

mia dolce amica?

 

Chiudi la porta,

 

spegni la luce.

 

Chiudi la porta,

 

le candele illuminate dalla luna.

 

Romanzo secondo

 

Dove sei,

tu che crei virtù

dai vaneggiamenti decadenti?

Dov’è il tuo stile da brivido?

La luce del sole nei tuoi occhi chiari?

Mi manca il tuo dondolio,

il cocktail senza ghiaccio in estate.

Mentre fumo la penna sguscia

e l’immagine si forma intatta

sulla tua pelle,

sei la mia poesia e le stelle,

nell’ombra respiro.

 

L’aria trasuda di te,

della tua follia,

del tuo sguardo acceso,

del nichilismo.

 

Pomigliano nell’aurora,

occhi azzurri, gotici albori,

dopotutto a guardare

i suoi cirri di primo mattino,

le sue mani,

il mio volto ancora ad accarezzare.

 

Ragazza al bivio

 

Passa un’anima intravista

dal retro spettatore

che lascia una scia sulla strada

ancora un po’ confusa

per le scorribande serali

delle tue inclinazioni

mentre attendi ad un bivio

per attraversare senza farti scortare,

senza farti scordare, atonica

ed impressa sulla stagione

dalla vivificazione scossa,

scaldi le guance come un motore,

non credevo, non pensavo,

non sapevo, proprio non ti vedevo

frutto non invecchiato

con l’abbigliamento dei giorni

che furono,

con il volto che non oso guardare

ma che dentro lo specchietto

di me stesso rimane,

la tua anima, è proprio quella,

mi sorridi, mi sfidi, duello atroce,

posa quel fiore, cogli autentiche sincerità,

dal cuscino, dal violino,

da ciò che poi sarà,

è già sera, non mi reggo,

continui attonita ma sorniona

a guardarmi per stupirmi,

per stupire il tuo ego

dimesso al soffio leggero

del mio passaggio austero,

credi alle coincidenze?

eri proprio lì,

sei proprio qui, lo giuro,

cosa c’è di vero

in ciò che scorgo?

 

Cosa c’è disegnato

sull’istogramma nel tuo polso tatuato,

l’alba coi suoi rimandi,

come dici? mi conosci?

non sai chi sono?

quello di sempre,

non ti sorprendere,

io vago e vagheggio,

magus et magister dell’ultim’ora,

la fine che tu hai dimenticato,

riposta sullo scaffale,

forse ti sei scordata, mia rovina

e mia salvezza eterna,

quiete tempestosa, è tutto finito,

non c’è più tempo, ma voltati un istante,

sono qui a sorseggiare

anche solo quest’ultima

apparenza di te,

la parvenza di valore autentico

di cui hai sete,

sì lo so che lo sai,

espurghi libertà,

trai l’essere autentico,

la millantata unica personalità restia

che si presenta a tratti

nei suoi abissali e vari

corollari frutto di te,

frutto della molteplicità, che ti ripeto,

sai, vive in me, vive in noi,

come un canto d’ubriaco

sgorga pura e limpida,

allora, mi dai una mano,

segna con il sangue la mia gloria

e la mia immortalità,

l’infinito, taumaturgico domani,

che non era, sali, sai,

non ti chiudo in un semplice pensiero,

perché è così, è tutto vero,

andiamo in stanza, muti,

muti a parlar,

è così che si scrive il codice della fuga.

Cosa saremo non lo dici, lo fai

e fai sul serio con quelle mani,

lo spirito dissolto nelle rimanenze

e nei passati,

bucati come il miele

nel cuore dell’illusione,

sei così vera

che smorzi l’intenzione,

la rendi sana e mi sollevi,

sei proprio tu,

ora che ci credi,

rinasco nel guardarti ancora,

si ferma l’attimo

e la gente passa e va,

restiamo noi, soltanto noi,

infinite palpebre che scoprono

il mondo fatto di segnali occulti,

siamo sacerdoti del controtempo,

il solfeggio è l’incanto scosso

da capelli, ottagonali i tuoi via vai

immobili, marmorei i fiati,

la sincretia dei gesti tuoi

la sola realtà, guardi, ancora guardi qua,

va bé, magari hai ragione,

vista e lampo osceno nell’oscurità,

saprai di me ciò che non sai,

quel segreto sigillato aperto mai,

l’assurdità, la fantasia e la follia,

comunque è meglio che invecchiare

morire nella luce della verità,

e quale è il patto faustiano allora?

mi son perso il resto,

 

Paganini già lo sa.

 

Ciao, sei tu?

pensavo a te, come dici?

parlavo col cavallo

o con la lucida realtà

in bilocazione bicromatica

e prismatica dell’immensità,

“non fa niente, continua pure,

il 2000 è il tuo secolo”,

un millennio di profumi,

uscivi,

con chi rompevi i leggiadri

assoli tuoi unici?

 

Nessuno forse tranne te arriverà,

un po’ per indolenza

un po’ per stanchezza a questa riga qua,

eppure nei millenni resterà

la parola, il tuo verbo mai scisso

o interpretato, fatto storico inesistente,

è questa la novità,

non porre fatti o valori

ma imporre interpretazioni

incancellabili e inossidabili

perché impressi nell’Es,

o nell’essere forse dicevo,

fa tu, suona la musichetta,

scegli la nota giusta,

ok,

quindi parlavi di novità,

il mondo finirà quando ci accorgeremo

che tutto è già accaduto,

il giradischi in panne impenna

in salita come acritica locomotiva esausta

e irrobustita dal sole del mattino,

cara mia principessa,

vuota il sacco adesso, oppure no,

lontano ti amerò

perché un giorno sarai qui,

nell’assunto rinchiuso

nella fortezza sepolta ed oceanica,

ecco qui.

E torneremo al concreto,

dissolti e materiali

tra i roveti incolti

in autunnali sortite agonizzanti

di chi ha perso i sogni

e crede in una unicità

ormai tramontata,

positivamente dall’ideologia stessa seppellita,

sfiorita mi ricorderai

l’indifferente sordina fastidiosa

squarcerò con punte affilate

in melodrammatiche serate,

comunque meglio del silenzio inutile.

 

Sogno di ieri notte

 

Lou von Salomè

 

Mentre penso scorgo il tuo volto.

Allora io tento

di farti capire che nel mondo intero

il patto l’abbiamo fatto

senza accorgercene nemmeno

lo stesso giorno,

senti il respiro, vuoto il sospiro,

allora fluida torna da me

come non sei mai stata,

sono la luce prima del mattino,

il soffio inutile del vento,

il ribrezzo di corridoi,

il riporto all’animo sconvolto,

la bellezza di un tempo

scioglie le tue mani in gesso astruso

e disilluso finché non diventino

il frutto della nostra bramosia,

ancella mia, padrona,

intrisa d’aprile,

serva prediletta dell’abisso.

 

Sogno di dei,

 

Lou Von Salomè,

 

dignità dischiusa sarebbe

ciò che hai cercato,

sconfitto l’inverno,

vissuto ed oltraggiato l’inferno

e agli altari sublimato,

immortale risorto

solo per un tuo ragionamento indotto,

purpurea meschinità.

 

Hydra mentale

 

Passeggiando come traversando

decenni diroccati dell’età

dai sapori frantumati,

era il mattino pronto ad arrivare

mentre scendevo dalle scale,

ancora buio sopra la testa

occhi al vento con tellurico temporale

scalfito e tragico che si approssima

al rigurgito etilico della mattina,

stesa la fessura delle ante

e delle crepe come fosse vetrina,

guardando le mie unghie tinte di nero,

il resto del passato come schierato

dalle truppe, dalla paura trattenni il fiato,

si aprì il portone e fu un notturno fragore.

Guardai Milano e corso Garibaldi,

scintillando in file entusiastico,

iniziando a volteggiare

come un airone

che per non pensarci posa lo sguardo

altrove,

ti rividi dopo anni

un po’ per caso,

un po’ per violento nubifragio

decorato dalle remissioni

del virus scandito

e nel lisergico chiarore claudicante

zoppicai dalla cornice

al pianto inabissato,

mi stesi a terra continuando

a fare scorgere immagini

imperfette

che dalla finitezza riversavano

sbocchi

verso affluenti inclinati

scorrendo in ruscello riservato,

come è stato ciò che è stato,

allora non ricordai chi ero

e nel silenzio rubacchiai un saluto

come oltraggio al destino.

Presi un foglio umido

e con l’inchiostro abbozzai il ricordo

oramai troppo lontano

di un uomo senza più gloria né rispetto,

di un uomo nella sua anima persa,

di un ragazzo quando il cellulare

era solo paura della prigione,

quando l’età era dell’innocenza

e il futuro come ora già vissuto,

poi con la tennens cercai di dimenticare

per poter tenere bene a mente

ciò che son stato

quando non ero,

ciò che sarò prima dell’ascesa

e della caduta,

prima del tempo di qualche venuta,

così resi tutto in mille pezzi,

il foglietto navigava

nella pozzanghera appena formata,

la pioggia nolana si dissipava.

Erano quattro quei cavalieri di parole,

di romanzi hardcorde ricamati,

guardai la musica ed ascoltai

il sussurro dei miei libri

che si districava nella corrente

per elettrificare un quoziente

approssimato dal rifiuto

dell’assurdo risultato.

Risi di gusto davanti a te invecchiata.

Puntando tutto sulla conclusione

persi e ancora, ancora ridevo,

delle altrui imperfezioni,

delle loro decisioni,

di me sollevato come rondine

che assurgo l’ultimo sospiro

alla ragazza che mi ha dimenticato

per un’indifferente conoscenza,

per un ardito silenzio,

comunque non la biasimai

e in solitudine me ne andai.

Bucai quella voglia taciturna,

ascoltai ancora l’immagine

in sordina ma che non era

mica smarrita,

la via di ieri era in salita,

la rimonta in differita,

la spiaggia arrivò in ritardo

quando c’era già lo spasmo

dal cruente cuore d’arpilla,

arpia di giorni indispettiti,

mai così non mi ero indispettito,

la rabbia impotente conduce

alla follia se non sei auriga

del tuo stesso sentire

oncologico nel patrimonio

intellegibile e istintuale,

un rimbombo assurdo mentale,

un ridicolo pentimento, ok,

d’accordo, ora ti sento.

Guardai tutto come da un televisore,

la risata intensificata

e il foglio perso

fecero scrivere i tomi della mia vita

nell’animo di sconosciute

usate a mo’ di inganno celebrale,

sull’asfalto restò il resto,

conciso coll’indelebile gesso

dell’indice accusatore della convenzione.

Schizai deciso come un sopruso

e resi il giusto a chi è dovuto,

me ne andai con il vento alle spalle,

i tuoi capelli agitati,

il pendolino e il numero di prestigio alle carte.

 

Viaggio astrale in riflesso di tempesta stellare

 

NR YH ‘BTRŠŠ W

GRŠ H ‘A B ŠRDN Š

LM H ‘A ŠL M SB’A

M LKT NRN L BN NGR LPHSY.

 

Alito inesperto

sul ripiano al furor del vento.

 

Urla arcaiche balestrali,

muschio, inebriamento astrale,

viaggio selenico e segugio

intarsiato nel metallo

a forma aguzza, dente felino.

 

È sulla spiaggia l’attesa.

 

PDN L’ŠMNMLQR

L’DN L’Š R ‘ ZP’L’Š

MN’B BN’BD MNB

N’BDTWYN BN HY

D RY BN BDGD

BN D’MLK BN H’B KŠ M’QL DBR Y.

 

Progresso progressive,

clastico calcareo anacronistico

nel proiettare immagini violette.

Paradigmatico l’incrocio

complesso ed epocale come adesso,

 

epica scissione psichica

della realtà sensibile

da quella intellegibile,

uniformità teorica

e superamento del quantico

e del relativo

nel flusso energetico imposizionato

ed ultratopico

presso l’orizzonte degli eventi

inaspettati,

 

violate leggi paradossali,

 

occhio di Ra,

 

ricordo, negativo parallelo,

 

animosa penetrazione divina

nella cordiale visita elettrica

della memoria,

inspiegabile è dir poco,

piuttosto inquantificabile

ma intuibile con successo scarso,

causalità invertita

l’accidente,

l’effetto genera la causa

ed il futuro modella il passato

refrattario e con geroglifico

sistema iconoclastico e binario,

intelletto artificiale.

 

Fuochi accesi ed intrapresi

rodono il fegato accostati

ad appostamenti di relitti sprofondati,

lo spirito aleggiava sulle acque,

le nozze bigotte proposte

e rimarcate deludenti

pretese violate,

la conoscenza civile

ostracismo dell’ardire,

 

domina da anni

la lotta darwiniana

senza genetica e malthiana,

non è follia

è semplicemente sbagliata.

 

Il bicchiere si ricompone dai cocci.

 

Resta tutto normale.

 

Viviamo dal principio

il circuito serpentino illuminato

avulso a senso spaziale,

parascrittura inusuale

del logos stanziale,

Dioniso umano morto e risorto,

mito caananeo.

 

Rifiuto usurpazione.

 

Ellittica trasmissione.

Velivoli d’oro,

argento dei bastoni,

navetta in terracotta.

 

Brucia Tiro,

fiamme e mare eroico,

le arpe e la musica contemporanea

ha da sé, base di vermi,

base di vermi,

ha attratto a sé, base di vermi.

 

Non voltarti.

 

Sgancia intatto una miscela il Fato,

dacci forma, urla isteriche,

ossessioni, precisioni,

il risultato mina basi, basi di vermi,

cambieranno tempi e leggi.

 

Scelta Pallade alla luce del mattino,

scelta furba tra le greggi,

oggetto del declino, frastuono,

armamentario scarno,

mistico volteggiamento, pendente,

non si muove, non si muove,

spazio diagonale,

la via più lunga per l’oriente,

la via più breve cerca il vero,

scinde il quark pusillanime,

tra i Gesuiti il fisico,

lingotti,

liste destre, sinistre,

guarda in alto la virilità,

robotica, cibernetica, androide,

tridimensionale,

ologrammatica imperfetta,

l’ecosistema non si conserva,

termodinamica sbiadita

e tramontana,

quantico aperto,

andaluso passo,

stanza.

 

Urla da circa

trecento milioni di anni,

spara.

 

In periferia i barcollamenti,

gli indumenti, stilisti attacchini,

stiliti spazzini, latte, piante,

l’arte, non si finisce,

surrealismo, cerca un blocco,

serpens caput, ophiuchus,

sirpium serpin, canfora,

truce struscio vorticoso.

 

Ecco ipnotiche soluzioni

per sopire dall’esterno

un vuoto interiore,

maggiore il magone invernale,

tremo alle ginocchia

ai passi felpati cari, unanimi,

incolore, inodore, psichedelici,

stimolanti maggiori,

macchie lasciate a caso sul pentagramma,

base, falsetto, reverse,

sintetizzatore proteico sonoro.

Venere nel nautico imbroglio

trasmutato Baal in Crono,

il signore dei signori

reso accadico tempo trascorso

non a caso e sferico

da quattro punti concisi dialettici

ed intensi.

 

Sogno, sogno.

Ricerca amore,

ricerca del vero amore interiore,

ricerca in contemplazione,

canto dinanzi al volto divino

ed unico e trino, mistero egizio,

rito ittita, dominazione assira,

 

Tiro brucia ancora,

le arpe, le arpe, perdute,

perduti gli accordi coordinati,

ritmici, abbellimenti,

legali legati in rappresentanza.

 

Dall’età non c’è più crudeltà

nella pietà,

 

ecco il punto,

ancora tu.

 

Tre fiumi incrociati

nel giardino perduto.

 

Eccoci di ritorno

a lampioni spenti in periferie

inviolate da atteggiamenti

impulsivi e distratti

dal via vai dei gatti.

 

L’occhio di Ra,

l’occhio di Ra.

 

Ohimè!

 

Ohimè!

L’inverno su di me.

 

Rinascita scarlatta

della lacrima divina

e infuocata presente

nell’anima creatrice,

come intelligenza, spirito intelligente,

ma ridurre la trinità

a bipolarismo sarebbe folle,

nello stesso è insito, consustanziale,

spirito, corpo e dio

son forme di energia,

e l’Uno è ciò che comanda

in noi come frutto benedetto di luce,

dodici colori, dodici note,

dodici odori, dodici sensazioni,

da dove parte la scala

nel tutto irreale,

nell’assoluto irrazionale

con piano divino

e caduchi risvegli dopo la morte

nelle transizioni

per tratturo antico al piano

verso pluridimensioni superiori,

 

in principio era il suono,

poi il pensiero e infine il verbo

 

ma se la questione è senza tempo,

lo stesso è convenzione,

non esiste evoluzione, mai,

semplice presa di consapevolezza

con l’esperienza e la meditazione interiore,

 

niente scorre e la nostra staticità

è la riserva più affascinante

perché ancora inconcepita,

da qualcuno forse intuita.

 

Dove siamo diretti,

verità 9903,

il piano è cambiato e strano,

non mi ci soffermo,

 

la fulgida schiuma natale

incrociata come segno vivissimo

e splendente in cielo,

 

incroci che sono già avvenuti,

decenni masticati, millenni offuscati

dalla nebulosa spaziale,

 

teoricamente è tutto giusto

ma manca alla scienza materialista

di quest’epoca della modifica

della materia, partita nel seicento,

la precocità spirituale del vero,

la riflessione e la dialettica

è nulla senza l’arte e l’intuizione.

 

Le stelle da sdraiati

sulla sabbia alle tre di notte,

un fuoco dipanato,

la musica da accordo infantile,

un bacio profumato d’ortiche,

l’abbraccio universale delle etnie,

le razze superiori,

tredici linee di sangue

che spiegano a parole

cose che neanche sanno.

Fratello mio, sorella mia,

non c’è gerarchia ma se davvero

non c’è dominio,

non si può regolarizzare

l’economia in base a scelte

popolari del futuro prossimo

e genetiche del nuovo comunismo,

occorre compassione,

partecipazione, sapienza

e amore diffuso tra tutte le persone.

 

Movimenti come alberghi

a cinque stelle manovrati dagli illuminati,

fanno fumo e casino nelle piazze,

politici mascherati di populismo

che infrangono ogni aforisma,

posti quasi alla pari

di qualsiasi altro partito,

coscienze di giovani

pieni di potenziali manovrate

dall’effimero,

dall’ottenere senza percepire,

né riflettere o capire.

 

Non ve ne accorgete

che siete burattini?

 

mai ascoltare altri

che non siano voi stessi,

voi stessi che se indagate

nel profondo dominerete

la rabbia e scoprirete

che l’amore è l’unica possibile rivoluzione.

 

E se nel complottismo ci si accusa disillusi,

chi critica in negativo

è chi vi appartiene,

chi critica in positivo

è chi vi subisce,

l’inverso se rifletti

va bene lo stesso,

il guaio è nel mezzo,

una zona di silenzio.

 

Pensa, indaga,

scopri te stesso, realizza gli altri.

 

1996-2013

 

Il veltro del dispetto

sgusciò dal giusto mezzo,

il punk che si impostò,

come penombra andò,

digitando il pc

che non lo vedevi che da qui,

 

scoppiando dal bit bit

più eterno, strampalato

del surrogato orientale estremo

e vivente in tecnica furbetta

e sorridente,

 

tesa a un filo la mia mente andò,

forse è l’intenzione

ma il mare si annidò

nell’altro mezzo di cartone

impresso da macroscopico gesso,

e l’alba poi ondeggiò un cantico

allegro ma non troppo,

moderato e stilistico del sarò,

e poi si increspò,

dipinta fu la bolla clorofillica

da erbe officinali

ad altre più subdolamente ancestrali,

 

il resto lo vedrai

quando ti perderai.

 

Ed eccoti improvvisa

a dorso di cornice

disfatta e accennante,

un po’ imbronciata

dall’era appena nata,

ti stemperasti così

e l’inverno la stagione soggiogò,

ridicolo il tempo ci cullò,

guarda ricorderai

le acconciature da sdraiatella in piazza,

da stracciatella e pasta canina

e cinica cioè recitazione,

il verbo dal frastuono si scostò

e l’atomo notò

noi spersi nel fiato e nel fumo

calibrato dall’ansia e dal panico

tinto l’alloro,

da assetti nelle maniche

e da i velate come cartine

del decennio, poi l’alba tramontò,

la storia si oscurò,

e il verbo l’intenzione

ormai evidente pronunciò,

 

pensa a quante rinunce

solitarie e scarmigliate

abbracciasti con il cenno del sarò,

l’estate ritornò, il palco e la gloria

un nuovo giorno dall’abisso ricavò,

pronuncia scomposta,

rifiuto della scossa allegra

e scoppiettante in sé,

 

e allo specchio poi sorseggerai l’aroma

di te stessa incauta

e fortemente da fiati nati

dalla natura ti disincanterai.

 

E intanto l’illusione

accanita restò lì,

di patrocinanti mai accuditi,

e intanto fugge l’ombra

e tu mi guardi assai,

ridendo te ne vai,

pasciuta all’età tua,

il reverse che non c’è,

la sfera che va nell’andantino,

il flauto abissino, e l’elmo divino.

 

Infine penserai,

io stessa, dimmi, dove sto?

E infine ti risponderai,

è andata bene in fondo

e d’altronde il resto

non mi interessa e manco lo notai.

 

Infine e dunque stop,

l’emo dalla coda dell’occhio

piagnucolò coll’MP3 lirico

e psichedelico chiuse sé stesso

ridendo dal finestrino

della metro rimaneggiando

l’ideale o forse teorizzando

l’esistenza dell’idea in sé.

 

Adesso si che vedrai la novità.

 

Il vero è qui e si concentra in te,

in me, nelle anime nostre

incrociate a un bivio da vicino

Niccolò e Ficino imbambolato

nel quale e nel dove

moderando i passi e le proporzioni

in sensazioni veementi

e ritmate mai più di così,

 

ed il disegno scolorì,

la nota si intreccio con te.

 

Finita la rimonta,

inizia la realtà

nel segno pronunciato

il nuovo arriverà,

pressato dai tuoi occhi

prestati al disincanto vorticoso

dell’illustre saluto

un po’ violato in sé.

La luna è sempre lì,

 

il bosco setacciato da metropolitana viltà,

i palazzi ingrigiti,

forse non mi notasti

nell’osservazione stesa contemplativa

nella tua docile, dolce

e ditirambica invettiva perversa.

Il nuovo lo vedrai.

 

Hasta luego canaglia

 

La macarena delle nacchere

e del tip tap alla riviera

tra tarante ritmate ed altolocate

come morse dalla virtù

in sé sciupata e dall’ondulazione

a realtà declinata.

 

E l’inverno crepuscolo intenso.

 

L’aria da nababbo

nella conclusione impostata

a ritmo un po’ serale

dell’estate che comunque verrà.

 

Profumo e barba fatta.

 

L’eremo della storia

lo disincaglio tra i cespugli.

Magari parla l’intruso tra noi.

E gli uccelli ci guardano

come hitchcockiani spettatori

distratti ma accaniti,

cosa farai?

Le suonate musici

sono destinati al dadeggio incrociato

tra aramaico e latino,

tra assunzioni sul posto

e terremoti che scuotono

l’eterno etereo infernale

 

e verniano magari da belve cretacee,

giurassiche, triassiche,

o magari dal mesozoico al cambriano

cambiare impostazione,

primarie distinzioni.

 

Dio mio l’arca e le bestiole

a due a due.

Un po’ in senso letterale.

Un po’ in complotto abissale.

 

Magari vogliono trovare

la connessione tra Magdala e Sophia.

 

Dove andiamo e in che modo?

 

Provenzali merovingi,

incutiate timore a falce di incudine

gessata.

Da Carlo Magno al miraggio

dell’austero conflitto austroungarico

da chanson d’oil

il nostro rigore affermativo

talora con violenza celata

vince sull’amore per orgoglio

e l’Orlando da innamorato

a pazzo il passo è breve.

 

Ecco cosa dovresti fare.

 

Cercare due consonanti

e vocalizzarle in falsetto sghignazzante

sul finale.

 

Hasta luego canaglia!

 

E nel ritmo invertito

inizia la nuova danza,

a carponi d’assoluto,

sento il verbo intarsiarsi

col tuo abbraccio sincero.

 

Qualcuno dice

spoglie sul cantiere

di una rivoluzione ormai assopita,

ma tu ascolta quello che ho da dire,

not dead dont’death

in the end of the time, punk don’t death.

 

E mentre sorseggi l’essenza del silenzio

c’è un rigore scardinato

dalla confusione di chitarre

accordate al massimo

che stemperano la temperanza

dei borghesi.

 

L’immensità è ancora

nei nostri occhi,

dai primordi di una realtà virtuale,

noi classe dissipata e derealizzata,

nei concetti mal concretizzata

ma nel nostro assoluto

unica e sincera,

noi generazione di transizione

verso il nuovo,

noi generazione di furente spirito,

noi porte spalancate

verso il vostro infinito.

 

L’energia alla lunga si impone

sulla materia e la modella

come noi rivoltosi rivoluzionari

faremo nel nostro fracasso sillabato

e mal accordato,

mai sconfitto e sempre vivido

come dai tuoi occhi trasversali e perversi.

 

L’immensità talora è abusata,

talora si sfavilla conoscenza nerd

nell’abisso

ma noi siamo la realtà concreta,

noi non moriremo,

non disappariremo in intense

sciorinature anglofone.

 

Ma siamo punto di non ritorno

del vero oltre il limite illusionistico.

 

Hasta luego canaglia!

 

Amore da Belle Epoque

 

Nell’atrio del locale

il fumo inverso sale.

 

E dimmi la verità

questa volta tra lo spirito che esulta

nelle tue boccate profonde

che secernono la realtà intorno a te,

intorno a me, seduto al limite ultimo

dell’inchino col sapore

senza uguali del campari.

 

E dimmelo ancora,

se la vita è come dici tu,

sto cantando e la voce si stanca,

ti sento in me.

Dimmi ancora con lo sguardo

perverso che il nostro rendimento

netto è frutto di passione

mentre strizzo l’occhio declini

in iperurani sopraffini,

ti sciogli e scendi dal palco

e mentre canto ti abbracci a me,

unico appiglio nel tuo borderline

dell’assoluto,

 

un bacio scocca ma declinato

da eucaliptus al varco oltraggiato

dalle note sempre in mi.

 

Ancora ti stringo a me,

per sempre e non fa niente

se domani dimenticheremo.

 

La voglia sale mentre mi accarezzi

e sincera mi squadri

come fossi l’entusiasmo

della tendenza del tuo desiderio.

 

Ripenso a te,

a ciò che farei per te.

 

Ed ascoltami, ti prego,

domani ti resterà solo

il ricordo dello sbatacchio,

del trapattare con la lingua,

dell’ontico amplesso

mentre penso in compromesso

che il tuo corpo per tutta la notte

giace sopra il mio interdetto,

 

così godo nel tuo lamento,

il piacere all’ottava musicale,

elevato alla nona per simpatia

tratta dall’attrazione di un pensiero

campato in aria e da te lodato

come fosse l’ultimo traguardo

possibile della rivoluzione umana,

esaltati ci poniamo

in ingorgo ritmato, un altro bacio.

 

E ti penso come vuoi tu,

è già mattina e il tuo capello si impone,

voltata non mi guardi più.

 

Non ti sveglio, lo sai tu?

Me ne vado e ti ricorderò

come spoglia decimata

dell’ultimo albergo,

stretta al mio manto,

muta nell’entusiasmo,

amata per sempre,

tu.

 

Adoro questa tua apparenza

 

Silenziosa e raccolta

in magica apparenza

ti scosti disinvolta

lucente decadenza

da quei tuoi splendidi occhi

mi trovo disarmato

e sboccia disilluso

come manto trapunto

il tuo tenero saluto.

 

Poi mi poni a conoscenza

di una realtà velata,

le tue labbra disegnate

in rosea fluorescenza.

Sogni ancora con lo sguardo,

 

il pensiero è il mio vello

che ti rende edotta

dalla tua stupenda forma

si illumina il tuo volto.

 

Armeggi con respiro profondo

il tuo morbido capello scosso

nella sua parca situazione designata

dall’aula del ricordo sfuma sincero

invadendo l’alma mia

la tua frullosa vocale

melodia.

 

Dal viola alla tua mano

recondita e sopita

si slaccia la scarica ardita:

profusione eterna e desta.

 

Dunque sei la più bella

e banalmente dico

ciò che tace il respiro.

 

Poi a mille il cuore scuote

l’armata posta a conclusione

e mi disarmo dinanzi a te

infrange furente il mio desio,

mentre il tuo sospiro

è nei tuoi gesti

gocce di rugiada

pensandoti come aurora,

come attimo dopo il fiore mai sciupato

del sogno.

 

Rifletti ma poi sciogli

queste rissose lotte vocali

ti confondi anche tu e nell’incedere

 

germoglia lo stupore

ultimo floreale ardore.

 

Ti sciogli quasi invisibile

ma all’improvviso scagli altrove il viso

fai la graziosa con le mani

e l’impianto del sistema universale

di arzigogoli e massimi sistemi

si riduce ad ultimo punto d’universo

mia stella più risplendente

del giardino del mio cuore

firmamento.

 

Adoro questa tua apparenza!

 

Allora sei la lucciola che trema alla finestra

pallida trema al vigore del vento,

ti stringerei al mio petto

pronunciando il tuo nome che non dico,

stordito e giulivo.

 

E poi ancora pensieri,

li trattengo per non sbiadire la tua effige.

 

Guardi a sinistra e poi me

ti giri in ricognizione

se sciorini altre due parole

ti tengo ancor più stretta alla memoria.

 

La luna albeggia attimi sviliti

 

Tre assunti tra le dita

un velo sollevato la sfida

delicata al far della sera

che irrompe

e va.

 

Respiri

come assonnata

la settimana travolta

dalla

tua

coscienza

che svolta

all’alma mia

decide

già

ciò che sarà

ed albeggia la luna,

il ritmo della vita

in metamorfosi

come tra granelli

tersi di sabbia,

 

ti illumini opaca,

vaga

sei già qua

verità

ed apostrofi i miei discorsi

con i tuoi sì,

dici di no,

non so,

forse ma ora

non ci penso più,

vai via da te

stessa come

magiche

assuefazioni

rifatte

dal lontano

barlume

di fiacca ermetica

rapita,

 

la tua metamorfosi alla realtà

dalle tue soffici mani

ondeggianti

dipinta

e sei di nuovo

così

come vuoi,

voglio io

ed è l’unica

incontrovertibile

certezza .

 

Va l’atmosfera

disincagliata

e riflessa

dalle tue braccia

attorno ai fianchi stanchi

spalle rissose

di gioia mancina

della mia vita

vetrina.

 

Ecco,

proprio non ci

riesci

ti sciogli ariosa

alla prima

dopo la mezzanotte

che in ottava

va

e ciò che sono

lo spirito estroso

tuo lo sa

in corrispondenza eterea.

 

Attimi sviliti!

 

Risveglio in notturna primavera

 

Dal nulla infausto

dei timorosi silenzi

una luce scarna

lo scranno d’abisso.

 

Chiedo venia al fruscio

distratto delle foglie

notturne

e il gemito del futuro

dal ventre si scioglie,

guizza rapido

verso l’ignoto

ed interrompe

il flusso mancino

dei pensieri disastrosi.

 

E come il verno

temprato ha lo spirito

disposto

a cupe attese

e fragili promesse

così

nella quiete

smuove i passi

un canto

e lontano

si scuote il

rumore,

graffito e pioggia

della armoniosa primavera,

musica divina

primordiale.

 

Saprai trovarmi tra le righe di un accordo muto

 

Saprai trovarmi

tra le righe

di un accordo

muto.

Questo silenzio

ci ottenebra

gli occhi,

inerte

alla finestra,

aiuto

è il grido

e l’entusiasmo

smorto.

Un sigaretta

spenta,

la luna,

il piano,

il bosco

tra libri polverosi.

Il tuo cenno

come addormentato

dal tempo

funesto dell’assurdo

imbavagliato,

tra lacci di ridicolo

frastuono,

irromperà tremante

tra la ripa scoscesa

della riva novembrina

della nostra prima

uscita,

tra sabbia il passo

muore lento,

vertigine in vibrazione

il tuo rimpianto.

E poi ancora

la vita

tra i diademi striscianti

dell’orgoglio,

tra sentenze profumate

di vendetta.

E mi vedi riflesso

per un attimo

nel luccichio dei tuoi

occhi vividi

tra lacrime deluse.

Ah mia anima!

capiremo come stolti

un giorno

che il principio

è il nostro nulla!

Ciò che ci uccide

è il nostro

filo di appartenenza,

il nostro vincolo

che tiene unite

nell’insieme chiuso

vittime assurde

della vita.

Saprai trovarmi

e tra le righe

avrai traversa

la tua vittoria

esanime,

il tuo caro sipario,

il tuo finale

estroso,

il plauso al tuo inchino

dell’assoluto.

E tremerai

tenendomi

le mani.

 

E tutto non finisce

 

Saltellando giocondo tra flutti increspati

l’orizzonte si adagia sulla perfida stanza

e la luce lunare, penombra mi assale

come trio giubilante il mio grido d’amore

risplende nel muschio selvaggio, si estende

tra i tuoi cirri boschivi e le vedute matte

con un balzo la stagione nuova si inverte

roteando fulminea tra grappoli di papavero

e foglie d’ortica

 

la puoi sentire se vuoi quando il tuo orecchio

porrai con attenzione sul sussulto del mio petto

nell’intreccio tra vegetazione e lo splendido volto

pallido e puro come quando carezzi con affusolate

mani desiderose il soggiorno vistoso come promontorio

e il silenzio si tinge di tiepido fruscio musicale.

 

Un eco risveglia il mio respiro affannato e pacato

il tuo manto stellare mi copre il corpo dalla brezza

investito imprimendo indelebile l’anima, stampo

mai spento del foco del tempo, il nostro lontano.

 

Ancora echi e una voce soprano delusa dall’andamento

respinge l’invasione ma si scioglie il sentimento più vivo,

più intenso nel secondo, nel quesito scomposto, lo sento

ancora come squillo di tromba, vivido e nitido il suono,

la follia della pioggia nel fruscio del vento è riposta.

 

Ritorna quel ritmo.

Io genuflesso ti chiedo, mia miniatura

di animarti e lasciarti dalla danza cullare

desideri nascosti saranno prorompenti se tu

nel rimbombo notturno scoccherai da Artemide

flotte di saette tra vette dirimpetto al precipizio

di modo da percepire l’infinito in un semplice

passo, non è nota lo spirito ma cascata sincera

che dall’intestazione trasforma l’abbellimento

in adorno sintagma indivisibile ed elementare

il fonema, la goccia, la roccia, l’anatema

sul polso orno della balestra e dell’arco universale

nella selva mi perdo e tu amata bestiola trascendi

il senso del ragionamento con simpatica alterità

sentimentale.

 

Due pulzelle tessono in disparte,

la modernità vocale è solo apparente,

improvviso come arcobaleno dalla crociata

smussa ogni sonata l’entusiasmo

ma è solo fulminea apparenza

che talora ricorre come ritornello

o come circolo vago,

come magico assolo.

 

Guarda alla rima svogliata, la tua immensità

disertata.

 

E tutto non finisce.

 

Inebriato dalla tua apparenza

 

Nell’antro della grotta

bigotta

il trastullo dell’eroe

ribelle.

 

Mille e poi cento

fiori di loto,

il tuo volto altezzoso,

il tuo vestito dipinto

di ciclamino.

 

Pensiamo nebulosi

nel frammento musicale,

tutto è amore, mia cara,

tutto è nuovo

con gli occhi del passato

incerto,

del futuro rigoglioso

tra germogli di sogni

acerbi,

clorofille i desideri,

allori rissosi.

 

Del numero infinito

portiamo il respiro

come quando, lenta,

passeggi a dita sciolte,

briga del sentimento,

auriga del dissenso

armonioso.

 

Nessuno oltre noi ascolta

il sussurro dei passi nostri

sulla sponda.

 

Forse magari solo la luna

o il sole bistrattato

perché possente

possono raccontare

l’aneddoto,

tiepidi sul mosaico di stelle

stravissuto, nostra immago,

nostro orizzonte.

 

Et anche i tuoi occhi

dal brevissimo sguardo

dissero, pizzicati sulla lira,

la notte è l’assolo

del nostro ululato d’amore,

reietto e spento solo

per i giudizi invecchiati

del lento inesorabile consumarsi

dei sassi sulla riva.

 

(Talora le conchiglie

brillano senza sapore

umano).

 

Continua a stringermi

con l’apparenza,

disseta il mio cuore

inebria l’alma solitaria

e sorridi.

 

Anche la pioggia greve

ed odorosa

accompagna i nostri cenni

e non c’è vita umana

che separi

l’intreccio

delle nostre mani.

 

Emisfero di passioni è la ragazza mia

 

Emisfero di passioni è la ragazza mia

ed ogni quesito d’universo spento

ripudia dolor nell’estroso passo,

talora guarda al dipinto plurale

dell’erba e del soffice manto

austero nel canto cadenzato

e raddrizza l’inverso fragoroso

della vista quando, miserrimi,

celebrammo la ventura dell’oscuro.

Talora lei simpatica,

quando le fisso le mani

abbassa il viso

ed è come voragine il

mio core,

come tempesta il mio sentire,

tutto trasmuta in trascendente

e non v’è figlio di Cristo

che non senta il pullular

di una scolastica passione,

il vincolo sovruman

della femminea intenzione.

Allor si chiede all’ombra

ristorato

un corpo innamorato e tutto

perso

se da un solo cenno

si può carpire il color

dell’immenso,

le fugaci vie mancine,

i dardi e le stelle

che in gomitoli di costellazione

fanno l’eco

al grappolo vistoso della sua

silente immaginazione,

del suo sorriso.

Sembra che la temperanza

vinca la empedoclea

confusione,

la scissione dell’armonia

tutta in faville

quando per la tensione

si respira guerra

che dir ‘sì santa

è offesa all’anima

creatrice.

E lei, perciò,

è l’unica salvezza,

o genti mortal

gettate al vento il mantello,

ficcate nella rimembrosa roccia

l’acuminato stendardo,

lanciate l’elmo,

che ‘sì tosta virtù

mai per disdegno

ha carpito il senso mio.

Come il pittor

talvolta naufrago

rimugina sull’algoritmo

fitto

del Fato

per trovar la giusta quadratura

al cerchio,

tal io son rimembrano e contemplando

la sua gioia diurna

e furente nella notte

quando l’occhio dilata il suo vettore

e tenue come foco rissoso

sfavilla il suo pudore,

splendore!

Non negate spiriti

a cotal figliuola

che tanto ha sofferto

e tanto amato

la grazia dell’immenso.

E tieni conto

o Misericordioso Lume

che pur se lei ha negato

il tuo dominio

l’occhio ruggente e celeste

suo

a te ha condotto

me e gli altri innamorati

profughi nel vuoto

infinito dell’immenso.

Non sperderti dunque,

o mia canzone,

ma per li cortili e i vicoli,

le reti ingorde

e le prolisse rive

spargi il suo nome

e per desio

cedile il posto

nel più melodioso cerchio.

 

Pupilla inaudita

 

Pupilla inaudita

e inenarrabile,

matrice del misterico stesso

tuo intrinseco

astratto

e etereo

impronunciabile fattore,

sguardo inebriante

della pace universale,

scaglione inesperto

e tutto ardito,

io

fisso quel punto

mentre assisa somma

sei il rimasuglio floreale

dell’essenza infinitesima

che trae splendore

dall’ infinitamente piccolo

che d’energia

raccoglie in madornale

concentrazione

tutto l’intellegibile

che scopro

non più indivisibile

ma percezione vaga

della rissosa natura

che parla a tratti

come consumata

dall’emissione

del tuo fiato.

 

Chi sei tu piccina

che tanto gaudio

non disdegno

ma da sapore d’assoluto

assurgo

a mantice prolisso

di ciò che

solo accennato dipinse

il relitto umano

nel momento stesso

in cui pietoso

volse il suo pennello

all’incanto astratto decadente

dell’immenso?

 

Par sì crudele e

di oscuro salice

trafitta,

ma il Dark alla Desdemona

trasmuta

e trasuda pallade

del religioso

silente armeggio

sapiente

e mancino

quando d’artemidea amazzone

trafigge il dardo

con sì splendore

e noncuranza

che l’ago nella vena

dal pagliaio

è pacifista assassino

della belligerante

resa,

guerra finita

e diplomazia

discesa

tra saporite mandorle,

foglie di assenzio,

caduca spina

nella rosa inversa.

 

E come d’equatore

mancante il tropico

dall’eros

delirante

vola come spasmo

e trasla e parla

d’incantevole fattura

come respiro trafiggente

del sospiro

dicente all’entusiasmo,

muta aspetto

e scindi il desio

dall’entroterra sublunare

di ciò che uman ragione

tace.

 

Senza costrizione,

misericordioso guardo

femmineo,

soggioga belve,

bestie

ed anime animali

nel momento panpsichista

di inutile lamento

è la mia voce

quando avverto,

mentre scrivo,

il melodioso passo

del tuo immane pronunciar

l’eterno,

chiudo gli occhi

come svenendo

di vertigo istanza

tra legge

e guaritrice affanno

la sintesi graziosa

del male e del bene

come d’angelo caduto

riscattato dalla

stagion divina

concupita

e

sognatrice

senza più ricordo

all’aurora

dell’ultima notturna

vision leziosa

e tutto l’universo

tra foglie novembrine,

maggio, ciliege

fragori lampi dicembrini,

neve in febbraio

e sonando

d’acume di notte

in mezza estate

sera di luglio

quando il tramonto mostra

la frescura d’amor,

volume sustanziale

ed accidente non pensabile

e più guardo qull’apparenza

più non respiro

come dardo

che stordisce nel momento

della pugna

ma l’assopirsi non volea

acchè per sempre

perfetto

possa percepire.

Vorrei davvero,

genti mie,

che poteste capir

ciò ch’io

guardando e stupendo

mutande essenze

di dodici note

e dodici colori

e dodici parole

e numeri

a tal stessa guisa.

 

O me stesso misero

fammi esporre solo

un istante

lo iato circoscritto

e circospetto

alfin che capisca ciò

che il mistico saluto

rende cenno concreto

e viceversa.

 

E l’ultimo attimo,

come fosse il primo

o addirittura passato

o maravigliosamente

mai sentito,

è vittima

d’allucinata

immaginazione.

 

O mea patria

 

O mea patria!

Ristoro dei miseri

e desio dei leziosi

profughi dello spirito,

guida nel mare tempestoso,

navicella d’ingegno e respiro

eterno

della soave canzone adorna

di araldi mai stanchi delle

lodi,

in circolo attorno

al fuoco di Vesta

rifulgente

mai sazio, e risplendente,

ti prego vivi,

ti prego stendi la

possente mano

dei tuoi eroi e servi,

padroni dell’esistente

e del metafisico sospiro,

del tempo frantumato

e del destino di gloria,

copri col tuo manto questi quattro

ultimi reduci

di una guerra

che cantano finita

da anni.

Barattieri mai sazi

oltraggiano

lo stendardo,

macchiano la candida

veste che fu l’orgoglio

di piccoli ragazzi

sprezzanti della morte,

grandi uomini,

immensi cavalieri

del tuo sangue,

arcangeli della divina,

laicale causa

comunitaria.

Volgi il tuo sguardo

immensa donna

e col fragore di fulmini

e di dardi stellari

mostra l’ira pietosa.

Regina degli umili,

dei bastardi,

degli ultimi,

rigetta nella fornace

gli ostentatori,

i maghi politici,

gli ingordi lussuriosi

che godono nel fagocitare

danaro, ricchezze,

rovina nel fango

le svelte scimmie,

chi si dice poeta

e non si accorge

che nell’atea protezione

ha già trovato

la morte.

Amore mio,

che dir magnifica

è poco,

ascolta non me

ma il

lamento della virtù ,

manda le tue schiere:

Cesare dal purpureo

furore,

Augusto magnipotente,

Aurelio il saggio,

Costantino tua spada

crociata,

Diocleziano, Giustiniano

sommi legislatori,

Cicero oratore,

Petronio esteta

col diplomatico

Croce della medesima

materia,

Orazio figlio

del repentino

lampo spaziale,

l’Aquinate dall’aguzza

abilità deduttiva,

Pietro pastore

adottato dalla

Città Eterna,

Federico lo svevo

siculo campano,

Stupor Mundi,

Pier delle Vigne

il notaro dolce,

i due Guido,

l’eretico e il cristiano,

il sommo Alighiero degli Alighieri

e Montale il baritono,

Petrarca col suo caro Agostino

assieme al fratello,

Boccaccio, Dario Fo,

Benigni e Cecco

oltraggioso,

i 99 e i maestosi

giocolieri

di strada

con Rino

romano calabrese

che li

accompagna

a ritmo di chitarra,

alla risata complice

dell’anarchico Faber

e del Maestro Battisti,

il fine Machiavelli

e Lorenzo dei Medici,

Sisto,

Michelangelo,

Leonardo,

il geometra magico

del cerchio

ed il Vasari,

Arrigo,

Cola di Rienzo,

e il pugno chiuso,

il presidente partigiano,

Aldo filosofo del diritto

e del giusto compromesso,

Dossetti ecclesiastico

della libertà,

i due rossi

quello della seconda guerra

e quello morto mentre arringava

i suoi compagni a non arrendersi

e che ora alla vista dell’inciucio

e alla scomparsa di ogni ideale

piangerebbe lacrime amare,

Fieramosca,

Goldoni commediante

e le sue maschere

tutte nostrane,

Metastasio

e l’aristocratico Alfieri

col suo volere

che sposta nella tundra

montagne e grossi massi

e pregiudizio,

il folle sorrentino

che narrò Goffredo

di Buglione

assieme a Ludovigo

con l’Orlando folle

perché innamorato

come Boiardo ha già

cantato,

Pico ermetico

dalla memoria prodigiosa

e il martire Bruno

arso sul rogo

per libero pensare,

Basile larga la soglia,

stretta la via,

Manzoni il padre della lingua

e quello della sublime merda,

Mazzini il massone

e gli altri carbonari,

Pellico, Garibaldi,

il Tessitore,

i sottufficiali borboni

e poi giusti briganti

in sella,

paladini del mezzogiorno,

non dimenticando poi Filangieri

e gli altri del ’99,

e il pontefice

che non poteva e non voleva

perché non doveva,

e quell’altro della cattolica

rivoluzione,

detto il Buono,

cui seguì Paolo,

poi Luciani gentile,

il polacco che imparò l’italiano

insegnando l’amore,

il tedesco agostiniano che tanta ala

a Tommaso scolastico spese,

i due argentini,

l’uno papa come

d’Assisi il poverello,

l’altro col numero dieci,

infine noi,

poveri e pochi,

non degni

ma bisognosi,

per sempre alla mercé

tua

e dei tuoi comandi,

o Bella tra le belle.

Non mostrare

che umiltà

con sguardo fiero,

con la tua pietosa

vendetta

salva chi ancora ama

e resta

nella sacra terra

di giullari e santi,

di dotti e nobili

di massima famiglia,

spezza il nostro pianto

accarezzaci le gote

e liberaci dai tiranni

populisti a cinque stelle

e ipocriti,

dal demagogo

di finivenst padrone

e dai molluschi seguaci

di Letta,

di Bersani,

di Prodi,

dell’Europa

sotto l’impero tedesco

e lontana

per cagion dei banchieri

al patriottico

disegno

dei nostri padri

che uniti

unirono

la figlia di Gea,

di D’Alema,

Occhetto,

Veltroni,

Bertinotti,

e tutti gli altri

che si dicono col popolo

ma restan soli

e stolti.

Altro dirTi non vo,

come disse chi assieme

al padre della Genealogia

di Roma

qui nella partenopea terra

da lontano fu sepolto,

ma sappi che la nostra

foga non s’arresta,

noi Italiani,

inventori della terza via,

come il siracusano

fece della leva,

cui il professor

Pisano

in domicilio coatto,

trasse il matematico

metodo

che rese decifrabile la

Natura,

e che insegnò

la diversità

del moto celeste

dalla volontà

della medesima

provenienza,

entrambe libere

e sovrane,

come sole

abbisogna

della luna,

e viceversa,

un ultimo favore

Ti chiediamo:

dai parola ai muti,

vista agli accecati,

pace perpetua,

cancella la xenofobia

da questo popolo tanto ospitale,

rendi italiano chi lo vuole

senza guardare al sesso

o alla razza,

e neanche all’opinione,

ma solo all’alma sua,

a che sia degno

di entrare cittadino

in questa terra,

scelta dall’Immenso.

E a quei che si ostinano

a deturpare il tuo

corpo,

le fulgide bellezze

di paesaggio

e quelle lasciateci

dagli avi,

dai lumi delle nostre ville,

dai sarcofagi

tanto osannati

dal poeta che morì per

debiti

in terra anglicana

e che nel momento della Tua unità

tra le braccia materne della sua cara

Croce Santa fiorentina

fu riportato,

dagli ragione,

dagli gioia e istinto,

illumina il loro intelletto,

a che preservino noi

e soprattutto

la Tua Persona Risplendente,

che ci insegna a non ripagar

con la stessa moneta.

Non altro ancor,

dico e diciamo,

Ti chiediamo

per noi,

non ricchezze,

non onori,

non glorie,

non allori,

ma il viver dignitosamente,

nell’universale abbraccio

fraterno,

e infine,

soprattutto,

l’esser degni

di esser nomati

figli Tuoi.

 

L’epilogo intransigente

 

Dal sole il respiro,

tramonto,

silenzio

in bilico,

taccio

come rovente lama

nel luccichio

sulle trame

del destino.

 

Ascolta con cuore aperto

la trasmutazione della rinuncia

nell’amore e nella libera

passione,

 

rifuggendo come abbagliata

ad una appena accennata

melodia,

lei s’assise

e a sguardo

tutto dipinto

iniziò

magicamente recitando.

 

L’epilogo intransigente

Ultimi lamenti da San Pietroburgo

 

Profumo spumato

di rose odorose

ed io

piangendo

ascoltavo

il passo del vento

 

silente.

 

E tu respiravi

affannosa

alle falde

del letto il guanciale,

strepitoso,

 

noi parlavamo,

disquisendo furenti.

Ti vidi la sera

caudente gaudente,

dal respiro assorbente ,

avevi il solito volto

sperso tra ricordi ariosi.

 

Come puoi

capire l’amore

se non l’ha vista mai

coi miei occhi?

 

E il senso

declinava

pianti a dirotto,

 

purpuree

erano le sue guance,

 

caviglie perverse.

 

Percepivo

il limite

dell’infinito

nel corpo

violetto

di una ragazza

appena appena

languita sortita viletta.

 

Potevo

assopirmi in contemplazione

intuendo

la bellezza assoluta.

 

Scandendo le parole

a perdifiato,

rivivo nel tempo passato,

rose odorose,

richiami,

rinvii,

reminiscenze e madeleine.

 

Così siamo soli,

io, tu e l’eterno

 

ed i cancelli chiusi,

sigilli

destinati all’oblio

eterno,

scardini dalla scala

rovinosa,

 

clorofilla

smorta,

ubriaca,

tutta ubriaca,

 

Escher,

la chiocciola,

 

l’illusione,

il tozzo di pane,

l’allucinazione,

il vino,

ottimo

il profilo,

 

vai bene

per la parte

di te stessa

persa.

 

È davvero strano

credere alle nostre follie,

ma nel silenzio

il rumore

rimbomba,

 

occulto

il segnale

e dai tuoi occhi

emerge il fragore

del colore.

 

Nel caldo cantuccio

del letto

tempo perso,

 

nelle tue mani stretto

il centro dell’universo,

 

il rapporto

si incupisce felice

e tu sei ancora distesa

su quel letto d’ ortiche,

 

stimolante!

Dalle tue parole emerge

il gemito del godimento,

 

non sembra più necessario

parlare

o fingere.

 

È così,

ti amo

e mi ami,

 

eppure non fingiamo

né mostriamo

reciproca reverenza

ipocrita

ma sano spirito

dialettico,

 

soli,

io, tu e l’eterno,

 

soli dunque nell’eterno.

 

E che passione!

Amore rivoltoso

la rivolta è sublime,

 

suoni vesuviani

e scanditi

tra pasti lauti

e parchi

sogni.

 

Prova a distruggere

il tuo ego,

si espande intrepido,

 

cari, che volete,

un giorno

ritornerà babilonia,

l’aria sottende pace universale,

voglio l’eterno

in transustanziazione vivere.

 

Dalle tenebre

e dall’abisso

la rivolta è sublime

ma candida,

appena appena fiorita

viola del pensiero

e il passato futuro

in circolo etereo

ellittico e speculare

al ricordo oculare

del sospiro tuo fatale.

 

Se la materia si imporrà

scorgerete

fritti in burro il vostro limite

sostanziale.

 

Se vi imporrete

sarete liberi come gli uccelli,

 

se vi imporrete

luce celestiale

propagherà nell’abisso

e il Tartaro

le sue oscure catene scioglierà.

 

Prometeo libero,

sapienza libera,

luciferina strisciante

 

et incanto

babelico.

 

Poi il polline umano

è fondamentale,

se remixato al reverse.

 

Piangi mia principessa.

 

È do si do,

è sol,

 

è principessa.

La restante

 

deduzione sanscrita

è libertà,

fraternità,

uguaglianza,

via il timore,

è verità

 

fondamento d’eterno.

 

Se dall’epoca attuale

e materiale

farete il balzo

verso lo spirito che è in voi

e si impone

comunicando

l’anima eterna sempre consustanziale,

tramite il corpo,

delle vostre bellezze

e di quelle

del fiore appena sbocciato

appena appena sbocciato

 

dai, lo ridico

appena appena sbocciato

già intrepido.

 

E il nostro bazzico

diluvio suadente,

 

torna mai sopita

la rivolta sublime,

vera  anarkia.

 

Anarkia quando

la notte poi giungeva

lentamente ad occhi spenti

con in mano i suoi calzari intorpiditi

mentre puri i capelli lunghi e mossi

battevano con forza quell’Autunno

ormai in catene ed in preda alla follia

dei suoi ricordi.

 

Soffrivo ma forse non capivo,

chiudevo gli occhi stringendo dentro me

la forza ormai resa impotente

e i sogni distrutti nella mente da una rinata disperazione

e dalla prepotenza di una guerra

che ora non so più fronteggiare,

che non sappiamo taciti fronteggiare,

allibiti dalle rovine austere,

sbriciolati dall’assenza.

 

Silenzioso il cammino,

muto!

che io attraversavo in pochi giorni

mentre i Mesi con carrozze rumorose

facevano lentamente la spola,

consegnati dai messi

e rinsaviti dalle catene ardenti

delle nostre congetture

 

e allo sbarco aumentavano le mie paure.

 

Rimasto solo,

utopia, utopia la mia speranza

e i sogni ancora abbattuti dalla violenza

di un mondo che ha paura di se stesso.

 

Non mi arrendo anche se stanco,

non arrendetevi,

saremo un giorno umanamente uomini.

 

Supereremo la alienazione imposta,

contemplando in differita.

 

Tu infatti,

come nello sciupio amoroso,

spingi

il mio vortice

atroce.

 

E sulla crosta

siamo già

nell’ altrove dell’oggi,

ieri

sapevo rinunciare,

ora sappiamo

cantare atonici

attoniti innanzi al verbo.

 

Il caos strallabante,

strallabio mattutino

sfumò folle.

 

Cambia il verso,

pare l’ideologia,

 

presumo

deduttivamente

in sussunzione eterea dal concreto

che il sillogismo

di questi giovani

sia il sesso, il potere, la politica

o in alternativa l’arte

che per loro è solo fama

e dunque lo stesso

di cui supra.

 

L’arte è il sospiro dell’eterno,

rinunciate a tutto,

non a lei né a voi

dunque,

eccitazione innata

estrinsecata per l’anima dolente

ristoro maledetto

e leziosia ad un tempo.

 

Non diveniamo

figli dell’impero consumista,

figli demenziali degli anni ‘80

ove l’imprenditore ha vinto,

né nuovissimi telematici

ove l’altro imprenditore cibernetico

ha vinto

 

e si vede,

bellini bellini

alla ricerca.

 

Forse domani,

speranza immane

e portentosa,

 

forse domani

l’entusiasmo smorto

al sincero addio

dal finestrino,

 

gli occhi tuoi intensi,

 

non ti sorprende ormai più

la verità,

 

-riposto il vuoto

nello spasmo silenzioso

di una passione che lenta

si spegne-.

 

Ed è dal dondolio

come altalena dell’alma

in bilico sul cuore

che dalle tue labbra

promana l’ultima

sentenza atroce.

 

Forse domani

cambierà

il colore

sempre nero

di questi nostri giorni

in alabastro,

 

sarà un giorno

nostra davvero

la più profonda e disarmante

serenità.

 

E la battaglia prosegue

sebbene noi stanchi,

 

sempre in direzione contraria

e contro tutti.

 

Al confine ultimo del mio pensiero

tra le lacrime e te sempre più lontana

sboccia innocuo dal passato,

per quello che dissi,

un sorriso.

 

Magari domani

un chiuso, terribile

dispiacere

non lacererà più

la carne viva

del mio amore

intrepido per te.

 

Ricordi?

un tempo andavamo al di là di noi stessi

tutti

al di là di noi,

esseri umani

e quindi predilette

scintille divine

nella concretizzazione del bello

per il mezzo materiale.

 

Non capisco,

siamo noi ancora

o scimmie rampicanti

che bramano nell’arrampico

il raggiungimento del trono

colmo di fango?

 

follie inarrese

e inenarrabili!

 

E le tapparelle chiuse.

 

Sembra luglio

inoltrato,

 

estate per te.

 

Ma nell’afa

sono sperso,

 

ho tepore

sugli occhi,

 

trasudi tu

e trasudi te.

 

E se sei falsa

tutto in un attimo è fallace,

 

lo diviene,

lo divenì.

 

Il cell

tramezzo

muto.

 

E sei una di quelle

che si entusiasma

ma poi

tiepida

dal vento

è portata via.

 

Non si può

così.

 

L’amore che ti do

è tutto

 

ma sei oscura,

 

dalle tue parole

indecisione,

 

tentenni stramba,

a volte silenziosa,

 

non capisco più

cosa vuoi.

 

Eppure

un tempo andavamo al di là,

al di là,

al di là di noi.

 

Noi,

di traverso

caduti

sull’uscio,

marciapiede,

 

non posso scordare

ribellione amorosa,

noi fuggitivi scaltri.

 

“La ricordi lei?

Ti ricordi noi?”

 

Mentre

io canticchiavo

strano parlavo

e lei

vivida

introspezione

ricreativa,

 

depressa

nella sua innocenza,

roba da pensare.

 

Le nostre simpatiche

fughe e via vai del 22

atteso con garbo

 

e siamo,

eravamo insieme

e la trasmissione

parabolica spenta,

 

gta.

 

Ti ricordi gli occhi azzurri,

 

ti ricordi

che

soddisfazione

intellettuale

et amplettica

tre,

 

intellegibile

la questione,

 

biglietto obliterato.

 

Mi dicevi:

“ciò che scrivi…”

 

ma che fine abbiamo fatto,

tutti lontani,

pazzo

scriverò di noi

solo per evitare

nel mio percorso

di dimenticare

la fuga fugace dell’addio

destriero ardito

su monte scarno.

 

Che fare?

 

Che fare?

 

Al concerto

sono in trance,

 

bilico

d’assoluto.

 

Canta,

canta mia sublime

ancella et principessa.

 

Avrei voglia di brulicare

tra queste rovine che restano,

pascolano ancora arcadiche caprette,

 

ingressi

ridotti a cancelli

sigillati

e catene.

 

Il mondo è tuo del resto,

il mondo è nostro,

 

pudori antichi

riposti nelle secrete

del tuo cuore,

 

intimo sagrato.

 

Lo sai meglio di me

che il mondo è tuo,

 

nostro,

noi, soli padroni di noi stessi,

decidi,

o non farlo.

 

Sei la sublime

regina di te stessa,

 

hai diritto a tutto

solo perché esisti.

 

Sei sola ed unica,

essenziale,

 

non ascoltare

le mode anni ottanta,

 

e chi impone un parere

è la vera dicitura della mancanza,

 

continuiamo?

 

Meditazione ad oltranza

 

Meditazione ad oltranza

 

Dallo 01

la storia sta cambiando

 

e non dico

in quella data,

k

quella certa.

 

Cibernetica

vi distrugge,

 

non c’è sistema

che non sia viziato

da sensazioni

non apparenti

di schiavitù.

 

Stai tranquilla

e rinuncia a ciò che ti sembra vero

per la voce del padrone.

 

Guardatevi

dalla telematica velleità,

ragazzi

ciechi sulla via di Damasco,

 

la lotta è l’unica via

e l’unica liberazione

internet tracotante,

è giusto il vostro pensiero

non quello imposto.

 

Ascolta

solo te stessa

non altro,

 

ascoltate la sapienza

e l’intelligenza.

 

Continueranno a sfruttarvi

se non

imporrete

senza comando

la vostra

esperienza

e il vostro volere,

 

poverini

siete nella grotta,

vedete solo le ombre,

svegliatevi,

 

svegliatevi liberi

da parrucconi

o da  testimoni di geova della politica.

 

C’è anche, talora,

ricordatelo,

un sublime abisso

ed il Maestoso

si nasconde

nell’infimo.

 

Inutilità causale!

 

Le cose importanti

e quelle vere

emergono comunque

dalla casualità della vita.

Quasi sempre

dalla inutilità

causale.

 

Contemplate ciò che vedete

attoniti, maraviglia

natura et opra umana!

Turbamento interiore,

che ascende dall’ama a refrigerio d’intelletto

è frutto del ricordo esasperato

e nella vita riletto e consumato.

 

Cosa vuoi,

resto sempre qui

a ridipingermi il viso con sospetto

e me lo chiedo se ritrovo spazio ancora.

 

Sorse dal nulla tra di noi

e l’alterità delle barricate

un tumulto disatteso,

 

gli scatti veloci come gatti

impressero un sospiro

sul tuo profilo.

 

Si dovrebbe avere coraggio da bestiole

che in te trovano riposo

e ristoro,

 

si dovrebbe contenere il tuo affannato respiro

e dire che ho lottato,

sbagliando

ma di poco.

 

Eccoli,

ecco l’arte,

i vividi monumenti alterati dal progresso

che non piangono più lacrime ma gesso.

 

E silenti estroversi si smarriscono.

 

Poso tutto e corro tra le tue braccia,

peso poco e gradivo il mio corpo si slaccia.

 

E finisce

prima ancora del prologo

il tuo sermone orripilante

e oscuro.

 

Alma Incantatrice

 

Il mio cuore innanzi geme,

sorge una stella nel tramonto.

 

Alma serafica

sorgente

pura del mio spirito,

dentro me sospiri

e candidamente scosti l’aria,

che movimento puro,

che disincanto sospeso,

che pensiero disilluso

amor mio,

la vita non ci dona

la candida rosa,

la scorgiamo solo da lontano

come emblema

del nostro cuore.

 

Il sapore del vento.

 

E ticchettio mio dove sei?

Amore livido e seducente,

dove sei mia attrice,

lunare effige plastica,

ciondolo siriano al collo,

mio speciale barlume lieve,

tu dispetto buffo,

paonazza e bronzina gioia,

goccia vespertina,

acrilico scardinato

ma possentemente intriso,

musica dolce nelle vene,

sole notturno e gelido,

melodia stampata indelebile

sul vetro.

 

Sorge una stella nel tramonto,

ti amo credo

e te lo dico senza perifrasi,

tanto è come staccare un fiore

ed annusarlo, lo sai che preferisco

contemplarlo e immaginarne l’odore,

ma stasera sento un tepore

che dai polsi mi invade la schiena,

scende a perpendicolo

e mi scuote il capo,

ti prego, vieni qui con me,

sogniamo insieme nella radura,

so che ci sei,

so che verrai,

se sei mancata a tante albe

non potrai dimenticarti di me

proprio ora che riscende la notte,

sì so che verrai,

sarai qui appoggiata

alla mia nuca,

noi di spalle

gli un gl’altri

a guardare il cielo

e poi chiudendo gli occhi

a raccogliere l’attimo profondamente,

trattenerlo e non perderlo più,

per sempre insieme.

Per sempre!

 

Sorge una stella nell’aurora,

senza di te la rimiro e penso,

dove sei ora ormai non lo so,

né che fai,

tempio d’Egitto

e principessa della progenie

arcadica saggia e caprina!

 

Sorge una stella a metà notte,

vago in speranze lontane

con te distante, mi volto e piango,

tu non ci sei,

sono assordato da questo silenzio!

 

Sorge una stella non so dove

ed alzo le mani,

saluto e scanso le foglie caduche ,

ti attendo e mi asciugo gli occhi.

 

Tu intanto presente e apparente,

guerriera prima,

amazzone,

eco lontano

rimbomba tra le stalagmiti,

odore di fumo e tamerici.

 

Nostra dama sull’orchestra,

oscura e funesta

l’attesa

dei tuoi occhi,

solo per rimirarli,

pragmatizzare nella realtà fuggevole ed avversa

il mio eterno sogno tutto nuovo

e dipinto.

 

La gabbia dei sinceri addii

che tristi rotano lì intorno,

la fiamma dei cabalistici ulivi.

Follia e Dionisio,

vivi nelle vene

e nella scure,

amore bazzicante.

 

Sento la forza arcana,

la potenza ancestrale,

la violetta scismatica ragazza.

E poi l’incanto dei pensieri,

scuri dal sapore lieve.

 

Vocetta,

dici a tua volta,

il maestrale nostrano

non è la furia scandinava

dei tuoi servili temporali,

succubi domani deleteri.

 

Sei stupenda

scandita dalle percussioni,

sbellicata dagli archi

e dai mesti sultani

che si inchinano

e che fremono al tuo giacere

assisa in firmamento.

 

Io sono qua,

l’alba dell’età,

l’anima del sagrato,

l’ombra del segreto.

E non ho le seducenti mani

a tempo sul ripiano,

sgomito nell’altopiano,

banalizzo i sentori

dell’incauto oltraggio.

 

Sei di sbieco senza fiato,

sei svilita e xilofonata,

spiega e metti in piega,

subisci pure gli odori.

 

Sento un po’ la pioggia

e non ho quel gomito carnale,

quell’archibugio astrale,

quel rimpianto sconfitto,

quel petto trafitto.

 

Lezioso piatto imbandito

non è eclissi il sole nero,

l’atomo ultimo del vero.

 

Ti ricordi ancora,

ho lacrime d’assenzio,

germoglia lo smeraldo,

travalico i monti,

ti guardo negli occhi,

la mia testa sul tuo pallido petto,

rosa ebenacea sul mento

e cuore in fermento.

 

Oh godo alla vista della luna,

oh godi al verbo incarnato,

trasfigurata effige catara,

provenzale sonata,

tubinghese teologia,

atavica pazzia,

orda indoeuropea stanziale,

vitello d’oro,

taurino messaggio,

belante miraggio,

allucinato istante bendato.

tu,

specchio,

valvola trascendente,

tasto d’avorio,

scala in si minore,

giro ossessivo,

armonica compulsione strumentale

e la testa sotto il cuscino.

 

Tu,

tu già lo sai,

sulla sponda del molo

sfoglierai la luna,

oh frastuono di miele,

oh onda spumeggiante

e lastrico di schiena bianca,

tondo violetto,

clavicembalo alato.

 

Starei con te

guancia a guancia a fissare

impietriti il mistero,

e arriva il do,

ho voglia delle tue labbra,

mentre sussurri

nel mio rimpianto onirico.

Oh, i tuoi capelli sul mio petto!

 

E non hai l’ortica istigatrice

sul ventre, continui.

 

Sarà il nostro segreto

l’aurora,

vaneggi mentre protendi

il tuo dito serrante

sulle mie labbra.

 

L’albero esplode,

è ciò che mi preme

divorare la sapienza del bene

e del male,

 

la contemplo

e non oso per pudore

e folle bramo ancora

vigore nei giardini,

sono tuoi gli altarini

miei e tu altera

sogno mio

sogno mio

impossibile

e tu tanto vera,

tanto carina,

tanto profonda,

tanto carnale,

tanto a portata di mano,

tanto dolce,

tanto splendida,

stella del tramonto,

luce dell’aurora,

sussurro dell’eterno.

 

Ascendo tra le foglie,

sono superba,

strafai.

 

Astri estrosi

incrociano i nostri sguardi

mentre li orchestriamo,

accordiamo le falle,

nessuno può fermare

il nostro palpito furioso,

mai,

la tua veste candida

verde sotto assedio

giglio,

mistero di vetro è questo,

cristalli condensati nel tempo

e rimessi al vento,

rimessi al senso,

assi e travi urbane

a sostegno dei giorni,

paonazza sei, ragazza,

affronta i ridenti,

angosciosi fermenti,

lividi inospitali

sul polso violato,

docile riporto,

matematico sfregio naturale,

vasta alleanza sui binari

dalla fiamma antica.

 

Bacchetti la corda

con forza tra le nubi,

vai mia piccina instancabile,

continua a suonare,

le carte le puoi giocare tranquilla,

sono paziente,

squarcia il velo orientale

dell’illusione,

e sorgi luna

in luogo del sole,

ridona la potenza

alle selve,

riaddenta la mela,

volgi lo sguardo alla luce,

alla ortensia

alla viola

ricordo,

un lieve sentore

sobbalzerà in te,

serva e padrona d’assoluto,

maestra e scolaretta,

demone angelico.

 

Astri estrosi

ruotano intorno

mentre scriviamo,

il piano stonato,

la vita nostra sintomatica

svilisce il potere superbo,

sorge per sempre

il bagliore pallido,

nell’abbraccio possente

fondiamo e creiamo

staticamente la sostanza.

 

E di notte lontana tu,

tutto finisce,

tutto inizia.

 

Avessi fiato parlerei di te,

avessi voce, abilità, scrittura,

parlerei di te,

avessi senno

scriverei di te,

l’intelletto mio sulla luna

e rabbia cieca

nell’impotenza

della realtà avversa.

 

Magari in barca

parlerei

solfeggiando il golfo

costeggiato ed ingolfato

veicolo stellare,

la sabbia che sporcò la stiva,

vestigio umano

del ricordo,

padroneggi con rispetto

il mio timone alla deriva

naufrago,

nocetta buffa,

vocetta candida e serpentina

cassi le mie casse

con rinvio, formale l’errore

illogico il dolore,

manifesto marxista infondato.

 

Accendi la siga e tiri sorridendo,

il tuo fumo appanna i miei

occhi portali,

in sogno portuali

appigli sepolti

e sepolcri, spogli nichilisti

da canarini che tu sai,

sbottoni la camicia in trance,

meditazione ondulata,

e già!

 

Dagli un nome a ogni creatura,

va be’ questo proprio no,

il suono fonetico deriva

dall’onomatopea,

fumetto primordiale e astrale,

studi la parola e allora

perché babeli ancora?

 

Il gruppo clanico

cambia forma

non sostanza né apparenza,

vedi l’allitterazione

tra suono naturale

e pronuncia umana vocale,

costante consonante,

impronunciabile e sonante,

il nome di dio lo puoi intuire,

e la disfatta mia evidente.

 

Un altro paio di tiri

perché me ne lascerai due,

già lo so,

mi offendo così però,

contrasti la trinità,

la verità non è duale

o manichea,

ma unica

perché il dispari alla lunga

fa unità,

l’infinito è un otto capovolto

(direi tosto disteso e sognante),

pari ma impari

dunque impuro,

cadi in contraddizione,

accendiamo un bel falò

e ammettiamo l’inesistenza

del pari allora.

Piangi ma che fai?,

ti disperi,

in realtà mi accorgo

fingi e poni il piede sinistro

in avanti

il destro ben saldo

e dai fiato al fumo:

esiste tutto quanto,

il pari in realtà

è disparico in disparte

quindi dispari se si completa,

dunque il pari è parte

del dispari risultante

e di conseguenza l’infinito

finito incompleto.

Ohibò!

Quotidiana,

essere divino e tanto quotidiano

e familiare,

seppur lontano,

 

lontano

evanescente  dolore spento

rosa dischiusa in silenzio,

dolce effusione

mentre fissi la tela.

 

Vorrei scrivere effluvi,

vorrei partecipare al simposio

tracimando lo spirito.

 

Sognami.

Sognami.

 

Sognami.

 

Quel canto elevato mi scuote.

 

Granelli tanti

quanto i giorni in giovinezza.

 

I segni del tempo

sul volto cedono

alla potenza del bello.

 

Le palpebre sbattono al vento,

portoni di cortine incartocciate,

sbadate e sincere

mentre studio i tuoi sguardi

di sbieco,

tu assisa sul bordo

della fonte centrale.

 

Ragazza guardami ancora,

sono nel punto genealogico

delle realtà oniriche,

ditirambica, filippica,

estrosa e sofista.

 

Tu, prediletta dai numi,

il mio fiato è per te,

io frollerei solo

per un tuo fugace accenno,

uniti, indelebili,

te lo ridico, sei la voce

che da corpo ai miei pensieri,

la tua essenza mi guida

solingo con verga e lanterna,

ed io non posso tradirti

o abbandonarti, non voglio.

 

Sussurri come brezza d’inverno,

la tua voce non copre il gemito,

ecco il mio cuore!

La mia anima!

Il mio spirito!

Il mio corpo!

 

Materializzati allora

dolce eterea,

la tua voce intensifica il suono,

diviene strumento essa stessa,

e allora destreggi purità e sorridi.

 

L’incubo mio si raddolcisce

in un istante,

l’eremo tra la vivida

vegetazione,

l’ermo domani.

 

Imbellito il vascello

dei pensieri,

l’ultimo eco è risuonato,

dardi di fuoco in campi di spine,

non diamo spazio abbastanza

all’incanto del dominio

senza armi e armature,

con egide dagli occhi gorgonici,

nemici atterriti,

la spada del verbo,

la ruota dentata

con te minacciata.

 

Vai senza aspirare,

fuma tossendo,

precludi un assedio,

tranquilla, l’aurora è vicina,

già vedo venere e luce

dell’angelo ribelle,

già vedo il fuoco

e la maledizione, il grifone

che rode la bile,

incessante il dolore,

ciclico il riapparire

con fasti dionisiaci,

con mandrie gelate,

o dissi offuscate,

il frutto e la conoscenza,

cioè consapevolezza

e libera scelta.

 

Poi il brivido dorsale,

certo ci vuole,

e ti affanni a rinsavire,

vorresti trovar la formuletta

anche per questa sconfitta

benedetta,

(e sto parlando di me,

ricorda,

mia simbolica alma concreta

riflessa)

 

allora tu ti alzi austera,

aspetti i canti di gloria,

le sonate del furore popolare,

dell’arca trainata,

tale sembra il tuo

perverso sortire.

 

E mugugni trasognando

nel vuoto della stanza,

la radio a mille,

a mille il cuore,

lo tracci un sorriso,

cominci ad inveire,

a spegnere il verdetto di fuoco

coll’umore del corpo,

ti arresti improvvisa,

la pelle che freme,

la luce che accenna,

spegni la lampada,

scaldi le gambe col fiato,

slanciata in avanti

coi muscoli tesi,

gli occhietti furbetti,

la piazza in fermento,

l’odore di polvere e vento.

 

Tacita Amata

 

Tacita amata

splendente tra faville ebenacee

dei miei fiati spenti,

che bestiola dolce

sei a me lontana

e sognata,

frutto dei ricordi

che non furon mai

tra la tua pelle soffice

e di dolce ammanto

immago superba

del tuo corpo che luccica tenue

e degli occhi

che per l’incanto

e il sortire

del Fato

all’alma mia reimpairano

fulminee saette;

 

cade di mano

il verace appoggio

e vacilla lo spirito

innanzi la tua essenza.

 

Sei così,

spettacolo del firmamento

allo sguardo deciso

che talor ravviva

e talor

con stessa mano,

ferrea moneta,

dal ristoro e per esso

ambito

muore di  grazia.

 

E ti penso,

tutta ardita,

quando come fluido

canto

fugge tra carri

di mimetiche fughe

e sintesi astruse

ed è la balza sonora

del rimando vocale

che più agguerrita mi assale

 

e ti penso

carina,

 

tutta diletta tra oscuri silenzi

e indifferente riguardo

di chi pensa quando

c’è e dimentica in assenza,

 

ed il mio volto il tuo

invece

contempla estasiato in tua apparenza

ricorda indomito quando apparente

è solo effige lontana

ma vividamente impressa.

 

Tra balze scoscese

e madrigali spogli

 

il tuo manto è stupendo

come se fosse di trapunta il firmamento

e se fosse di gioia il sonno

e ragione

ed ogni umana azione

anzi la mia,

 

verde tra viole sperdute

di giardini e di canti

a sponda di fiume

del canto disilluso

ed inutile

dell’amor che brama bellezza

impressa in un istante

manifesto ed essente

sul tuo corpo lucente.

 

Piange ancora il mio spirito

al desio impossibile

di te riflessa,

 

ed alla sonata fatta di riso

e di silenzio,

 

perso,

perso

e ti penso.

 

Sei bella d’incanto

nella tua colloquiale

quotidianità

della voce mancante

il respiro,

 

alati furori

di ogni canzon riflesso

e dell’orionica cassiopea danzante

al trottare del sole aprico

nella notte che scolora

su mesta tua arsura.

 

Ed io solingo

e muto,

ti penso,

ti penso.

 

Quando la notte ancor più calda

non schiarisce il tedio

nemmanco ad una frescura

ricercata,

quale viandante sperso nel deserto

alla tua vista,

oasi dilettosa e ambita,

e più si disseta

e più traccia leggi

fulminee

e labili, flebili,

sfuggenti

tra le dita

tenui

dirette alla bocca

che mai si disseta

mancando i tuoi baci

al giovial ristoro

ed è Acheronte

il corso

e non lezioso Eufrate

né altro corso magico edenico;

 

ed anche come il naufrago

in naufragio atroce

di mar gran oceano

non atlantico

e dal nome infame

ed ossimorico

come tempestoso al grido

di marosi

ed acque mai chete

s’avvolge, avviluppa, e in groppa

alla corrente

sommerso è da tal mole

di salmastra acqua

che lacustre le pare

più che grandiosa

ma che grandiosamente

lo sovrasta

e s’immerge

ed è continuamente

alla deriva andando

e sempre più ne è immerso

più risale

e più tortura

immane riceve

che al portator umano

del lume divino,

tal son anch’io

al tuo pensiero

tutto di te immerso

e tutto di te senza

porto sicuro alcuno,

 

e tu tanto possente

che mi avvolgi a tua volta

e mi avviluppi

e mi sommergi

ma è ricordo e rimembranza

e a ciò perciò più doloroso

che l’averti

quotidiana accanto,

 

o come il pensier

l’insonne notte

invade

me dunque!

 

E ti penso,

ti penso.

 

Ti penso anche alla luce dell’aurora

con castelli rabbiosi

e rabbiose prove,

 

anche al mattino,

mattutino,

laudi

e vespri

ed ogni sonno

vetusto

sei tu

ed ogni amata antica

da te occultata,

 

capretta boschiva,

docile furente

mia perduta

anche al desio.

 

E disio mai spento

sempre tormenta.

 

E ti penso,

ti penso.

 

A me non concederà

forse

né Fato né a suo comand le Parche

il cuore tuo

se pur il mio

è tutto già tuo,

 

e la soavità del mio pensiero

per quanto tendente

ad un nulla che in sé dilegua

ogni speme

ed ogni

misericordia

e tenue

ma terribile

nell’abisso mi trasporta

nel tartaro mi alloca

io il tuo volto sogno

e ti penso,

io il tuo volto

pongo al centro

d’universo,

come empedocleo romore

tutto scuote

il mio dorso

ed il brivido è tempesta

e mesta sei tu,

 

essenza stupenda

e irraggiungibile

ed impossibile.

 

E tutto turbato resto,

dolce,

dolcezza

ti penso,

 

volgesse

magari il mio misero esistere

a te,

arcana astrale arcadica.

 

Sarà concessa, per virtù

di cavaliere eroico

di lotta persa

e combattuta a corpo

e a sangue tra marette

contro il fuggir delle moderne

e terribili social saette,

o per la mia musica

stolta e stonata

o per la lira, l’arpa,

la solitudo,

la voce mia rotta

(la tua che tanto è bella

e tanto resta impressa

nella mente come suono che risona

e tutto

l’universo sprona

e dirige,

anima potentissima

che il cor trafigge)

o per silenzi

-sua altissima regale apparenza?

 

Pensami

io ti penso,

ti penso.

 

Un giorno, se concessomi rivederti

anche solo

per saperti

sempre mai più caduca

nel mio mondo corporal

realtà reale

che caduco si allarma

e scorre

in riservato

ruscello

ove ti sogno,

in chiara fonte

dissetarmi

e in porto sicuro rifugiarmi

e in rottura d’equilibrio universale

ricompormi,

 

solo la tua vista

somma mia dolce

somma mia dolce,

 

ti penso,

ti penso.

 

In disparte ti penso

e sai che non ti scordo

e se non sai

tel dico

perché l’ultimo mio lamento

sia di gioia,

e seppur tutto scosso,

assetato,

sperso,

possan le tue braccia

stringere al cuore

l’ultimo inutile e silente

fante sperso

di questo folle amore.

 

Tu, dolce specchio di rimembranze silvane (Mabus)

 

Ed è così.

 

Puoi pensare

a noi

quando

parlasti

a fiato sciolto,

l’intenzione

è

perduta tra rime.

Dolcissima,

 

l’inverno è qua,

stesi tra letti

dorati

petali,

autunno abissale

testo integrale,

volume rissoso

tra spogli ricordi.

 

Ed ora chi sei?

E dimmi, che fai?

 

Risplende il sole opaco

sul tuo volto

docile.

 

Puoi dimenticare

il respiro

dei nostri giorni

sfiorati perché

le nostre pretese

erano

follie solari,

follie stellari,

 

la luna è con noi.

 

Ti amo, sai,

ma per riepilogo

intransigente del respiro.

 

Ed hai gli occhi

bendati

 

e tra le mie parole

un sorriso,

 

sei qui fino

alle sette.

Puoi voltarti,

sono qui da ieri.

 

Io?

cosa vuoi da me?

Mi piacerebbe

sfiorarti.

 

Ti amerò,

violenta sarà la nostra remissione

e gli altri persi nei loro progetti,

noi fuori dal mondo,

 

non dirmi nulla,

è meglio respirare affannati

sul tuo corpo.

 

E sono le due

di notte,

tu dici

tutto ok.

Domani che sarà,

non ti interessa,

sorvola.

 

Mettiamo un po’ di musica

stasera.

Domani sarà finita,

mai esistita

amore mio

 

nostro impossibile.

 

E la realtà sarà

al di là della ragione,

un solo respiro sul tuo ventre,

 

il suono è scomposto

e lieto accoglie i nostri

gemiti.

 

Per sempre

e mai più.

 

Il tuo affanno

mentre stringevi

piangendo

il tuo

leggiadro sospiro,

 

come collana

violava

la storia,

la nostra vanagloria

 

e tu

soffice tra le mie braccia,

piccola

stella incantevole

per ricordare in eterno

che l’universo

è nostro

in un abbraccio.

 

Sognando un tuo bacio

imprimevo col gesso

il tuo profilo

come un ribelle

scalzo

e svogliato,

un po’ tiepido

 

ma tu rinascevi

come fulgida

schiuma,

 

sospiro d’inverno,

picciola

importante

e da quella notte

mai dimenticai

il tuo pensiero lucente

e tu che passavi

inviolata dal caos

nella mia mente fallace

come gran dama seduta sull’orchestra

 

con sguardo fiero

ragazza imbronciata

dalla tua visiera

e silenziosa

negli occhi d’assenzio

e muta dentro me.

 

Si avverte appena

il tremito della fine.

Finestrino riflesso,

fine dei nostri giorni,

follia lucida.

 

E se per caso

credi ancora in me,

non lasciarmi,

non lasciarmi.

Piango al vento,

 

calma ossidata

dal tepore,

ed io le sogno

le tue braccia.

 

Proteggimi.

Dall’oltraggio,

 

cammina ancora

e volgi lo sguardo

all’anima mia,

 

vedo te

tra le dune

del passato,

gli entusiasmi

spenti,

 

mai, mai più.

 

Speranza

invadimi

 

ed è ancora

silenzio in me.

 

Cerco

la tua presenza

tra le ombre,

tra la luce

scarna

di lampare

esauste,

 

cerco te

ed è già tarda notte.

 

Dimmi di sì,

sussurro,

dimmi di sì,

immago d’infinito.

 

Dimmi sì

nel mezzo di questo mondo

ormai squallido in sé

vemente del nulla eterno

della morte dei petali in fiore,

del fruscio delle foglie.

 

Noi perdemmo,

mano nella mano

spegnemmo i ricordi

fossilizzati nel tempo

audaci in quel tempo

eroico presente.

 

Ed ora io

pensoso e solo

ripenso

al traboccante entusiasmo

rivoluzione

novembrina,

ed il sapore

dei tuoi baci distratti

e sopiti

sulla mia spalla sinistra

e distesa,

 

ed ora non so se cercarti

tra gli algoritmi

delle strade perdute.

 

E abbiamo perso.

 

La generazione spersa

tra nuovo

e follia.

 

Non ho saputo respirarti,

l’aria trasudava

l’ebbrezza

sbarbando

esosa

tra Dostoevskij

e il ricordo

della mia follia,

dimenticando

il lastrico

apice d’abisso

stretto ai tuoi fianchi

di Nietzsche,

germoglio mattutino,

sveglio dall’albore

del rigurgito

ottobrino,

 

rimasuglio di pazzie estive,

 

un altro sorso,

non ricordi

i miei baci

di dinamite

 

siamo nel nostro

triste

e opaco

altrove.

 

E per favore, basta,

ti prego, ancora

pensieri miei storditi

e confuse trame

mostrano la strada verso il vero

assoluto

e infungibile.

 

Corri rapita dal cielo

et assurda.

Pensami

 

stasera

anche se sono già qua.

 

Soffiami in bolla

sapone degli ottoni,

 

tienimi la mano

o ci sperdiamo,

 

resto ad aspettare

la prossima campana

e tanti inutili

avventori

di un futuro paradisiaco

ed inutile,

 

dal veltro

un rinsavito

savio

mago e maestro

servo di Selene,

 

sento sussurrare

“pazzo”.

 

Cara ricordi

le notti sfumate

tra i fumi stessi

dello stravivere?

ricordi il senso della vita?

eletta e cattiva

 

cauto il Giovialista

chiede al mio senno

e vibra il cuore

“pensarti, cos’è?”

 

sacrilegio!

frustrato rimbombo

incubo e tu succube.

 

È un ricordo

ciò che fa vivido

il presente farcito

di conseguenze

che non sono più mie

ma della situazione tesa,

 

posso cambiarla.

La verità

è che non esiste

resa o vittoria

solo si può

giudicare,

giovialisti,

il tempo presente

con il passato.

 

La nostra

axiotica delle vibrazioni

Dov’è?

Sento gli accordi

familiari

ma non mi ritrovo,

 

il fisico è fungibile

ma la bile non è morte!

 

Alla sera l’ombrello,

piove di traverso,

 

alla sera l’ombrello,

piove e più non sento,

lapsus temporale,

ingorgo parossistico

del senso pessimistico,

spirale autentica e infelice,

scontro in paradosso

tra il presente

e il rimorso.

 

Potresti stordirmi

ancora,

mi gira la testa.

 

Ovemai sbagliassi

non mi crederesti,

ma ovemai sbagliassi

nulla muterebbe

se l’atomo è funzione

del tuo corpo,

sei prorompente nell’ombra

e sogno i fasti greci,

sei furente,

squillo di tromba,

sei invadente,

fai il verso all’intenso

vortice spietato

e dici

non è niente.

 

Dove sono?

Scacciamo il ripudio

della stirpe nostra

danzante.

 

Io dove sono?

 

siamo

persi

in

fraseggi,

in pensieri,

poche le parole,

illazioni adolescenziali,

lo ripeto

per i cechi

e per gli stolti,

per il resto fa lo stesso,

 

dobbiamo diventare

ciò che siamo,

dice qualche pazzo

magari

al cavallo.

 

Dove sei Sophia?

Noia

e spleen,

sono sulle scale

della cattedrale

oscura

e sento le voci

dei viandanti del mattino,

 

il mio abisso

e la mia ombra

sono immensi,

più di me.

 

Parigi

è luminosa

negli occhi

solo degli arlecchini

e dei turisti.

 

La sapienza

è triste all’orizzonte

del mio schizzo,

 

sembra filigrana

il foglio ingiallito

come me,

puoi toccarmi,

stasera ti ho sognata.

 

Brucia Troia,

le illusioni

sono un coro di

cherubini

accordati

al clavicembalo.

 

La vita

è un continuo

fottere

il prossimo.

 

L’economia,

statistica,

diamo altre brioche,

altre ghigliottine,

altri olocausti,

altri ovettini pasquali,

altre ovazioni

contro le streghe

in fiamme,

in fiamme

e santificate.

La musica va,

 

non scappare,

assapora il resto.

 

L’urlatore insiste

con le sue idiozie,

noi ridiamo,

noi ridiamo

ma di nascosto.

 

Un altro spauracchio,

un altro nemico immaginario,

giovani

vittime delle false credenze,

 

Ortega, dio che generazione!

 

gli idola baconiani

sono diventati

la new age,

il complottismo

e i vestiti firmati,

 

puttane e puttanieri.

 

Sono stanco,

ma siete ciechi?

 

Sono stanco,

ma siete pazzi?

 

Cioè, davvero ci credete,

cioè.

 

Dove sei Sophia?

 

Dove?

 

A volte

eri stanca

in metro,

 

dove sono

i tuoi occhi

profondissimi?

sono davvero oramai

solo frammenti

di specchio lucente?

sono ancora

le albe sempre nuovissime

del nostro destino?

le rincorse boschive

del mattino?

i petali

al vento?

rovi che sciolgono

sogni

persi

nel fragore

del sentiero

da tempo

perduto?

Sono per sempre immaginazione

et emozione?

 

Vivere senza

voltarsi,

 

è il tepore

del vento

che spinge

il nostro

sospiro

perduto,

 

no,

non lo dimenticare mai.

 

È un segreto

dentro

l’anima,

 

le speranze perse

come fluidi

senza

spine,

 

rose eclissate

e fluorescenti

stampo sul tuo corpo

lilla.

 

Ma perdo

di nuovo

vincendo

entusiasta

 

la tua difesa

mi illude

e mi

sprona

ad una immaginifica

destinazione,

 

l’eccitazione

del tuo viso,

 

la pacatezza

dello scorcio

notturno.

 

Stasera dormi

con me

e sarà per sempre

mia eterea gotica presenza!

 

Passa del tempo

ma il sentimento

è lo stesso,

sento nelle vene il turbamento

che non mi fa più respirare,

con l’intelletto

sprono

il sentire

ma non è finita,

 

tormentato

resto qui giù

e il lieto

cantare

trasforma

il madrigale

in requiem

spirituale.

 

Assopito come vuoi tu

piango al limite del ripudio

sterminato

ed astruso,

sento i passi,

sei già qua,

da lontano mi fai

la ola

riepilogando

la nostra storia

e la sola

del passato,

 

hydra spersa

a mezzo fiato.

 

Ti vorrei

vedere

per un’ultima volta,

baciare

i tuoi polsi

feriti,

leccare

i tuoi sospiri.

 

Vorrei quasi morire

per rincorrerti

su spiagge abbandonate,

 

guardiani

del nostro destino!

 

non dormo,

insonne

ti sento vibrazione

ancora sul mio collo

corpo in eccitazione.

 

Dove sono le proiezioni

fondo schiena

e parete?

 

va bene,

è uguale picciola,

non fuggire da te stessa.

 

E ricordo

raggiungendoti

Orfeo

contro l’ira

di Persefone gelosa

e nel principato

dell’ombra

seguisci li miei passi,

 

sei tanto sincera

perversa

e bella tua immago,

 

furente

sei stupenda

anche se sei solo

tutto ciò che conta,

eterea

gotica

presenza,

eterno

di fugacità

stesa al vento.

 

Repentina vai in punta di piedi

al piano

suona,

suona…

 

Magari

ricordi

i due puntini

tra il cappellino

che al mercatino

comprai,

 

perfetto,

sembri fatta

di lillà,

 

qualcuno guardava

noi due

con l’invidia

della tundra zingaresca

 

di un pensiero traverso,

lo sguardo.

 

Dicesti,

hai gli occhi

che guardano al di là.

 

Ricordi il bacio,

che fu il tuo,

tante inaudite

bestialità,

 

il tempo passato

è un futuro,

specchio

del mondo al di là

delle altre

idee, e

demenziali

sentenze.

 

Ricordi ancora?

limite d’infinito

sbocciavi

a metà

e la realtà

tra le tue dite

sboccerà

come fragilità

che ti rende

potente,

 

l’alma al di là

dei soprusi,

degli altri,

 

siamo soli

noi,

la nostra verità ribelle.

 

Ed eccoci qua,

figli dell’immensità.

 

Stop,

stop,

la musica si fa dolce.

 

Ed eccoci io e te,

siamo ciò che rimane

del mondo

e nel silenzio

ancora

avvinghiati teneri,

 

stupendi i tuoi occhi.

 

Sento ciò che ho dentro

e simpatico

il flusso della nostra

presenza mostrata,

manifesta nell’immensità.

 

Eppure applaude

la meschinità

 

e siamo soli,

ancora

al di là,

lo dico di nuovo.

 

Voglio sentirti dentro,

vuoi spandermi il cuore,

spremere la “oh!” dello stupore;

 

noi due.

I silenzi ormai strani

rendono il nostro soggiorno

d’esistenza

intenso.

 

E tu dolcissima,

dove vai?

 

Se vuoi son qua,

mai a metà.

 

Tutto tuo.

 

E respiri me

mentre piangi

e mentre sogni

la libertà.

 

Nasce nel fermento

il ripudio

della vostra banalità,

credete siamo dei falliti,

ma non sapete

più guardare

con gli occhi

innocenti e perversi

della nostra fragilità

che apre le porte

verso il nostro rifugio,

la nostra verità

ribelle

che è oblio d’inverno

mentre sbiadisce

la vostra realtà,

vetro opaco

e invece dentro me

l’immagine

tua,

 

granelli di sabbia

i baci tuoi,

 

clessidra dell’immensità

del nulla

tutto nostro.

 

“Ti ricordi noi?”

Canticchi e

piangi

tra la polvere

e i soffi di pioggia.

 

C’è sintonia.

 

Non c’è più realtà,

ormai categorica

sfuma

tra i siparietti

di un tempo,

 

ricordi amore.

E tutto ciò che è stato

è ora rimorso,

tanti i petali

di vento.

 

E l’oscuro dei miei giorni

oblio d’inverno,

ultimo

mio tramonto,

noi.

 

Il tempo

reversibile

negli occhi tuoi,

 

sei dove il respiro,

vivido,

schiarirà

anche il tuo

silenzio.

 

Dimmi ancora

se la morte

distrugge

anche le ombre cinesi,

 

dovrei smettere

di scrivere

e lasciarmi pensare,

ancora.

 

Sembra una tenda

il rifugio

che cerco

nell’anima tua

silenziosa,

 

sembra vero

ciò che dici

e resti fissa

nell’incanto

di te stessa.

 

Ma volare

è già diverso,

sentirti dentro

è il bisogno

che trasuda

dal mio spirito

in tumulto.

 

Ed è vero

sento te,

mi accarezzi

le labbra

poi l’indice

sovrappone

il senso.

 

E tu

puoi cambiare

il destino

col solito volteggio

delirante

sul far dell’estate

ammiccante.

 

Ed è autunno!

E silenziosa

sei lì

e mi guardi

ancora

ma è già tronco

il respiro

nella profusione

di profumi,

 

riconoscerei

te tra mille

sogni

confusi,

tu,

il nostro sogno perduto

pensato come soffio;

 

dormi accanto a me.

 

Non so se

la monotonia

ti ha reso perfetta,

ciò che volevi.

 

Non ricordi

i nostri desideri,

alternativa esterità

scomparsa

ed io riapparso.

 

Piove da tempo,

noi soffi di metallo,

ormai stanchi,

stanchi di noi stessi

mia luna,

mia magnetica luna

 

potresti sottolinearlo

il senso del nostro essere

col pennarello

tutto viola

 

pensieri per incupire

il presente

passato.

 

Tuttavia

il pensiero

già fugge,

entusiasmo tra le vie,

e lei è

l’indomita ragazza

che gode

sé,

poi sincera

slinguetta,

 

oggi è come ieri,

pallida, mia pallida,

la voltura

chiave di volta

strana.

 

E magari lei ardente

tutta sola,

dinanzi

allo specchio,

mi stringe già i fianchi.

 

Struscia la pelle,

eretta la sella

del mascara confuso,

rossetto in disuso.

 

E tutta splendente,

luna in sé ardente

tradisce nel senso

l’intento.

 

Ed il nuovo

è già perso,

il nuovo confuso

tra spiagge,

sdraiati,

ah luna magnetica!

 

Sapore d’amore confuso

 

nella notte,

tarda la voce,

lento il pensiero,

l’amore è sciupato,

 

anni di disilluso

sopire l’astruso

sentiero del senso.

 

Alle due mezza

penso che il mio ricordo

è soltanto sbiadita

immagine di treni

mai partiti.

 

E come se ti pensassi

adoro le tue mani,

i tuoi occhi,

le tue labbra

ora smorte,

ora ferite

ricoprono ogni passione

con il solito velo

d’illusione.

 

Solitario pianto

e dentro me

il sentire vibrazioni

sciupa il corpo,

solo l’affanno ormai sento,

solo l’affanno

del tempo.

 

Accendo la sigaretta

e chiudo il cuore,

 

perdo l’orientamento

e le stelle diventano

ballerine

a ritmo della follia

che ora mi porto dentro.

 

Chi sei?

anima parva

dinanzi all’infinito che è in me

riesco a sentire

solo il sussurro

delle tue parole,

scomposte.

 

Il pensiero

e poi il velo

introverso del vero,

 

ed è notte inoltrata.

 

Musica,

bolla di sapone.

 

E continui così.

Sembra assurdo ma è così.

 

E la serata

propone

sonata

un po’ di lucidità

traversa,

traversata,

 

sei grande,

sei bella,

estrella col cappellino,

 

diviene subito mattino.

 

E le soluzioni

sono illazioni,

allucinazione

da borgo,

nata

ai bordi di un fiore,

 

e voglio suonarti,

distenditi in bocca all’entusiasmo,

avverto le astruse

rubee macchine

che da Pascal

sentono l’odore

del giorno,

 

il fiorire

di placche metalliche,

placche telluriche,

noi siamo distanziati,

l’albore lo sa,

è testimone.

 

La festa gradassa

è vorace

voragine infernale,

 

ma lei resiste

in manicomio.

 

E forse ha ragione,

sei consustanziale

nel tuo silenzio

apparsa innanzi a me

nell’istante preciso

in cui ciò che vedo dico

sciogli il velo cupo

del mistero,

dell’intenso

ondoso

respiro trafugante

sentimento.

 

Poi le realtà

quotidiane

emerse in infinito

di spastiche

isteriche

un po’ ansiose

declinano

e poi dicono

 

ti prego fammi tua.

 

L’estro

è solo senso

dell’ ilare realtà

 

nessun linguaggio astruso,

nessun compromesso.

 

I sanscriti designano,

cinesi primo livello,

fenici in controtempo

l’enfatica rimessa,

ebraica

poi greca,

latina,

come dire,

banale.

 

Sei carina.

Eros-Tanato

e l’inverso.

 

Parti in quarta,

tu ami

me

e te stessa.

 

L’eremo

è circoscritto

al tuo bacio,

inconsistente il resto.

 

Eccoti illuminata

dalla pioggia

in sulla strada

e divieto

pedonale è la tua escursione.

 

Sei così,

non ti poni problemi,

 

eccoti qua,

sei silente,

 

buttafuori

reggiseno,

tanga,

perizoma.

 

Ti fai sincera accompagnare,

non penso al tempo,

baratti un bacio con l’attesa,

e la Sibilla a Cuma

rende necessario

l’infuso

o ragazza,

chimera in proiezione

passaporto

verso l’ignoto,

isola inesistente,

bianconiglio,

realtà traversa,

trasversa verità,

declinazione scalza.

La circumvesuviana.

Noi di ritorno,

lavoro esausto

di te bella

entrata direttamente

dall’uscita

secondaria,

lillà.

 

Improvvisa

la ragazza

rende edotti

i conquistatori

di esser un po’ meno

di Greci e Macedoni,

di Alessandro,

il Senato Romano

è frutto di un sussurrare continuo,

 

è troppo tardi.

 

E prendi la metro,

Napoli

artistico e intransigente.

 

La vertigo

è vuoto d’assoluto.

 

Posto conquistato,

sonno etereo.

 

E sei ancora qui

mentre divago

e tu ti sperdi

divagante respiro

intenso

ed agorafobico,

 

piccola cybernichilista

preclude il pensiero

lo spazio del vero,

percezione

del sincero

e della variazione intellegibile

del sentimento

 

e la scollatura mostra

ciò che tace l’apparenza,

 

elmetto soffiato

come vetro

Murano,

Capodimonte,

arcanum

ed occidente,

San Pietroburgo,

disquisisci

in partenopeo

se l’azione

è frutto

di te riflessa alla parete

verso concupiscenti

entusiasmi.

 

Un po’ eremiti,

un po’ pacifisti manifestano,

le dialettiche del borgo

solinghe si scompongono,

 

è sempre presente

la musica

 

assurge

il mio minuto

ad infinito tuo tessuto,

intarsio del destino.

 

Ondeggi, scrittura vana,

proposta

decadente

sulle tue scarpe

che guardo sciolto

dalle mie stesse

conclusioni,

 

dici passioni

ma

il tintinnio

dei campanellini

tuoi

exsurge

 

parere,

entroterra,

il gusto

di limone.

 

E sei trapunta

tutta bella,

dici

sospesa:

io sono la questione,

ciò che esponi,

sono io,

parli di me,

imprevedibile

non sai dove

con la musica

arriverai

ed infatti

è inaspettato

questo intreccio

di mani rampicanti,

ortica stuzzicante

labile

sentimento,

sensazione

scardinata.

 

Schizza via

lo spruzzo primaverile

di odori novembrini

tutti tuoi,

ed è inciso

il dorso d’ulivo.

 

Carrube

trapanate,

crani cananei etilici,

nervi smaniosi

di un sorso,

 

sorgente

viva

e vivida,

 

dai di più

e manco lo sai

ma altera comunque

te ne vai,

ritorni

stanca,

è notte tarda

 

sul mio corpo

ancora deluso

dall’aduso

luogo comune

musicale,

 

proiezione

del tuo spirito astrale.

 

Mancano parole,

ondeggi ancora e ripeti:

scrittura vana.

 

Scrittura vana adagiarti su rami

per godere

il canto che mi è caro,

quello di cicale,

lo sai.

 

Il codice estroso

strascina aria fuori dai pori

di te,

 

senso antico,

pianto.

 

Arrangiando il sogno,

stillicidio assoluto

del verbo

svogliato

dalle frasi tue,

 

toccami il cuore,

corporale

passione.

 

E da solo vorrei

morire tra braccia

smaniose del sospiro.

 

Dici dico

sempre parole

tanto uguali.

 

Il dizionario

è flusso esteso

del tuo pensiero.

 

E in corteo

come liceo spastico

del tumulto,

 

è quasi sera

ancora qui sei

astraendo me stesso

 

le tue sillabe declino

e nel mio silenzio

silenziosa sei,

siparietto femmineo celtico

dondolio,

liberami

dal giogo

dell’oblio.

 

Sono sugli attenti,

maestà divina,

 

sono sempre le sette,

andiamo

all’orizzonte

degli eventi scissi,

 

puoi destinare

il mio saluto

alle spiagge

oramai

languide e sommerse.

 

E tu destreggi

lo specchietto,

labbra accarezzate appena appena

dal lucidalabbra.

 

Ed improvvisa

irrompi estrella

da siparietto.

 

Tuttavia

io sono

dove sei tu.

 

Ecco, eccomi.

Sei pronta?

 

È tardi,

sei la solita,

stira il basso

con le solite dita

da isterica

sincera

 

musica della radura

spersa tra i capelli tuoi,

di nuovo

schiuso il siparietto.

 

Sembrerebbe tutto finito,

amore mio.

 

Ad ogni modo

la luce la vedo,

primo sangue

sparso

tra platani

celti,

inaccessibili

realtà

del lasciarti spersa,

accanto a me,

spersa perversa,

scherzo,

 

baciami tutta mia,

solo mia,

folla di viole e rose

sulla pelle

che brama

acconciature

oramai fuori moda

 

e tu dici,

non vedi?

 

Sono la ragazza,

quella sulle scale

del monte,

tempio di sapienza

e vertigo alla bocca

servito.

 

La risposta

in fondo la sai,

salti al dunque,

quattro pagine stracciate,

 

non serve il digiuno

se non trovi

prima chi davvero sei tu

e cosa t’opprime,

cosa ti stringe il corsetto,

 

forza, andiamo a letto.

 

Inizia a divagare,

sei sulla strada giusta.

 

Lenta lenta

inizi a sciorinare

le tue bestemmie corrette

e bigotte,

un po’ fataliste.

Tardo ottocento,

 

nuovo nocumento,

documento.

 

Le generali questioni,

ecco il significato,

e se la chiave

non ti sembra giusta,

pensa a te stessa.

 

Guarda al di là

della scommessa

e percepisci

il parallelo assunto fisico

in protezione

proiettata che propende

il verso d’assoluto,

il tuo corpo astruso,

cresta e riscossa,

 

tutta sei fritta

alla luna.

 

Corteggi

come la cantilena,

carillon,

non ti scordare,

suoni morta

innevata,

sei fantasmagorica

ectoplasmica,

ectoplasmatica

spuria.

 

Un sentirti

è un vivere in me.

 

E pensa che

c’hai pure ragione.

Scandisci bene le parole,

ricordati,

 

sono solo tue,

rosa a tardo pomeriggio

in questa sera

con le metafisiche giunture,

nei sogni desti

ti rifugi

 

Tu sei così,

distratta

e stanca,

sei così.

 

Sei più spenta della

cera

e sigilla

tutto il tuo sguardo.

 

Il tuo pensiero

sguscia via.

 

Sembri non pensarci più

si erge il muro del pianto

tra noi,

 

Tempio

e rimasuglio

dello splendore ormai andato,

 

beh

sono secoli!,

in frantumi i nostri sogni,

hai perso me che son qui

nella massa

indomita

del nulla?

 

In un attimo

è un subbuglio,

risveglio di sapori sopiti,

interagenti

con la squisita

dimensione

estemporanea

della tua

incline assonanza

protesa verso un cenno del capo.

 

Chi siamo noi?

Tra gorghi spaccature,

le tue fessure,

segni sul corpo

nero,

tiri mentre stringi

solo te stessa,

il passato è presente

potremmo navigare

tra le gocce del domani,

 

potresti restare,

 

e ti distrai,

 

non sento passione

nei tuoi accordi,

 

potrei sbagliarmi

ma sembri usurata

dal tempo manicheo

che ti investe

da anni e da giorni

e siamo qui da qualche decina di minuti,

 

non riesco a focalizzare

le tue premesse,

 

e dici

vale la pena lottare

ancora

anche oggi.

 

Accendi un’altra sigaretta

stesa come su panchine

nel mio letto

mi poni inciuci

velluto heideggeriano

sul tuo corpo.

 

E

si pone

la necessità

del cammino,

 

guardatemi negli occhi,

quest’amore è rivoluzione

a colpi di piccole rivolte atroci

sunt servanda

le nostre pretese

e le nostre

vanaglorie

e i nostri vizi.

 

E lo dico

ancora scalzo,

 

Pronti?

Dance.

 

Vita vissuta

rettin fly,

 

vita vissuta,

rettin fly.

 

Pone salate remissioni,

pelle gelata.

 

Dai dillo,

piccola spaurita

al far della sera,

che sogni

i miei

orgiastici

sapori magnetici,

 

dillo che sei

perversa

già solo in te stessa,

ma boh!

 

E il respiro

è passato

e anche se lo dico,

qui lo nego.

 

Parlami sincera,

imprimo come assoluto

il mio Ego,

impresso

come ragione unica

della vostra esistenza,

umani.

 

Psicosi

ipnotica regressiva,

re dell’impero orientale

straziante,

occidente struggente,

ossimoro restio

alle tue parole.

 

Booom!

 

Si riaccende

la danza del mutamento

ed io batto il tempo,

era ovvio che

nel mutamento perdessi

parte di me

per te e lei

trovando me,

 

rifletti

in te gli occhi miei,

i tuoi sempre più belli.

Dolcissima

 

e ribelle,

terribile

e struggente

decadente.

 

I pensieri sono già

al di là,

 

mi perdo e mi ritrovo

in cumuli

di residui

di umana dignità.

 

Ed ora la mia vita

ha un senso tutto nuovo.

 

Che bello

il giro

e il volteggio,

l’entusiasmo del momento.

 

Mi apri l’anima

seppur non mia

è già dentro me,

sono in lei, sono in te,

 

sono lo stesso

rimorso

del tuo pianto

e sono oscuro

mentre stilizzi

lo spostamento

oculare

nel centro dell’universo

avanguardista.

 

La tua musica

è nelle vene,

resta lì,

resta in me.

 

Cosa sarà?

Non mi domando

neanche

se la trasmutazione

sia già effettiva,

immanente nell’imminente

istante

e quindi applicabile

automaticamente

nella autonomia

tutta tua,

tutta mia,

evidente e fenomenologica

in sé.

 

Dai canti indolenti

e viziati viziosi

dei mie cardi stradali

in nebbie sporadiche

ritrovo il tuo volto

come sepolto

dall’ombra,

 

e sono sempre cicale,

succhi tutto il mio sangue,

nel mezzo

del mio respiro,

 

è questa la parola chiave,

 

il serpente antico,

il fico,

l’albero

adiroso.

Arioso!

 

E mi dici

che il peccato

originale

lo scorgerò

quando rinuncerò

a tutto me stesso

solo per te,

 

circa diecimila anni fa,

iride tua,

ansia e panico,

traslittera

ed è pronta

la risposta,

 

scopri l’aria fritta,

 

siamo noi i demoni

tu eri l’Acheronte di sangue,

lo Stige nubiloso

del nostro rivoluzionario

pensiero

al di là della morale,

 

il senso incarnato nel verbo,

logos dell’etereo

eterno

assiomatico,

scarno

e pusillanime,

 

tu eri ragazza,

eri serva,

padrona

del monte asproso

disincagliato,

tu eri erba,

remissione,

esaltazione del peccato,

tu eri vivente

ossimoro maledetto,

 

giumenta in folle vista

nel firmamento,

congiunzione,

copula,

trasgressione,

 

tu eri il corpo

delle dee

ed il loro sangue.

 

Paradisi artificiali,

inferni reali.

 

Dillo, inverso

adoro la porta dell’Ade,

adoro la ribellione,

il volto umano

della dannazione.

 

Da Dante a Milton,

dal ripudio

all’offesa,

al bigottismo,

al decadente,

assurge a sentiero

d’assoluto,

manichei stolti,

l’inferno è un passaggio,

una transizione,

è il nostro lamento,

la via verso l’assoluto,

bestiole selvagge,

consacrate a Diana,

su dorso di scopa,

Malleus Maleficarum,

Mulier Striga,

pozioni

nere,

dark magic word,

dark magic world.

 

Assoluto

nello spaccare le vene,

depressione,

mania,

assoluto,

vendete

il vostro corpo,

il vostro sangue,

riceverete sapienza.

 

L’eterno

nei vostri zigomi,

ragazza

fammi godere

l’assoluto in voi,

l’assoluto in te,

l’assoluto trafitto,

l’assoluto in noi.

 

Convertite

alla moralità terrena

il celeste orizzonte

aurorico

al far del tramonto

immaginifico.

 

Reale psicotico

e simbolico,

simbiotico

aforisma,

 

ragionamento analitico

consustanziale.

 

Siamo noi i demoni.

Continui ancora,

allegra, ma non troppo

 

il motivo,

maestro sono

sulle tue astruse

partiture,

è già novembre.

 

E c’hai l’idea fissa

del mistero,

 

sono attraente

nell’immago,

ma tu silente

fai le moine

a portata di mano

e scandisci

le solite parole,

“respiro nel tuo sospiro”.

 

E mi innamorai,

questo è vero,

ma la maturità

cancella

lacanianamente

ogni coppia,

ogni riferimento,

 

siamo alla follia

mia e tua,

 

e discutiamo del nulla.

Ti amo,

mi amasti,

mi ami

e restavi nelle

brame del tedio,

(la disperazione il tuo scettro).

 

E da anarchica

dici sprezzante

“Sì”.

 

Ed improvvisa omeopatica

la tua disturbata divinità

assurge a verità

nel viaggio austero e ardimentoso,

 

nel periglio il tuo ego

visto in proiezione

di quando

dicesti che la rivolta

era scomposta.

 

Niuna pozione d’amore,

sei scampata

al corso ineluttabile

dell’età,

inenarrabile,

e come mi ami,

piccola

appena appena in fiore,

tagliandoci le vene,

facciamo un patto d’amore,

eterno.

 

Come continuerai,

Machiavelli, conservare

il principato del cuore

è sillogismo opaco

del tuo volto sul dorso.

 

E il tuo

non era amore,

ora è

indefinibile

carezza

 

come pazzi in mezzo alla via

della mia stanza

 

la conclusione del canone

inverso.

Baciandomi adesso

assapori

il rumore,

cosmico.

 

Contemplazione!

Guarda che ti sei presa

ritorna te stessa,

pallida realtà

 

la fine immediata,

già presente

da ora,

infatti

sfugge la luce

 

tra le mie mani e tra gli occhi

tuoi ghiacciati,

 

tuttavia il ricordo

già stordisce,

ed è quasi dicembre

nelle vene,

è già presente,

tuttavia sento

la voce

calda della

mia ragione.

E tiepido

volo tra

insolite frasi

che oramai

sono note,

 

e tu intanto

già dimenticata,

già sublimata,

già ingraziata,

agli altari lodata.

 

È stato

un errore di percorso,

quello genealogico

dell’incoscienza.

 

E noi due?

Né respiri né sospiri,

un po’ imbronciati

un po’ ubriachi

sulla via maestra

 

perdevo

me stesso,

 

resta

solo amore,

cenere

e ragione,

 

solo illusione,

metafisica,

convivenza con te in me stesso,

e pallida realtà

 

Sei pronta, vieni qua.

 

Berecyntia

Memorie oscure (dialogo notturno)

 

” nobiltà nata nel fango

alto disonore!”

 

intrepido pullulare ardente di

passione, gaudio genealogico ed

intenso, scosceso sentiero di

verità celate, disonore

intatto,

nobiltà spezzata, fare altero

evidente ed indissolubile.

 

” Angelo di bontà conosci l’odio,

i dubbi terrori di quelle orride

nottate che comprimono il cuore

come carta spiegazzata?”

 

conosco il lento venir meno dei demoni incantati che gioiranno fragili

all’ascesa dell’oscurità celtica,

che aspettano impazienti che un veltro

li trapassi

e li scrolli docili verso l’infinito.

 

rev:

“Oh notte senza stelle, oscura notte ”

tiepida risplendi luna pallida mentre contemplo la tua immagine riflessa sulle acque

“La notte irresistibile, la nera umida notte, la funesta notte di brividi percorsa, ormai consolida il suo dominio”

e le celtiche genti indomite danzano sotto il lampadario minuzioso e fioco di speranze mentre si eclissa l’ultimo barlume e l’occidente cede il passo alla potenza oscura

 

Immago a tarda sera

 

Sguardo inclinato verso il sole

proteso all’imbrunire il tuo ardore

che già sul mio corpo

è notturno tepore

 

indiano.

 

Dolci sono i tuoi occhi al far della sera

incanto gelido il tuo leggero abbraccio

sogno: vederti tutta splendida

l’entusiasmo dà forma a questa immago eterna.

 

O pensiero che falco su cime s’innalza,

a due passi dal docile viso scomposto

in eterno pensando al dolce sguardo maledetto,

 

superando i confini del tempo alla fine sentirai

il dolce suono, vento tra capelli.

 

Intorpidito da te

 

intorpidito da te

e dallo sguardo silente

di ricordi sbiaditi

e tesi al vento

 

è un attimo

e compare multiforme

la tua figura

in un sussulto intrepido

vorace e dolente

 

sono solo parole

che si arrestano dinanzi

al tuo incauto gesto

folgorante

 

e resta il tuo docile volto

 

indissolubile

 

Gelido cobalto

 

gelido cobalto

dipinto di assenzio

in gaudiose vittorie

etiliche

incantate dal supremo colore

intorpidito dal pallido

incarnato che cede alla sera

i misteri,

 

al chiaro contatto

di un raggio di luna.

 

Apparenza terribile e lucente

 

apparirà

sintetica,

intraprendente lemma silente,

 

apparirà

un tepore nel cielo

senza preavviso,

dico sul serio

 

stringendo nei pugni

il tuo velo sospeso

di inquietudine

 

cambierà tutto

come solo

un arido sentiero

ha

breccia nella voce

 

dimessa, un po’ cupa,

nostalgica;

 

intorpidito ogni furore

sono strade,

intenta al suicidio

di catrame

che sfiora ad ogni ora

il tuo buon umore,

 

e senti dolente

il mutamento

della pioggia.

 

Ricordo fulmineo

 

dagli occhi incauti

mal dimessi

al silenzio

loquace come fluido

diluito

e tenebroso

di pensieri impuri

che m’invadono

e che si inchinano

al tuo apparire

 

furiosa

 

in estasi per un ricordo.

 

Fede notturna

 

Il capiente cofanetto

di gioie perdute

sperso tra rime

che solfeggi sussurrati si fanno

sbiaditi tra le dita.

 

Pensieri stanotte

di fughe astrali,

storie da seppellire nell’oblio babelico

mentre si impone pallido e scarno il tuo volto

spinto dal silenzio dell’ultima nota addormentata

 

sui tuoi seni disillusi aneliti di vento.

 

Ritorni assopita

mi guardi stupita,

il domani dell’oggi è figlio del mio desio

e il cuore indelebile su carta tracciato.

 

Sonnambula silvana

 

L’inverno sboccia dai rami,

scende rugiada nottambula

ad occhi sciupati

svogliata sorprendi,

 

è già ora.

 

La storia, la nostra,

non la racconto io,

soltanto tiepidamente la sfioro

per non svegliarti,

 

ma riapri gli occhi a fessura

sei tenere tra le mie mani

 

dolce bocciolo silvano!

 

Gaudio improvviso è madore

sul tuo corpo sigillato,

effluvio e vento tra fronde inerpicate

di capelli furenti.

 

Ecco,

si cristallizza il momento,

tu voltata verso il mare d’inverno,

la veste di lino traspare

inaudita precipiti tra braccia indolenti.

 

 

Fuga

 

Prendiamoci per mano e chiudendo gli occhi navighiamo traversando correnti di mari lontani, ed anche se più tardi del previsto al fine giungeremo sulle rive calde del nostro mondo.

Poi, senza remissioni, ascolterò parlare per davvero il tuo candido cuore che, anche se in silenzio, mi saprà dire cose che tu non hai mai detto.

E sarai già brilla, le tue parole fuoco e argento, sole e vento dalle corde vocali.

E sarai ancora più bella, il tuo vestito dalle bordature viola, non ti sentirai sola.

Dalla sera alla mattina non avremo più paura ed il nostro spirito più vero darà corpo al pensiero che, brulicando tra le rovine, sarà più libero di quanto credi, urleremo sino a tardi.

E poi verrà la notte e tu sfinita cadrai sul guanciale con una forza animale. Ed io cogliendo l’attimo carezzerò la pelle, soffici saranno le stelle che dai tuoi fuochi accesi cadranno più cortesi sul mio braccialetto.

Illumineremo il cielo con un arcobaleno di diamanti dagli zigomi striscianti che toglieranno il vero, il buono e il giusto dalla nostra mente, zigomi di serpente.

E, come dei bohemiens, non ci cureremo del passato né tantomeno del futuro, vivremo coscienti solo di essere noi stessi.

Ma non sarà poi il giorno a svegliarci col suo soffice e sottile filtro di luce, sarà un repentino mutamento della temperatura del nostro corpo. Saremo ancora mano nella mano e i baci, baci, baci investiranno il corpo come sopra come sotto. Però la nostra forza tremante cadrà sconfitta a terra.

Il circolo ondulatorio della testa intorno ad un oggetto fisso, che poi è lo stesso, ci renderà più lenti nei movimenti. Il flusso di ricordi sarà annebbiato da dimenticanze a vivide alternanze. Le nostre ali spezzate saranno rinnegate dagli altri ma risorgeranno dal nulla.

E la fonte blu cobalto stenderà sul tuo smalto uno strano desiderio.

 

Berecynthia

 

Nube d’assenzio discende lieta sulle tue forme perfette, un nuovo giorno avanza e si dipinge lo spettro della vita tra storie colme di verità, anzi la venuta di mille colori esplosi tra i rami spogli, un desiderio, rompe ogni attesa e si impreziosisce la tua fragilità, un simpatico refolo ti schiarisce la voce e la realtà bianca e pura è il tuo potere, il solito crescendo tra le foglie è l’apparenza dei tuoi capelli di rame, dei tuoi sogni innocenti e dei tuoi cenni perversi di generalessa alla mensa del sapere con l’elmo e il candore di parole ferme e frementi mentre scorre il tempo e resti la ragazza di sempre, la dominatrice di ogni sussulto e di ogni canto. In cima al monte bendata sei il refrigerio dei miei pensieri, la fonte dei miei desideri, passano i mutamenti, ritornano all’origine anche quelli, ai ricordi dai forma e vita, unito al cielo il tuo fiato gelato, congiunzione dello spirito tra labbro e fronte, segnali occulti tra i righi, spazi che colmano le indecisioni, chiavi svogliate e da te sincronizzate, mantieni il tono di voce e impassibile ti addentri tra i tuoi trastulli artistici, creature immortali alla tua sinistra, stendardi e simboli a destra, mille diademi e l’assoluto poggiati sul capo, sospeso il giglio e l’acacia tra i denti, il leggio lì innanzi emana leccornie d’incenso, è tutto pronto, ogni cosa al suo posto, inizia il folle e ardito sbarco. L’attimo di silenzio è riprodotto dal verbo muto, l’aura alle tue spalle si infiamma, si inerpica il violaceo riflesso, tutto è stato detto, togli il velo del giulivo e del tragico incanto e si arresta il flusso, si intorpidiscono i sensi, voci lontane sono un unico coro e la linea delle cinque sostanze un’unica barriera di forza, l’uno invisibile diviene percepibile.

 

…ed ora, reduci da quest’ennesima

crociata

siamo striscianti ma con gli occhi al cielo…

 

Le tenebre di Saffo

 

Ecco il folle sulla via maestra

 

e non parlo del tempo

né del suo intimo senso

interconnesso con la frase

tronca sul finale,

 

non è la luce

del mattino che mi può svegliare

ma il tramonto della cera

tua posta ai bordi

dell’ultimo

introverso, intimo

crinale,

 

e intanto passa

lì,

sulla strada maestra,

il folle.

 

Si sente sperso

nella nebbia

e non può porre

in questione

la sua mania

d’oltraggio

silenziosa.

 

Una volta,

dice strano,

ma è consapevole

che la sua vita

da troppi anni

è finita

schiantata

sull’asfalto

tenebroso

di un freddo pomeriggio

d’assenzio invernale,

una volta,

continua semiserio

ma fa pena il suo modo

di comporre

le frasi sciocche

come fossero

assoluto

distillato,

 

una volta

il re dell’ Ellesponto

aveva

quattro dame a corte,

le più belle

in confusione

gettavano bottoni

al conte

e facevano moine

da ragazzine,

 

al di là del confine del mare

c’era il segreto rifugio

e una di quelle,

la più bella,

mi baciò

sotto una stella,

 

poi improvviso

il servo e il Visir

persiano

mutarono

il senso temporale.

 

Tuttavia

pochi capiscono,

nessuno lo crede.

 

Talora comunque

tra notte e mattino,

quando l’anima è di tenebra

e il corpo sembra vibrare,

quando non sei cosciente

ma nemmeno sopita

vedi il volto suo

ed il veliero

dimenticato dal nemico,

 

e il tuo destino sembra dirti,

non capisco

cosa posso fare.

 

Ma pochi gli credono,

nessuno lo saluta.

 

Ed il giorno

dopo come prima

arriva

la Dama del buio abissale,

con tredici diademi

 

gli dice

di tornare,

e una volta, lo giuro,

mi è sembrato di sentirne i passi

siderei

nel vento di dicembre danzare.

 

Ma chi altro vuoi che

possa credergli?

 

Sussurra ancora e dice

non puoi smettere proprio tu,

 

passa

distratto

il ripudio

del dolore,

e siamo ancora

assieme,

assurti ad assoluto

assorti

nella delusione.

 

Continua tu,

potremmo innamorarci,

 

ti ripeti

 

ciò che non è più

reale

è evidente,

lasciami cantare,

sugli spalti

musica

violetta

viola

la nostra sentenza

 

e l’inverno

è troppo freddo

senza te.

 

Tu sei così,

un po’ paranoica,

un po’ viaggiatrice

a dorso

dell’incanto,

implicita aura attorno

a te.

 

Tuttavia

sai cosa resta da dire

e silente

non sai più stare,

 

per questi motivi

assorbi

e sprigiona

decisa

il tuo ciao.

 

Siamo arrivati,

l’auto rimbomba vendetta,

gli altri?

Non ci sono più.

 

Sei rimasta tu,

piccola sugli altari,

non è che siamo così cattivi,

forse solo opposti

seduttivi.

 

E lo sai che stasera

è tardi.

 

Ma come fai a non

invecchiare mai?

 

Eccoli,

arrivano,

i nostri avventori,

 

mamma mia come stiamo

allucinati,

sembra una volante

la luminaria là distante.

 

E canta ancora,

 

non puoi smettere proprio tu

e non stasera.

 

Appari indefinita

voglio dire,

appare indefinita

l’ombra,

 

deduco

stanotte

si farà tardi,

 

carichi

gli applausi.

 

Sei tu

che mi guardi

assorta?

 

Credi

che da sola

non abbia

quanto basta per volare?

 

E sei invadente

e un po’ delusa

dai miei passi

tardi

e verdeggianti,

 

non sai

misurare

l’infinito dell’amore,

 

io sono pazza

e non riesco a ritornare.

 

Ma il piano

suona ancora.

 

Cerca di leggere

la verità

negli occhi

dei misteri

che sai,

 

e finiscila

con la storia

del rimasuglio perduto.

 

Il tuo vocabolario!

IL,

numeri nascosti nelle metriche latine,

 

numeri nascosti

nella versione criptica

della metrica latina,

intanto noi

fumiamo

e ce ne fottiamo.

 

Se non sono quella di ieri

è perfetto,

giusto,

meglio così.

 

Impara a respirare l’aurora!

 

Pozioni magiche

nei tappeti

intrecciati

col destino

intarsiato d’alabastro.

 

E l’erba

sa di bellezza.

 

Assoluto

il ritorno

al nostro divenire,

 

asciutto

e corretto

al gin.

 

Caffè

scomposto,

nell’occhio

strizzante

setacciato

il manto del tuo fiato

di rose

e mille certezze,

 

adoro le tue

infinite

presenze,

le tue matite,

pennarelli, acquarelli

dita colorate,

sguardo verso l’alto,

 

secerne

il vento

spirito

eterno.

 

E tu sei

distesa

al mare,

 

talora

ti udii

partire

e sorridente

insabbiare

le mie assurde

postulazioni

con semplicità.

 

Tornerà

l’incanto

della primavera

e, ti giuro,

ne parlerò

un giorno,

 

anche prima,

magari.

 

Ci attardavamo

spesso

fino a tarda sera

all’uscita della metro

per spiare

il confine

tra urban

e panteismo,

 

i libri della scuola

erano

il confine

tra l’Ego

e la realtà.

 

Matita, pennarelli,

acquarelli, dita,

lo sai piccola,

abbiamo dato ciò che potevamo

e più non scorgo

gli occhi tuoi

e l’anima

la perdo

tra le carezze

di ragazze

stanche di se stesse.

 

E tu chi sei?

Che fai?

Che ne sarà?

 

Io vado via,

perdonami.

 

Nei tuoi

sinceri

“ciao”

scorgo

l’infinito

che è in noi.

 

Siamo soli

io e te.

È finita,

 

ti prego

capisci,

 

penserai a me

un giorno,

 

e sarà allora

che piangerai

perché

il vento

dietro i miei passi

è spietato,

 

sia per me

sia per te,

 

sorridi,

ti prego,

 

abbiamo dato

ciò che potevamo.

 

Formalmente,

ma tu cerca ancora di me,

 

non sarà

più come era

ma piangi,

strana

ti senti,

 

hai gli occhi

che parlano da sé.

 

Sai

che è stato stupendo

ma non puoi

rinnegare

il futuro

per me.

 

Tuttavia

sai

che le risposte

e gli abbracci,

i baci

non si perdono così.

 

Ti amo!

Non dimenticarmi,

io mai lo farò.

 

E se non sai

più

quale è la via,

cerca ancora di me.

 

Tuttavia io

sono la bambina spaurita,

e l’amazzone

che scaglia

le sue armi

contro il cielo,

 

che babele

il futuro.

 

E saremo uniti

anche se distanti,

 

di me

non farà a meno

l’anima tua.

 

Noi siamo divinità deluse,

oggi tramontano gli dei,

tramonto degli dei!

torneranno i fasti achei!

gli alessandrini riti!

 

E senza

sapere

il futuro

guardare gli occhi tuoi.

 

Non sapere

se

la verità

è panteismo,

panpsichismo,

panismo.

 

La cazzimma

della delusione

ritrova sé,

e il fallimento

è l’arma

che ci rende folli,

scaltri,

 

che ci fa sputare

contro

la verità.

 

Siamo

i tristi

figli

degli anni ottanta.

 

Immagina

il sogno

che avevamo

ad inizio millennio.

 

Siamo noi

la generazione

dei fuoricorso,

dei rivoluzionari

eterni

eterei rivoltosi,

etereisti

 

noi pedice

e sipario d’assoluto,

punk,

disco-pub,

ska.

 

E alla stazione

stringiamo

la foto,

ciascuno la sua,

 

diretti

verso

il paradiso artificiale

che sognammo

e che ora

non è più

perché

domina

l’insicurezza

e i falsi idoli,

 

gli dei dell’oggi,

 

siamo servi di ciò che

feroci

abbiamo combattuto atroci.

 

Ed io e te

e lei

eravamo la trinità.

 

Spaccavamo

stringevamo il rosario,

oppio nelle mani

 

e non dimenticavamo

il domai.

 

Ti amai,

mi amasti,

lei mi amò.

 

La sera,

quella di febbraio inoltrato,

sentimmo lontano

il lamento di Asdabea

 

sdraiato a ritroso

sul filo,

attenti al riporto

dell’infinito capovolto,

 

scorgo intransigente

le spoglie spirituali

del volto proteso a sentimento,

 

ne scorgo il silenzio come orma

sulla scritta

che per pudicizia

impone impunità

violata dall’effige

della smaniosa

sfinge dei ricordi,

 

improvviso

alchimista,

 

cabala del cielo,

 

le nuvole fuggono

tra gli uccelli

miscelati,

 

il gufo insegna.

 

Ho visto la torre di babele

dal ponte

e il pianto della ragazza

con cipiglio deluso

gettarsi nel Flegetonte

per mistico sogno irrealizzato

mandare al ripudio

il grido ribelle.

 

E pure verseggia

ancora in Greco,

 

le sue ninfe

si riuniscono

in circolo

e piccoli

poeti

traducono

in metriche latine

quegli endecasillabi

e quel verso finale,

 

voglio sperare

che tutta nuda

continui a danzare

al canto dei magici

veli delle ancelle,

 

le allievi libidinose

di scienza

e quindi

di eros.

 

Eppure un matriarcato

originario

è come inviluppato

confronto

di quella

che ora si noma

se stessa,

 

padrona d’assoluto,

 

il segno è vistoso

di statistiche spurie

e tratteggi decisi

del punto inesatto

concisi in indecisioni

sciamaniche

e atopiche

del senso

e del confine dimensionale,

 

e sono loro

gerarchie femminee,

 

Sophia la direttrice

scalza,

 

Maddalena la rivalsa

corporale,

 

spirito il furore

di amazzoni

occultate

da giambi

e cataclismi

marmorei

e minerali.

 

Tredici

squilibrati tedi,

ànthrōpos,

seicentosessantasei

 

stolti

inumani

d’uomo

finalistico

di se stesso

per cecità

diagonale

intravista

nella genesi

e nell’omega

repentina

e maledetta.

 

Mabus

molto al di là

 

e

chiudi gli occhi,

 

è solo un istante

quello effimero

in cui vedrai

tutto il mondo

come fosse in un palmo di mano.

 

E pensa ad altro.

 

Stupendo

volteggio,

rimane

il resto.

 

Che te lo dico a fare?

 

Vai vai vai,

il serpentino sapiente

struscinio,

il sillabeggio sillabo di chi è ancora innamorato

di te.

 

Potresti chiudere gli occhi,

 

specchio del passato

il salutare

assunto

in conclusione.

 

Quanti errori,

mater dei!

 

Ecco,

ci siamo,

riprende

il ritmo,

 

jazz.

 

Ti prego obnubila

ogni pensiero,

concentrati,

 

il mondo

è al di là

dell’esperienza

percettiva

di secondo livello,

 

è molto al di là.

 

E tu piccola

resti il mio segreto!

 

Piccola,

sei il mio segreto

e il tempo passa.

 

La musica non risponde

ai richiami dell’abisso,

 

e sei stesa

come dicendo

basta.

 

Piccola sei il mio segreto

e la luce tenebrosa

di piante

dimenticate

nell’arrampicarsi

dei nostri sensi

sconvolti

piangono

lacrime di gesso.

 

Piccola sei il mio segreto

e lo rimarrai

anche stanotte,

 

quando torno a casa

tra viali infestati

di ragnatele tediose.

 

Piccola sei il mio segreto

e non mi volto

sperando non infranga

lo specchio lucente della realtà

i tuoi passi danzanti,

piuma nel deserto,

 

richiamo

del silenzio

lamentoso

ed eterno.

 

Ti penso

ma sei sola

e sono sola.

 

Vorresti parlare

ma le tue labbra

sigillate

dal pudore

tacciono il meno.

 

Amore mio

sei il vento

di ciò che non è stato,

dicendoti addio…

 

Morire dentro

è l’alba della nuova vita

che assaporo

da tempo,

 

come posso,

amore,

dimenticare il tuo viso.

 

Ti prego,

ti prego

volgi, se non puoi

gli occhi,

il tuo ricordo

piuma nel deserto

ed io petalo tremante di brina

 

ed è sera,

è sera

cara,

 

tradisci

te stessa

e la tua stupida

semplicità,

 

sono un susseguirsi di

rubini

i sogni

purissimi

del mio silenzio.

 

Pesche le tue guance,

chi sarai,

allieva della notte?

 

potrà mai la tua luce

innocente

consolare

il mio sorriso

smorto

da un ottobre

che non fu?

 

Passa il tempo

piccola,

a passi felpati

cammina

il maledetto,

Baal.

 

Caducità

dell’umana stirpe,

 

arzigogolo

dei folli.

 

Vorrei gridare al vento,

tu,

lurido senso,

lurida inferma

lancia,

luccicante

del nostro soffrire,

 

tu,

ti direi,

non sedurre più

chi tradisci

senza colpa.

 

Torna!

torna stupenda meretrice!

torna Babilonia la Grande!

 

Vino e miele

in boccali,

baccanali,

coppe d’argento,

smeraldo il tempio

 

e il braccialetto

sempre più

perverso,

 

su e giù,

oscillazione erotica.

 

Si squarcia il cielo,

solo amore,

solo amore,

grida il folle,

 

piange lo stolto.

 

Mi dava mille baci

la ragazza mia,

 

nell’indecisione profondeva

l’emozione,

così sensuale

nella scollatura,

 

intravedevo

i fiori di loto

che mi portavano altrove,

 

o mio amore

da cannuccia

a bavara persiana

 

era la Stoccolma

designata e intransigente,

 

prigioniera dei miei sogni

avevi come sempre la cartellina,

quella rossa.

 

E intanto

nella circumvesuviana

sfioravi

il senso delle stelle.

 

A volte mi sopivo,

stanca della

troppo strana

melodia

differenziale

e pitagorico-karmica.

 

Che bellina che sei!

 

Sostenevamo

concetti

ma la cupezza della notte

era inebriamento

per la rivoluzione.

 

Gli altri sparlavano,

noi ridevano

e taciti ci dissipavamo.

 

E dalla tangente

quarta al punto gamma

la vibrazione

del riporto

deluso

dal clavicembalo

scordato,

 

frastuono ecclesiale,

canonico

 

risvolto,

rivolta

arancia meccanica,

sconvolta,

 

latte e fiele,

latte e miele

dall’abisso del mare in tempesta.

 

Ora chi sono?

Mentre lo domando

al vento

appari,

 

sembri non perire

facilmente

 

ma benzodiazepine

ti servono

per non soffrire

 

mentre io cerco ancora te.

 

È vero,

ho sbagliato,

 

ma tu ricordi?

 

Piccirè,

io ti amo,

 

ti prego capisci.

 

Se davvero

mi credessi

capiresti

che non hai sbagliato

quella mattina a scuola

ad accarezzarmi

furtiva

nell’antro del bagno.

 

Se un giorno capirai,

vedrai che quello che sei

lo devi al nostro rapporto,

 

in fondo

il resto è solo un ancoraggio

per non scolorire,

pel tempo

che fugge e corrode

i solchi del nostro amore,

 

lo sai che ora

non abbiamo più la forza

 

non siamo adolescenti eroiche pugilatrici,

non sappiamo più lottare.

 

Ricordi il tuo primo regalo di natale,

magari tu lo accarezzi

e se lo guardi

vedi gli occhi miei.

 

Guarda

che anch’io ho perso il senno,

 

ma penso ancora a te

e so il tuo numero

a memoria,

 

e vorrei rivivere

noi due,

le saffiche perverse

e sogno incosciente.

 

Non è stato un errore

la schiuma ultima del mare.

 

Verrà

di nuovo Natale,

 

i tempi stanno cambiando

 

ma oramai per noi è finita,

 

è troppo tardi

ma mai sarà quel che era altrimenti,

gli occhi tuoi sol’io li ho visti davvero,

 

ti lodai

come una divinità,

 

ora c’è l’ altrove

impresso.

 

Non puoi,

 

addirittura

rubiamo,

 

non possiamo,

il mio cell

l’ho spento

 

per non soffrire più.

 

Mandami via!

 

Non voglio essere pietosa,

 

ti prego

dimmi che un’ altra

non c’è.

 

Dimmi

se c’è

una ragazza

che morirebbe per te,

e nel sospiro

sveglia

ti stringerebbe,

 

gli occhi azzurri tuoi.

 

Nessuno può capire,

il quarto di luna nostra,

 

andrei con te

all’inferno,

 

con l’elmo

perso nella battaglia d’Assietta,

 

equilibrio sconvolto

nel ripristino atroce

del nostro smarrito naufragare.

 

Non ci pensare,

magari sbaglio,

amore mio,

vado via,

vado via senza pietà.

 

Non capisci,

sono viva

e senza te non ci riesco,

 

ma sono viva

solo se sei felice.

 

Trova un’anima

come me

che si nutre

di noi

e senza respirare

vorrebbe cavalcare

il cavallone

del tuo cuore,

 

morirei se salvassi te,

 

vorrei volare

per proteggerti

dalle sofferenze,

 

non farti mai morire,

mai più.

 

E dimmelo se trovi

qualcuna che ha venduto

l’anima per te,

 

che vive solo per te,

 

gli occhi tuoi

solo io li ho visti

davvero,

te lo ripeto,

gli occhi tuoi sol’io li ho visti davvero.

 

Vorrei viverti qui ed ora,

 

vieni assieme a me,

andiamo oltre l’eterno,

 

vorrei che fosse vero

il rapporto lunare.

 

Vorrei parlarti

come feci allora,

 

vorrei che

essere nel tuo cuore

non fosse solo un sogno.

 

Prigioniero d’amore

voglio solo te,

gli occhi,

il tuo corpo, la tua pelle,

sei la bella tra le belle,

 

sei un’idea,

un’azione,

una profusione sentimentale

e sensuale.

 

E io se non sei mia

perdo il cielo, la terra, il fuoco.

 

Naufraga d’amore

non ti scordo.

 

Muoio volentieri,

 

le schiere

di cherubini

credono più del caos

al nostro amore.

 

Ai bordi di un fiore

vorrei davvero

che capissi

che non siamo reietti umani,

 

tu sei stupenda,

ed è questo che mi fa soffrire,

 

un’ altra o un altro

può sostituirmi,

 

tu no.

 

Vorrei dirti,

piccola naufraga d’assoluto,

da anni

amo solo te.

 

Voglio morire

se non c’è

più per me

un abbraccio.

 

Voglio viverti

qui ed ora.

 

Vedrai che non siamo davvero cambiate,

avessi la forza

per cantare ancora,

 

la mia vita

è solo una rinuncia,

 

muoio anch’io.

 

È già inverno,

 

ti sei scordata di me.

 

Vorrei che cambiasse ciò che è stato,

 

se una donna è lo specchio di me.

 

Lo so che ti penso,

vorrei che il momento

della felicità

fosse prolungato

all’infinito,

 

vorrei non fosse mai terminato

l’istante,

 

i miei occhi bendati,

i tuoi nascosti

dal brivido scosso.

 

E ora chi sei?

 

Ricordi ancora la nostra storia,

 

l’hai rimossa

pel rimorso,

 

ricordi il nostro segreto,

 

un giorno tutto sarà chiaro

 

anche la mia di genere inversione

temporale

 

per non farmi scoprire.

 

Piove a Pomigliano

e ricordo le nostre prigioni.

 

Vorrei che per un istante

sotto pali della luce

le vertigini fossero

sostituite

dalla forza di un tempo.

 

Non smetterò mai

di parlare

del cobalto

dei tuoi occhi

e dell’assenzio

velenoso

della storia di noi.

 

Non svelare

il nostro segreto,

 

vedrai

che non siamo davvero cambiate.

Io e te sole,

frammento d’assoluto

 

sei padrona,

 

ma brava,

 

non sai più cos’è

il sentimento che era dentro noi,

 

ottimo taglio di capelli

mi ricordi te.

 

E magari sei

diventata pure borghese.

 

Fumo sempre le Pall Mall.

 

Tre sigarotti,

 

cosa siamo noi?

 

Al cinema.

 

Io cosa sono?

 

Frammento d’assoluto,

 

voi non ci siete

 

e io sembro l’ultima ancella

e domina stanca,

 

non vuoi palar latino.

 

Eppure tu ci sei.

 

Ti ricordi,

stavamo

cambiando il mondo,

 

ma poi,

 

ora chi sei?

Il frammento d’alma mia.

 

Guarda come sono ridotta,

tutti dicono pazza,

 

ma voi due lo sapete

che

la mia mente

è sana,

 

vi amo ancora.

 

Io sono sul filo,

 

atonico agorafobico

dio gli spazi aperti!

 

il mio futuro è oscuro.

 

Ti ricordi,

vi ricordate

quando in un abbraccio

abbiamo detto il mondo è nostro,

 

avete rinunciato,

mi avete dimenticato,

sono sola,

tutto fu riposto tra le rime,

l’anima,

il vento,

 

capelli scossi,

fermento,

mutamento.

 

Potresti dirmi chi sei,

piccola stella azzurra.

 

Le tue forme

strane,

 

la luce del lillà che imprime

sul corpo la tua venatura sublime.

 

Velatura d’inverno,

pianti grondaie,

 

eterno dalla tua bocca.

 

Ed è pur sempre sera,

 

non sembra,

non vuole,

eppure dell’entusiasmo

il moto ondeggiante

dell’universo

il tuo volto smuove.

 

L’anima la perdo,

seduzione sottile,

 

satira,

ninfa

stringerebbe il riflesso della via,

bell’ironia la tua,

 

cerca il peggio di me

in quel refrattario scomporsi

al prisma

dell’attenzione,

 

quella mia,

 

quando dico

tui, tibi, te, te.

 

Bellina carezza

il godimento

che si pone ponendo

ciò che c’è di vero

del risvolto del pensiero,

 

la filastrocca

e la scomposta

rimessa rimossa.

 

Magari sorridendo

potresti confondere

l’intento,

 

non hai di che vivere,

 

va bene,

si può fare,

 

continua

però per favore a cantare.

 

Tanto bellina,

sei tutta pazza,

la mia ragazza

 

sa già

di noi

l’entusiasmo visivo.

 

Ma come faremo

a dipingere ancora,

vai al canale

o nel borgo,

 

tuttavia

è già sera.

 

La Senna

è impaurita

dall’ombra

e dal tuo trasparire,

ectoplasma

scandito

a verso

inflitto

della sconfitta.

 

Poi passò anche il sentire,

 

e tutto fu riposto

tra le rime

scritte nell’antro tenebroso,

solo una luce,

lontano

 

il faro spumeggia

tenebra inesatta

e scomposta,

 

è l’immagine

di te,

muta.

 

Si spalanca

il dolore interiore,

manchi.

 

E ciò che vedo

è ciò che forse non sento,

 

l’immaginazione

tragica

prima del sacrificio,

 

è nella mia mente

il lampo

delle sonore

assuefazioni sorde.

 

Sono io

al di sotto

delle ombre

 

tra cattedrali

nude

della

nuova ora,

notte fonda.

 

E come fosse apocalisse

canti gregoriani,

 

come ci fossero frati,

sette inaudite

che riecheggiano

come minacce lontane,

 

micce pronte all’implosione

di cristalli

scanditi da turbe

psicotiche

nel trascorrere

pomeriggi invernali

curva alla finestra

dei domani.

 

Il vero

è assoluto

 

ed io persa

tra le sorti dell’abisso,

infausto destino,

 

le Parche

filan tacite

e stillicidio

è la vita,

 

morte prematura.

 

Vivendo,

pur vivendo

lo stesso.

 

Ma non sento forse

altro,

dall’eremo lontano

proiezione è il tintinnio

assordante di campane,

e i tuoi bracciali,

falce inesorabile,

 

non purifica

l’acqua

ma

intensifica

la paura.

 

Ti prego salvami!

 

Se sono immersa

nelle paludi

intarsiate

di infami

biasimi

ai bordi dell’Ade,

 

se sono una chiamata,

una persa,

un’anima persa

nell’oscuro

del pensiero,

 

naufraga del vero,

 

sola e pallida

nella regione tedesca,

 

cambia l’ascesa,

hai visto se hai distrutto,

ho dato un peso differente,

 

c’è sempre il tuo nome

nel passato,

basta studiare,

 

cambia

giorno per giorno

col mio desio attuale,

sempre più attuale,

 

se stai leggendo

anche anonima

se sei tu,

 

le tenebre te lo concederanno.

 

Dai distruggimi,

 

voglio

erba,

 

voglio eccitarmi,

voglio eccitarmi,

 

salotti

e teatri,

tournée,

 

se tu solo lo volessi,

 

conquisteremo il mondo,

 

conquisteremo

l’universo.

 

Inversione di senso

e di genere.

 

Anfetamine

e lsd,

l’alcol,

paroxetina,

paroxetina,

 

paroxetina

e vodka.

 

Sparano,

giù la statua

di Saddam.

 

Dichter

è qui,

 

sono

pazza,

ma cammino sul velluto,

 

dai decumani

all’isola.

 

Sangria

e rivoluzione.

 

La verità è axiotica,

ti amo,

e non muori.

 

Sei tu quella ragazza,

assiologica

 

dicevo la passione

 

spogliami,

distruggi la mia dignità.

 

Ascensione superiore,

hai letto

 

l’Anticristo

meglio di me,

 

ricorda Friedrich.

 

Ricorda,

che sono coerente,

 

Beatrice,

Laura,

Fiammetta,

montaliana,

esistenzialista.

 

Forse domani pioverà.

 

Non uso,

non uso,

 

se capisci,

 

dorso di bottiglia

etereo

nel cellulare,

 

incubi notturni,

urla,

clamore,

 

serva di satana,

luce

opaca

del futuro.

 

E mentre

cantano

i cori

dell’azzurro

floreale,

 

ma tu sei

più speciale.

 

Sogno

strane forme

amorfe.

 

Ed ero

ciò

che a Sant’ Elena

non fu,

 

sogno

il violino,

tu che dici

ti amo,

 

quale è il senso

della vita

 

mi chiedi

ed io tranquillo

rispondo.

 

L’ora più buia

è quella che precede il sorgere del sole.

 

Piccola

persa

non dimenticare

le tue origini

e chi ti ama

senza chiedere niente,

chi ti amò e ti ama,

 

criptico

sarà,

 

mai nessuno

oltre noi capirà.

 

Nell’oscuro della notte

la tua voce

al limite del sogno,

 

ti amo

piccola

stramba.

 

Un giorno guardai

distratto

gli occhi tuoi.

 

Mi innamorai,

 

non dimentico,

fu l’unica volta,

 

amai davvero solo te

che mai fosti mia,

 

l’unica che amai.

 

La nebbia si dissipa

ed il folle scompare

sulla via maestra.

Le corde della mia poesia

 

Luci ancora?

 

Parla soltanto

se capirai,

 

gli anni son molti,

da pianger,

 

vedrai

l’immenso

nella melodia,

 

vedrai , e già lo sai,

tenerezza e follia,

ma non rinunciare

a questa vita,

 

talora anche il treno

perso

è segno

di fiori futuri

che sbocceranno

come sogni, utopie

tra le mani tue

che son giunte,

angeliche

remissioni

a fiato corto

in pace universale

 

tuttavia,

seguisci li miei passi

e non dirmi addio,

 

dalle tenebre un canto

è parte di noi

 

come siamo stati

il domani saprà

sussurrarlo,

 

ti è chiara la stagione

sottesa

all’intricato

artifizio

d’idioma dimenticato,

 

scegli me

anche stavolta,

 

e fu così

che cadesti

tra le braccia mie,

 

ricordi anche la casa

sulla scogliera,

 

non penso tanto

a ciò che credo,

io credo comunque

che tutto è uguale per noi.

 

E tu

 

un soffio,

 

non varcasti più

l’avanspettacolo

come guerriera

senza scudo,

 

l’elmo spento

nel tepore degli abbracci.

 

Il corpo nell’avviluppato

dei pensieri,

 

tranquilla non cambio,

resto ciò che sai,

e se vuoi grazia mia

non andare via,

 

mi ricordo di te.

 

E se nella melodia

che ti ho detto

non riesci a trovarmi

traccia

con le dita

segmenti

di linee scomposte

ravvivati dal tocco,

 

quello mio.

 

Guarda sono sempre lì

al tuo fianco,

 

ergo non disperare

se non vedi la luce

nel nulla eterno,

 

sono le citazioni approssimate

quelle che

ravviavano i tuoi occhi,

 

guarda lo so,

caduta, sembrerebbe banale,

ma scrivo che,

anzi tempo meglio

sarebbe non parlare

o magari ancora lasciarci andare,

perché

l’epoca nostra

non lascia

tracce

che non siano indelebili

nel calco

dei tuoi sogni

che sospirando

sfiorano le corde

della mia poesia.

 

E tu sei sempre così:

 

passi lenti

a tarda sera.

Rumore di grondaie

asciutte.

 

Eccoti qua,

piccola come un cero,

 

la Ceres

delle stagioni,

quelle con il sole al tramonto,

 

ed è ancora sera.

 

E tu sei sempre così.

 

Qui muti

la dimensione temporale

nel velo

della dignità

frantumata.

 

E vuoi sempre di più,

e fumi e fumo anch’io,

pall mall

 

o sono solo.

 

E sei sempre con me,

gitane.

 

Chi sono io,

tu lo sai

ma piango me,

 

sei la violetta,

quella certa,

mentre tu fuggi,

alle spalle la città.

 

E dopotutto sei qui

ed è questa la verità,

 

amo od amai,

 

il varco si rimpicciolisce,

languisce il senso,

corpo calibrato,

turgido il sapore

dalla tua bocca,

e quella non è mai asciutta,

se ti avvicini al mio desio,

 

e gode la mia povertà.

 

E gode poi

massiccia e fiera

vetta

la mente

quella tua lucida,

nella metro

in tragica viltà,

la notte bifocale

è rimando,

deve trattarsi

di te,

 

quell’impronta

sul cuscino la ricordo,

 

di sicuro sei passata,

come quando gettasti

dalla decapottabile

la mia sciarpa

ed il tuo foulard

perché ora è al mio collo,

 

dal Gargano ai monti vispi

e asprosi,

 

oppure verso le Ande

con fare distante.

 

E dici assonanza

di essere

bifocale

e bilingue

in bocca all’incrocio

nel bacio sbocciato

stellato

e mai dimenticato,

 

filastrocca o sonata.

E nascosta

 

mi guardavi,

c’era un’altra,

si trattava

di scoprire il mondo,

quello nuovo,

 

tuttavia

la libertà

venne,

 

erano le quattro e mezza

ed era la luce

quella dell’alba

 

e le prime carovane

palustri

di pastori

cittadini e salmastri.

 

Forse

oggi è andato dimenticato

ciò che successe

nella tenerezza

dell’attimo

di cui si parlava,

 

era già notte scorsa,

caffè mio del mattino,

 

è già tutto finito.

 

E compari ora,

traversa alla parete,

eterea,

pleonastica figlia dell’anima mia ribelle.

 

Ciao!!!

 

Ciao tutta mia,

come ti va?

è un po’ di tempo

che distratta passeggi

qui e lì

 

il respiro strutto

nel distrutto.

 

Solo sei

la più

intrigante,

 

fai le fuse,

scendi con la grazia

alabastrina

di un sapore cristallino

dell’invito appena posto

e forse no,

non ti ho sognata

se eri già al mio fianco svestita

 

e dici pure

è tutto tranquillo,

 

tutto già vissuto

nei tuoi denti risplendenti.

 

Di nascosto

guardo il volto tuo,

chiusi nella stanza,

picciola sei troppo fantastica

 

ti insegno il sospiro sofista

dell’indulgenza celeste

sublimata

nel tuo enigmatico sorriso

puro e perverso.

 

Accendo la sigaretta

e mi ricordo

di te

 

pleonastica figlia

dell’anima mia ribelle,

pleonastica e presente,

orma della nostra metà.

 

Soffia il vento

nelle praterie

alle finestre scosse,

 

tu ricordi?

Nel mare

tempesta gli occhi tuoi,

 

io ancora qui.

 

Passa l’inverno ed il dolore

se vuoi

 

ma solingo

assopisco

il desiderio,

sembro sonnambulare

soffocato per la mia

aritmia

sensuale,

 

lezioso il tuo profumo nevoso,

 

vado a intermittenza

e godo dio!

 

picciola.

 

Cara dove sei?

che sarà del tempio eretto

per spudorato

sentimento avverso

nel nostro cuore,

 

patto di sangue?

il dolore resta

e poi va via.

 

Sei qui?

 

a volte ti scorgo,

sembra estate,

eppure caro

fu l’ermo freddo

novembrino,

 

tanta parte l’ultimo orizzonte,

sei con me,

vita, picciola,

amo,

 

io sono qui

e tu dove sei?

 

Io ascolto il lamento

di ciò che fu

ed ora è solo pudore,

 

stringi le mie mani,

 

sono io,

 

resto sempre qui

 

e se domani capirai

ciò che capisti

frastorna

indemoniata

dal rigurgito

sociale

ogni assoluto,

assoluto eterno

è infatti null’altro che noi,

l’orma della nostra metà

l’unica meta ambita.

 

Ed il sogno continua desto,

 

ti pronunci coi capelli al vento!

 

Sono le tre

di notte,

 

stavolta

posiziono

a cento l’allerta

dell’allarme

nella distilleria

dell’alma mia.

 

Sei così splendida,

divori voracità

di incenso e fumo.

 

Sei

solinga,

straniata

e nella penombra

il gioco gotico

non smette mai.

 

O dea Selene,

o mia piccola stella,

vettura siderea

di un anno che fu

e ritorna solo amorfo

nei segni tuoi

 

ombra sulla parete

e letto atroce

 

e voli verso il mio destino.

 

L’amore

è questione pudica,

puerile l’ardimento,

epistole e sofferto oblio,

dal pc all’incudine

del senso.

 

E, dici, vaneggio.

 

Non oserei mai

fermare

la mossa perfetta che fai in profilo

 

tu poetessa

scrivi di me

e degli arpeggi,

 

tu amasti di me

lo sguardo su tutto,

 

mia via di scampo

e prigionia mia.

 

Se sono ludico

tra la folla

 

mare e tramonto

nel tuo distacco

innaturale,

 

il tuo profumo

lo sento a un miglio

e il fumo delle mie

lo intuisci già dalla foto,

quella che sai

e appena appena

sussurri

con un soffio

sul boccale

del tormento,

 

sei tutta imbandita

e tutta restia al mutamento

ma ti pronunci

ancora

coi capelli al vento

ed io

forse non lo ricordo bene

il giorno,

l’ora, l’anno e poi…

 

mentre ti svestivi,

ti volevo e

tu respiravi

sincera naufraga

 

forse

c’era anche lei,

 

c’era la ragazza

occhi tutti blu

trapunti d’assoluto,

 

noi tre

e te.

 

Ti amo

picciola

 

ti amo,

voglio

te.

 

Ti amo

ti amo tutta mia,

però lei…

 

il mondo sembrava

guscio di speranze

fossili,

 

mi stuzzicava,

corde pizzicate

ed arpe

e poi

spalancò la bocca

e tu non

l’hai mai saputo.

 

Bici rettilinee.

 

E tu,

tu non lo sai,

 

non lo saprai.

 

estate inoltrata,

tra l’iper

e il romanzo a titolo fittizio

e futuro albore

di scambio personale

ed apodittica inversione,

 

ma guardati,

picciola

ma borghese,

mai più mia,

 

infatti la ragazza

mi sussurrava,

voglio te.

 

Bicromo!

 

Dovevo dirla,

ecco ti spetta tutta, picciola.

 

E’ per paura

che l’anima mia

si temprava

al consumo diffuso

di alcol distillato

dall’erba dipinta

e tutta pinta

di allegria nostalgica

già allora,

 

finta d’assenzio

e colpo scorretto

per vanità,

 

con le premure

e le ricadute,

vertigini e assedi

tediosi

e malinconia

prismatica

dalle fessure

aperture scomposte.

 

Quel pomeriggio

pareggiavo

l’ingiustizia

e la mia

luce unica

eri pur sempre

tu.

 

Ma la voglia

quella di un tempo?

 

nella dittatura

mi sperdevo

e ti sperdevi,

forse per ciò

ti ho ricordata

nell’oblio.

 

Tutti soli

nel baratro

oscuro

di seduzione irrazionale

 

e la stola

era in circolo.

 

Ora ti sogno

e penso

che

il tuo volto di qualche anno fa

non è compatibile

con la follia che ora

alberga.

 

Una resa dedicata

a chi non c’è

 

ed è così,

come limite dei cancelli grigi

condannati alla assenza

e alla noia,

 

spleen atroce!

 

eccoci più lontano e più lontani

noi.

 

E vorrei averti ancora accanto a me

con le tue

parole incomplete

o forse doppiate

da telefilm americani,

dizione assurda

e continuo sussurro muto

a fine frase

con concetto avulso

al senso verbale.

 

Amore mio

 

Dimenticate postille

tra luridi scantinati

 

sempre più forte

l’immago tua

in me.

 

Ma perché

siamo ancora succubi?

 

Perdesti te

mentre mi perdevo

piccola mia,

 

una sera

mi guardasti,

erano gli occhi

di inizio secolo,

 

ora più non c’è

altro che grida sterili,

che rabbia pulsionale

e residuo tardo adolescenziale.

 

Nulla ci libererà.

 

Amore mio,

mai.

 

Il tunnel del ricordo

è morte pura

da Crono steso

all’aria indifferente,

 

il senso scuro del rimorso,

il pianto stridulo del rimpianto

al tramonto

e lunga l’ombra tua

sincera

nel diniego etereo.

 

E non credi all’alma

del domani

fatta passato

tra sabbia

granello perso d’assoluto,

 

sincera

svelata,

 

sincera,

pura come l’erba

sciupata

dal vento

che alita su acque

di spirito sperso,

 

immagina

che poi

il futuro è tenerezza,

l’eremo rispetto

del mio denso

rimasuglio

di te.

 

Il fuoco

splende

tra noi due

 

io sento il fragore

delle stelle

e se non leggi

dispero

tremante

 

bocciolo mio

che son io

tra braccia spente.

 

Consolazione non è

pensare

ma pura acqua di sorgente

 

l’effluvio,

amore

rubato anche persino agli sguardi,

 

dimentichi

che l’inverno si imprime

porta sola,

 

assolo

di grilli tenebrosi,

 

no, io non posso,

voglio stasera

te silente

nel rumore

assordante

della tua voce

spersa

nel vicolo buio.

 

Notte estiva tra viali

in questo autunno ventoso

in vicoli stretti

del corso affluenti

secondi al silenzio

in loro impresso,

e tu spensierata

sei solo un’ombra

 

ed io piango

senza vedere

l’effluvio

di te.

 

Ma non credere

a ciò che dico,

 

né a Pavese

né ai tuoi occhi,

 

verrà comunque la morte

da sola

e solo io

dormendo

nella mia infinità.

 

Ma l’immagine

giunge riflessa,

allo specchio

i tuoi sogni.

 

Canto

solo per dirti che

la vita

ibrida

è limite

della mia deficienza eterna altera.

 

Stupidi i discorsi,

stupido il resto,

stupido ogni legame

tra le nostre note,

 

coni concentrici

del nostro male che d’assoluto

fu dipinto

e resterà

per sempre malgrado noi

nelle parole del solingo

sentimentale futuro,

 

la ragazza

col dono divino

e le labbra di ciliegia.

 

Airt,

chiusa in te

rispondi a sillabeggi

scomposti,

Aisas.

 

E tutto

è semplice,

 

filosofia d’osteria,

dell’alma mia

rifugio,

 

inverno e tenebre

la nostra via di scampo

 

rifugio stupido

e la stupidità

dei nostri sguardi innamorati

nel godimento,

il letto stropicciato.

 

Sogno

tra braccia calde

e minute

nella tua passione

generata dal desio

che vuoi

sia solo amore.

 

E’ ovvio,

io sono qui

al limite dell’universo,

quello che sogni

mentre pensi.

 

E mi pensi,

vorrei solo

potessimo

non nasconderci mai più

né vergognarci

di noi.

 

Tuttavia

sei ancora perversa

solo per divertimento.

 

Ovvio

posso pure parlare

 

tu già dormi

le tue braccia sempre più strette

 

e l’inverno è trapunto

di minute stelle gelide.

 

Se vuoi resta.

 

Susei

Anthropos

et Nero,

ars amabilissima.

 

Un millennio di silenzio

tra spoglie atroci

e le croci

dei miei spasmi

sofferenti

anni persi.

 

Mi piacerebbe

dipingerti

mentre mossa,

non è la mosca.

 

A volte

perdo il filo,

ok,

due cazzate.

 

Ma se miscredenti

mostrate i denti

dall’altare

la pace

è tutto

 

tra benedizioni

si sconsacra

la realtà smossa

ed il tocco divino

è segno imbandito

al senso caduceo sfrenato.

 

Adoro

parlare di traverso

al senso,

 

è pornografia

postindustriale,

ballo lugubre

nel respiro

dei buoi

tra muschio denso,

 

il sacrilego disegno

del nostro sentimento.

 

Le Fondamenta della Penombra

 

Scordando le note

sono trafitto

dalla luce che mancò

alla storia,

quella nostra,

quella che sai

senza sapere

 

capovolta

l’attesa

stellare

del destino

a cui non credi

per dispetto atroce

ma

per vaga speranza,

 

chiudi nell’accordo perso

da noi che strani

dormiamo

alla partenza

spogliati dalle rime

come calici

i pensieri

e tu che chiacchieri

con me

mentre il tè è già

freddo

 

dell’estate

la paura

puro amore ti darà.

 

Eccoci al punto,

sta attenta.

 

Dici che non scordi

l’illusione

e ciò che fu

ma nei miei rimorsi

vivo tenebroso

ormai,

 

ma dopotutto eri un po’ così

con le statue di gesso

che ammiccavi lucida

e sconvolta dal domai,

 

prometto

che la colpa non c’è

ma ti giuro che ritorno

quando all’ombra della luna

mi cerchi

come ultimo sopravvissuto

alla sconfitta

che ti giuro vivo anch’io

per negligenza o forse

inutile sincerità

dolente,

 

le mie spalle

e il brivido.

 

Forse non è stato il giorno

appena nato

a porre le premesse che

furente alla tempesta

scioglievi,

 

lacci di malinconia

stretta forte alla mia pelle

come ritrovata

la vita

e vedevi

gli occhi lucidi

nell’attesa che il tempo

si fermi

collegato alla realtà

che perdemmo sconvolti

dalla spiaggia

inerpicata

tra capelli

e tiepidi

rimandi alla fortuna,

e quella lo sai

non la gioco

a scudo tratto

se ti ascolto

è il barlume

della vita

che si espande dai tuoi occhi

e illumina

il mio viso

stanco di combattere

e tu,

 

tu,

che or’è?

dicevi appoggiata a me

 

mi bloccavi il corpo

ed il bacio

fu già addio,

 

risveglio atroce

senza te.

 

E cantavi a squarciagola

ma era un sogno la poesia

che scrivevi sul mio corpo

viola tinto

di lillà

 

tra il sogno

ruggente

verità scomposta e chiara,

 

sei un tesoro

amore mio!

 

E nel bosco

il volto fisso

l’alba aurora

del passato

rimirò.

 

Sei tu

quel canto che

vibrante sale dal polso

e si irradia

nel mio cuore scalzo

come dissi

genuflesso

tra i ricordi

nel deserto

 

erano fiori

i sogni tuoi,

 

guarda erano anche i miei

e sono

proiettati

nel futuro che sarà.

 

Tracci

la linea e sconvolta

mi dici lascia stare

tradendo

il patto

che solevi

sorseggiare

tra un attacco

stupendo

e tutto quello

che c’è in mezzo,

 

e ci pensi ogni tanto

noi lontani

e lontana l’armonia

nel cielo dei miei sogni

 

le stelle solcate

dal tuo dito

che improvviso sulle labbra

quelle mie

mi spingevano a baciarti

ma in silenzio,

abbracciarti

senza far sentire

mai

che esplode in noi

la passione,

l’amore

e la follia.

 

Così

ridi, leggi

e poi ricordi

svogliata

 

sei oramai al di là

di quel che penso,

sei più brava di me

nel dirmi

ciò che vorrei

dirti

 

(ma così

splendi immensa

e stupenda

di lato,

braccio

capelli

vento

tu),

 

tu

profilo fantastico

e limpido

il gelo

che ci riscalda

nella nostra immensità

indissolubili

e così

mi dici aspetta

sono qui.

 

Il mare schizza

l’anima

nel corpo dell’ostilità

della nostra segreta

verità,

quel nostro assurdo finale.

 

Ok,

puoi andare,

sei stanca

lo so,

 

questo ricordo

è troppo intenso.

 

E cos’ho detto,

il mio sogno in mille pezzi

l’alma in frammenti.

 

Ed è di nuovo giorno,

non ti so scordare.

 

Forse domani

sarà diverso.

 

Potresti pure restare,

già il vento imprime

questo assurdo finale.

 

Lo sai che

non mi puoi

lasciarti preda di te

senza eclissi

nel mare

 

non mi abbandonare.

 

Potresti

non andare.

 

Passano gli anni

e soli noi,

 

potrei rivelarti

il mistero eretto

nel tempio

del nostro sentimento eterno.

 

Ecco,

non vuoi

capire

che è l’età

che distrugge

come tenebra

tutto ciò

che costruimmo,

 

l’amore impossibile

questo assurdo finale,

 

potresti pure restare,

 

potevi.

 

E adesso

l’oblio copre

manto d’autunno

il nostro pensiero

e sono nudo

tra trame

da intrecciare.

 

E’ questo,

ti ripeto,

mi ripeto,

sottolineo,

il nostro assurdo finale

 

ed alternativa non c’era

e più non c’è!

 

Così

ho deciso che

senza più arzigogoli

voglio la libertà.

 

Non so se sia

dovuto a te,

piccola mia stella

d’universo umida

e sincera

come il calar

della mia vita

sul pendio

dell’assoluto,

 

ma che bello

pensarti di traverso.

 

Tuttavia,

amore,

non so se sono

ciò che voglio

né se all’ombra

del cuore

posso refrigerio

trovare,

assurda ascensione

ritmica

delle tue mani

 

e senza volare

non so proprio stare.

 

Dopotutto sai meglio di me

che quella notte

alternativa non c’era

ed ora non ce n’è.

 

Ed anche se sei convinta

l’amore è tenebra che accende

la speranza dentro me,

mi dispiace, devo andare,

posto più qui non ce n’è,

 

lo sai piccola che sei

ciò che cercavo

ed ora cerco solo me.

 

Ma abbracciandoti ancora,

sono in me

per sempre

e non solo per scomparire,

vorrei sentirti ancora,

 

vieni,

l’alba e la solita promessa.

 

Ovvio

questo spazio tempo,

parallelo il nostro mondo

e la tua scommessa

ed il mio dispetto.

 

Ricordi ora?

 

Il velo di Maya

e il solitario

sulle scale

di acuto

disincanto

 

e tuttavia

noi siamo ancora noi,

lo sai,

 

rotola la mano,

la procedura.

 

Ecco,

è questo il punto

che il nostro universo

si è ristretto

compatto

e rifratto.

 

Ed ora

solo due parole.

 

Continua

tu,

vai vai,

continua,

sei tu, son’io

e lei,

il confine tra te e lo specchio:

 

sembra evidente

che l’occhio

proteso

sia

l’immagine di me.

 

Non sai

parlare

che di te.

 

Il ricordo

è tenebra,

l’estate

nel nulla finirà,

 

le distese,

le colline

e tu,

 

tu,

l’ombra del mondo

il tuo collo

declinato

nel no.

 

Credi sia possibile

scrivere di te

ma la verità

è che io

scrivo

 

sono

solo io

e solo scrivo

e solo di me

e nemmeno.

 

Il futuro eccolo qui,

immagine di te,

 

la vita

assurda

delle scogliere

 

sul polso

impresso il mio desio

e tu

ombretta fuggevole vai

sorridendo alle mie spalle.

 

Se questo è il vero

l’intramontabile essere

è il confine

tra te e lo specchio.

 

E noi?

 

Noi Fedeli d’Amore!

 

Non so il motivo

del nostro eterno

segreto,

 

ti amo

ed è così

ma è tempo

che girovago

incappucciato

pioviggina

in città

l’ombra segue

il segmento

del mio orgoglio,

ancor ti penso.

 

Forse vorrei,

anzi certo,

ritornare

e ricordare

di te che verseggi

ed io rido estasiato

 

ma sono fermo

e tu più non ci sei.

 

Dove sei piccola stella mia,

non è più palese

che siamo

gli unici padroni

del mondo

mentre pazzi

ci lasciamo

sedurre

dalle nostre perversioni.

 

Vorrei dirtelo

ma non so

se la penombra

è punto di forza

o precipito

 

ma tu ricorda

rotola la mano

e guarda fremente.

 

Sono sicuro che mi manchi,

meno che ce la faremo,

tu lontana

e parallela indecifrabile,

 

in dieci anni

l’ora brucia.

 

Ma se la luce

indissolubile

essendo tempo

è imprescindibile

e indivisibile

dallo spazio

 

attraversiamo la strada vicini

pur lontani,

 

un giorno eravamo noi

il centro del mondo

 

ora naufraghi,

 

ma tu guardami negli occhi,

 

non ricordi?

 

Io non volo

senza fremito e palpito,

 

palpitio sconnesso

(e scrivo di me

e nemmanco)

 

Sono le sei,

svegliati

non vuoi?

 

il sogno è lucido,

prima mattina

germoglio

asciutto desiderio

ancora tu.

 

E l’alba è la stessa

non vorrei dimenticare

ma oggi

non so

 

forse

l’erba del giardino

riflette

la tua indecisione

mai banale

ma terribile.

 

Io non volo

senza ali

e se tu non guardi

 

è il mio terribile finale.

 

“Verrà la morte

e avrà i tuoi occhi”.

 

Vorrei dirtelo,

hai ragione

il verso è più lungo,

 

ma ora tutto è cambiato

neanche il tramonto

è segno indelebile.

 

La notte è lunga,

resta,

abbiamo tanto da fare,

 

resta ombra mia!

 

Non voglio morire

senza stringere

il mio desio

 

le tue braccia

sono il mio infinito

il mio amore è

lo spasmo

del fremito,

 

cuori che palpitano

per motivi

così diversi.

 

Lo sai,

tu lo sai

mai dimenticherò.

 

Vai tranquilla,

hai tutto il tempo che vuoi,

finisce il sogno

 

fu la realtà

dei tuoi occhi

mai miei.

 

Ma comunque

io sono ancora per te

solo te,

io non rinnego

niente.

 

Comunque

fu per me

l’inestinguibile

accartocciarsi

dei flutti

tra passioni

miracolose

e pie,

le tue

 

e non ti dimenticai

mai.

 

Ora

sono così,

 

sono il sussurro

del tempo,

l’orma gigante

del segno

infinito

di noi.

 

E terribile

sei via,

 

torna senza pensare

ad altro che a te.

 

E’ così,

il silenzio tiranno

tra noi ora,

una delusione.

 

Vorrei

che qui

fossimo i sinceri

sentieri

ancora

che arditi

percorrevamo

senza timore,

 

sei tu il mio unico

sogno

e se non torni

Ah

non so,

 

mai dimenticherò,

 

son qui

 

tu orma vicina

e fugace

e irraggiungibile

del sogno

 

sonno claudicante

e t’afferro

 

ombra di gesso

 

me,

 

il tuo sussurro prima di addormentarmi!

 

Sei l’eterna gloria

viva e presente,

 

la più dolce

sensibile

e boriosa,

 

l’incanto

dei sogni

 

la luce nei boschi,

 

il sapore dei mie occhi

stesi

pianure

d’incanto

nei disegni

dove trovo

l’anima tua

ogni volta più

possente

e più presente.

 

E sai benissimo

che seppure

solo un giorno

stringerai le mie mani

senza capire

se mi ami

o è solo

un’altra illusione.

 

Ma tu fallo,

non rinunciare

all’alba dei tuoi sogni.

 

Amore mio

perversa

nel diluvio universale

del piatto

fresco l’intensa

irruente

 

leziosia

d’incenso.

 

E saremo ciò

che vuoi,

gli ultimi reduci atroci

e invincibili.

 

Ed è questo il senso

di ogni scritto

e ogni sussulto,

 

il tuo sussurro

prima di addormentarmi,

l’ultimo segreto

eccolo in impasse:

 

assumendo per vero

il calice e l’introito

dello scomposto

vettore fattoriale

incedi a passo repentino

 

leggiadro il viso

e l’entropico disegno

posto come argomento

del nostro tripudio.

 

E’ da dio e dal giudizio

umano

che sorge il bello

nell’intelletto

e se esponi il silenzio

è già taciuto

il tempo.

 

Purtroppo però la diramazione

è scomposta

ed il senso ultimo

celato

da cespugli e pianti,

da innumerevoli

numeretti

da camerino

 

mentre sei alla declinazione,

quella finale,

ed ora tutto è più chiaro.

 

Sconvolta sei disposta

a sorbire

il cantico del sogno

al di là

del ripudio

d’assoluto

 

l’eremo trafitto

sulle mani

che tendono

 

e si approccia il corpo

alle tue venature

 

sentiamo per davvero

il mistero

nel tempio

e divaghiamo

senza sapere nulla di noi

 

piccoli eroi

che scanditi

parliamo

d’assoluto

per sofismi.

 

Stringendoti al mio petto

volevi sapere l’ultimo

segreto

ed inventavi

la storiella

quella delle tue brame,

 

il reame dai pollini invidiosi

 

senza sapere

che sei tu la soluzione,

 

sei tu l’intenzione

della mia ultimissima sostanza

 

la più profonda

 

e l’elmo scalfiva

me,

 

sveglio vedo te

ombra mia,

come luce tiepida

soffusa

fai le fusa

 

ed è banale,

 

sei un’ ombra tutta modificata

e fumo sbuffa

in su la strada.

 

Poi guardo alla cornice

quella perpetrata

dalle tue gambe nude e snelle

sentinelle

la spola e la sola

 

ore 23,

accendi la siga

 

e dici sono qui

 

ma è per distrazione

atroce.

 

Poi ancora un profumo

inimmaginabile

di ortensie.

 

E l’oblio dei giorni nostri

e lo scardinio dei sogni miei

e l’estate

che si dimentica

 

nuvola rosa.

 

Poi sono stato

a guardare

mentre tu fulminea

mi baciavi

alle tre,

 

ed è così

che vivo l’intimità

della tua dualità

triste il destino

d’incenso

della settimana

un po’ avversa

week end piovoso,

uggioso spirito

da soffitta.

 

L’antro è atrio

del pensiero

e tu lo sai

che ci sei stata,

 

memoria onnicomprensiva

Ok, comincia

 

sei pronta a partire silente

tra colline

e ciliegi

arma di pena

 

scomposta

dall’amore concupito

e strano

 

sentivo i tuoi passi

di prima mattina,

 

l’estate si rifiuta di scordare

lo strumento pronto all’uso

come dorso di bottiglia,

oceani di silenzio,

memorie sparse

qui e lì

per purezza vocalica

e stanca,

 

come dire scordare

il rimorso

che è già frutto di me,

 

non ci credo!

gridi o forse speri

sapendo che d’altronde

anche se vero

poco ti interessa

se non fosse per l’inciucio dialettico

della scollatura

verdeggiante

su pieghe d’assenzi

celesti

 

ed il volto

si ricompone

dal dominio inesorabile del tempo

 

e sei spazio

già prima

 

e rubato

salvato

dalle consonanti

di cui ti nutri

ma solo ogni tanto,

 

sovente la ritieni

una congiura del passato,

 

sei più bella di prima

anche con la disarmante

tenuta sportiva

mentre ti stringi le spalle,

 

vai, eccoti.

 

Così

ti inerpichi in porticati

di cui non sai

e non puoi,

 

sei il ricordo del destino.

 

Intanto guardo

e ricordo quando

duplicato è il sogno

ma comunque

farei tutto tale e quale,

 

lo specchio,

 

è.

 

Ma dopotutto alla fine,

a finale,

mi dimentico

dell’introspezione

e la faccio

mentre tu ridi estasiata

estasi strana

 

godo.

 

Sei lontana oramai

e non sei più in me,

 

vorrei il vento

del tuo fiato,

 

dammi la vita,

voglio impresso

il timbro del tuo bacio,

 

le mie stesse mani scavalcano me

e sono già mio

perdendomi

mi dono a me stesso.

 

Incontro all’angolo

come sempre della storia,

è la mia stanza

che la sogna,

 

piange per altro.

 

Noi,

categorie indivisibili

Con i soliti schemi

lirici

rientro nel vivo

della questione

e di te

tremante

dagli occhi limpidi

puri

verso le nove stasera.

 

Poi non ci credevo

 

eri proprio tu,

 

non credo sia rilevante

ma la nostra

discesa

scoscesa è questa,

 

vuoi che ti dica altro

ancora?

 

Guardandoci stretti per mano

nessuno lo legge

bene sto verso

se non tu per ogni inizio,

agli stolti stesi iati arresi,

e per ogni fine si scopre

l’identità immaginaria

che è valore temporale

ad ogni battito di polso

connesso allo spazio

invece cifra

naturale,

 

risolvi questo

e poi

l’inverso è compagna

maestria sovrana

di me stessa.

 

Il totale

ha senso

indipendente

e imprescindibile.

 

E rideranno

come pazzi

a guardare

senza capire,

 

trecento anni

di fermento,

 

la risposta è sempre lì,

nel nocumento il tormento

gaudiosa l’ascensione

gaudente

della libertà.

 

Ciao,

tutto bene?

stanotte

ho un po’ da fare

nei sogni tuoi,

 

perché disegni

l’immensità

d’un verso

se è già evidente

in sé celata,

 

gira l’argomento

steso

nel tuo intento

perfetto

d’un tempo.

 

E torneremo se vorremo,

ma nessuno ci crederà mai.

 

Segreto

neanche tanto

ma la musica

accompagnerà il trionfo,

 

calici traboccano

e si gonfiano

nel prosit incrocio

dell’illusione

e l’illuso appena

nel suono si libera.

 

Comunque è meglio

che decidano

le luci della città.

 

Aspe’:

ultima estetica

 

Soltanto per completezza

andiamo al di là,

 

l’ultimo senso cela il verbo

l’intimo sussulto

della morte

del rumore.

 

Tremila

e sette

lo scorrimento

perfetto

kantiano disatteso.

 

E non ne parliamo nemmeno.

 

L’incubo

sogno della ragione

e sonno del pudore

dall’ottocento

all’ipocrita viltà,

secolo scorso

breve

in un secondo.

 

Ma la risposta

è che non ne verrà

né una vena

né una pena,

 

ma ridendo

capirai.

 

Se sembra nebbia,

leggi ogni cosa dall’inizio,

tutto

non solo questa

raccolta di fiori,

 

e ridendo

capirai.

 

L’estetica

passa dal bello

alla profondità.

Estate Melanconica ovvero La Sesta Napoletana

 

Quando senti il bisogno

 

 

Quando  senti il bisogno

di dire altro

ovvero sono qua,

non è sgomento

ma l’elmetto

da guida

che stupida

mi dai

mentre intanto

il tempo

si manifesta vivido.

 

Eh si

potresti dire

due, tre parole

è così che va.

 

E potremmo anche

dimenticare

guardando

al di là di ogni

disinvoltura

 

potresti

guidare

anche nel senso

inverso del tuo corpo

mentre strana

hai già pensato

e dissolto

il segmento

dell’intenso

respiro

diagonale.

 

E poi va avanti

la stanza

senza ritmica

ebbra,

e magari

anche virgole

dentro

l’alma

 

di un’ illusione

potrebbe essere quello

il sentimento

madornale

il tuo portento

che è già mio

nello stesso momento dell’addio,

 

inizia un nuovo corso

e l’organo è vecchio

baconiano

ma medioevale

e non seicentesco,

alchimista e non

politico

scientifico

il tracciato.

 

 

Vecchie estati

 

 

Dal faro

la luce

tramonto sincero

mare agli occhi

tuoi

labbra svogliate

e sei tu,

l’altra sera

oppure adesso

non so che farò

dei tuoi occhi

quando rivedrò

le parole che tu

mi hai detto

senza senso

oramai.

 

Se sono solo è vero

non posso perdere

ma tu lontana

mi dici di andare

ed è così,

sei tutta

incapricciata

 

e non dici mai

tornerò

sola declini

la mia resa

e

sarà soltanto

un ricordo

di chi non sa

scordarti mai.

 

E quelle nostre discese

che non ti rimangono

neanche a metà,

un sogno fatto è difesa

dalle tenebre

di questa realtà

 

io banalizzo pontificando

sui nostri

non ti lascio più

mentre ammiravi distesa

di lato

e l’ho detto mille volte ormai

e tu mi ripeti

non hai scritto niente

a parte duemila volte

la stessa cosa

con angolature diverse

 

io non ci sono più

 

e riavvolgo distratto

quella storia

che mai può

finir

tu ti giri di lato

cambi strada

meglio dirmi di sì

quando traversi scogliere

io non sono più nulla

se non parte di te

quella impercettibile

 

rinnegato

posizione

né pozione non ho

per quei tuoi sguardi

la passione trabocca

ma il destino avverso,

va bene è lo stesso,

non ci credo

che così

debba finir.

 

Adesso sei sicura

neanche mi saluti.

 

Adagio vai

ma l’ombra mia è stanca

non ce la faccio a guardarmi

se sono così

è stato per il respiro

d’assoluto

che ho cercato.

 

Sono vero ma a metà

se vuoi la parte oscura

soffro

e

non scordo chi nel mio cuore

ha impresso la traccia

indelebile

che mai dimenticherò

 

è così assurdo

neanche ci avrei creduto

se detto da me.

 

 

Nichilismo annientato da un solo abbraccio

 

Un bacio

al tepor di luna

e la scrivente

a mille.

 

Metamorfosi

in nuvole

rubiconde

tra le stelle perfette

fissa

mi tieni come un aquilone

sul mare

e tu ridi.

 

Vedi amore

sono qui per te

questo nuovo sogno

è nostro già

e non c’è più nulla

se non tu.

 

Guardami cara

sei l’umana temperanza

furente

del nostro

orgoglio esaltato

oltre l’oltre

del limite

di ogni

pensiero rubato

a noi

giovani amanti.

 

E il futuro

non ci sorprende

siamo noi i burattinai

della folla

siamo vivi

come se

fosse l’ultimo

universo

il nostro

e poi

 

sai che sono solo

solo per te

che già vai a folle

mentre ridi

fragore di onde stupende

e riguardo al nostro amore

credimi è l’infinito

per sempre.

 

Se domani ricordi lontano

questo sogno

non sarai mai più

tra le lacrime

del nichilismo

annientato

da un solo abbraccio.

 

 

Sigillo sei della mia verità

 

 

Nella notte

una voce antica

come la canzone

piccola e flebile

e non si disperde

il suono del piano

tutta Napoli freme

senza nascondersi

tra lenzuola obnubilate

dalle penombre dei vialetti;

 

estasiante

ciò che pensi di me

e se è tardi

credimi

 

rinasco e ti guardo.

 

Nell’ombra dissipata

sei pur sempre tu

giovane

ragazza

della tua svista si può parlare

ma se stasera devo andare

non dimenticare

 

tra due giorni

sono qui

in riva al mare

sai di sale

 

è stupenda questa notte

con te

san Lorenzo brilla nell’aria

esulta la barca

del nostro corpo

fuso nell’inviolabile

segreto astruso

 

sei semplice e bella

ma hai lo sguardo

da passione eterna.

 

E’ questa la verità.

 

L’accento scomposto,

il tuo,

ed io

godo nel sentirti parlare

sai già più di ciò che fai

e sei immortale

sola qui con me.

 

E dal fumo traspare

una figura,

sei sempre tu

che mi pensi

nascondi la lettera mia

e piena di fuoco

 

sembri giovinetta

di inizio secolo

già

svogliata

e già sciupata dalla brina

 

e il panorama

è l’orma

dei tuoi occhi.

 

Sigillo sei

della mia verità,

 

millenni trascorsi

a pendere tra le tue labbra

disarmanti.

 

 

Un soffio di maggio che ti disse addio

 

 

Accadde all’improvviso

quella mattina,

eri alla fermata

e aspettavi

il ritorno tenerello

del tuo portento

partito un anno e mezzo fa.

 

Venne una stella

quella brillante

che appena appena fa vedere

nei mattini di foschia

eppure è estate.

 

Stazione centrale

e sei già imbronciata

poi mi segui

mentre speri che un giorno

sia qui con te.

 

Tornai quando non avresti

creduto possibile

l’anno infinito

tendere dai tuoi polsi.

 

Nel firmamento c’è un posto per te

ma il tempo passò e non sapesti

trovarmi

 

tra le rose di maggio

tornai

ma la fonte

fu più viva

solo con le tue lacrime.

 

A volte ti penso ancora,

chissà che fai e con chi sei

vorrei ritrovarti,

rivivere

i primi baci.

 

Ma il rumore e la città

mi rendono

mobile

e non è più un pensiero

ma altro

che cerca te.

 

Ti ricordi

prima della guerra

quella poesia

tra le nostre

corrispondenze amorose

le tue mani fantasiose

ma il tempo si impose

e tornai solo

in spirito

e fu un soffio

di maggio che ti disse addio.

 

 

 

Respiro ormai sciupato

 

 

Stasera porta il tempo

con te

mentre attraversi

l’erbetta del prato

scorga limpida

la luna nell’eco melanconico

del passato

e tu guardi

l’anima senza

rendere giustizia

all’ultimo secondo

 

con te.

 

Solo

lo stupore del tuo calore,

tendo all’assoluto

mentre tu sei lontana

ti ascolto

è già notte

e non c’è speranza più per noi

 

guardi dentro me.

 

Volevo dirtelo

che il nostro bilico

spicca il volo

io, te ed un paio d’ali

 

solo il senso

 

che ci demmo

 

resta lì.

 

Ed io e te

senza amore

inquadriamo il tepore

diurno

e l’afa

che tende la tua mano

sei ombra

 

irreale.

 

Squilla il telefono

l’anacronismo dialettico

del nostro intento

perso

 

perso il senso.

 

Liberi

perdiamo noi,

 

avvinghiati sulle scale

sentiamo il sincero

fantasma

del nostro

respiro

 

oramai sciupato.

 

 

Stretta per sempre qui

 

 

Così finisce qui,

tutto nel tuo sguardo

si moltiplica d’immenso,

 

sei bella e mai mia,

tanto l’importante

è averti stretta

 

ma non sei qui

amore,

non sei semplicemente

tu

la risultante della mia elucubrazione

d’infinito

ma ci resti

come chiave

volta dell’imprescindibile

confine.

 

Poi quando volevo

te

fuggivi

rapida

ma l’estate scolpisce te

ultima reduce

della boscaglia

umida

tra polsi tuoi

 

tre sogni

me li devi proprio

 

amarti

ma perché

se tu sei troppo lontana

 

e ti penso ancora

 

voglio te

mia cara

sei la fulgida

vita

 

che ho perso

da tempo

mentre cercavo

me stesso

pensando al tuo

sguardo

ma sono solo

 

ho perso tutto

anche la ragione

per te.

 

Dimmi sì,

stanotte

solo

stanotte,

e ti prego

 

(lamento

fastidioso

il mio canticchiare furente

e stanco)

 

a volte credo

che sia necessario

ascoltare

se stessi

vorrei

un tuo abbraccio

 

vorrei venissi

a liberarmi

a liberarti

 

a pensarmi

stretta per sempre,

 

qui.

 

 

Chiaro il tuo viso

 

 

Così

chiami tardi

ma

il problema

si intreccia

indelebile

il tuo

sorriso

 

sghignazzi

tra te

la corrente

avversa

del neoliberismo

mascherato

da emancipazione

 

vuoi stare sopra

quando vuoi

e non solo

se

ami te.

 

La storia è

dipinto di

ciò che immagini

appena

mentre mi aspetti

al solito posto

 

sincera

mi dici

dove andiamo

 

e non chiedi

nulla

è tutto sicuro

nei meandri

dei tuoi

rifugi

celebrali

 

ecco il varco.

 

Il tempo

sa ciò che

non è sconfitta

quando mi guardi

non ragiono bene,

 

hai ragione

anche quando non guardi,

 

ma è diverso.

 

Lo sguardo

intenso

è l’arma disillusa

del nostro

sentirci

reciproci

come utensili

destinati

al senso

inverso

del comune

 

sei abbastanza pazza

per stare

stasera qui con me.

 

Complimenti,

ne parleremo.

 

Sono qui,

e lo sai.

 

Piangi

mentre

tenebrosa mi dici

come mi chiamo

ed io domando

addio

tra le arance

del mattino

 

chiaro il tuo viso.

 

 

Notturno

 

Il piano

è ciò ch’ho

quando dici

cosa sei

mentre il nostro

abbraccio scioglie

 

il fragore

del giorno furente

tra verze

i capelli

estasiati

alla fonte,

 

sono io

sei tu.

 

Parli

a volte distante

ma noi siamo

noi

e tutto il resto

è nulla

nessun ente

costante

non impallidisce

 

non è che non ti ama

ma sono

così.

 

Il cielo

lacrima stelle

ed è solo presente

il nostro niente

quando

era inverno

la pelle

riscaldava

il mio essere assente

 

e vai.

 

Così

al ritmo delle cicale

proteggi il tuo labbro

smarrito

nel percorso innocente

del sentimento

che provo

e lo sai,

 

vado via

per restare

così

con te

tra le corolle

perdute

e i coralli trapunti di

sogni,

 

il mare va e poi torna,

tutto

resta

nell’incudine

del nostro notturno

che cresce

e poi non si chiude facilmente

 

se sei qui con me

non è più presente

ciò che siamo

non siamo nemmeno noi,

 

e la gente passa

e non guarda

finge

solo per

il sapore

di non perdersi

di aversi sempre lì,

 

ma noi siamo altro

e non si rinnega

l’assoluto.

 

 

L’ombra dei manga

 

 

Leggero

il tuo sospiro

quella mattina,

meraviglioso il corpo

disegnato

dal pensiero,

 

io e te

e nulla più.

 

Ma nell’oggi

non c’è poesia

quando distratto

non ricordo

se non

ascolto

il tuo odore

assurdo

quando

in bilico

esplodeva

il tuo bacio.

 

Puoi ritornare

se la paura

finge

la premura

primula

sui tuoi occhi

lucidi.

 

Potresti

almeno un attimo

ricordare

senza credere

che tutto finisce

 

se sei nuova

è merito tuo

se nulla

resta ormai

al mondo di me.

 

Comunque

è lo stesso,

a volte perdere

è la sublime vittoria

dell’alma persa.

 

E dopotutto

se si deve crescere

è per dimenticare,

la nostalgia

non è di questo secolo

infranto

nel suo nascere,

 

tanti progetti

sino alla follia

 

mentre devo cancellare ciò che penso

non rinnego ciò che sento.

 

 

Sei tu l’alba

 

 

Pomeriggio estivo

nei vicoli

storici

solo

per chi non sa

quanto c’è

d’attuale nel disagio

esistenziale,

 

un bacio rubato

tra le colonne.

 

L’entusiasmo smorza la tensione

ma poi non è sempre così

quando

senti la necessità

del cambiamento.

 

E’ stato un attimo

ma nulla pretendevo

se non tutto

forse questo

è successo

affinché

dimenticassimo

il nostro posto nel mondo,

 

due angeli

cacciati

per superbia

o forse solo per amore,

 

le nostre fotografie,

avevo te

senza

paura

ora solo

non sono più in me

 

e tu dove sei?

 

La speranza

germoglia limpida

ma la realtà

è terribile,

 

se la vita è questa

non so

cosa sia la morte,

 

comunque è uguale,

sono qui

sempre coerente,

non ho mai

rinnegato me.

 

Anche se ormai sono solo

la verità

chiedila a dio,

siamo reietti

solo

per gli uomini,

 

è vero

ho sbagliato,

ma tu eri tu

ed io sono solo il lamento

agonizzante del vento,

 

sei tu

l’alba.

 

 

Reso all’oblio

 

Parlare come fai

è l’ultima risorsa

quando il punto

non è chiaro

sei tu appellabile

in declinazione

e l’ultima intenzione

gravame dell’anima.

 

Quando pensi

sembri assorta

e non taci

ma straparli

e vai

con la spola

del cuore

che preme

mentre va su e giù

ed è tutto.

 

A volte

il tuo pudore

è talmente sfacciato

che in commiato

vado

via

ma solo per te.

 

Ti ricordi di noi

e della banderuola

ora all’impazzata,

 

ma io t’ho amata,

e tu non ricordi

neanche

la spiaggia.

 

Ed è tutto davvero

anche se ci ricasco

ti credo

e non vedo

 

l’ottusa realtà

obnubilato dal

sapore

dei tuoi baci

d’assenzio

perversi.

 

E tra la lacrima

e Morfeo

il passo è breve

non ci conosciamo

mica

affermi

come punto di domanda

categorico

invisibile

il tuo

portamento

noncurante.

 

Non c’è scampo

siamo

non esiste più,

 

e chi vuoi che ormai

mi può capire,

 

tutti fuggiti

ed in altri affari

affaccendati,

 

tutti voltati

di là

a guardare

sé.

 

 

Il futuro, la consolazione presente

 

 

E’ così,

sei tornata

stanca

e sempre

ancora qui,

 

non te n’eri mai andata

evasiva

ma presente

come essenza

protetta

dai capelli,

nuovi

eppure

come quelli di un tempo,

legati all’inverso

 

fumo molto più di prima

e non so

se sia

per

perdita d’equilibrio

o perché sono

l’ultimo straccio

di ciò che non c’è.

 

A volte

ma non sempre,

 

sono le tue parole

e le mie esauste

ma

non ho più

né coraggio

né te

e l’unica virtù

è il sapere

che in fondo ci sei,

 

anche se cambia il senso

la forza è quella

e non muoio

 

vivo

per gli occhi tuoi.

 

Cosa vuoi

se non sai

o se fingi

dipingimi d’assoluto.

 

Sono sempre io,

il solito

onnipresente

entusiasmo

stroncato

dal risvolto

reale del presente.

 

L’ultima speranza

è il sogno

che rinvigorisce

nei giovani

spudorati del domani,

 

l’oggi

l’osservo

e noi siamo ancora noi.

 

Anche se non ci sei.

 

Lo sai che quello che facevi

e quello che sarebbe successo

 

lo sapevo ma

il lieto fine ci sarà,

tragos

o limpido dei nuovi

giorni miei.

 

 

La cabala dei sogni quelli miei, i nostri

 

 

 

Il punto di domanda

dell’incomprensione universale

dissolta

zolletta nel caffè

tanta parte di te,

 

io

l’illusione

e la verità

che si fa attendere

come se un giorno

magari noi

potessimo

innamorarci

come se in riva al mare

la luna

fosse solo

parte di te.

 

E con il tempo

quello che vuoi

si materializza

senza dimenticare

quali sono

i punti forti

 

tu

ed anche io,

sarebbe bello

se avessi

non dimenticato

quella parte nascosta di te

 

che freme

palpito naturale

della nostra

meta

da studiare

come se astratta

o ipotetica

come se irraggiungibile

meta

dove sei

e sono.

 

Ma se non

mi sai dimenticare

è solo

perché

un’ eco lontana

ti dice che

una ragione c’è

 

anche se lontana

nascosta,

 

nessuno

al di là di noi.

 

Vorrei crederci ancora

una volta prima di morire

che esiste un’oasi

dove possiamo davvero stare

 

nel silenzio

di un bacio

vero.

 

Leziosie d’Incenso

 

Così,

silente

la tenebra schiarita

dalla penombra,

 

emerge ridotta

quella tua immagine

allo specchio

mentre sorretta

da paggi

e da elfi,

gingillo raro,

risorta

e scomposta

 

dictum

la nostra storia

canticchiando

sorniona

tra l’auto

e il suo retrovisore.

 

Ed è sbagliato,

continui,

piove e

piangi,

 

respiri.

 

Ma riuscimmo

a riveder le stelle

quella notte

nuvolosa

di mezza estate,

 

l’allodola,

l’ultimo canto

del vento riflesso

nel ricordo

di un

addio

manifesto,

 

mai più

i nostri sguardi,

piccola,

 

mai più gli intrecci.

 

Via,

via per sempre.

 

Non una lacrima

né isteria

né rimorso,

 

nemmeno saggezza

ma tenebra

schiarita

e comunque,

nel sospiro finale,

eterna.

 

E ci sentiamo spersi, quando diciamo,

attoniti e perversi,

il passato arriverà tutto nuovo!

 

Arriverà,

la storia ed il palpito,

l’immenso in un battito,

 

inizia il tempo

sospeso,

 

un tuono

in sottofondo,

 

luce chiara.

 

La nostra conversazione

mozzata sul finale,

 

il nostro

fumo che intero

è fortezza

del mio cuore

 

ed ora soli.

 

Allora

riappare agli occhi

ciò che in quell’istante

non era ma è e fu.

 

Quando

ascoltavi

non sapevi

ricomporre

il mosaico delle mie parole.

 

E sempre

un’unica

destinataria,

 

mitto se metti,

 

sei tu.

 

E giochetti metrici

mentre sei

bellissima

nonostante il tempo

e tutto il resto.

 

Quando

senti dondolare

i tuoi occhi

impazziti

 

solo io e te

conosciamo

ciò che c’è dietro

 

ma il varco non è qui,

e il treno

in controluce

sbuffa

e stereotipato

va,

 

musica dimenticata

ti rimane

impressa

appena sveglia

 

ipnagogica

ed ipogea del sonno

profondo.

 

Ed è così,

sei tu

 

e se la volontà

precede

la conoscenza,

intelletto

autoreferenziale,

sei tu,

o mia mistica

apparenza fulminea.

 

Il passato

arriverà

tutto nuovo.

 

E arriverà

con quel tuo labbro di fiele ed assenzio,

labbro scolorito

 

acconto

accordato

nel profondo

della riflessione vana.

 

E tutto rimane

com’era

mentre naviga imperterrita

la tua visione

dell’immenso

dedotto

in un verso.

 

Nell’intenso

del verbo

intromesso

alla tua ipotesi

scalfita e fantastica,

 

la cartapesta

e l’illusione

masticata

allucinata.

 

E le dolcezze

sono le scordate

assunzioni metafisiche

dal reale

del giorno

appena finito

mentre silente

dici

o fingi,

 

labbro

scolorito.

 

E così un po’ sopita

e un po’

attenta

guardi in aria

come a riflettere

sul vago

segnato impronta

dalle mie dita,

dalla mia mano

 

protesa.

 

E il tuo fiato

tra gli zigomi miei,

il collo

invernale

è la foto,

l’ultima che ho,

 

nel mio giardino

d’infinito.

 

E i mandorli

in fiore

o i limoni gialli

o gli acanti

o le sette segrete

sono misteri

orfici

svelati

dai tuoi desideri

da ragazza svogliata

e stesa

ancella e ninfa

ai bordi del fiume,

 

nella radura

la solita scusa

 

è estate di sera

all’ultima ora

per strade e sentieri

 

la tenebra prima

risponde a digiuno

il riparo del tempo,

 

ossa infossate

nel gotico armeggio

ormai in disuso

 

mentre sa

che la nuova realtà

è già qui.

 

Amore,

ti imploro,

risorgi dal nulla

e schiarisci,

penombra

per sempre,

le anime fragili,

i prigionieri

del senso.

 

Puoi al limite

non dimenticare

chi è stato speciale

da dittatura

perpetuata

a ricatto morale

del passo occidentale

 

o  odore di chiuso,

 

pontificando

masticando elucubrazioni

che sono

solo vana

presenza

 

fumo negli occhi

pronti e precotti

anche per

i filoprotestanti

per laici

e per romantici,

 

per chi crede che nella storia

sia possibile che il mondo cambi

ma solo a tratti.

 

Amore,

tremante,

pura e ammiccante,

 

risorgi dal mare

risplendi tra i colli

e ocra della tua lussuria

da cunicolo e caverna

dai amore

quello vero

a chi ha perso

se stesso

 

ai bordi del fiume

un’anima persa

è l’unica salva.

 

Siamo noi,

due voci in un unico fiato,

 

ecco fatto

il colorito sguardo

perso

nel bosco

 

ed è la parola

quella muta tua

che senza

pretesa

alcuna umana

cela verità

sopite da anni,

 

Deucalione annebbia

navigazioni atroci

verso mondi sconosciuti

eppure

il pianeta

nostro

lo avevamo a un passo,

 

irrealtà.

 

Tante storie,

sempre le stesse,

nessun argomento

e nulla che stupisce

dalle supposizioni.

 

Un carillon

suona

stanco.

 

Io resto qui

in su la riva del mare

fermo

attendendo

parusie

dimenticate

 

e sei con me

ombra tratteggiata

al fianco

di giullari e re,

di potenze ignote.

 

Abbiamo il diletto

della scardinatura sistemica

 

ma non è il neologismo

che va come noi

e viene

come sai,

 

capisci

la valenza

del nostro abbraccio?

 

Danzo sulla sabbia.

 

Cambia il ritmo

se

penso ancora

a ciò che è stato,

 

passa il tempo

sul motivetto

inizio anni ’90

 

se è così

allora declinerai

la passione mia

per vanagloria assurda.

 

Sei tu chi sai.

 

E noi,

ritmo messicano

nella vudistica

astuzia veduta

vesprosa

veda.

 

Zuccherosa sei

ma non parli

né animi

le notti

passate

accanto mentre al buio

dicevi

che compromesso

non esiste

se saremo

per sempre

ciò che siamo,

 

due voci

in un unico fiato.

 

Corrono i destrieri

in balia dei cavalieri,

 

e siamo ancora

noi.

 

Tornerà lo spasmo

nostro d’assoluto.

 

Ventiquattro Sedici

e un lieve lamento

tra le facce sfocate

e tiepide

mentre bufera dentro di me

quiete lucida

come il senso

di libertà

impone.

 

E poi io e te

sempre più lontani,

 

si muore,

o si morì per meno,

molto di meno

 

sentenza

terribile

inflitta dallo stato

delle cose.

 

E sinceri

i nostri baci

non furon più

mai più,

 

pochi anni ancora

e lontano

ogni luccichio,

 

ogni

trepidazione,

cuore barrato,

 

soffoco.

 

Poi c’è da dire

che ormai

nulla ha senso,

 

strade non ce ne sono,

motivi,

combattere,

a che serve oramai?

 

Prigioniero

per sempre,

vittima su questa terra

della valenza

negativa

del chiacchiericcio,

del sofismo,

idiota

o pazzo,

 

a tratti l’uno,

a tratti l’altro.

 

E la verità

la porterò

con me.

 

Troppa pietà

per un fiore

appassito

da una lotta

finita

da tempo.

 

E’ già ora piccola

è già ora piccola

 

la sera si approssima

tra nuvole

serene

di un domani

che mai saprai,

 

ricorda,

ricordati

di me;

 

sai già

oggi che

saranno

filastrocche frastornate

dall’America

Nuova

che cerchi

quando stanca

pelle

passata

 

al di là,

via di qui.

 

E segui il senso

segnato

dalla musica,

 

nell’infinitesimo istante

dell’abbandono

coevo

al coacervo stolto

del pensiero

già parte

manifesta di sé,

 

velatura sublime dell’ultima tua parola

 

all’uscio

scosceso

dell’esoterismo

banale

 

nasconde mistero

già svelato

 

meccanico ordigno solare

 

macchinazione meschina

e tutto è uguale.

 

Chi sono io?

Sono all’aperto

ed è il solstizio

scordato

che pone premesse

ma non è un giorno di sole,

 

passa

il vento

in sulle strade

verso segnali

che non amano

che l’oggi.

 

E via così,

scegli pure

tra il tesauro

delle vecchie parole

quelle

vecchie

anzi d’antico

 

la modernità

contemporanea

di una realtà evidente

e bastevole

all’incremento

del tuo perenne fittizio nocumento.

 

E procedi,

passo certo,

si, è vero,

ma non si può rinunciare

ad un piccolo particolare

quindi è ovvio

ripetere

le stesse cose

mentre in spiaggia gelida

brilla l’ultima

venatura,

velatura sublima

dell’ultima tua parola,

dell’ultimo motivo.

 

Al piano bussola

dell’orizzonte

 

non penso ma corro

in susseguirsi

di respiri,

 

fai presto,

non c’è bisogno

di altro.

 

Gira la melodia

stereofonica

e proteica

assuefazione

d’incenso.

 

Ancora tu,

vedendoti

credo non risolvo nulla

se non sprigionare

 

rumori

scossi

da platani

 

da rubicondi

sornioni sentimenti,

 

mai,

era così,

ma ora

il volto

schiarito

è simile

tuttavia

spingo

a folle il sentire,

 

concupisce il mio

veliero

tra flutti

di marzapane

negli aneddoti

che dimentichi

da tempo,

 

brutto segno

lo scirocco

in questo periodo.

 

E la verità

che sbandieriamo

è la stessa,

 

nel tempio dischiuso

delle tue promesse

scorgo le mie.

 

Sei l’unico motivo

per cui vivo ancora,

vivo ab-soluto

ed è tutto un divertimento

metafisico.

 

Ma tu,

nuova mia virtù

stringimi stasera

mentre piango

alla luna

l’ultimo

lentissimo

canto

che non sa sé

ma sussurro si fa

lieve

adagio scomposto

del fluttuare

qui e lì

come dalla Provenza

la scorta

deruba

la viltà

dei soliti strumenti

in riga

pronti

alla sonata

strana.

 

E tu straniera

dai mille volti

 

cento sogni

svaniscono

nelle mani sottili,

entusiasmi antichi,

 

sei bellissima

nuova mia virtù,

 

tinta dell’indefinito

a me carissimo

 

solitario

il sospiro

quando

decisa

punti il dito

tra indecisioni

nostalgiche

e nessuno lo saprà.

 

Sei ciò che

innamorare mi fa

 

delle viole

sfiorate

note pizzicate

sulla pelle tua

sottilissima

arpa

che tiepida

si innalza nell’oh!

 

sono qui con te

a due passi

 

tu con me,

ti sento

nell’ombra che cerco

da anni,

 

qui tu accanto

qui tu lontana

ma tenue

raggio

 

amo te,

e questo basta

 

se tornerai

o se diversa

leggiadria

mai stata mia

già sei

qui con me.

 

Ballate apicali

 

Et Amas!

aspetto da un po’,

tempo bastardo,

l’arrivo all’agognato assunto tramortito

spettro opaco

dalla rimembranza,

 

è sera già.

 

Due di coppe,

guarda,

 

sai chi sono.

 

Solo o sola,

è così,

sai di che parlo.

 

Tutta persa

dark side of the moon,

dark dance

under the grin of the stars,

sì, troppo bella.

 

Stasera non c’ho da fare,

hai carpito l’invito

dicevo, vieni a danzare

sotto le stelle,

 

sono qui per te,

bellina,

odio gli esseri umani

anzi no

loro non ci sono.

 

Ma tu mi conosci

ti do l’anima.

 

Dai è tardi,

vieni stanotte

tredici passo quarantotto.

 

Spoglia

come l’autunno

laudamus

 

la guancia destra tua gonfia

nel gorgheggio.

 

Non sono solo

se tu

mi guardi dal basso.

 

Lo so,

hai detto tacita tutto con lo sguardo,

ma guarda altrove

dolcissima mia adorata

d’assenzio solubile

e fragile

traslucida riluci incatenata

all’apparenza

che risuona stanca in sordina

a controtempo

nell’atto dell’attacco.

 

Sono giunto

all’apice

del godimento,

 

amami.

 

Dove sai,

tra viuzze di sentimenti dimenticati.

 

E anche ora davanti a me

piccola mia follia

delle stelle sei lo specchio

quando mi guardi

sento le vibrazioni

astrali dell’amore concentrarsi

 

tripudio di te.

 

E sei così

scapigliata

tutta matta

stendi languide lenzuola

e mi arricci

l’entusiasmo

che svogliato fugge

e si ritrova sempre

negli oscuri lucidi

chiarissimi

occhi tuoi.

 

E ti amo

ma mi perdo

sempre lì

in queste viuzze

di sentimenti dimenticati.

 

Duplice è la settimina stanza

di prima

incline ad assi scoscesi

e questa la comprende nella somma.

 

Ed è vendetta terrena?

Semplice oltraggio,

ditirambo etereo

dell’assunto in proporzione

che erode ma con calma

piatta tra specchi rampicanti.

 

Le lire suonano stanche

nell’eco della cattedrale civile

e tra santicchianti consonanti

slinguetta

una dama nuziale.

 

Ma lo sposo giocondo

è solo

e non sente

che vilipendio

per la tenebrosa attesa.

 

Mille frammenti di anime perse

nello sguardo celato e cortese

quando

vassallo è pretesa d’eterno

diritto.

 

Le lacrime gocciolano amare

le lacrime gocciolano amare e fulminee

tra gli occhi del signore esausto

dell’affronto

che con lacci al collo e alle giunture

spezza il fiore di chi senza colpa

fu vittima di questa

e poi di quella,

in conseguenza dialettica,

 

terrena giustizia

dal sapore aspro di vendetta.

 

Vidi la cerbiatta bianca

d’ebano e arcadica semita

capretta rarefatta

innamorata

o in cerca d’amore

 

dolce principessa

dei boschi

e del cielo schiarito

dalla luna.

 

Ed hai pretese

o solo sogni desti

in pieno giorno

o quando mi cerchi

pensando intensamente

all’orario fissato

sballottolo selciato

d’ambrosia serale

nello scuotimento ottagonale.

 

Senza più speranza

il primo della corte si innamorò

di un’ecatombe celeste

e degli occhi

che sai già

in quanto detti

ed in contemplazione eterea

vissuti.

 

La penombra

sarà la mia vita

di nuovo Orfeo,

 

disse.

 

Ma chi guarda

sputa invidia

ed è servito

il lauto banchetto

dei sogni

di una ragazza

persa per sempre.

 

Persa sola ma comunque salva.

 

Sento ancora

il tuo sospiro.

 

Pensi a noi

tempo fa

nell’attico

o

al pian terreno

del limbico palazzo

sotto la luna

anno iniziale

del millennio.

 

Tesoro

sai

che se scelgo ora te,

dicembre,

il mondo

cambia

e anche noi.

 

Scelta diversa

la mia,

la nostra.

 

Nel baratro,

nell’inferno.

 

E, ne hai ancora memoria,

del ti amo,

dell’innamoramento strano,

volevi me

volevo io te

ma la realtà

non cambiò,

 

diversa scelta

diversa resa.

 

Ora solingo

ci ripenso a quell’ennesimo

varco temporale,

 

roca cara,

amore mio

nella parallela

corrispondenza altera

del mondo accanto

che intuiamo nei sogni.

 

Di fianco io e te

senza psicotropi,

ammanto io e te

e vivande alte

sciorinanti

verso l’abisso noi

verso il ripiano loro,

 

tu comunque ti sei salvata.

 

Salva dal profumo di un amore eterno,

 

e ho già parlato

credo e penso,

ma stanco riprendo

il tuo volto tra mille.

Piccola mia divina

sei ciò

che manca.

 

La danza comincia

ma non si può

con le parole superbe

ricrearti

se non nel ricordo.

 

Cara mia amata

loro

senza ritegno

cercano vita da distruggere.

 

Nell’aurora

i nostri sensi

troppo ebbri

potrebbero perdersi

tra le profezie di Daniele

e le scardinature categoriche,

loro,

 

sono terribili

belve inaudite.

 

Amore cerca

la via

per l’ultimo scampo.

 

Loro

distruggono

i nostri sogni ingordi.

 

L’aurora

ci sopisce

e noi avviluppati,

braccia nelle braccia

e sangue nel sangue,

 

amore mio fuggi lontana

i lupi famelici

distruggono

la nostra iridescenza

e il profumo di un amore eterno.

 

Ed in dimensione oltrepassata

giunto al qui ed al ora

della dodicesima di undici raggomitolate

che poi è questa

sono pazzo

 

un pazzo che rincorre un’ombra perduta.

 

Eccoti,

cosa sei diventata?

Più felice

eppure spietata

contro la verità.

 

Non lo posso accettare,

tuttavia

vado via

come sempre

ultimi tempi.

 

Amore di una volta,

indifferente.

 

Ed io ricordo

il nostro ondeggiare

come danzanti mano nella mano

tra le strade

di una Pomigliano autunnale.

 

Ma l’inverno

annebbia

i miei tepori

e tu lontana,

io a te ancora vicino.

 

Amore mio,

guardati e guarda me,

sono divenuto

l’ultimo folle

e più atroce

delirio

dell’inutilità

della mia esistenza

 

e la tua serenità

sobbalza

e si impone in te

perché figlia dell’oblio

autoimposto.

 

Le tempeste

di inizio millennio

sono echi oramai lontani

tra le veneziane semichiuse.

 

Amore di un tempo.

Vita di un tempo.

Passione di un tempo.

 

Amore mio

racconto ancora

quella storia

di un pazzo che rincorre un’ombra perduta

 

ma la storia ora

è l’attuale

tempo unità immaginaria

spazio reale

 

complesso il numero

del dissenso

 

e sono qui così,

esiliato in terra Tracia

alla ricerca del tesoro,

quello interiormente alchemico

da alambicco spirituale

secernente assurdo astrale.

 

Tesoro!

Brava!

 

Ecco svelata la tua

duplice ombrosa

finezza d’intenti.

 

Nell’istante perduto

in cui ho capito

che ero una semplice abitudine

il coltello

affonda

metafora gira godendo

ma è mia la ferita.

 

E folle

il fendente

galeotto

fu il vostro verso

a questo avverso

carissime,

 

il mio fu a me mortale.

 

Eccoti, brava,

trottetta in sottoscala,

 

ero il rifugio

di un’anima parva,

 

solo sciocchezze.

 

Ma lo sai che la malignità

non mi spaventa più

e un colpo suadente

mi schiude

le tempie

nel momento in cui

il bacio

sporco vostro

cambiò le sorti

del mondo.

 

Tradito

dal senso,

e tu

dell’arma bianca

su di me

non sentivi

nocumento

e tu

della pietà vendicativa

non ti curavi,

non la sopportavi.

 

Ma sappi che

l’esilio

in terra Tracia

l’ho sorbito

e l’ho vissuto sulla mia pelle

 

soltanto.

 

Ero lì,

sono lì,

in tensione sull’abisso!

 

Solitario nella notte

il respiro del vento

e il tuo lamento come eco,

 

l’entusiasmo

spento ormai.

 

Ti vorrei

ancora qui,

amata

nelle tenebre,

vorrei gli occhi tuoi

d’amarena

nella notturna

sonata.

 

Attraverso

lo specchio

il tuo sguardo

celato

dalla

pagina bianca

appena letta.

 

E penso

solo a te

anche in questa nuova vita

sei la linfa

dei miei giorni persi

ad un passo

dalla tua voce

lento serpentino

sussurrio,

 

tutta mia,

 

voglio te!

 

Passa l’anima

ma il corpo

non muore mai

ad essa consustanziale

 

l’alma la obnubili

ma si ribella

come desiderio bramoso

all’ombra

dell’ultima luna

 

e non è una serenata.

 

Godimento,

godimento ciò che conta,

pullulare

ed istinto bestiale,

 

in tensione sull’abisso.

 

Sembri una leziosa peccatrice

salvifica perversa

 

e noi

splendiamo tiranni

alla discesa

verso il mare

 

ma ciò che facciamo

non è nelle nostre brame;

 

siamo fulgide speranze di periferia

mentre la tua luce

brilla

candida

e pullula

l’occhio destro

anzi il sinistro scomposto.

 

Ed eccoci qui

 

tu non reggi il confronto

armonioso

e l’estetica

si spegne lenta

col passare del tempo,

 

un amore intrecciato

da mille tormenti

resta l’ultima spiaggia.

 

Mi senti?

Perché non rispondi?

Sei la solita tu

variopinta

cristiana

ateizzata

dal balzo

immaginifico

sulla ripa che scoscende

nella tempesta

dell’amore

di cui parlavi

e che

non sapevo.

 

Che fine ha fatto l’entusiasmo?

 

A trent’anni

due noi

siamo,

sono

il relitto

corsaro

nella fossa delle Bermuda

affondato,

sai

 

io baciavo

labbra che non erano tue.

 

Golfo del Messico

e radura ombrosa

per dimenticare

quello che io dico

e tu non sai.

 

L’inferno

qui

è peggio

del fuoco,

cammina

con me,

volto divino mio

sei lo sguardo

unico

salvifico

 

leziosa peccatrice perversa,

mio madrigale della terra,

 

mandrie di sciacalli

sulle nostre orme,

 

mandrie di selvaggi

ritti tra le fronde.

 

Tramonta!

Tramonta!

Corna e furore!

Tramonta l’occidente.

 

Viso e scandalo,

tramonta,

 

un grido soave.

 

Nelle acque candide

della rocca

opaca;

la voce è moderna

e postatomica,

 

l’Impero Romano

rigenerato,

 

mille fiere,

mille fiere,

 

tutti schiavi,

più di due terzi

dei mortali,

 

genti umane,

 

fisco grande annientamento,

 

mai italico popolo tanto oltraggiato.

 

Fiammetta

piange

alla riva,

 

quella strana.

 

La Madre terra

in rivolta,

 

gemito ancestrale,

 

l’asse terrestre,

epoca di materia

il Seicento

il Nuovo Millennio,

 

epoca di spirito,

acquario,

Terzo Millennio.

 

Suona la lira

dei giorni d’oblio,

 

ninfa alla sorgente,

Pallade,

Gea,

Europa,

 

essenza è ancora sera,

 

figli noi della terra.

 

Nel cuore il viaggio.

 

Mi assopisco,

suona il flauto

mentre

Morfeo getta

braccia

ai tuoi seni,

 

sono lucide

le realtà

raggomitolate,

 

strane,

 

straripa il sentiero

del mondo

nuovo,

 

Colombo

soffio di vento

uomo di vele,

uomo di mille pene.

 

Cantilena,

gira la schiena

dal tritone

sorge il sole,

sorge il sole,

 

aurora,

terra! terra,

vita,

 

Terra!

 

Reverse divertito,

suono d’assenzio,

 

centrale

nucleare

 

lumi delle mie brame

sogni germogliati

acidi folletti

e Torquato,

 

acidi intrugli,

 

il peyote

e lo sbalzo quantico,

 

piegatura della rosa,

svolazzo dell’estrella,

nome e gloria.

 

Dentro il cuore c’è la viola

e nella viola forse il sole muore.

 

sulle pendici dell’ultimo pensiero sincero,

lungo le scale

perdute del tempo

come assurde invenzione

escon fuori parole

grigie come giornate

di nebbia

e paure,

forti nel cuore

realtà mai immaginate,

nel sogno

verso il passato,

 

ed ora

è tutto perso

tra tralicci

di versi

eterni,

 

ma muta

silente

il tuo

perduto

amore.

 

Così che

anche le notti

siano più lunghe

e senza più lettere

scrivo col gesso

su muri spersi di sera

mentre tu

lontana

ma vicina all’ostaggio

dell’anima mia

 

e il treno

senza pudore

sfreccia

ingiallito,

 

una sigaretta.

L’attesa

 

verso l’inferno

delle nostre storpie illusioni

 

ora solo mie.

 

Deturpano tutto,

l’umana sorte

ed il nostro amore

che è insabbiato

e insudiciato

da chi,

come loro,

senza pietà

 

ha rubato

per calcolo e valutazione

o per divertimento

parossistico

e stolto

ciò che traslucido

era nelle mani.

 

Ribellati al tuo destino

sulle pendici

dell’ultimo pensiero

sincero.

 

Non è forse

ciò che ricordi?

L’unica cosa?

 

Quella da Melisenda

agli accordi

è ciò che perdemmo.

 

Ma se tu non tramonti

io continuerò a soffiare.

minimum delirium

 

Senza il tuo profumo

 

La realtà non è solo

nei miei occhi

e dunque tu dimmi

che pensi.

Così

 

volevo il tuo amore

e tu guardavi me

in controluce.

 

La verità

è nel nostro essere avvinghiati

tra mille lune,

tempi moderni,

estrosi pensieri.

Ricorderai un giorno

 

l’amore solo, crederai reale

il fumo

dei miei giorni,

 

dimmi, che altro posso fare?

 

Le cose che mi rimproveri

mi esulano dall’essere

umano

 

vite a limite della speranza

le mie azioni.

 

Amerai ancora

come io amo te?

amerai davvero

chi cerchi

pensando alle mie labbra?

e

 

la realtà

è che ti ho perdonata.

È così,

 

non riesco a dimenticarti.

Davvero non so

se riuscirai ad amarmi,

 

sono pazzo

perso

nell’amore stesso.

 

Ma pensa un attimo

alla vita

stravissuta

nei sussulti

solo per renderti speciale

e ora

non so più

se riuscirò a vivere

 

senza il tuo profumo.

 

Ragazzina, godi e sogna più che puoi

 

Splendente come la luna

magari imprevedibile

è la mossa

che scomposta

poni sulla scacchiera

dei miei giorni.

 

Tu profumi d’assenzio

ed il rigurgito

è già amore

e così spendi

 

giorni come destrieri

a furia esosa.

E tu

 

senza pensarci

mi adori, come collirio scolori

gli occhi tersi dal fumo.

 

Puerilità

sia lodata

la tua mossa precoce

da ragazzina,

 

mi fai godere,

strette le mani

sul mio senso stordito

dal tuo fraseggio esaustivo,

vorrei dirti davvero,

 

continua,

 

è l’amore che pone le basi

del pensiero

un po’ perverso

un po’ storicamente eterno.

 

Vita viva

e vissuta,

diciassettenne

esaudisci il mio bisogno

d’amore,

 

sei già esperta

e lo vedo,

 

il rimpianto sdrucciolato

nel bicchiere

del calice eterno,

 

sono sicuro

sia vero amore.

 

Ecco

sono sul punto di volere

più di quanto mi possa aspettare,

 

siamo al limite del prezzo

d’albergo,

 

ragazzina, vai tu,

 

sei più bella delle ninfe,

porgimi il tuo cuore

che non può essere

peccato

il reciproco amore.

 

Senza condizioni,

scanzonata la sonata,

la mia pelle innamorata

è frutto della tua sapienza

da studentessa furente

 

e più che bella.

 

Ed io

chiedo di averti

solo per il nostro

più intenso bisogno

 

e improvvisa mi fissi

 

godendo

fai capire che non c’è barriera

che tenga la piena

del vero amore,

 

non pensare ti prego

alla notizia da telegiornale

intrisa di morale,

 

godi e sogna

più che puoi.

 

La più acerba, candida, passione

 

Fiori incolti

tra i prati

disillusi

del domani.

 

Il passato

è solo lo specchio del futuro,

 

sai, amore mio,

che il ricordo

mi trapunta spilla

disillusa

della tua dolcezza.

Guarda

 

la nostra fantasia

ed i rapporti

elusi

dalla tua vita

fantastica.

 

Vivi

come mai

hai sognato

la differenza

della tua realtà

è flusso

della nostra età

 

acerba.

Magica

polvere

di sogni.

 

Se tu non ricordi

come esistere

completamente,

non piangere più,

guardami negli occhi

e scopri

che delle altre

molto più

speciale sei.

Sulla nostra spiaggia

 

l’anima

riflusso d’assoluto,

 

spirito ribelle,

 

mia amica della terra

di Provenza

fai la leziosa,

 

mostrami il tuo accento

figlio della luna

e dipinto delle stelle,

riflesso del più puro amore.

 

Ti amo,

così.

Mentre penso a te,

 

tutto intorno

è quiete.

 

I nostri passi

si confondono col vento,

amore mio

 

respira anche tu.

 

Splendido

è il tripudio dell’illusione

di questo amore,

 

saziami sempre più.

 

Amo

il tuo corpo ribelle,

 

l’età dell’adolescenza

che sui nostri corpi

impone la più acerba

candida

passione.

 

203

 

Ecco,

pronta,

lì.

 

Un’unica risposta

ai tormenti tuoi,

 

peso annullato

dalla piegatura

dissonanza plastica,

 

fa un po’ come vuoi,

 

esatto

hai già capito

distratto come sai

che il mio abbraccio

ed il mio seno

languido

è uva e tabasco per te.

 

Poni l’illusione

e baciami muto,

 

è il tormento

che brucia

e saporito

scaglia disarmante

il tepore

delle tue guance.

 

Zitto zitto,

serpina e male

estetico

ed esistenziale.

 

Parola

magica

e chiave di volta,

 

parola chiave,

sono tutta per te.

 

E dimmi sincero

chi è più carina

di me.

 

Dammi il mi minore

e posta la soluzione

nelle brame della legge

 

il comando è mio

ed il corpo tuo.

 

Baciami

in silenzio,

 

nessuno ci può,

ci potrà ascoltare.

 

E dimmi

se sono serpentina,

perversa

e godereccia

come ti aspetti,

 

spegniti lucente

in bocca

al mio piacere.

 

È il sapore sincero

del tuo amore.

 

Dammi tutto

te.

 

Inizio al buio

 

Inizio al buio

senza neanche pensare

alle influenze

della musica

affine

al sentimento

perso

frammentario

che transige

l’ultima umana transizione,

delusione del millennio

che non è più fresco

ma ancorato ancora

a

pensieri, quelli tuoi,

 

linea melodica difforme

e schema metrico

dada consumato

dall’incertezza del genealogico

passato.

 

Ed io ti dico

che stai benissimo

così,

 

un po’ distratta dalla luce

soffusa

e pura

dei tuoi atti osceni

sperimentati

all’alba come sempre.

 

Trova le connessioni,

vedi non è

superficiale

come credi

sono pezzettini

di già

fatto

col lavoro

del tempo,

 

arriva la sera

e sostituisci

il jazz

col

minimal.

 

Poi,

ponti noi,

 

virgole

dei nostri domani,

 

troncature stanche

di solchi esistenziali

imbarbariti,

imbruttiti

nella ricerca del bello

un po’ assoluto

un po’ emisfero eterno

in bilico

tra

contemplazione e godimento.

 

Eliot fuma

sorseggiando

resti di arancia

in incandescenza

sgocciolano

le sue parole

tra gli appunti

seduto al tavolo

del suo bar.

 

Piccina mia, dammi l’eternità

Conta ancora

il profumo

del tuo respiro,

 

sente il bisogno

la nostalgica pretesa.

 

Ciao, amore mio,

sono quello dell’altra sera,

come dici?

ricordi,

il tempo nelle sue sfumature

grigie da casalinghe

insoddisfatte,

 

preferisci come me

il viola,

giusto per ottenebrare

la memoria,

 

mettici qualche ortensia

e sfuma il verdetto,

 

ci dipingiamo d’eterno.

 

Io?

 

non lo so,

forse dovresti

stringermi ancora.

Il mistero nei nostri corpi

sarà il nostro segreto,

 

insieme avviluppati

come animali

 

godi della prima

fioritura autunnale

olistica

e parossistica

nell’ottobre dei mille

riflessi di corolla,

 

scindi l’axiotica,

come mulino a vento

 

frulli

e ne son contento,

 

mettici qualche punto

e il senso

è ancora nostro.

 

Come stai?

 

Dimmi se moriamo

dal piacere

ristretto

nell’amplesso

d’assoluto.

 

E poi

sogni lucidi,

assunti gotici,

 

che fai stasera?

Se vuoi

sono al parco.

 

Le tue elucubrazioni

saranno reali,

 

stringimi ancora

che quest’attimo

potrebbe essere

l’ultimo reale.

 

E saremo brame

senza neanche

rimpiangere stazionamenti

passati oramai.

 

Ed improvviso

il sassofono.

 

È un po’ un sopruso,

piccina mia,

 

dammi l’eternità!

 

L’estate finisce gemendo sé

 

Porgimi un fiore

amore

nel pudore

del tuo pallido

colore,

 

è tutto opaco.

 

Piangi

come traversa

diagonale.

 

Rotoli

nell’estromissione

delle parole,

 

gelate

essenze.

Brucia la rissosa

lotta del tabacco,

 

pongo un esseno assedio

nella bionda

veduta,

 

panorama etilico

della gioventù.

 

Vaghe

parole insensate,

 

aurore boreali nei tuoi occhi.

 

Prestami mille lire,

senti il mio odore

che stracolmo

espone

aneddoti

già vissuti

e consumati.

 

Pare

scomparire

l’orizzonte

degli eventi

esteri,

 

meglio appaciarsi

nel rimando implicito

a sublimazioni mentali

e l’estate finisce

gemendo sé.

 

Il mio paradiso

 

Essendo il mio

pensiero

perduto tra i rami

dei tuoi sogni

e svuotando l’alma sino all’osso

la tenue luce rissosa

della noia

e del rassegnato

abbandono

nelle brame

dell’illusorio

spasmo,

 

ritengo scomposto

il sentimento

dalle mastodontiche velature

di cartapesta,

 

basta,

basta, basta

 

urla il mio spirito

che esule immemore

dagli avamposti

del tuo occhio

socchiuso

come ad assentire

le mie fantasticherie

funeste,

 

dormi,

sì, dormi ti dico,

 

piccina riposa

stesa nuda sul mio petto

tra le cicale naufraghe della sera

in serrate fessure

consumate

dallo sbattere incessante

su specchietti d’acciaio

delle lancette

bastarde,

 

dei secondi

carcerieri

del mio essere puro

mentre ascolti il palpito

mio

 

oramai scomposto.

 

Mi raccomando,

non svegliarti,

non svegliarti amore mio,

 

abusata dalla terrena

maledizione,

 

resta così,

ancora a sognare

mondi cristallini

in questa stanza in penombra

ove rotola terribile

la scimitarra delle bottiglie

aguzze

di gin e cointreau.

Saremo noi,

 

tu piccola innocente

dal corpo giovine già

consumato

da mani arroganti

ed ignoranza,

 

da penetrazioni assurde

e autoreferenziali,

 

da grida senza piacere,

 

da mani callose

sul tuo seno splendente

macchiato di sigari

e violenza.

 

Saremo noi

e sai perché?

Perché il tuo sonno

senza affanno

di ragazza

è lo scampo giocondo

che ti salva

dalle intemperie

di questo mondo

ipocrita.

 

Dormi, dormi,

come divina imperatrice,

 

come regina,

dormi,

 

io ti osservo

angelo mio

 

maledetto dalla ribellione

e dal silenzio.

 

Tremava la tua mano

un’ora fa,

 

l’illogicità, il lavorio scomposto

delle tue mani,

 

come alienata proletaria

a muovere il mio sesso

senza scampo,

coi gemiti falsi

 

da attrice di quinta,

 

da ballerina esausta.

 

Averti vicina,

sfidare l’assoluto

con le tue labbra

profonde

nei baci che non puoi

dare,

 

è così,

 

non voglio perdere un attimo

dei tuoi sospiri

 

non voglio svegliarti,

piccina,

 

le signore mutano

parole

e sogni,

 

ma tu sei qui,

ancora, candida come la rosa,

illuminata dalla falce di luna

come una stella

del firmamento

eterno,

 

no,

no, scappa via,

 

questo mondo

non t’appartiene,

 

fuggi

come cigno

lontano lontano,

 

spalanca la finestra,

 

non tornare mai più,

 

resta qui

senza pensieri,

invidie,

curiosità deviate,

 

senza giudizi

e giudici,

 

resta qui e planiamo

oltre l’eterno,

 

sino al giardino

che ti porti dentro.

 

Io canterò

e tu resterai sul mio petto

luminosa

 

e sarà questo

il mio paradiso.

 

Tu sei ciò che sveglio mi tiene nel tepore

 

Spesso ti guardo

da spiraglio

della tua alma

tra strade perdute.

 

I tuoi sussulti

essenze maledette

dei miei giorni

stanchi.

 

I tuoi occhi

come tramezzi

del lavoro

writer

et crypto

nel tripudio assurdo

della tua bocca,

 

ah!

quella tua bocca!

 

Che aspetto

abbarbicato

tra il centro storico,

sei tu

l’unica luce

del respiro d’affanno,

 

sincera,

la notte inizia

e tu

sei ciò

che sveglio

mi tiene

nel tepore.

 

Ye soy feliz

 

So che sarai tu

da quel sorriso

tiepido

e un po’ ribelle,

 

i tuoi capelli

saranno l’arma

migliore,

 

occhi metilene,

piccina,

 

adoro

strusciare

le mie parole corporali

sulle

tue

forme,

 

perverso il pensiero,

 

tu di dieci anni più

piccola.

 

E allora capiremo

che davvero

non vale più nulla,

 

che sei la mia

pupilla

 

io

il tuo maestro

 

o meno,

 

e tu indosserai

quella gonna

che ti regalai,

 

ye soy feliz,

 

mi toccherai

come solo tu

sai fare

 

parleremo di Giambattista Vico

all’apice dell’adolescenziale

godimento.

 

Parola,

fatto e forma

sublime.

 

Spogliati

piccina,

 

voglio venirti dentro.

 

E un giorno

capirai

che non esiste morale

che non sia di servi

e noi

al di là

di questi Vittoriani

italiani di sinistra

parrucconi,

 

al di là

di quelle troiette

di destra liberista

serve del Bercogli.

 

La giusta negazione dell’infinito

 

Il tuo ricordo

è come la nebbia

fitta tra stagioni

di rimpianti,

 

gorgoglio del cielo

esausto

e della mano lirica

che contempla fruscii

sinestici

senza toccarli.

 

Piangi,

distruggi,

strappa

e lancia nel vento,

al vento, sul vento

ogni mia pretesa

scritta

nelle tue vene

urlando spaesata

tra righi d’infinito.

 

Ecco,

ora puoi sentire

il rinnegare

del tempo

nei tuoi occhi

allo specchio.

 

E attende il tuo vestito,

inorridito

dalle lancette

mute

nel sentire

graffi,

 

balze scoscese,

 

statue di marmo

arroventate

nel silenzio

 

la giusta negazione

dell’infinito.

 

Il tuo riflesso

 

Non ti stanchi

del tetro romore

del vento

su pupille d’acciaio.

 

E sei sperduta

come sopita

sotto i rami

spogli

dell’eterno

desio.

 

A volte gli odori

parchi

rendono le mie note

scaltre

come clero

tedioso

all’imbrunire.

 

Basta coi riflessi,

le ombre sul soffitto

aspettano insidiose

il tuo riflesso.

 

La tua voce attracco nel porto notturno

 

La terra battuta

dal sole

nell’istante

del sonno

steso

funesto

nella danza

soffice

e repentina

che non accede

e non tace

i miei ed

ai miei

dolori.

 

Distruggi il dramma

del mio essere

con la tua voce

lieta

e la profezia

della sofferenza

dell’alma

si distrae

e tu continui,

 

come signorina

dei sogni

appena germogliati,

 

come dicesti

e come dissi,

 

nella metrica

sconfina

il tuo corpo,

 

il mio sentire

l’eremo solingo

della croce infernale

che arde

inesauribile

dietro

i miei sorrisi.

 

Bene,

dormiamo,

 

trasgrediamo l’inerzia

della vita

ascoltando la tua musica,

 

attracco

nel porto

notturno.

 

Etica

 

Calcolando il confine

dell’orizzonte ottico

di mezzodì

chiuso nel sogno

e arroventato

trafitto

dalla tua ombra

scarna

e pusillanime

teca di porpora,

 

dimmi allora,

 

noi chi siamo?

 

Cosa ci differenzia

da questa brezza

incantevole

e taciturna

e dal gabbiano

svolazzante

allo scandire

dei giorni,

 

quando come rose appassite

gelavi i miei

occhi.

 

Ecco,

questo è il nostro

tempo,

 

uno scarabocchio

sulle tele

stracciate

dalle punte delle mine.

 

Destreggiamo,

cara

così

i nostri limiti

fanciulleschi

e giochiamo

irriverenti

coi bozzetti ed i dipinti

incompiuti

da chi non libera

ma imprigiona

nel suo pensiero

e si dice maestro,

 

ma Maestro della Natura

e dell’Etereo,

Chiren Selin grande

divenuto sono

dopo me stesso Mabus,

trittico nostro del primo millennio,

Giovialista

e poeta della luna

e selenio denso,

non aspetta plauso

o giudizio dei contemporanei,

né epigoni,

né discepoli,

né adepti,

 

noi

siamo

ribelli

e bellissimi

 

liberi

 

ma soli

e dunque salvi.

 

Camminavi un tempo

 

Camminavi un tempo

come folgore

tra nubi,

 

il riflesso lungo del tuo pallore

era la luna

specchio sul mare,

 

e il tuo rigore

distratto

incudine rimbombante

tra flutti

del mio spirito

leggiadri,

 

le mie parole

scrollavano

la tua cera, stampo

di lugubre affanno

dondolante docile

su altalene

di piume,

 

simpatica

aggrovigliata ai muri

della città

nostra scomposta

tra cumuli di scritte

 

macchiate le tue mani

di rosso

barberino

 

ricordo,

 

l’occhio lucente

tra stelle

di cicale

e di pruni

fischiettanti

nei tuoi boschi

ora deserti

di felci,

 

ah! e quando

dormisti

accanto al mio

giaciglio

di ghirlande

 

il collo

pullulava

sornione

alla nuova moda

consumata

dal vigore

della tua pronuncia

strana,

 

allora passeggiavi

su filo spinato

e melodie rissose

d’equilibrio

intarsiate

dalla tua mano rampicante

 

tra ciuffi di note

confuse.

 

Ora nel firmamento

sperso il mio sguardo

è senza guida.

 

Piccola stella del deserto

 

Potresti,

come fai,

dimenticarmi.

 

Ma voglio dirti una cosa

che il tuo volto

riflesso

nell’irideo nubifragio

mio ha consumato.

 

Piove

e la stagione lieta

rende suffragi

alla peregrinazione

del tuo corpo.

 

Il cristallo autunnale

del fuoco

rissoso

sgorgando

minerale

perduto

nell’entroterra

australe.

 

Piove

e lo sai.

 

Tremi ai boccoli

tuoi,

dal jeans corto

estivo

al ricordo,

 

non vuoi.

 

E la temperanza,

 

io chi sono?,

 

la temperanza ti preme

il cuore

soffocandolo.

 

Ti prego facciamolo,

facciamola questa follia.

 

Amami,

amami come il vento,

le stagioni,

 

amami come

nei miei sogni,

 

non aver paura.

 

Non aver paura se gli altri

mi additano

come il diverso,

il folle,

 

non aver paura

né pregiudizio,

 

non dimenticare te,

non farlo,

 

il mondo è nostro.

 

Lascia proliferare

voci assurde

in giro,

 

lascia dire alla legge

stanca,

ai medici da manicomio,

alle comare,

 

lasciale parlare,

 

lasciale dire

 

lui è pazzo.

 

Ma salvami

se io

ogni giorno ti salvo,

 

salvami se t’amo.

 

La musica

è ciò che ha

scosso

frullii di gesso,

 

lascia perdere

 

amami,

 

anche solo uno istante,

 

anche solo il tempo di dire

 

amore.

 

L’universo ti spinge

a declinazioni astruse

e lo sai,

 

amami

anche adesso.

 

Fallo,

piccola stella

del deserto.

 

Chi sei tu?

 

Chi sei tu

che spaventi

i miei riflessi

con noncurante

amore?

 

Tu sei

il tripudio di belve

affamate

alla mensa

del mio corpo.

 

Tu sei l’anima mia

consumata

dallo strazio

del ricordo.

 

Tu sei gli anarchici

e i punkabbestia

stanchi,

 

tu sei gli eroi esanimi

di un tempo.

 

Il silenzio

è oggi nostro,

ai bordi di strade

dimenticate

a elemosinare

verità

e follia.

 

Tu sei il silenzio,

allora.

 

È così.

 

Sei me

che sempre

stupido

e stupito

attingo alla vostra

mente.

 

Tu sei me

che dimentico

nell’acido

lisergico

ogni cognizione

reale

e fuggo

finito,

sperso,

senza te

al mio fianco.

 

Stringimi

 

Impallidisco

al far della sera

 

ma tu stringimi

quando la luce

parca

confonde

i miei pensieri

nell’oscuro tramonto

del mio sogno

che nel languire

vive

tra i vostri desii

e le vostre aspirazioni

come se oramai fossi

solo

alla deriva

e sorridente

esclusivamente

dei vostri successi,

stanchi e inesaudibili

i miei,

 

già,

i vostri successi,

amiche mie,

compagni miei,

 

in voi trovo l’ultima ragione

della mia esistenza.

 

Ma tu stringimi,

stringimi nel mio essere

imperfetto,

inutile,

la vergogna della umana specie,

 

dove il cor spaura

ai mie nubifragi

 

stringimi ora che muoio

non già nel corpo

ma nell’alma

e nel suo foco sempre più

penoso

e roco.

 

Stringimi

mentre la gente

straparla

della mia essenza

additandola come subdola

e perversa,

 

stringimi

quando socchiudo gli occhi

e trattengo le lacrime

per non perire

d’apparenza.

 

Stringimi

tenendomi la mano,

come nessuno fa più

con me

da tempo,

 

e asciuga la mia rabbia

e la melanconia

senza fiatare,

con un bacio muto,

 

Stringimi almeno tu,

ragazza,

non lasciarmi andare

nel gorgo

della morte del mio cuore.

 

Il Ritorno delle Novene

 

Si schiarisce l’atmosfera

 

Senza accorgersene

dimenticare

il sentiero

con le sigarette

 

mani legate

e nostre storie

strette al petto.

 

Poi per dispetto

divagare

e dire tutto

quello che

non ricordi

di Verne

o di Baudelaire.

 

Mentre stringo i pugni

sbuffi atroce

ed è prima mattina,

 

fatti già a quest’ora,

guarda non si può

 

restiamo avvinghiati.

 

Amo te,

piccola,

amo te,

solo te

da domani

sarà diverso

 

ma tu ti giri

e soffi al vento

folle.

 

Quando parlo

vaghi assorta

nel tuo

décolletté,

 

poi sei strana

parli tu!

E intanto giochiamo

ancor sul letto,

 

monti e colline.

 

Digerire

il caffè

nero pece,

 

ber petrolio,

vino rosso,

martini

e due omelette.

Voglio te,

 

voglio la tua pelle

voglio crescere

in dissonanza.

 

Ami me,

davvero?

 

Il capoverso è l’introito

del nostro universo.

 

Ancora

le duecento lire

 

trinità

fumante

 

Pensi ancora a me?

È già sera

e si schiarisce l’atmosfera.

 

Hay Dios

 

Atroce questo lamento

ruttante da ragazzini

di uomini e donne

che non credono al divino,

 

che rinunciano

sgualdrini al loro archè,

vittime

solo di sentimenti bassi,

 

sensi che definiscono alti

inversione apodittica del sentimento

e del senso

 

canone oscillatorio.

 

Non digerisco

l’assurdità

di un mondo dove

la violenza la fa da padrone,

 

vi dite comunisti

ma siete gli ultimi figli

del liberismo postmoderno.

 

Morite senza voi stessi,

rinnegate la vostra intima essenza vitale

 

e divina.

 

Bravi

vi occupate di scienza

trattata come giustificazione razionale

del vostro pensiero flatulente

ma odiate la matematica,

 

perché non lo prendete

nel vostro plebeo deretano

 

altezzoso.

 

Ci sono ancora esseri umani

che si definiscono atei

e ci credono perfino.

 

Lampo di luce, noi spersi

 

E’ solamente

per ricordarti

di anni orsono

quando io

perso

come sono ora

spingevo oltre

l’acceleratore

della realtà.

 

Giorni perduti

e tu guardavi

l’andatura

scostante,

 

ti seppelliva

di incongruità

 

era distesa d’erba

che desertifica

i miei atteggiamenti

irrazionali

mentre stranito

ti baciavo.

 

Ora mi manca

il 23 marzo,

l’amore,

sangue,

verginità,

 

tu sempre

splendida

 

anche se non parlo di te

non ti dimentico.

 

Il centro salutare

è orribile,

non immagini,

 

sono

l’ultimo guerriero

di luce prigioniero.

 

Ti ricordi

quando anche la follia

era compromesso

e vita altera.

 

Così perverso

amavo tanto

pur senza

 

respiro

tu e le tue

ansimanti grida

di godimento.

 

Ti amo

anche dopo.

 

Tu non esisti

oramai

 

sei solo

il mio passato belante

e la gloria

è finita,

 

non c’è più

nemmeno

un’etnica moda

alternativa.

 

Lampo di luce,

noi spersi.

 

Giovani 2007-2009

 

Sognatrice

sogna sogna,

micina dolce

sei 86,

chimera oscura

dark,

Giulia non esce la sera,

favete linguis,

magica cicerina,

giurista svogliata,

il codice civile,

 

biancoconiglio

chimery,

Kymery,

 

penso

magdala,

sento,

amore,

 

poi

medea17,

mistero

il numero 7,

sogni

l’entusiasmo

tenero,

finto come

sigarette

ingiallite,

 

pogo

con lemure,

 

community

o soltanto

anime perdute.

 

Passano

gli anni

e le chat

sono sguardo e te.

 

Sento

l’entusiasmo scomodo,

 

fiume di gennaio,

serenellosa

olè,

 

le sottane

di ragazze,

 

Istene dodici,

masterpiece ventisette,

 

jhon titor,

menphis75,

 

silversilvan

strapiombo

scosceso

su voragine

perduta.

 

Versi osceni

 

Passano questi anni,

trenta ne conti,

devi assolutamente trovare

la tua strada

è tardi

questa volta

è l’ultima possibile,

 

ora lei non c’è.

 

Come l’ho vissuto

il patto atroce

e loro

più non ci sono,

 

io bevo e fumo

e anima

più non ho,

 

sperso in me

tra musica.

 

Nuove donne

guardano oramai

cose che

neanche comprendo,

 

ma la dignità

in alcune di loro

la trovo ancora

 

(scorgo ribellioni

puberali).

 

Ho più paura

di quando,

quattordici passati,

scesi

fino

all’estremo

dell’inferno.

 

Tu dove sei?

gelo!

 

Ti sei vista allo specchio?

sei

peggio

di ciò che eri.

 

Hai rinnegato te stessa,

hai rinnegato ciò

in cui credevamo.

 

Io, semplice poeta,

non pretendo nulla

che non sia

dominio assoluto

determinato

e scandito

nei versi osceni.

 

Sto

peggio,

sono perso

e non tornerà

il futuro remoto

se non volgerai lo sguardo

verso

il diecimila

(anni

avanti cristo)

 

scomposto

dallo sgomento

acido

delle scale musicali.

 

 

Dolcissima anima

 

 

Stesa su splendidi

specchi lunari,

siderei gli orizzonti,

la nomino

sensuale

tra

le anime silvane

ove la divinità

porge senso

allo splendore

del cuore,

 

anima persa,

 

e i cirri

selenici

e boschivi,

 

stringendo

le dolcissime

voluttà corporali.

 

La ragazza

che timida

spinge austero

il pensiero

al di là della

nostra parva,

sensibile,

percezione

terrena…

 

Eterea è

la più candida creatura,

bestiola,

 

simpatica

nella declinazione

splendida

del suo corpo

tremante

e altero,

 

è un  po’ il rifugio,

porto sicuro,

di noi

che l’appelliamo

balbettanti

alle sue note

che  scorgiamo

tra i versi

dolcissimi suoi

 

e tiranni,

amori sorti

stemperati

dalla luce

 

notturna

di ciò che non so

e non possiamo

dire

 

se non di nascosto.

 

L’ente che fu e sarà

 

Nella notte

strana

quell’ombra,

la tua, che mi segue

tra tempi perduti

e templi di terracotta

quando

oramai

nemmeno tu ci pensi

oppure

magari sorvoli

se è tutto finito

per decisione

 

posta irreversibile

ma alle

otto e mezza

noi aspettavamo,

 

nove meno un quarto,

e il solitario

svolazzo

è  tripudio

d’amore assoluto.

 

Tu e lei

ed io

trinità

deludente

per eracliteo

volteggio

sciupato,

 

Mabus

vita sprecata

 

ieri

oramai andato,

 

tutto perduto,

 

l’amore

resta

ma solo in monocromo

se lei e tu

lontani

da me,

 

lontani da voi,

 

restiamo

nell’incanto passato,

e vittima

e carnefice

pagano entrambi

 

e non si capisce

la definizione

ontica

del perdente

né l’ontologica,

 

la nostra essenza

cos’è

e cosa fu,

 

dimmelo.

 

MA

tra viuzze

A

tra docce fredde,

 

orgiastiche

rimesse

tramonti

al mare,

 

Napoli

o

Corso Umberto,

 

stilismi

assurdi,

 

decime assurde,

 

tutte le ideologie

perse

nell’eterno

stato

mentre sé stessi

assorti

nell’ente

scorgono

l’essente

della relazione

e perdono l’essere

della storia,

 

scoprono storditi

l’ente

che fu e sarà.

 

Quando triste mostravi il volto gelido

 

Quando triste

mostravi il volto gelido

di inverno

appena cominciato

 

mentre

le serate

serenate

erano fuochi d’albergo,

 

indiani

della nuova era

con

rivoluzionari da strada

 

sull’asfalto.

 

Let scardiuminu

santur

medin.

 

Credi

che possa dimenticare

l’accento cartaginese

del 2002

mentre no global

gridano alla rivoluzione

ma cemento

sarà fra cinque anni

la crisi

e noi schiavi

senza

altezzosa

determinazione

 

se non giochi

finiti

nell’estro

oramai

sciupato e dimenticato

 

(troppa razionalità,

siamo divenuti prevedibili

e dunque dominabili).

 

Estar

Deminiu

Ocru.

 

Contieni le tue passioni

 

Contieni le tue passioni

a piazza del Gesù Nuovo

e scorgerai in un sorriso

 

Filippo nolano

o Benedetto

studente

di legge fori corso.

 

Così non te ne pentirai,

 

il sonno sbiadito

e la diva Brigith,

 

Partenope

echetto lontano,

 

novembre magico  ai Decumani.

 

Selene

strizza l’occhio

agli adolescenti

rivoltosi

e riluttanti

mai esausti.

 

Forza tendente all’infinito

 

Scomparisti

appena

fui sveglio

 

e decenni

furono rovina

e eclissati

secondi.

 

Non sei

l’unica

ma sicuro la più splendente.

 

Signora

degli anelli,

dominatrice,

occhi azzurri,

 

sei l’ombra

dell’irreale.

 

Vorrei contenerti

in un solo pensiero

ma la mente s’espande

quando

penso di te,

 

sei opposta

eppur

ti sento viva

e mia.

 

E

sei lucente

e sei

maravigliosa

sei la breccia

cupa dell’iperreale.

 

Vorrei

stasera,

se impegni non hai…

 

Sdraiato

su tralicci

di bambù

pensavo vertiginoso,

 

sei soltanto

un desiderio,

una forza tendente

all’infinito

inclito

e superiore

delle sfere

alte

e al di là del bene e del male.

 

La sonata dell’uomo

 

 

Il sole divide

il cielo dalla terra,

 

la luna unisce

abisso tenebroso

ed essere in sé contemplato.

 

Gli spagnoli

son mistici

 

i portoghesi

tutti cattolici e santissimi consacrati

 

gli amerindi latini

rivoluzionari,

 

non ci son atei

nel verbo iberico,

 

gli italiani

sensuali romani,

 

i francesi cortesi

dolcemente volgari apicali,

 

i rumeni

magici incantatori,

 

non ci son atei

tra i latini.

 

I germani,

i finnici e gli scandinavi

sono divini e maestosi

come il cobalto dai corni,

 

gli inglesi,

gli americani,

ed i canadesi,

filoprotestanti laici,

figli del destino,

 

non ci son atei

tra i barbari.

 

Gli indiani

ed i mediorientali

musulmani

e tibetani,

 

non ci sono atei

nel Medioriente.

 

I cinesi

comunisti imperiali,

 

i russi

comunisti ortodossi,

 

i giapponesi

liberali samurai,

 

non ci son atei

nell’oriente estremo.

 

Come è sopra

così è sotto

ora

ed in eterno,

 

l’uomo è riflesso

del divino,

 

materia ed energia,

luce e posizione.

 

Gli esseri sono

forma, sostanza

e scintilla.

 

Definizione di ateo

 

Essere umano

sottoposto a lobotomia volontaria

e costretto,

in piena scienza e coscienza,

a vivere in uno stadio evolutivo

inferiore

ad animali,

vegetali,

finanche a minerali

ed utensili.

 

 

Estetica

 

“Sono atea”

Allora studi un po’ meglio e ci vediamo al prossimo appello.

 

Paradiso

 

E’ stupendo

danzare con Dio,

cantare con le schiere angeliche,

pogare con gli apostoli

(e Maddalena vott’a fa’ male)

 

 

Il destino comunque sarà

 

Viene sventolando

la diramazione

dell’esistenza

consumata inautentica

senza

pensieri velati,

 

potrebbe

spostarti l’orizzonte

degli eventi

che sai

da sbalzi climatici

si inverte

e si genuflette

come fosse sentimento

 

neosolventi

intensi,

 

volatili,

 

pensili

e babilonia

danza

tremante

nel solito aggeggio

estroverso

l’armeggio

dei tuoi occhi,

 

dei miei.

 

E dicono anche

che misteri

ne pullulano

 

ma è sì e no,

l’esitazione

puro il cuore

di chi ha chiaro

l’entropico volteggio.

 

E la verità

ricercata

tra soluzioni

possibili

ma comunque

circolo

e monte d’Apollo,

anello di Saturno,

 

pollice in su.

 

Linee tratteggiate,

altre croci,

 

alcune sono

vere pretese

realizzate.

 

Il destino comunque sarà.

 

Timido bardo

 

Sull’orme dell’Avello

tra gelo e tedio

per sentieri traviati

in battaglie

passate,

eroi stanchi di un tempo.

 

Parlare è troppo semplice,

ogni notte la stessa storia.

 

Tuttavia

è troppo tardi

la risposta

in te troverai.

 

Augusta

delle grazie

il respiro

placido sarà.

 

I menestrelli barbari,

fine ottocento,

 

non c’è musica

negli occhi

candidi e neoclassici,

 

ma risposte

sono note

nelle novene invernali

tra strenne

e zanzare,

 

l’apodittico

quesito di sempre,

 

sassoni e bretoni

sotto il castello in rovine,

 

draghi blasfemi,

nomi alteri,

 

sei tu

la piccola meraviglia d’universo,

 

sei tu

l’esistenza

ontica

in sé

o cosa

distorta,

 

sarà l’ombra della realtà

quella

d’Anhovà,

al soccorso assoluto

 

dell’infinito.

 

Sotto il Manto Terribile di Kronos

 

Tra sudiciume ed acqua santa

 

[… ] passa un giorno

mezzanotte,

ora è più normale,

 

come prima sono stupida

e stupita.

Ed ecco il mio discorso,

 

sono piccola, più

dei sogni tuoi,

 

comunque se vuoi

avrei bisogno

di contenere

il tuo potere

tra spettri

di rame.

 

Poi se vuoi il mio corpo,

eccolo tutto,

tutto piccolo e perfetto.

Canticchiando

 

sembri piangere

ma ironico e bastardo

mi ripudi il tributo

di cui sai.

Ok,

 

c’è la voglia

di consonanti perse

nei tuoi vaneggiamenti,

e dicevi

benedetto

il corpo

nostro,

 

no sei il mio

sacerdote

ierasia d’amore.

Ok,

 

passiamo un altro giorno,

i miei non lo sanno

né sospettano,

sono

tutta tua,

 

possiedimi

anche in sull’altare.

Tabernacolo

reale

è il nostro sentimento,

 

il colletto,

talare

è lo sguardo.

 

Benedici

il corpo mio perverso,

benedici il sangue

impuro

e godi dalla fessura

dell’anta scomposta

del mio incerto domani.

E’ ovvio,

 

sono pazza come te,

recuperiamo tempo

amore mio,

 

i miei quindici

i tuoi trenta.

Nel motel

 

tra sudiciume ed acqua santa,

 

respira ancora sul mio collo,

lo sai che mi piace!

 

Pensa a me,

 

ondeggia un poco

come sai fare

mentre cammini,

 

sei stupendo visto

di profilo,

francese,

 

la mia canzone

era sussurrata

al passato,

 

un po’ distratto mio caro,

padre la bellezza

è tutto ciò che ho con me

è la confessione

di un angelo

scuro e tetro

tra i pianti nostri

alabastrini,

poi tu,

 

dolce come sai,

 

salmo 10, 3-7.

Non lo pensi?

 

Una mattina,

ero a casa,

 

mancavi tu.

Il mio faro,

 

la notte,

il guardiano

 

l’anima e il tempo,

 

lontani noi due,

tutto è già detto,

 

sussurri una preghiera,

fosse poesia

 

quella mia.

 

Poi tu,

sine tei,

ascoltavi me,

 

poi tu,

mistero scalfito,

 

fornicazione

cattedratica,

 

sagrestia,

 

acqua e incenso

mentre penso,

le ripetizioni

sono solo

mantra stonati,

 

però

noi due siamo l’universo.

Creatori e creature,

 

un giorno tu mi dicesti,

sono sul retro,

 

poi serio

sciogliesti

il velo che

la vaghezza spegneva

 

triste.

 

Ora sei

dove sai.

 

E sono di nuovo

persa,

 

sono il gregge

gli altri

le mandrie,

 

pensa a me

solo a me

tra le grate.

 

Celibato amplettico

 

Nell’anno mille circa

vescovi in combutta,

 

imperatori sani.

 

E nel tempo dei tempi

lo sposo

era succube alla moglie

e la patriarcarità

metà del tempo

era flusso di eventi

demoniaci

 

e infausti,

 

in Europa Gea e la Grande Madre

erano ricordo del pellegrinaggio di Lilith

 

metà del tempo.

 

Non riesco a focalizzare

questa tua lezione di storia

dal protestante

a Tubinga

a Roma

a Benedetto

 

ai giovani

 

gioventù hitleriana.

Corpo del suo corpo

sangue del suo sangue.

 

Cibati di Dio

morto

per noi

ma poi risorto

 

per svuotare l’inferno.

Nel 2004

 

il giovanotto

svuoterà di nuovo

la tentazione tartica

e tantrica assoluta

Flegetonte

 

sudicio

 

gli dei demoni scimmieschi

inginocchiati.

E non è per parlare

 

da Padre Pio

a Pio IX

 

Paolo VI.

 

De meditate luna

Giovanni Paolo

il primo settantanove

dell’ultimo settantotto,

 

la piccola fatima

la Orlandi

scomparsa,

 

suona hippy il flauto

bella a bestia!

 

Dominum flauti

Dominum flauti!

Cara scolaretta,

 

trafitta inversa.

Ascoltami, seducimi

e prega a corde tese,

 

è sera,

Dominum meo!

Forse dirigi

l’organetto,

sordo di latino

 

poche note,

accordo plastico

Madonna implicita,

canzone indefinibile,

 

magari applicheresti

un manicheismo

stanco

alla recita folle

indemoniata mia

 

carina,

sonata,

frastornata,

dimenticata.

 

Le fiamme

bianca cenere,

 

Sodoma

e il gesso,

non voltarti,

 

è un’altra città,

non quella,

 

correggo,

correggi,

 

Egitto

preda del caos.

 

Cinque xanax.

Se vuoi sono qui

 

se vuoi,

tranquilla.

Tu, io,

 

stola

stolta

storia.

 

Cosa ti aspetti,

un ragazzetto,

un mezzo sonato,

uno che benedice,

 

transustanziazione

dei sensi

il tuo pube,

 

il mio strofinio.

Panche

strane

e dediche,

 

satiri

Pan

e demos,

 

kleos,

kleos,

kleos,

 

non capisci ciò che dici.

Magari fenicio,

accadico

e Ba’al,

 

questo lo analizzeremo,

poi ne parliamo.

 

Magari Crono,

magari dodicimila anni fa,

 

occhi azzurri,

azzurrini,

turchesi,

cobalto,

metilene,

costato,

acqua,

pietra lavica,

occipitale,

 

Aquisgrana,

osso di seppia,

 

assioma,

acquavite,

 

opale,

blumarina,

poi ne parliamo,

 

cronografo,

cronovisore,

Ernetti,

Vaticano.

Padre Gemelli sapeva qualcosa,

 

io no,

l’altro,

 

c’entra qualcosa

Majorana

nel convento napoletano,

gesuita,

 

lasciate stare,

la sua Germania nazista,

 

la lode e la paura.

Plams.

Descrover mentosi ascurdevedi,

rettinfly,

etion trago tras.

 

Ti aspetto alla solita ora,

dopo la messa,

 

ite missa est,

vieni e fatti mia!

 

E sono solo

in canonica

canonico sguardo,

 

piangi di gioia,

godi,

 

doceo parva scientia,

amo tibi cum magno corde,

maccheroni e suoni

settecenteschi

ed è uno stile

strano

e tutto italiano.

 

Airam Eva

 

Ripetizioni

ripetizioni

ripetizioni,

ossessione

diagonale,

parlare,

predicare,

giocare all’amore

 

adolescente.

A Roma Termini,

 

sono arrivato,

dista poco il centro

ma solo se sei sconnesso.

 

Vestito

come un morto

tripudio d’assoluto

 

ripudiato.

Scendo in cattedrale,

giusto un paio di scale,

 

se avessi te al mio fianco

non dovrei teorizzare

il nichilismo cattolico

il nichilismo ortodosso

apostolico

e romano.

 

E tanti stranieri,

lingue resuscitate.

Poi cinque schizofrenici

in abito monastico,

sigaretta in bocca,

 

fumo e zolfo,

 

qualche giochetto,

le tre carte spirituali,

morte e tredici,

vissi, diciassette.

 

Roma caput mundi.

La bestia con sette colli

sotto la meretrice vestita di scarlatto,

 

gemme prezioso ed oro puro,

 

calice divino.

 

Il punk si impone

dal pulpito diocesano,

 

urbi et orbi,

punk,

 

evochiamo

spiriti sepolti,

 

da domenicale

a bruno

il volto

stanco mattutino,

spassionato,

 

spossatezza seminariale

e autolesionismo

sessuale,

 

eterogodimento,

autostudio,

selfie puberale

movimentato

 

serf

surf.

 

L’origine dell’uomo

Trecento milioni di anni fa

 

dalla luna ci fu un fragore,

un gruppo di nazisti,

 

fine anni trenta

con beretta e fucili,

 

il calpestato ophilicus,

cento milioni di anni dopo

un colpo assestato

a quella bestia immonda rettiliana.

 

Poi noi che c’entriamo?

se si apre un varco

e si chiude

nell’immenso dei tuoi occhi,

 

e sono già dodicimila anni,

tra la tundra imperfetta

è la cadenza

e la camminata,

 

quella strana,

 

l’orma opaca.

 

Noi

che facciamo sesso

e che sogniamo l’amore.

Ah se potessimo

non farlo più,

 

il gioco si fa troppo grande.

Il caos e l’ordine innaturale

da Sorat all’opposto,

e tu non sai

se scherzo,

 

ma finiamo comunque

in punti imprecisati,

 

spazio tempo velato.

L’origine dell’uomo.

 

Non avremo mai pensato

di dover morire

in corpo

anima

e spirito

per la dannazione

che ci lega

ed è tra noi

dimenticata,

 

nulla ha più senso,

guarda il tramonto.

 

Vittime in trappola tra i passi noncuranti degli altri

 

Potrò

cambiare

ma non ci credi più.

Il sogno

 

regnerà

tra i leoni

e le belve esauste,

a cavallo di un coccodrillo,

 

serpe antica,

 

l’ippopotamo

dei tuoi sogni bestiali.

Poi piangi,

 

non è così che

l’alba celerà

i frutti dei nostri tormenti

 

e poi tra Milton

e il fiorentino esule

il passo è troppo distante.

 

Apri

il testo Sacro,

 

sabbia informe,

scriverà

la legge di Mosè

 

ma il vento via la porterà.

A volte

 

ci dicono

che siamo

i maledetti prediletti.

E non senti

che in fondo

non siamo

stanchi

né terribili

ma solo anime fragili e ribelli

 

l’arroganza e la superbia

non so fino a che punto sia nostra

 

o forse sia solo frutto

della nostra stessa disperazione.

Siamo esausti

 

pandemonio

di lamenti,

 

soffro,

nessuno

può

distogliere lo sguardo

eppure siamo vittime

in trappola

tra passi noncuranti

 

degli altri.

 

Tra lacrime i sorrisi

 

Al mercatino

del declino

a passi tardi e lenti

il respiro,

 

la ragazza è pazza

e stupenda,

sei proprio tu,

mia diletta,

 

tra pioggia ed obliquo

desiderio.

 

Alle volte

ti penso,

 

un po’ più spesso,

 

non puoi avermi

né mai ti avrò.

 

Dimmi il tuo nome,

te ne prego,

ascolterò silente le tue follie,

 

vai al centro

e io me ne pento.

 

Ti amo come si ama

il divino cenno

nell’istante creativo

plasmante bellezza eterna,

 

forse un giorno

dimenticherò,

la vita, la mia,

 

a tutto rinuncerò.

 

Legamento

ipnotico,

 

l’anima pia

diviene perversa

e il vero sacrificio

è tra le braccia tue.

 

Picciola

cambia il mondo,

non ci sarà più

né fatica né dolore,

amore mio

genera con un cenno

l’eterno,

 

vivi quanto il numero

implicito

in ogni essenza

di stella.

 

Sei al di là

dei limiti umani,

 

sei il senso unico

della creazione.

 

Sei l’istante

interminabile

ed eccelso,

 

sei la dissoluzione

del tempo.

 

E se un giorno

non ci sarò

resterà la mia vita

sul tuo volto,

 

tra lacrime i sorrisi.

 

Lilith che ancora attraversi campi e città

 

Aradia

ci difende

sotto il suo manto

mentre guardo

gli occhi tuoi,

 

non credo di morire,

davvero

 

la carne è spirito.

Non può essere

solo tenebra

 

la bellezza,

non può essere maligna

 

la cura

per imparare

a non morire.

L’amore eterno

 

non è degli eletti,

ma di noi poveri oppressi

dal giogo celestiale,

anime scaltre e ribelli,

 

non può essere oscurità

la tua essenza.

 

Lilith cammina ancora

per campi e città,

 

inizia il tuo respiro,

sei carina

tutta profumata,

 

sembri appena sbocciata,

perfezione le tue forme,

linguetta seducente,

 

sembri già rinata.

 

Sei il fulmine

e sei il suono scortese

sputato ai vomitevoli

bigotti

ossessionati

dalle loro stesse bestemmia.

 

Non può essere tenebra

l’imperfezione stupenda,

né il tuo sorriso sidereo,

 

denti come meraviglie

umane

e per ciò stesso divine.

 

Il dio che è in noi

non può essere vendetta,

 

sei mia terribile

sovrana

e amata difensrice,

invasrice

delle turpi beatitudine

 

immonde.

 

Ci vediamo di nuovo stasera

se la morale non ci condannerà

alla fornace ardente dell’ignoranza.

 

Io e te,  sbuffo mordace

 

Ecco il solfeggio

perfetto.

Hai memoria, amore,

di quando

 

nell’oratorio,

nella realtà

velata

era tardi.

 

Tesoro,

mio amore,

è sera ormai,

 

spogliati,

spogliati sull’altare,

 

l’amnesia ce l’ho.

E passa il tempo,

passa

ma il mio tormento no,

 

2013,

fine del mondo.

 

Hai ancora memoria

di quando io

strano

e imbronciato,

disturbato

ti insegnavo il latino

e il greco

e tu

mordevi il labbro,

 

peccato mortale

amore mio

fartela.

 

Ma è successo,

ma siamo qui,

torna da me,

 

noi siamo qui,

torna ti prego.

Sei la ragazza

più carina.

 

Torna da me.

 

Sei così.

 

Torna da me.

L’epilogo terribile,

 

la legge umana

non comprende la divina

né la terrena,

è solo

spauracchio assurdo,

 

prigionia

per noi proletari spirituali,

 

orribile.

 

Le vecchie farisee ingiallite

 

Io,

carina

 

e persa.

Non so a che credere.

 

Vorrei qualcuno mi amasse

per ciò

che sono.

 

Così.

 

Sei carina

dicesti davvero,

che sguardo stupendo

ha il mio amore

senza la toga,

tonaca,

talare

calato

noi calati

 

è come

un dio senza veste.

Al di là

della morale,

 

capisco

filosofia,

letteratura,

 

me ne fotto

della moda,

 

sei un dio,

l’ho capito.

 

Dio mio

sia benedetto

l’amore,

 

non voglio perdere

chi mi dona

tutto

sé stesso,

 

non è reato

l’amore.

A volte è vero

gli altri dicono

che

la missione è un’altra

 

ma Dio l’amore

insegnò

alla Maddalena,

 

quello vero.

Forza ipocriti,

 

farisei

sono le vecchie

che ogni giorno

ascoltano

il verbo divino

e picchiano

i peggiori mariuoli

disperati

con lingue

terribili

e non infuocate

ma frutto d’invidia

 

pensano

che la domenica Santa

il pantalone attillato

non sia necessario

anzi

meretricio

di donnine,

 

ma superficiali

restano loro,

 

vecchiette ingiallite.

 

Me ne accorgerò

 

Me ne accorgerò

dalla colonia

che sarai già mio,

 

che sarai

tutto per me,

 

leccherò

la croce e il

tuo sesso turgido.

Picciola,

 

sono per te,

l’amore

dei tuoi rimorsi

ma spensierati.

 

Ecco il senso bellissimo,

stai venendo dentro me

così che un giorno

la mia adolescenza

sarà marchiata

da sentimenti che

non saranno mai

eclissati,

 

amore.

Non voglio crescere,

 

tra le tue labbra

e tra le tue braccia

metterò

l’hypnose

e poi

gli idoli

che nasceranno

dal sesso perverso

saranno

nostre giornate,

 

amore fuggiamo via,

ma in un altro mondo.

 

Il ’98 ci attende,

altri due anni,

whormole,

l’altrove,

 

sto venendo anch’io.

 

E nell’epoca lontana,

non dimenticherò

né te né la mia

innocente fanciullezza

 

la mia innocente precocità

furente

e perversa,

in bocca al godimento

 

verga nel sentire

delle mie labbra,

delle labbra

le altre.

 

Adagio va il respiro

 

Adagio

va il respiro

opaco

sul mio collo,

 

piccina

ed innocente.

Ed è appena sera,

 

sei stanca nel riposo

diurno

del senso,

 

l’ultimo d’universo.

Io sono distratto

e tu protuberanza

vera

dell’atmosfera notturna.

 

Poi

senza più pensarti

ti avvicini

con parole tenebrose,

 

mi seduci sincera,

opuscolo della luna

è l’ombra del tuo

corpo.

 

Mistero,

piccolo corno.

 

Tu,

ascoltami

che la verità

non può farsi muta

nell’oscillazione

dei tuoi capelli.

 

E intanto

vorace

ascolti

e parli

e mangi,

 

succhi come un’essenza divina.

Un bacio

sfiora sogni e labbra,

 

capelli

scossi

e sinceri.

 

Poi ancora

ti domandi se in un istante

può cambiare il mondo.

 

Sei pura

tutta

satura al tramonto

ed è finita,

 

mai più vicini.

 

Ma per qualche minuto

ascoltami ancora,

imbandisci l’infinito

nei tuoi occhi azzurri,

stringimi

e guardami perversa.

 

Ancora,

ancora voglio

il tuo corpo

su di me

nello spasmo

e nel godimento.

 

Nuovissimo Mondo, Siamo Davvero Felici?

 

Pensieri per te

 

Pensieri per te

in notti d’insonnia

e verbo scarso,

 

sesso ad oltranza

e le labbra smorte

per entusiasmi

sopiti

e grida

di godimento.

 

Puoi anche

scrivere

di me

parole perse

mentre mi fissi

e dici

smaniosa

 

non so

se va

 

né perché.

 

E continui con la musica

accendi

a mille

e ti sento

tutta bagnata ed in fermento

 

l’una di notte

come sempre

accendi la pall mall

e ti dipingi

di un ricordo

mentre

ti stendi

 

lato opposto

della luna

sguardo da

sogno desto

di mezz’autunno

mentre trovo

te.

 

Con

coraggi che

sono impensabili,

 

erronei,

 

mal scritti

 

ed un lento ci sta tutto

a dorso

delle lenzuola

sporche di sangue.

 

Non ci siamo proprio

 

Non mi piace ciò che pensate

né il ragionamento sotteso,

né l’impalcatura parca.

 

Non mi piace quello che dite

né come lo dite.

 

Nuovissimo mondo

 

Suona nel rimbombo l’ipocrisia

 

quello che tu dici

lo hai studiato

da face

e non è che sia rampante

la corsa

scimmiesca

verso soldi

 

ti venderesti

l’anima,

 

non ci pensare,

 

chi l’ha fatto ti dice

che io scherzo

col fuoco

 

io posso

ma tu non puoi.

 

Arriverà la vendetta

mentre non ve lo aspettate,

 

mediocre

è l’orma del vostro rancore.

 

Un raggio illuminerà

il mio entusiasmo

ed il vostro coraggio

non è adolescenziale

né bipolare

 

quindi fottetevi.

 

In silenzio la vendetta verrà

delle anime perse.

 

Ed a tutti

quelli che credono

nell’occidente

nuovissimo

laico

e filoprotestante

 

vi invito

ad andare a cagare.

 

Finirà lo splendore

dell’orma di Wall Street.

 

E finirà

il giocattolino

dei grandi

parvi sui loro servi

assetati di soldi.

 

Noi anime perdute

e sole

siamo in etimo salve,

demoralizzate,

senza pudore

né paura.

 

I miseri erediteranno il mondo

i miserabili non arriveranno

al banchetto nuziale.

 

Ragazzina

 

Chi crede

nell’eterno

sente il portamento

del nulla

che lo invade

e lo pervade,

 

assapora il sorso

dell’ente

che mentre trema

santifica in sé.

 

E siamo piccini

ma ribalta la realtà,

 

mai il vero

così forte si impose,

 

dal 44 al 45,

1936 2025,

ecco i varchi

 

ed inverti il calcolo numerico

derivato.

 

Dammi l’erba

del gaudio

estroso.

 

Cos’è che pensi?

la carriera

e la frenesia

 

e se l’università

è la vergogna positivista

della società

nutro l’ultima speranza

nello sguardo teso,

nell’occhio lucido

dell’ultima matricola,

 

tu ragazzina

salverai il mondo,

non io,

non loro,

 

noi.

 

Tu.

 

 

ISIS-MCDONALD

 

Chi non ama

cede alla violenza,

 

chi non si fa una pelle

taglia le teste

 

e sostanzialmente

è colpa dell’occidente,

 

soprattutto delle risposte

che la religione non vuole più darci.

 

Per combattere il fanatismo

ci vuole un esercito di santi

(magari giullari per non tradirti

ma un piccolo travaso va fatto,

dai)

 

ebrei, musulmani,

cattolici.

 

I puritani mi hanno sempre ricordato

gli schiavi-utensili del capitalismo,

il fastidioso ronzio delle mosche

al mercato,

 

e parlo di ambo le parti.

 

“Ci siamo intesi?

Dioniso

contro il crocifisso”.

 

Questioncine interpretative

 

C’è gente che non capisce

che la materia muta e non si annichilisce.

 

E comunque

Dioniso si fa uomo

muore

e risorge,

 

questo è il simbolo.

 

Il crocifisso è un mezzo,

momentaneo.

 

Mo’ lo avete capito,

e non scrivete più stronzate,

per favore.

 

Ah e soprattutto

non fatemi essere più così esplicito.

 

[Rit.]

 

“Ci siamo intesi?

Dioniso

contro il crocifisso”.

 

Martirium

 

I martiri muoiono,

non uccido.

 

E soprattutto non dicono

cazzate.

 

Matrimonium cum manu

 

Va bene, va bene,

 

però per sempre,

insieme,

indissolubili

e magari pure dopo la morte.

 

Se uno deve essere martire

almeno lo faccia bene,

 

non ci si sposa a tempo determinato,

 

ad ogni azione

corrisponde un’eternità

che  puoi sospendere

ma non eludere.

 

La memoria conserva tutto,

anche uno sguardo.

 

Sei padrone delle scelte

non delle conseguenze.

 

Cuius regio eius religio

 

Americanini

non fate i padroni del mondo,

 

vi riesce male

e inguaiate pure noi.

 

Almeno alcuni hanno prezioso il senso di comunità

che voi avete barattato

col meretricio della società.

 

Siamo persone

non individui,

su questo dovete dare l’ onore delle armi

a cattolici,

musulmani

e comunisti.

Cola di “Renzi”

 

C’è bisogno che parli?

 

Un veltro malriuscito.

 

CCCP-ART 18

 

CCCP: “Guagliò scegli,

meglio disoccupato morto

o  lavoratore infelice?”

 

Cap: “C’è un’alternativa,

una unica,

schiavo a tempo determinato,

ogni tanto,

quando servi

e casomai servi”

 

Ma perché non ragionate

un attimo

in n dimensioni?

 

Decisioni sofferte

 

I politici, i giudici e gli avvocati

ti diranno sempre che la loro decisione

è stata sofferta

 

e non ci hanno manco dormito la notte.

 

Pragmaticamente

(non voglio fare l’idealista

o il retorico

perciò sono concreto)

 

praticamente dicevo

però a loro non gli brucia il culo.

 

Ah e ieri notte hanno dormito

e russato pure.

 

Agli svegli

 

Il Colosseo crollerà

sul capo dei giovani svegli,

rampolli,

arrivisti

rampantisti.

 

In un attimo si riaccenderà

il fuoco di Vesta.

 

Banchieri

e vertici

del potere occulto

e non

si rifuggiranno

in caverne

e pregheranno Dio

per morire

ma Egli non li esaudirà.

 

Nessuna preghiera

nostra

fermerà

la Destra potentissima

del divino,

 

la sentenza vi pende sul capo

come spada di Damocle.

 

Il Grande Giovialista

sarà tremendo giudice.

 

Anche Roma perirà

e gli scorpioni

saranno trafitti dal loro

stesso pungiglione,

 

le serpi dal loro veleno

infettate.

 

Politica per passione

Fare politica per passione

è come giocare a golf

con due palle:

 

quelle del popolo.

 

Quiz

 

I Quiz

e i giochetti

sono il trastullo degli ignoranti.

 

Rendono la civiltà ottusa

e serva.

 

Nella vita reale

una risposta non è mai

o falsa o vera.

 

E nemmeno in quella astratta.

 

Evoluzione

 

L’errore,

il punto che non tiene,

lo sbaglio umano,

il maledetto,

il rinnegato,

lo scarto dell’umana stirpe,

il fallito,

 

questi sono  la molla

dell’evoluzione

 

gli altri

sono passanti distratti

della storia.

 

Agli stupidi

 

Non capisco questo snobismo

e questa segregazione razziale

anzi percettiva.

 

Gli stupidi sono tali

perché hanno ancora

il coraggio di stupirsi.

 

A me preoccupano i sani,

militano nelle SS,

 

“la fossa del leone

è ancora realtà”.

 

E’ questo il segreto

 

E’ questo il segreto

 

di notte

mentre allo specchio

nascosta dici che

non è questa la memoria

che

imprimevo

su stampi di gesso.

 

Comunque

va bene

questo non vale

l’ombra

della risposta universale.

 

Comunque

non ricordo

neanche chi sono,

figurati il suono

di parole perse.

 

A volte

risplende lucente

l’umido dei tuoi occhi,

 

è vero,

non ho quello

che vuoi

ed è per questo

che recito

quasi a memoria

ciò che

non ricordo.

 

Comunque è così

al di là

di loro,

noi siamo,

 

il suono della tua parola

è l’orma della mia.

 

Quello che c’è

non ha

perché non sa.

 

Quando sei dolce

non è che

sai

dirmi no.

 

Comunque era questa

la risposta,

 

la tua gloria

sommamente

nell’infinito

lodata

in eterno.

 

Questioni “Legali”

 

I sofisti del diritto

non sono furbi

né tantomeno scaltri,

sono semplicemente ridicoli.

 

Mi diverte lasciarli parlare,

assecondarli,

il loro ego si gonfia

e da ridicoli

divengono

patetici.

 

Fatemi capire

 

Aspé aspé,

fatemi capire,

mi so’ perso qualcosa:

 

chi fa i soldi è in gamba

ed i poveracci sono degli sfaticati?

mah!

 

Agli esseri umani

 

Ma chi ve sape!

 

Come va il mondo

 

“E’ così che va il mondo”.

 

No,

è così che vi fa comodo

che vada il mondo,

 

e poi non lamentatevi

ad uso e consumo vostro.

 

Se avete pronunciato quella frase

vale pure per voi.

 

Io

 

Non ho bisogno di elemosina

né di beneficenza,

né di pietà,

nemmeno di compassione.

 

Non ho bisogno di pacche sulla spalla

né di carezze

che vi facciano sentire

con l’animo in pace.

 

La macchia dell’ipocrisia

è la vostra più grossa.

 

Io sono un idiota,

questo è il mio posto,

 

sono un idiota

che si ribella al suo ruolo.

 

Comunque va bene

 

Comunque va bene

così.

 

Hai ragione,

brava.

 

E’ così,

se non hai ragione

non è un mio problema

io sono qui

e va dove vuoi.

 

Tanto non ascolto

nessuno.

 

La ribellione

intrinseca.

 

A volte ascoltavo

ma ora sono stanco,

vero,

non mi interessa.

 

Sto benissimo

da solo.

 

Non mi fotte niente

della realtà.

 

Comunque

non credo

che abbiate ragione

ma ormai

è affar vostro.

 

Toglietemi

il saluto,

per favore,

vi prego.

 

Io faccio come mi pare,

succhiatemi il cazzo

mentre mi inchino

dicendovi:

“I miei rispetti”.

 

Perfetto questo modo

vostro,

ma il mio è sublime.

 

Schiavi,

siete schiavi

e vi stanno schiavizzando

con la precarietà,

 

e siete pure contenti

di guadagnare due soldi.

 

E non me ne fotto

di chi pontifica

o peggio compatisce

colla pancia piena.

 

I nostri genitori

hanno usurpato

il nostro futuro,

hanno banchettato

sulle nostre spoglie.

 

Non ho pietà

dei mie padri,

 

non ho pietà

dei sessantottini

corrotti

italiani.

 

Io non chiedo

 

Io non chiedo,

pretendo.

 

Questo vocabolo

non ve lo scordate,

 

è l’unico,

il più bello.

 

Ragazzi,

non dovete nulla a nessuno,

eliminate ogni senso di colpa,

 

loro

DEVONO fare

quello che dite.

 

E se non lo fanno,

metteteli a morte

spirituale.

 

Tanto sono già trapassati.

 

Non abbiate rispetto

per nessuno,

 

non lo meritano.

 

E non corrompetevi,

non fate come gli sbarbatelli

di Grillo.

 

Loro possono farvi,

farci,

un pompino.

 

Stop.

 

Quelle di Bercogli

potrebbero,

idem,

 

et ora anche

quelle di Rienzo,

alla ribalta.

 

Non corrompetevi,

non dite mai di sì,

 

i sette anni sono passati.

 

Siete voi al potere,

non loro.

 

Ragazze,

a voi in particolare

un’ultima cosa,

(siete quelle che mi stanno

più a cuore,

piccole angiolette

dolci e perverse),

non vendete MAI

il vostro corpo per danaro,

solo per piacere,

 

non cedete

alla tentazione

del potere,

 

siate pure

nella vostra perversione.

 

 

Tiepido mio rifugio pel futuro

 

Ancora.

 

Una volta.

 

Siamo

sempre noi,

metà novembre

2000 anni

2000 baci

da sbocciare

e il mondo

che ci aspetta

 

è tutto lì.

 

Tesoro

guarda me

 

l’edera

stesa

e pungente,

 

tu gaudente.

 

Ti amo

piccola.

 

Come vuoi

 

ora,

 

per sempre.

 

Piccola mia.

 

Sempre io e te

quando

le tenebre

scuotevano

il nostro

tesoro

stretto tra le mani,

 

il vento è

nemico dell’erba,

 

non brucia,

vola,

 

io e te.

 

Amore mio.

 

Il mondo cambia ma

la stagione

è la stessa

e dipinge

ancora te,

 

gli stessi anni.

 

Ti amo,

indicibile

assenso stolto

della memoria,

 

tiepido mio rifugio

pel futuro.

 

 

Occidente perfetto

 

Ed è sempre come

dici tu,

 

l’erroneo

aforisma

elevato

ad intellettualismo

quello vostro

da social network.

 

E va fa mmocc.

 

Non vi ascolto

da tempo

oramai.

 

Quello che dici

è terribilmente

fascista.

 

Certo,

hai ragione.

 

Non so perché

liquidate

le persone come pazze.

 

Siete voi,

non ci sarà evoluzione

senza noi.

 

Brava,

bravi,

evitate questa gente.

 

Ma va fa mmocc.

 

Non credo abbiate ragione

ma ve la do,

benpensanti,

per pietà.

 

E non sapete

nulla,

fate gli schiavi

laureati

e vi sentite pure realizzati.

 

Non ricordate

ciò per cui

avete combattuto.

 

Siete voi

e non io

che non sapete

più stare al mondo.

 

Lo state uccidendo

con i vostri aforismi

perfetti

e le sentenze

geniali

ma sesquipedali

e tiranne.

 

Ma va fa mmocc.

 

 

Collocamento velato

 

Io e te.

 

Ne hai memoria

amore mio,

sotto le travi

dell’illusione

puoi quello che vuoi.

 

Ed io qui,

ancora qui,

ti amo

amore,

 

io e te

per terra,

 

l’erba

sospiro

di te velata

vocale,

 

l’odore

del selciato,

 

acre il sapore,

 

tu nel mio cuore.

 

Sotto

le macerie

del passato

dicevi

silente

vuoi quello che

io penso

di te,

 

ti prego

stringimi

ancora

 

il tuo respiro

puro

sul mio collo

 

e l’arma

desio,

 

profumo

intenso.

 

Il tuo

affanno

ed un bacio

mai scoccato.

 

Ancora noi,

legati

legali,

 

per patto implicito,

indissolubili

al di là della volizione.

 

Parco Pubblico

stasera,

 

collocamento,

piazza Mercato,

 

un tempo

non c’era nessuno,

 

sedici anni

passati,

 

farnetico.

 

AG 100 et altri mille

 

quidquid

dare, facere, oportet

ex fide bona.

 

O lo scioglimento

in età Postclassica.

 

Siamo davvero felici?

 

Ecco vedo

all’orizzonte

il profilo

del tuo respiro

etereo,

 

il tuo volto

tenebroso e smanioso

ma pur dolce,

 

lezioso

come vero

e sincero,

 

piccolo

specchio.

 

Il viso

magico

occultato

dal libro

appena accennato.

 

E sei qui

lontano

dal mio

tramonto

o dall’alba

sempre più lieve

e tanti tu,

tante voi

nel mio petto

gridano silenzio.

 

Rumoroso

lo spazio che vorrei

coprire

con tempi scomposti

dal tuo sussurro.

 

E gira

armonico

il senso

del mio domani,

 

siamo felici?

sei sicura?

 

Siamo davvero

felici

così?

 

Io sono qui

e penso,

 

mi trovo sperso

come ermo

sconfitto

dal

naufragare lieve

dell’ideologia

e non è

che sia meglio

rinunciare

 

e partire

finalmente,

 

via.

 

Rialzo

 

Percepibile

l’atmosfera.

 

Nelle svogliate

ingiallite

sfogliate

descrizioni

c’è una ragazza

strapersa

nel monte

e andata lì,

 

dove per certo

perderò quello che ho

già,

 

ma giocare a rialzo

è quello che

devo

ed è ciò che so.

 

E come andrà?

Oggi lo so,

ieri no,

per fortuna

 

la spirale

assurda

e ghiotta

inebetisce

 

ma sono io.

 

Forse perché

sono

divenuto

me così,

 

i giorni passati

accanto a te

perduti

 

ma

 

non rimpiango nulla

anzi dimentico

per ricordare indelebile

lei

 

e ciò che feci

per

la sua

gloria,

 

mia.

 

Ed andrà

come sarà:

 

oggi non piove,

è già qualcosa,

 

ma lasciamo proprio stare.

 

Sono sgamabile

nell’irriducibile

frastuono

declinato

e sconnesso

ma nuovissimo

(mondo)

 

tecnocratico

ed ipotetico

adducibile ad assurdo

distinguibile

nell’eterogeneo

magma

del mio vissuto

inconcepibile

mentre ti volti

ineludibile

l’erto colle

è

incontemplabile.

 

Viva la nuova realtà

 

Viva la nuova realtà

folle il progresso,

i liberali progressisti

sono democratici

fascisti,

da Obama

a Renzi

alla destra

quella estrema

da Grillo

a Le Pen

a Putin

a Trump

all’ipotetico entusiasmo

dei deficienti

e degli ebeti.

 

Ah un nuovo

11 settembre

di sera

mentre

il grido

si disperde

dalle colline

al parlamento,

 

ma è solo un’ipotesi

infondata.

 

Me ne passa davvero,

sul serio,

per il cazzo

del destino dell’umana specie,

 

vi meritate questo.

 

Soli io e te,

nel paradiso

incredibile

delle follie

 

seleniche

le risate

frastornate

 

le risatine

da manganello

nell’iperuranio

scudo

del dolore

che treman,

 

bambini

con fucili,

 

non ce la faccio più,

 

perché non morite voi

coi terroristi

del consumismo

e con quelli

strozzagola,

 

autoinfliggetevi

ghigliottine

invece di tagliare

teste altrui

 

e fatelo,

ovviamente,

in nome di Allah.

 

Con lo scettro di traverso

 

Adesso

che hai lo scettro

di traverso

ad ordinare

pianti

svelati dalle lucciole,

 

sei perfetta

di lato

a sponda

di letto

quando perdo il fiato

per te.

 

Così,

ipotizzando l’assoluto

delle braccia

tiepide

nei mattini

di rugiada,

 

le solite cose

sarebbero

piccolezze

ineludibili

e perversamente

necessarie.

 

Quando poi

dici forte

“ordino

l’inverso del tempo”

accostato tra l’altro

per me.

 

Nel sogno

quello strano

e che sai

mentre

chiudi l’illusione

del significato

astruso

aduso significante

scisso

e deluso

del volo.

 

E non è che

finisce

sempre così.

 

Ricorre

il danaro

nel canto

velato

dallo sciupio calpestato

dal cero

impresso

lacca

e

fuliggine

sigillo

e soluzione

aerobica,

fobica

l’attrezzatura

clorofillica.

 

Perfetto,

è tutto come

hai appena

detto tu.

 

Comunque ok, ciao, a dopo

 

Che buffa la tua soluzione,

la stupidità

esaltata

a valore universale.

 

Ma non so se dici

la verità,

se lo pensi

o vale solo

di traverso

alla

solita

soluzione

da comare,

 

vibra

l’asciutto.

 

Ma una volta

la verità

era più semplice

e con la tempestiva

umidità

la notte

all’addiaccio

era splendida.

 

Ora

spiagge né

lampare,

 

tutto

inutile,

neanche

un motivo

per continuare.

 

Vagheggio

diletto

ma

nel passato c’è la vera verità

 

ed il futuro

è il circolo perverso

di un non ritorno

eterno e scomposto.

 

Vai,

vai vai,

non è tempo di parlare,

non decido

ora,

vai,

 

ok resta,

deciderò.

 

Ma se nel soffuso disegno

guardassi

ciò che vedevi

ed ora è

occultato

dalla frenesia

dei giorni metropolitani,

 

accadrebbe.

 

Comunque,

ok,

ciao,

a dopo.

 

Melissa P, Travaglio, Saviano et anche Dan Brown (prendendo un campione, così, a cazzo)

 

Melissa P

è la massima scrittrice

degli anni duemila,

dai suoi testi

emerge una sublime

velatura estetica.

 

Saviano e Travaglio

non sono scrittori,

piuttosto

giornalisti,

cronisti,

senza gusto estetico,

di un giornalismo che ha perso

ogni legame con la letteratura,

con una pateticità

et una ironia

da chiacchiera e curiosità

inautentica heideggeriana.

 

Dan Brown,

palesato che non è uno scrittore,

non è nemmanco un giornalista,

 

vorrei conoscere la sua maestra delle elementari!

 

Pleonastica intesa tutta italiana

 

Nella radura

altura

dei miei giorni,

dì di pace

per le scale

musicali,

 

un ondeggiamento

che sempre

capovolta

inverso

l’accordo

viola

della memoria.

 

E non so,

non ho elementi

per dirti tutto.

 

Comunque

vada come vada,

 

il tempo fu.

 

E se

non ho più voglia,

e dopotutto

è pure meglio,

un giorno

cambierà

 

dalla domus

alla sala,

 

nella strada

resto.

 

Frammenti

impacchettati

mentre

fascia

da tombola

dico,

volevo dire,

 

sorte a caso

dalla mano

pescosa.

 

E ancora tu,

oppure

parole

a cazzo,

men at work

o dondolino,

sìsì russo,

 

avete capito,

il giochetto del dizionario.

 

Non cambia

nulla,

 

pleonastica intesa

tutta italiana.

 

Rssl estate 1999

 

Quei giorni

erano essenze pure,

candida neve,

normale.

 

Ma è stupendo

notare

lo sguardo che hai

mentre

guardi assorta,

sguardo nel nulla,

a contemplare

ciò che figlia

dell’amore sai dare,

 

intrepidi a pensare

il destino

artistico

e il filosofico

ondeggio

d’assenso

che respira

ancora magico di te.

 

Pomigliano

nei soliti

colori

grigio

estenuante

dell’asfalto

dall’afa assordante

dei mattini

di giugno,

 

bocca secca

labbra lucida,

e così

che va la scaletta

delle azione poste in testa,

la più piccola

e pure la più bella.

 

E mi innamoro

guardo

a chi è l’opposto di me

 

mi innamoro di te.

 

Ed è così

piccola

dal tempio

greco

dimenticato,

giri,

sempre gli stessi,

ma l’origine è lì,

 

l’alternativo

sogno,

discorso.

 

Caravaggio,

sala

poi assurda tu,

 

micenea

oppure achea,

 

mi manchi

ed allora

inizio

ad idealizzare.

 

Ma sei così,

un po’ sopita

sulla mia spalla destra,

 

saremo insieme

se non fosse per

l’avversione

reale

della compostezza

asciutta occidentale.

 

E l’origine è lì,

neanche una foto

per immaginare te,

 

una via,

un indirizzo

taccio e non dico.

 

E passa il tempo

ma non ci interessa

se possiamo

soffermarci

sull’istante passato

di un’estate appena cominciata

e rivolta

al trapassato

recente.

 

Una villa splendida

ed io e te,

io mi desto

ed è tutto com’era.

 

Si può ragionare dal passato

circa l’ulteriore passato

immaginato

ed averne memoria

vivida e concreta

ancora nel presente?

 

Non so se ricordi

 

Non so se ricordi

di noi

quando l’inverno

era

fluidità

nell’atrio

del gelo

nessuno

vedeva

l’immenso

del cielo

stellato

al tramonto

accennato

un po’ ad est.

 

E chi sei

più non sai,

non tenebre

né assurdità

dentro te.

 

Magari

sei stata

invasa

da calma

piatta

e da pensieri

 

misconosciuti.

 

Di sogni distesi

non c’è l’ombra

né l’innocente

puerilità

adolescenziale

né il rischio

né il velvet

del sotterraneo,

memoria

distesa

che non riesce

più a vedere

al di là.

 

La fine

del giorno

è l’inizio.

 

E non andiamo veloci

come

quando

scioglievi

pezzi di ghiaccio

nel senso

inverso.

 

Né preghiere

perverse

né sentimento,

né occulto

né bestemmie,

né vanagloria

né dissacrazione

sublime,

 

solo pallida

inutilità

e remissione.

 

Sui detti

 

I detti degli antichi

fanno schifo.

 

Ho sete di parole adolescenti!

 

Violate parole che non dici

 

Dai superbi silenzi

all’entropia

emo

emotiva

di un saluto

sperso

su parole

perse

da tanti anni

ormai.

 

Illumina

la mente,

spiagge

d’inverno,

cessi

e discoteche,

salotti

bene

amori,

 

il bitume

nel tuo vaneggio

saggio,

 

macchia di incenso.

 

Rip.

 

Parte da capo,

sempre lo stesso

emotico

intruglio

ematico

di vene

miscelato

al remix

selciato

lungo il polso rapido,

via,

 

strade perdute.

 

Alla luce

della notte

bianca

la luna

veste ciliegia

la lussuria

di te

anima mia dannata,

 

prezioso giglio

sudicio

da contemplare

per orgoglio

più che per amor.

 

E sgorga intatto

il sentimento,

 

mai vietare

alle ragazze

le ascensioni

violette

 

violate

parole che non dici.

 

Voli pindarici

 

Eh sì!

li faccio così,

 

nella chiusa bottega alla lucerna.

 

Il chiarir dell’alba?

arriverà, arriverà,

per ora è già dentro me.

 

A finale

 

Alla fine

mi addolcisco sempre,

 

soffro di mal di veleno.

 

 

anno scolastico 2009/10

 

Intro

 

E lode ad Erato

e lode a Psidide,

andate al di là

leggendo ‘sti versi.

Ascoltate un’anima

che mai sarà pura

per voracità.

 

Ascoltate l’indulto,

vittime

gli adolescenti

della società

che da preconcetti

esclude la diversità.

Mentre fumo

ascolto

te che piangi

e fiera mandi a quel

paese

chi vera vittima

non è come te.

 

E dunque amore

non rinnegare te stessa.

E ascolta per davvero

come fai

il sussurro di giorni

stanchi ormai,

 

sei la prediletta

al di là del monte

del pudore,

della cascata illusionistica

della morale

che inghiotte

le nostre oscenità.

 

Sei splendente

tra le stelle.

Urania maggiore

ed estasiata

nell’ermetismo,

 

voglio te,

ti vuoi,

mi vuoi.

 

Eternità!

E dice Darwin

che è tutto normale,

 

il liberismo

capitalista

e il corpo spento di ragazze

stirate e di una bellezza

che puzza di falso e di plastica.

 

Per questo

dispero

e cerco tra i miei compagni

rivoluzioni

che sai.

 

Ed improvvisamente

ti dico che sei quello del tempo che fu

ma carpisco con la mente

che la tua rivolta

è già la mia.

 

Con disincanto

è satira

o sei tu satiro

ed io ninfa.

 

E ti prego

stringi le mie braccia con le tue.

 

Te quiero.

 

Il tuo saluto

si spende

come sponda

selvaggia

e voglio solo te,

 

mi respiri

come fiato

nel ricordo.

 

Ergo non dare importanza

ai ministri,

ai docenti,

agli stornelli

giustamente eretti

non pensare

agli altri,

 

nella disobbedienza

distruggi il potere

sacrale

con orfici misteri depura

il marcio istituzionale.

 

Non pensare

a ciò che vedi su face

o msn,

abbraccia

chi ti ama veramente

e guarda un essere umano

negli occhi,

 

getta alla rovina il tuo palmare,

calpestalo

e bacia la ragazza

che ti aspetta,

e vivi davvero

non solo

nel cibernetico spazio

culturale

a te destinato

come concessione,

 

sei tu che comandi

e non i politici

né il web.

 

I tuoi ricordi

sono reali,

e la tua percezione

è il vero della scienza,

l’unica verità

è creata dal tuo livello

di percezione.

 

Al limite

non ascoltare

i padroni

mascherati da agnelli

 

manda all’aria

internet

ed i cellulari,

 

abbraccia chi ti guarda

e nel disagio

non smuove

il palmare con un tocco digitale.

 

Ergo non pensare

ad altro che non sia

la verità

del tuo pensare stesso

tra i cimeli

dell’essere

ricostruisci,

ti prego tu,

adolescente

dell’epoca nostra,

cambia qualcosa,

 

ti prego plasma

una comunità sociale

dove potremmo

restare

in gruppo

in un abbraccio universale,

 

dove chi comanda

è chi è padrone di se stesso.

 

E sdraiati sull’erba

sospirando

con una ragazza,

 

ti prego abbracciala.

 

Sei tu

e tu solo

l’assoluto.

 

Settembre- primo Novembre

 

Il sussurro del mare triste

Odi il sussurro del mare

triste?

 

Non vuoi ridare sorrisi

a un volto smorto

da lacrime agrodolci

e da speranze vane,

 

dal faro lontano e muto

risponde al tuo cenno,

oramai solo etereo,

un’oscurità di silenti addii

fossilizzati su stampe col gesso

tenue.

 

Ardori tremano tra le mie mani

da anni, dimenticati

e la tua apparenza agitata

è sguardo ormai offuscato

da pensieri

estranei.

 

L’eco rimbomba in me sopito

e fluttuante smorza l’ultima voce

melodiosa

di sirene esauste.

 

Il destino ha steso il filo

della noncuranza.

 

Non vuoi ridare respiro

al mio sospiro,

tra altre nuvole alberga oggi

il tuo desio e i tuoi fuggevoli pensieri,

ma un’onda increspata

stordisce i miei ricordi,

 

sfuma sabbia tra le dita,

 

tuttavia l’isola nostra

si fa più lontana,

gli occhi lucidi al tepore

della splendente antica luna;

 

ascolto ancora il mare,

ma il dipinto divora i tuoi stessi colori

e solo l’immaginazione ti ripone

in vetta alla collina nostra dove,

mano nella mano e senza guardarci,

contemplavamo l’abisso

irraggiungibili.

 

Rara una parola

nel mio spirito in travaglio.

 

Il tuo profumo scorgo,

sei qui vicino?

 

Non vuoi tornare

ed io a capo chino

lancio un sasso

contro l’infinito gorgo

stanco.

 

Fuga

Prendiamoci per mano

e chiudendo gli occhi navighiamo

traversando correnti di mari lontani,

 

ed anche se più tardi del previsto

al fine giungeremo sulle rive

calde del nostro mondo.

 

Poi, senza remissioni,

ascolterò parlare per davvero

il tuo candido cuore

che, anche se in silenzio,

mi saprà dire cose

 

che tu non hai mai detto.

 

E sarai già brilla,

le tue parole fuoco e argento,

sole e vento

dalle corde vocali.

 

E sarai ancora più bella,

il tuo vestito dalle bordature viola,

non ti sentirai sola.

 

Dalla sera alla mattina

non avremo più paura

ed il nostro spirito più vero

darà corpo al pensiero

che, brulicando tra le rovine,

sarà più libero di quanto credi,

 

urleremo sino a tardi.

 

E poi verrà la notte

e tu sfinita cadrai sul guanciale

con una forza animale.

 

Ed io cogliendo l’attimo

carezzerò la pelle,

soffici saranno le stelle

che dai tuoi fuochi accesi

cadranno più cortesi

sul mio braccialetto.

 

Illumineremo il cielo

con un arcobaleno di diamanti

dagli zigomi striscianti

che toglieranno il vero,

il buono e il giusto

dalla nostra mente,

 

zigomi di serpente.

E, come dei bohemiens,

non ci cureremo del passato

o del futuro,

 

vivremo coscienti

solo di essere noi stessi.

 

Ma non sarà poi il giorno a svegliarci

col suo soffice e sottile filtro di luce,

sarà un repentino mutamento

della temperatura del nostro corpo.

 

Saremo ancora mano nella mano

e i baci, baci, baci

investiranno il corpo

 

come sopra come sotto.

 

Però la nostra forza tremante

cadrà sconfitta a terra.

 

Il circolo ondulatorio della testa

intorno ad un oggetto fisso,

che poi è lo stesso,

ci renderà più lenti

nei movimenti.

 

Il flusso di ricordi

sarà annebbiato da dimenticanze

a vivide alternanze.

 

Le nostre ali spezzate

saranno rinnegate

dagli altri

ma risorgeranno dal nulla.

 

E la fonte blu cobalto

stenderà sul tuo smalto

uno strano desiderio.

 

Mi hai scritto una poesia

Mi hai scritto una poesia

breve, in un lampo

l’hai però poi subito cancellata

perché avevi paura

di sprecare l’inchiostro.

Ne valeva la pena?

 

E’ rimasto sul foglio

un groviglio nero

di sogni inestricabili

e più inchiostro di quanto speravi.

 

Io ti dico, però,

che ho capito tutto lo stesso,

d’altronde, dalle mille parole

che ci siamo scambiati,

tutto era chiaro sin dall’inizio,

 

noi: due specchi riflessi.

 

Poi improvviso ed inaspettato

dal nulla s’è diffuso il silenzio

e ci siamo guardati incantati

e il mondo era ai nostri piedi.

 

Tuttavia non abbiamo mosso un dito,

abbiamo proseguito per strade diverse

il nostro cammino

e tu mi hai scritto la poesia

che hai poi cancellato.

 

Steso al chiaror di luna

Vivida

appari improvvisa in copertina

e il fuoco dei tuoi capelli

risplendeva nei miei umidi

occhi fragorosi e silenziosi

rinchiusi in teneri boccioli amorosi.

 

E un motivo poi non c’è.

 

Vivida

leggevi entusiasta dentro me

la parola mai pensata

dalla tua mente in dimensioni

d’ardore astratto sviluppato

e il sospiro era per me

e la pioggia traversa

serata estiva.

 

E poi è vero,

volevo stringerti cinta

paradisiaca,

 

e poi è vero,

volevo scalfire ogni pudore

dipingendo il tuo volto

carboncino sopra l’asfalto.

 

Vivida

sfumante eppure così decisa

spogliavi il sopruso di disilluso

canto stonato e frastornato,

smarrita scandivi scaglie di luce

che dalle mani posate appena

sul mio corpo creavano la giusta atmosfera.

 

Ed è così,

dimentico spesso di me

e distratto penso

all’infinito

irraggiungibile

puro

amore.

 

Vivida

dalla paura alla intrusione

dell’anima mia e dei foglietti

sparsi ovunque come imbanditi

a future memorie oramai sopite,

 

ti prego non dirmi che questo superbo

tuo apparente miraggio illusorio

svanirà granello al refolo fiato del vento.

 

E sì, è così.

 

Vivida

ti penso dopo qualche ora

e sento il fiato

sul vetro opaco.

 

Non svanirai se

quell’attimo inonderà l’atmosfera,

se districherà il tutto

la tua bellezza intensa.

 

Vivida.

 

Un giorno qualunque

 

Di prima mattina

sui capelli la brina

e tu ancora ad occhi chiusi.

 

Silente sei un po’ diversa,

sublima intrepida la tua apparenza,

silente sbuffo variopinto

di quest’oscuro finale

che vorrebbe, è vero,

la storia non finire,

 

ma non posso, non puoi farmi male.

 

Un giorno qualunque,

io spersa tra libri

e ricami impegnati

di spasmi grechi,

versione come bolle di sapone,

tu che mi aiuti dici,

 

traduci come Pascoli

tra le tamerici.

 

Ti prego guardami piccolo

mio amore australe,

l’entusiasmo può sbrinare,

ho tanta voglia di stringerti ancora,

come tra le pagine soffuse e colorate

del tuo diario,

quelle ancora un poco perse,

 

anno scolastico 2009/10

rimando

2002/2003

 

varco.

 

lo sai bene che anche se scompaio

ne soffrirai,

il mondo è riluttante

con l’universo,

non vuol lasciarmi andare,

 

io stupido, inutile, scarto del genere umano

tu mi puoi salvare

nel mio amore,

il mio stesso amore

ti può guidare.

 

Ti prego dimmi che resterai,

stasera inizierebbe l’estate,

ti prego dimmi che mi bacerai,

fuggiremo dalla vita dura

di questa nostra eccentrica dittatura.

 

Ci rivediamo in sordina,

sembra smorto il sentimento,

ti voglio adorare,

prepara gli altari

dei nostri pensieri,

strizzando l’occhio ridammi

in un soffio la voglia di continuare,

il mio cuore smorto solo tu puoi saziare,

 

è quasi inverno.

 

Dammi pure nell’ultimo palpito

la risposta,

ti prego fallo in fretta,

è vero abbiamo riacceso

il fuoco della vita,

 

è vero e non lo puoi scordare,

ma se anche tu fuggirai

lontana non riuscirò la tua ciocca

ad acciuffare.

 

Dai dimmi di sì,

dai resta con me.

 

Cara se mi cancelli

tornerò sperso

tra le pagine dei tuoi sogni…

 

ti prego dimmi di restare.

 

La cartellina, quella viola

 

Un pensiero assorto

come fosse ultimo respiro

e tu ansimi tra gli odori,

eppure tu non ti fai sentire,

 

una settimana.

 

Forse dovrei chiamarti,

ricordo noi insieme

a tarda sera.

 

Ti desidero, sei lontano.

 

Ti prego torna,

amore che trova sé stesso

nelle grandi distanza,

 

i tuoi segreti mentre

mi aspetti all’angolo

della strada, la nostra.

 

Dove sei?

Ti vorrei qui per ripristinare

il nostro flusso astrale,

e dimmi la verità,

se mi ami o mi hai mai amato.

 

È un modo scomposto

e allora tu non mi vuoi più.

 

Dove sei?

Amore che respiri

dei miei palpiti nascosti.

 

Non sei più fuori la villa

a scrivermi parole

che non posso dire,

 

non sei più lì

a rischiare di morire

nell’amplesso,

 

amore mio d’età lontana,

noi contro ogni convenzione.

 

Amore limpido,

puro,

sincero,

 

adesso guardami

e dimmi se mi hai mai amato

da quella sera estiva

quando contavamo le stelle

e tu fissavi il mio profilo,

 

riportato uguale

al mare di tarda mattina,

 

impresso su cartoncino

e riposto il tuo foglio

che conservo ancora

nella cartellina,

 

quella viola.

 

Distesa nuda

Porta imbandita

estiva.

Attacco ossessivo,

prova dell’affannato

respiro.

 

Musica,

ripetizione.

 

Così

passò tra alti e bassi

l’estroso connubio

di cui sai,

 

voilà,

serpente e nuvola,

 

pistola

puntata in alto

e via,

così,

 

la festa il giovedì,

l’attesa

si fa più affannata,

 

l’usato

promosso a nono

grado,

 

voilà,

frammenti di arroganze,

 

sei già

spostata a baricentro inverso,

asse del pathos,

 

di là,

sei sempre e comunque

unica.

 

Poi dici

è tardi già oggi,

domani

sentirò la libertà,

 

le vene sfiorano

riposi

e dormiveglia,

 

un tempo era stupendo

il fruscio del disco

sulla punta metallica.

 

Hai ragione è nulla

il melodramma

inscenato a tratti

dall’anima,

pietà

implora la tazzina da tè,

 

il canto di upupe,

non svegliarci, che volti giulivi,

sbarazzini,

freschi come vendemmie

 

massimo disinteresse

e savoir faire.

 

È così,

ripetizione,

ciò che ormai

non c’è,

 

siga consumata

nella vendetta

degli ok

mossi a pietà.

 

Giungerà

una mistica ascesa triste,

fuori giudizi cosmici

adagiati a scuse di potere

plateali.

 

Distesa nuda

dicevi sì,

ora cosa dirai?

 

Arrangiamento modale

Stai pensando a me

 

fisso lo sguardo

sopra il mio banco,

 

sopra il pudore

delle mie guance

immensamente sperse nel candore

e dici che

l’erba del parco,

il tuo fumetto,

la storia e l’intreccio

sono da buttare,

 

c’è il ritmico accordo

materiale

 

domani a scuola,

è proprio così,

torniamo al bar,

 

tra piante di

petali aggrinziti,

foglie cadute,

briciole sempreverdi

e un po’ scomposte.

 

Pensiero mio,

sei strano sai,

stasera è autunno,

il tuo sogno è il domani?

 

Ma oggi non ci sei!

 

Oggi è diverso,

 

oggi è quasi lo stesso.

 

Due vale due,

nulla lontano,

fontana eraclitea, spoglia mortale,

stracci il giornale.

 

Il telefono e due gettoni,

il pianto atroce,

schede magnetiche,

le polveriere,

le nostre ascese,

 

sono circa le sei.

E non ci sei,

 

e siamo qui.

 

Polvere d’angelo

e nitrato

sul carbonato

specchio alla rinfusa,

 

sistemi i capelli,

ti scardini il trucco,

sarebbe meglio

se stessi piangendo

ma è solo l’umido

del sogno che

sbriciola in me,

sbriciola in noi.

 

Che fine hai fatto?

È da un minuto che ti sto cercando!

 

Domani mattina è l’alba,

ci hai mai pensato?

 

E dici che

sono diversa,

 

l’angelo nel

plenilunio

sposta gli accordi,

i segni e te,

 

sarai domani

ciò che nega sé

se cerchi ancora me.

 

E sei già qua,

e sei proprio tu,

dipinta di spille,

sorriso ammiccante.

 

Sei proprio tu,

dimmi perché,

dammi

le risposte ai quesiti

universali.

 

Arabeggio armeggio,

astratto volteggio,

figure emergono

alle pareti

ed agli scarabocchi

su fogli lividi,

su lucidi esosi

esseni della new age

 

o fantasmagorici

fantascientifici

degli androidi innamorati,

spilla ancora acqua dalla fontana

sin al crinale

dell’ago teologico.

 

Notte di novembre

 

Le tre di notte

io sveglia

dopo il ritorno,

 

un angelo oscuro

guarda me,

 

i miei occhi scintillano

di male.

 

Sembra ci sia ancora alcol ed erba

in me,

 

sembra voglia scoppiare.

 

Sembra ci sia ancora tu.

 

Amnesia totale.

 

I miei sogni sfumano

nel gorgheggio

da bipolare, non dormo,

 

maniaca di me stessa,

sono onorata agli altari,

 

il mio demonio dice sì,

viva Baal,

 

viva la corte

di mosche

 

e Beelzebù.

 

Dolce treep,

Lsd,

popper,

benzedrina,

 

perdo l’equilibrio,

benzodiazepina.

 

Il tuo volto

ed il tuo sguardo

sono su di me,

 

i miei poster si animano

e il demoniaco promana,

 

si impone.

 

Possiedimi!

 

Possiedimi essenza malata,

 

possiedimi eterna malattia,

 

possiedimi spola londinese,

 

possiedimi riverbero e schifio

pomiglianese.

 

Maretta

 

E’ grave

 

L’equilibrio vibra

e nell’aria scivola,

l’area intorno delimitata,

pantere e mastini,

 

il resto resta appeso

allo striscione.

 

La verità ridà

pazienza,

un po’ stonata

 

piazza Garibaldi,

corteo da mille forme,

 

figure, post,

graffiti all’angolo,

 

cioè, ti prego!

 

È grave!

 

Il rumore si confonde

con le onde a intermittenza

della plastica sfiorata

dalla rivoluzione intasata,

 

noi di seconda

classico all’alba della speranza

senza conclusioni designate

in confusioni obliterate,

 

controlli da rifare,

piegazzata pieguzza l’anta

e schiusa nella macchinetta

del welfare da respiro,

 

Gheddafi, il bacio,

il rito abissino.

 

È sentimento,

sentite quante grida

inebriano il palato,

 

brivido dorsale,

eppure l’esigenza

è proprio quella di frenare

tafferugli da imbianchini,

 

marca ancor più forte

il manganello come vettore

di un potere che si impone.

 

E destiamoci

da pallidi dormienti,

 

oltre le barricate,

non ci potete fermare!

 

Dopotutto siamo ancora qui,

ancora vivi,

 

e dopotutto Napoli è bella

anche di sera.

 

Il nostro desiderio

è un cono a due piazze

steso in rotazione

petulante tra le tazze,

 

caffè, gelato,

inviluppo deludente

 

progressione del deficiente

 

rimato in proiezione,

aule come sale,

 

cinema da universitari

sempre pullulanti

 

e sempre più distanti.

 

Ed io stamattina con la testa,

guarda,

proprio non ci sto,

 

non sarà una novità,

ma anche senza sfiorire,

come dici,

 

mi sento svenire.

 

L’occupazione

Saltelli traversando i banchi,

sulla vetta

della flotta antica

intrisa Alcesti e

l’Arcadia,

 

sette contro Tebe,

 

bianco latte,

 

profughi

eretti a spogli cadetti,

 

Rane e topi,

 

da Aristofane

alla melodiosa

astronomia leopardiana.

 

Passi ancora

più accorti,

attenti,

passi lenti.

 

Eppure sorge

dalle nebbie

del fumo,

un po’ Cusano,

un po’ l’Atlantide nuova.

 

Il pensiero avverso è strano

Giano

delle impalcature,

 

le persiane chiuse

e stranamente femminili

 

come le fessure,

lotte arcaiche, lo ridico,

punto accesa contro il nulla

il dito.

 

E continuo

con le allegorie,

pensando all’essere

o all’apparire,

storico a pugni

contro l’ambasciatore fiorentino,

 

sfumature dotte quanto

ignoranti,

per espressioni magnetiche

Prometeo si rode il fegato

incatenato,

 

peripli i miei sforzi

diagonali.

 

Il pensiero avverso

a mo’ di capretto

è sacrificato

dalla somma

dell’infausto risultato

e la nebbia sale,

 

lotta ritemprata

dalle voltaiche espressioni

giulive, sono ancora frastuoni

i suoni,

 

due in disparte si scambiano

effusioni.

 

Tuttavia chi trafigge

distrugge anche se stesso

e il senso ambiguo

è un rimando

al canto antico.

 

E nonostante

il flauto di Saffo

amore perduto

dell’altra carminia

 

da Sallustio

a Catilina.

 

E l’Ego sale,

pensiamo:

 

tutto si può fare!

 

Comunque è veramente

fantastico

dimenticare del Fato il vero

affare,

 

senza scusarsi volan carte,

le matite infrangibili

sulle lavagne

 

in fischio dorsale

fastidioso

 

Masaccio ad esempio

come mosca ritratta.

 

In tal modo se ne hai voglia

puoi far venir il tramonto

alle cinque

e immaginarti in spiaggia

scolastica

d’estiva dicembrina.

 

Pensi a questo punto,

faccio un paio di tiri

 

e la rivolta avversa

è ancora più lontana,

 

si parla per parlare

della culturale

rimonta rivoltosa

del futuro,

 

prossimo

all’incendio venturo.

 

Ecco in media res

ciò che ti affligge,

mi affligge davvero,

 

la colonna semplice

ed achea

 

parossismo dell’esperienza

orfica, ermetica

e bendata,

 

andando in confusione

tra l’aedo, l’oscuro ed il messaggero.

 

E ora la vista si appanna

non so se per il fumo più denso

o per artefici psichedelici,

le palpebre sfiorano,

 

quattro di loro ancora

a parlare,

 

la noia mi abbraccia semplice, mortale.

 

Mi sembra debba sbattere più forte

l’anta dalle piegature

per assurgere scomposta a reale

interno godimento da saluto

militare.

 

Sembra che ormai risvengo,

troppa rivoluzione

è come amore,

da sindrome del visitatore

fiorentino (e diversamente nuovamente

dico).

 

Sembra che veda allucinata

le Erinni che mi inforcano

dal piede alla giuntura verticale.

 

Ma come ascesa a terzo canto l’immago

trasla in moto orizzontale,

l’aula scompare, le urla e il vocio

verticale,

dalla folla si dileguano.

E tu mi stringi le mani,

 

loro a lato fanno baccano,

l’intimità umida sfocia in un

bacio sconosciuto.

 

Così mi appare

definitivo

e chiaro tutto,

 

mi abbracci più forte

mio magico

romantico

cavaliere

di amorosa futura

ventura.

 

Vacanze natalizie

 

Ricordi nostalgici alla vigilia

Ecco il primo giorno,

riposo tra le tende addobbate,

 

presepi vivi

di atmosfere

da perdenti felici.

 

Allegri i turisti indigeni

e strani,

sempre visti.

 

Poi mi assale il tedio,

la giornata è assedio,

sempre stesse battute,

sempre auguri,

sempre bacetti,

sempre facce di bronzo,

 

enigmatica sfinge

la neve.

 

E ritorna il ricordo,

nel tramonto di quel pomeriggio

a scuola barricata,

 

il bacio dato a collo di bottiglia,

sembrava perso il mio padrone,

 

tre anni maggiore.

 

Ma sembra sia passato un anno.

E allora era bello,

tutto pronto,

 

tutto perfetto.

 

Ok, ma adesso?

Spauracchi di cera,

andate a quel paese,

tetti a spiovente e regali.

 

Ecco, improvviso un pensiero,

accettare quell’invito,

 

sognare di baciarti allertata,

potrei fingere di uscire per locali

la notte del 31,

 

nessuno lo potrà mai sospettare.

 

E a letto poi,

ti prego chiederò:

che devo fare?

 

Urlerò piangendo!

 

Poi passerà anche quello.

 

E poi, cosa resterà?

 

Vaneggi

tra fogli spersi,

 

vaneggi tra i miei arpeggi

amore mio,

 

mio primo amore.

 

Passerebbe tempo,

domani è Natale,

 

non ti posso ancora vedere.

 

Sei lontano,

fuori Pomigliano.

 

E ti prego,

mandami un messaggio,

 

ti prego,

sono in linea!

 

Le due meno un quarto

 

Blub, blab, bleb,

sleep, spleen,

scream,

reality, sound room,

pink mind,

sassofono, piano

ed altro,

batteria, piatto,

scacco,

basso appena appena,

slow, slower…

 

ecco entra l’ombra,

rara,

prodigio.

 

Ma è memoria allusiva

quella distensiva,

 

piedi a gambe incrociate

sulla parete viola,

ovvio lo smalto,

ovvio l’orgia strumentale,

ovvio, dai,

si sa,

 

ovvio,

c’è altro,

 

intenso

hight,

 

frastuono fastidioso,

abbassa le percussioni,

 

ok,

un altro po’,

ci siamo quasi,

sta scemando,

sclera il gruppo,

si assopisce,

 

per favore!

 

Per favore!

 

Vorrei iniziare

a pensare:

 

qual è la risposta

che regge

il mio equilibrio?

 

Sussurri:

“ guarda la luna

che si specchia nei tuoi occhi,

riflessa ricordati di me,

di un nuovo amore

passato.

Se guardi meglio

dissipano e disappaiono

fuochi innaturali,

solo una luce è lì,

in te,

fuma!

 

Non vedi le difficoltà

celate nella schiuma,

 

la solita fioccata

di colore blu.

 

Ascolta gli uccellini

che dicon sì,

 

sono giù

come te,

 

il cambiamento

è

il nostro portento,

 

se ti piace

trova una specie

di stato mentale

giusto.

 

Nelle difficoltà

afferra le mie spalle,

amore,

 

senza pensare alle differenze,

uniti nell’arcobaleno,

 

figli della luna!”

 

Sussurra più piano: “c’è lei,

è qui al telefono. eheh!

Diciamole insieme,

nono, meglio se stacchi

le casse!”

 

Fine primo Quadrimestre

Interrogazione

Ci fossero mosche

sarebbe perfetto,

 

l’individuo spappolato,

schiacciato,

su fondi piatti assurdi,

 

finestre afose

del ghiaccio polare,

 

il termosifone

a scaldare sottane

che ci fossero sarebbe peggio,

 

meglio navigare tra la grandine

dischiusa in una pioggia

di catrame oscura,

 

è tutta colpa di chi non si sa,

non si sa

se la letteratura non è mai

dignità

ma calcolo combinato

dal respiro sul collo

di questo nuovo artefatto

economico rissoso

della puerile

vigliacca sterilità

emotiva

 

o peggio da lacrimucce

a mezza bocca

che urlano scontente ad una

folla.

 

E c’è un’altra

(viaggiano intatte,

aironi

che girano muti

e ariosi

di memorie ormai tradite)

 

interrogazione

dicevo,

 

mentre sembra quasi

autodifesa

la putrida offesa

d’ignoranza

della disciplina

ormai stanca,

ormai molle

ad un palato

esausto,

 

orribile la decisione,

butto su carta

e dico

che si muore per amore,

 

la follia la devi provare

 

Ludovico è un servo,

io no,

 

io sono la pazza e ho scritto

o per lo meno capito

quello che il servetto

ha scritto sulla luna

 

perché non vado a nessuna corte

e nella luna

la mente è persa

da tempo immemore,

 

è un’istanza

scandita bene.

 

Per questo prof De Sanctis non ci pensare,

 

alle cazzate

premier, giornalisti,

interviste,

scandali e puttane

 

poi proprio non le definirei

 

chi guadagna quanto

una baldracca in quattro mesi

sono proprio loro

 

simili ad Ariosto,

 

e non lo tengo in conto

lo sconto,

 

il mercato, l’Hello Kitty

la sviolinata nostalgica,

 

la Gelmi e sesso orale

nei cessi o sulle scale.

 

E siamo così,

meretrici tutte

del web,

 

pigre assuefatte

 

e lei mi tiene in sella

come una crociata

sponsorizzata,

 

con la carne

e col sistema

furia per criptare il malcontento,

 

dell’epoca

 

che, badi bene, è la stessa.

 

Quindi lasci stare.

 

Mi lasci impazzire

davvero.

 

L’oscuro è solo

quello del fumo.

 

I veri discorsi

non sono opzionali,

 

non hanno una risposta

definitiva e chiara,

 

non sono fatti di crocette

occidentali,

 

non sono l’uso né il costume

del mantice folle

di quel consumo a scadenza.

 

Ecco, bravo, è lo stesso,

l’ho detto.

 

È inutile,

non continuiamo,

 

lei mi sembra

la persona

meno adatta

a parlare di letteratura,

 

professore torni a casa

che è tempo che non ripete

la lezione.

 

Ecco,

io resto,

senza talent show,

 

questo è quello

che insegnate

burocrati alla moda

e

ministri del non fare,

 

profeti

di un nuovo Zarathustra

digitale,

 

del mago dell’armeggio

volatile

del senso,

 

dai due re

che dir

buffoni

è troppo impegnativo.

 

Io mi dispiace

credo ad altro,

 

credo ad un abbraccio

e all’infinito

dell’amore,

 

stretta

tra le sue braccia intense

nel respiro di lui.

 

(Intermezzo immaginifico:

il sussurro nel sogno)

L’incontro

Rendi il tempo intenso

sfiorando indotta

pensieri inerpicati

un po’ come residui

dall’aria cullati

in formidabili sistemi

scaraventati,

in soffici dilemmi

riposti in confusione

dalle tue mani che disegnano

desideri e da trasparizioni

 

il senso diviene corporale.

 

E’ l’eterno che vivido mi appare

forse perché la tua presenza

riempie

intensa un vuoto nell’anima mia,

 

fosse reale sarebbe la più intensa

furente e ventosa leggiadria.

 

Vuoi parlarne?

 

Ed improvvisa sciogli

tutti i nodi della questione

in piegature disilluse

chiarificate dalla parola,

 

vittima del ricordo

pone assunti inabissati,

 

giardini e mandorli appena

nati,

 

violazioni sincere

del tuo simpatico stupore cristallino

 

potresti dire:

partiamo?

 

E così l’infinito sei tu

sulla passione svelo il mio cuore

 

nel tuo silenzio cerco il mio altrove.

 

Navighiamo

nei nostri ampollosi

residui d’assoluto

al di là dell’orizzonte

 

solcando terre sconosciute

che con un sorriso si posano?,

 

l’eremo del conflitto gesticolio

sospeso

in curvatura ellittica,

nella sua velatura vocale sale

e scende

tra papille sapore dolciastro.

 

Superiamo ogni convenzione

come occulti ultimi eroi,

ultimi folli, ultime luccicanti

rilegature,

 

nelle posizioni traverse

lo sguardo mi rinfranca.

 

Guardando me di lato

dicendo l’inverso pensavi

e capivi fraintesa gli assiomi

nel colore

affinché non ti sciupassi

e restassi il fuoco acceso

in occidente.

 

Non capisci ma lo fai,

ti scagli intorpidita

e la pagina ingiallita

sfila alla deriva.

 

Un futuro dipinto di te,

come parole fatte di sole consonanti.

 

Intendimi bene:

continua a leggere, da oggi

in te cerco ispirazione

per narrare l’influsso

delle nostre sensazioni.

 

La piegatura dell’Estrella

Sembravo stupefatto

mentre ti ascolto

e l’ombra smuoveva

smussando

la mia silente sensazione

che in veste candida

mi raddolciva.

 

Ero un po’ come in vortice

su precipizio, vertigine,

l’armatura d’amore il cielo

e le nubi

dei tuoi occhi dipinse

sbuffi soavi e attese,

 

volteggiamenti opachi

e rissosi armamentari,

 

fogli sparsi, inchiostro,

cera lacca, rimai.

 

L’assuefazione dalle tue parole

mi rendeva distratto

talora spiazzato,

 

più spesso incantato

astratto

 

e l’intromissione

in forma verbale

scindeva sillabica

a fiato gaudente.

 

Ed ecco che io

arrivavo alla fine

senza indugiare.

 

Epocali azioni,

ti porgo la mano,

 

il rumore lontano è lieto.

 

Tu sei stupenda

e l’attenzione di nuovo si smuove.

 

Mi guardi,

magari succedesse qualcosa.

 

Nel momento in cui

il sentimento

schiariva piano piano,

senza residui,

ti mirai e non ricordo

che un’immagine,

quella tua sfuggita.

 

Inebrierei i giorni mie

di te se fossi qui.

 

Magari indugi

Continuo a divagare.

 

Magari faccio sul serio,

magari scherzo,

 

ma tu sei sempre tu,

 

conosco l’ignoto

che pende dalle tue labbra

ondeggianti.

 

Forse mi pongo in assedio,

guarda mi siedo.

 

L’entusiasmo da scrittoio

lampada mai consumata,

 

traccio il tuo profilo

e sogno ad occhi aperti.

 

Magari indugi.

 

Allora un po’ mi eclisso.

 

Assorbo sul mio corpo

il tuo volto

come talismano

infinitamente sperso,

 

labirinto il tuo volto

e poi ripenso al fiore,

 

candido ardore

delle viole

in remissione.

 

Forse sorrido.

 

Come sei rimasta, fumo

nella stanza trascendentale

 

custode sei come la luna,

e forse esagero ancora.

 

Immagini desideri,

inondi ciò che hai intorno

ed al tuo incedere nascono fiori,

tappeti ornamentali,

 

piante germogliate rampicanti.

Magari esagero di più,

 

ti guardo, ma mi guarderai

tu?

 

Mi sto diramando ancora

come fossi allo specchio,

 

fantastico il tuo aspetto.

Ti penso ancora

 

il cuore batte, sei speciale,

 

aumenta il desio ora disarmato.

 

La tua essenza

Stringendola al petto

come un amuleto

si scorge il confine

assediato ed intenso

nel tuo fraseggio.

 

Quasi maestra d’orchestra

dirigi i venti,

 

sposti idee colossali

come banchetti

 

mi sussurri in falsetto

ciò che ho già detto.

 

Vivi come dea immortale

grazie alla bellezza

cortese, carina,

vibrazione sei del mio

sentimento alterno.

 

Ed è indipendente

può essere estate, novembre,

notte o primavera,

 

resti sincera.

 

Armeggi i tuoi capelli,

delizioso il tuo labbro

dell’amaro estirpa la radice

e lezioso è dell’infinito

matrice.

 

E sei come assorta,

mi scordi con niente.

 

Senza parlare enunci come

da un volume

mondi paralleli,

 

mi scarti e mi sollevi

l’entroterra del meandro

ultimo del mio sentiero,

 

ancora più bella assapori

ciò che resta del tuo implicito

clamore.

 

Ancori l’essenziale

e dalla storia snuclei

come inestricabile pellicola

il vero

e ciò che frulla nel pensiero,

precoce avventista della rima

trista.

 

Ergo scrivi ancora,

sporcami il dito

d’inchiostro.

 

דָּנִיֵּאל

 

Il tuo nome

potrei declinarlo

 

lo penso invece soltanto

e rido, tu non lo sai.

 

Non sei scoperta

ma levigata, ricamata

e baciata da te stessa.

 

Assurdo!

 

Ecco i tuoi occhi,

 

santiddio li adoro!

 

Dicendo il tuo nome

si scioglie in migrazione

la rondine verso oriente.

 

Sorgi come il sole,

 

sei un amore.

 

Se dico il tuo nome coniugo il tutto

in uno.

 

E forse ammirando

te stessa,

intima atmosfera

del creato ragione,

del mio fiato illusione

 

e mai stanca mia passione.

 

Credo sia questo lo scopo

della tua repentina apparenza.

 

Entusiasmata dalle note

La tua mano accarezza

ogni mia certezza

distruggendo assunti canonici

e quasi non vista

ti destreggi.

 

Tu sei come sei,

mi racconti di te

ancora,

 

simpatica ragazzina

muovi la lingua

e sciorina parole

che si avvicinano

a una quinta musicale

con tratteggi da crinale

della realtà,

 

quella che mi appare più certa.

 

Ecco come sei:

invariabile eccezione,

il tuo timbro di voce

risuona soave

come melodia, brivido dalla

schiena che mi smuove

le palpebre

e sfinisce,

 

voglio ascoltarti ancora!

 

Cara ricordati

come fossimo soli

senza delusioni

 

né parole

altre che non siano

amore, dolcezza e tenerezza.

 

Simpatica,

sei tanto simpatica,

leggi fingendo nella mente

come fossi accerchiata

da un manipolo di briganti

e paladini fumanti.

 

Ah! Sì! Piccola bestiola

 

dipinte le dita,

lo smalto

e come dicevo

penso ad altro.

 

L’impronta del tuo corpo

nell’assoluto,

l’espresso, il candore

dell’intrecciato discorso

dal senso al capello.

 

Dici, c’ero, lo so anch’io

e come in giro per

il mondo

ti posi su un fiore

entusiasmata dalle note.

 

Il ballo dello sguardo

Fu un attimo e una scossa

si impose

pallida e splendente

come astuta creatura

innocente

nella meditazione

che evidenziava

attimi, minutini, secondi,

risvolti temporali.

 

Ed il tuo sguardo un po’

mi abbandonava

un po’ si celava.

 

Ciò a dimostrazione

della necessità dell’essere

oltre ogni sostanza

 

si manifesta la tua presenza

velata d’apparenza

e la parola è di nuovo muta.

 

Immagina un po’ una danza

o magari un viaggio

e contempla te stessa,

 

io facendolo

quasi mi innamoro

 

e non è mica poco!

 

E torna per un istante

la sublime spuma marina

genealogica di te stessa.

 

E con l’amore si dimentica

ogni cosa che non sia

verità.

 

I sogni sono l’unico limite

al di là di sé,

 

resti in bilico.

 

Epilogo onirico (ovvero il futuro arriverà presto)

Una parola,

un gesto,

una condizione,

una delusione,

niente da rimpiangere.

 

È

il refrigerio di te stessa

cui ambisco,

 

quando canto in silenzio,

quando mento,

quando sono lo stesso

di prima,

 

quando sogno in sordina.

 

Ecco il vero:

l’ho deciso

era tempo

che non guardavo con

questi occhi.

 

E sarò anche precipitoso

ma ti penso spesso,

 

i miei pensieri

volano sinceri

mentre il rimasuglio

di me è in escandescenza

sbatacchiato

energia e magnetica

affinità mi invade

 

come spiriti lontani

eppure in serie legati,

 

irraggiungibili

ma tanto vicini.

 

Nel momento in cui mi rivedrai

nelle sensazioni

vedrò come disincagliato

il tuo profumo,

 

nel momento in cui ti incontrerò

di nuovo.

 

Tendimi, te lo ripeto

la mano.

 

Il futuro

arriverà presto.

 

 

Febbraio

Alla rinfusa, dopo esser uscita con te, stasera, su un muretto ancora allucinata, pensieri sparsi.

Piano nel silenzio si ascolta

il mio lamento.

 

Sembra familiare,

un gioco già fatto,

 

è il respiro intenso del delirio

inaudito

e non mio

 

ma della ridicola

gente che passa attorno

ai miei residui umani

e alle bottiglie

di

vodka, jack, tennens,

 

alle cartine consumate

degli spini,

 

alla paroxetina

e al tepore

della sera,

 

voglio restare,

ancora qui,

 

anche senza te

a nutrirmi di te.

 

E tutti i signorini

si esaltano

nel criticarti,

 

nello sparare sentenze

a noi,

che credono alterati,

ma vibriamo sulle melodie

dell’amore,

 

tutto qui,

bigotti avete dimenticato

la verità,

 

perso la via.

 

Pazzi!

 

A volte, è vero,

vago tra la gente

indifferente,

 

tanti auguri,

sono la buffona del paese,

 

voi siete

solo quello che immaginate

vaghi e strani

ma bigotti,

 

voi siete

stanchi

e vecchi dal principio,

 

soddisfatti

della vostra mediocrità

borghese,

 

ipocrita,

 

giudicante,

 

screditante,

 

criticante.

 

Io amo solo chi è come me,

 

amo chi pensa,

 

chi respira,

 

chi vive,

 

amo te,

 

le tue forme

geometricamente musicali.

 

E questo basta

già.

 

Occultista nichilista della pietà

Seguendo ancora col passo

il percorso

dei tuoi indumenti.

 

Postazione conosciuta:

 

sette di sera

dell’inverno chimera.

 

Credimi, mi dici,

 

sei stupenda

aggrovigliata e attorcigliata

tutta sciolta

nella furia,

 

brillante d’avventura.

 

Se vuoi avvicinami,

ti accendo la siga,

 

continui.

 

Dimmi di te,

ma io non ti rispondo già più,

 

stesa l’anima

fin lassù

 

nel giardino delle esperidi

marcio e spoglio,

come un cesso

il paradiso.

 

Tu mi vuoi,

dormi già,

 

siamo assiepati

subito avvinghiati.

 

Facciamoci del male!

 

Gridando insieme

non si può spezzare

 

(e questo è il nostro

segreto),

 

esausti questo inverno

saremo l’infinito

e il per sempre giusto

 

il tempo perverso,

 

quindici minuti,

vai di fretta!

 

Come ti chiami

e come mi chiamo

non lo saprai,

 

sapremo mai.

 

Ma mi brucia il fiato

nell’ardire,

 

scaldami e respira

a retrogusto

di sigaretta alla vaniglia.

 

L’hai già fatto?

 

Quasi mai.

 

Lascia fare,

ti ho mentita

 

(almeno credo).

 

Goccia di sangue

macchia il polso

già incensato

e blu d’inchiostro.

 

Non pensiamo più,

voglio venire

insieme a te,

 

adesso, adesso,

ma senza finire

mai,

 

in eterno orgasmo estatico

dialettico.

 

Si è fatto tardi

ti ricopri

e mi riallacci,

 

non siamo nudi,

 

solo poche vecchie intimità.

 

Credi a me faccia piacere,

piacere sempre passato,

 

comunque va bene lo stesso,

quasi quindici minuti

avrei continuato

ciò che facevo

un quarto d’ora fa.

 

Occultista nichilista

della pietà.

 

Dark dance

under the grin of the stars

Mantice odoroso della notte,

venatura sublime e scalza

di verbi corrotti

dallo sguardo.

 

E’ un attimo e la tua immagine

riflessa di traverso

su carta lucida e sdrucciolata

del blunotte tempestoso

incute gaudio metilenico,

 

somma gloria.

 

Quando il pallore selenico

della pelle, del volto,

degli zigomi arguti arcate

tendenti ad infiniti rimandi struggenti

t’ invade, godo, godo e lo spirito

mio trova ristoro

 

perso ad ammirare le tue labbra

inumidite dall’assenzio.

 

E di sbieco continuo,

dai tuoi capelli impressi su velo

osservo la storia criptica

di cavalieri al passo con i destrieri

senza sella

in un parapiglia di novelle maledette

da un mistico

silenzio.

 

E anche tu continui

fissa, ossessionata dal candido

intrepido avvenire

a presagire,

 

a oltraggiare

 

a non arrenderti al tramonto

 

a non ritrarti all’alba.

E l’aurora vince

 

e il tramonto degli idoli

ci accompagna fluttuanti

 

(stretta sei tra le tue stesse

braccia)

 

tra le strade

o sul sentiero

tracciato dai

folli avventori anacronistici

del luccicante sogno:

 

presagio dell’oscuro.

 

Emerge un foglio, la tua scrittura

Nella polvere alzata

da un vento

ed una pioggia appena accennata

emerge un foglio,

la tua scrittura,

 

forse no, ma mi piace pensarlo,

 

mi ricorda l’ombra di un passato,

io fanciulla in transizione

e quel ragazzo buffo

e un po’ imbranato come te,

 

secondo me

se continuiamo saremo estasiati

dall’incubo che vedremo.

 

Alzi il capo

in senso negativo

ma allusivamente

eludi il discorso

per tenermi ancora

tra le tue braccia,

 

ma mio caro

persino il nostro parere,

il nostro sentire,

il nostro ardire,

le nostre conquiste

e la nostra crescita intellettuale

vivremo male,

 

fossilizzati nel domandarci

se siamo noi due

gli esseri più importanti.

 

E forse sarai

il pazzo che dondola

un po’ qui e un po’ là

 

e il tuo verbo sarà

a metà di alcune canzoni,

 

sarà un rimando eterno

al nostro tormento

quella musica

che accenni appena appena alla

chitarra

 

e i musicisti allibiti

ad libitum

sussurreranno frammenti della nostra vita,

 

io e te,

 

eroi immortali,

 

io e te,

 

eroi

indeclinabili.

 

Ed io come te impazzirò

negli anni,

per sempre ti cercherò.

 

Non ti credo,

figlio di Hermes

 

mi seduci romantico

e decadente

 

ma smarrita se crederti

ti dico, non so.

 

Credimi amore,

forse, e già adesso,

impazzirò.

 

In fase maniacale non dormirò.

 

Meglio finirla qui?

 

Signore dei mie anelli

sono pazza perduta di te,

 

come Angelica,

furbo o astuto

menagramo

della filosofia

occidentale

imbarbarita.

 

Ma noi siamo

qui.

 

E adesso

sei il mio patatoso,

la mia droga

e il mio pazzo preferito,

 

il tuo sorriso

è

il profilo disarmante gotico

o l’ingresso di una città,

un ponte vertiginoso

 

o il flusso di un fiume

arioso,

 

la corrente del mare

e il mare stesso all’imbrunire,

 

d’inverno come lo sogno

da tempo.

 

Io impazzirò

pensando alla tua follia,

 

vorrei averti qui.

 

E in silenzio sarai la ragione

della mia vita,

 

sarai tu Nietzsche sperso,

pazzo a Torino

mentre tra le tue braccia

sbrino.

 

Ti penso avvinghiata tra le coperte

Come sto?

 

Ti penso avvinghiata tra le coperte,

notte senza te,

 

il tuo respiro è vivissimo,

vorrei fumare una pall mall.

 

Eccoti,

amore mio,

ti cercavo,

 

insieme scarabocchiavamo,

 

tu dicevi

arte astratta.

 

Sto capendo di amarti,

un po’ come amnesia mi entri dentro,

e non cercano altro le vene.

 

Vedi quando sono a casa

penso solo e intensamente

a te e alle tue brame d’assoluto,

 

ai tuoi graffi che conservo

intatti sulla pelle.

 

Va tutto bene,

tranquillo,

 

ti scrivo su face,

ma voglio sangria,

 

nel vento

voglio stringerti.

 

Voglio

ancora,

le tue mani

da druido nichilista.

 

Credo che voglia ubriacarmi

delle tue parole.

 

Quando ti guardo

penso a

la canzone, quella che sai.

 

E tu

mi fai

rigenerare.

 

La tristezza svanisce,

te lo dico,

 

ti amo.

 

Vedi,

se non ci sei

non riesco manco a scrivere.

 

Vorrei che

la tua verità

sia mia.

 

Ti voglio amore,

 

le tue converse

come

calzari aerei,

vibrano

nell’aere

 

e se non so volare

come te,

ti prego,

insegnami.

 

Memento mori ritmico

 

L’alcol

ti apre la mente

deprimendo sovrastrutture

protettive,

impalcature,

fatti male!

 

Memento mori

ritmico,

 

ascolta il suono

del ticchettio.

 

Porgimi il bicchiere

in differita,

 

è lontano, non ci arrivo,

 

attraverso l’alba dei tuoi sogni

e in un secondo cado a terra,

 

anzi barcollo.

 

È puro il sentimento,

l’hai contrastato,

 

io mi sono persa nei meandri

del passato.

 

La verità alberga dove c’è

follia intrepida

e ripetizione

artistica o esistenziale

ossessiva della parola,

 

mantra,

taranta,

succhia il veleno

dalla pianta,

 

un po’ cura,

troppo uccide,

 

non mi serve una cura,

non mi serve manco di morire.

 

Guardo le stelle.

 

Siamo al chiuso,

 

nel garage la vodka

sa di mela cotta,

 

ha lo stesso effetto,

forse solo corretto

il comportamento,

 

un po’ più allegra, spiga di frumento,

comunque sul sapore,

ti sbagli,

 

scendi dalla poltrona,

scleri da due ore.

 

Batti il tempo!

 

Canto

sono entusiasta

di morire ogni istante

intensamente.

 

Un secondo di

annullamento

serve e mica poco.

 

Voglia di trinciare

le vene.

 

Ah si!!!

muoviti,

ritmo tribale,

profumo deluso,

se non bevi e non ti muovi,

ci congeliamo

 

vittime

del gelo padrone

del nostro cobalto.

 

Morire è stupendo

tra le tue braccia.

 

Da eroi del nulla

e parassiti del tempo

e del senso,

 

vi distruggeremo

con la nostra

stupenda incoerenza,

 

coi vostri orripilanti

giochi musicali,

 

gusti di merda

manco commerciale.

 

Primavera

 

Nel bosco dei grilli

 

Stesi vicini

siamo così per trasalire,

tutto il tuo amore

è l’unica legge nel mio cuore,

 

queste effusioni

sono come spedizioni

in solitario

intorno al globo,

 

mare perverso

dell’invito fumante

di botole del sentimento

che verso nuovi mondi

ci condurranno

rompendo ogni frastuono

con fragore silenzioso.

 

Non dire

neanche a me

il segreto che ci illumina

e che in bocca nel sussulto

immenso soffocherà

lasciando solo trasparire

il ronzio del movimento

 

e l’eco di libertà.

 

Ti amo

anche dovessimo

stazionare

al sole quaranta ore,

 

vagare nel mare

due lustri

di appunti,

 

ti stai confondendo!

 

Ma io sono la

tua Regina

e ho già in mente

cosa comandare,

 

le armate risplendenti

sul luccichio delle ortensie

 

mai sciupare.

I miei ordini

provengono dal tuo potere.

 

Ed io sono io

e tu sei me.

 

Mi amerai,

sai perché?

 

Perché sei

ciò che di vero

c’è in me,

 

tutte le mie parole

prendono forma

e l’assurdo è già reale.

 

Il canto dei folletti,

mi vestono a festa

 

le fatine

sono allucinate

come chi le insegue

 

e poi si ferma stanco

sotto un platano

ed è tranquillo

persino l’abisso

trasformato dal vento leggiadro,

 

è tutta una ghirlanda di sapori,

un tripudio di odori

 

e su una tavolozza

resta inenarrabile il colore.

 

E tu sei

quello che dici.

 

Nell’infinito sul petalo

grezzo

 

dici, sono come Alice,

e come la ragazza stordita

allargo le braccia

masticando i fiorellini,

quelli saporiti,

 

mi sento la tua principessa,

è giglio il velo

e turbine la resistenza.

 

Foglioline

tinte sul mio vestito.

 

Ti credo

perché

sei sempre più vicino

al mio mondo,

 

mi credi

perché ciò che dici

è vicino a ciò che penso,

 

stesi allunghiamo reciproche

ancora le nostre mani

perché più ti stringo

più ti sento mio.

 

La fonte del respiro

Schizzi fugaci

tra i tuoi occhi,

le mie spalle,

il mio sorriso

per te cos’è?

 

Sei fuggito tra le panchine

poi hai accordato

il tuo fiato corto

all’angolo del viadotto

ed il tuo corpo

più che contro i filistei

è da messaggero

che trasmuta tra

e trapassa le

colonne dell’umano

limite,

 

del confine audace

dell’umana ragione

 

ed io ti sento da qui,

dalla sorgente pura

del logos che mi dà

esperienza e libertà,

 

i fiumi già li sai,

sono quelli del principio,

 

immersa nel latte

e nel miele

 

ti percepisco

così, tutta nuda

 

e ti rivedo

in controluce,

 

tu sei

il mio primo ed unico amore,

 

sei proprio tu.

 

E intanto mi assopisco,

quasi vorrei

bagnarti ancora un po’,

 

inumidirti ed abbandonarmi

al tuo corpo

che mi protegge dalla luce

talora accecante.

 

Sei il mio angelo,

il sospiro che anch’io

ho sognato

 

e il potere

che ho sfidato

 

come e con te,

 

potere

così ardente

che non è verità

ma solo

aspra sottomissione,

 

illusione.

 

Il tuo sorriso

è traslato sul viso,

il mio.

 

Ed io esisto

e sono

solo perché

ho incontrato te,

 

tu sei

il mio respiro.

 

Che vita vivrei

accanto a te,

solo aizzando

i più bei fiori

che cogli per me!

 

Ammainiamo le vele,

mi sono innamorata,

 

se non mi baci

morrò.

 

Un soffio di vento

ti rende più vicino,

 

l’amore è così

è il sentirsi,

annusarsi,

toccarsi,

tastarsi,

sciuparsi,

consumarsi

come fuoco

alle ninfe

inestinguibile.

 

E tu

mi fai tremare

mentre parli

sottovoce.

 

Tutta eleusina in classe

 

Ave,

tutta nuda

vorrei mostrarmi

per onorarti

mattina

di primavera.

 

Sia sola, sia con voi,

sia con lui.

 

È la libertà.

 

Ave

al leprotto,

alla luna crescente,

dai, compagni,

stringiamoci

intorno

alla rosa

e balliamo

come quando

qualcosa

in silenzio sull’erba fresca

si posa.

 

È la verità.

 

Vai,

andiamo così,

approfittiamo della

confusione

per dipingere

alle spalle

del disciplinatore

la voglia di amore.

 

Dai,

tutti insiemi,

 

dai.

 

È la frescura.

 

E c’è un raggio di sole

che mi scopre

l’avambraccio

seduttivo

 

e del tuo profilo

ambasciatore.

 

Forza amici.

 

È la semplicità.

 

Ave,

i nostri giorni,

 

tutti insieme,

sempre tutti

tra le mani

e mai nessuno

solo,

 

noi,

tutti insieme.

 

È la nostra età.

 

(sarebbe bello conservarvi

così).

 

Guardiamo verso l’est,

innamoriamoci dell’assoluto,

 

siamo nel giardino

di Epicuro.

 

Pan a tutto fiato

guida le ninfe

e leggere si

intonano

esaustive

liberate dalla corrente

diagonale.

 

È l’amore.

 

Canzone

va tra le strade,

i vicoli

e gli incroci a che assorbono

la nostra anima

 

se continuiamo col flauto

e con la lira,

tutto

il paese,

il mondo,

l’universo

saprà che siamo immortali.

 

È la nostra vita.

 

Maggio

Pioggia riflessa al sole

In estasi io la guardavo,

sembrava piovesse fuoco

che in scintille scompariva,

pioggia riflessa al sole

 

Magici sogni leziosi

 

Tra le quattro e le sei

del mattino,

appaiono vividi talora

i magici sogni più leziosi

come fiori germogliati asciutti.

 

Se poi è maggio ciò

è stupendo,

 

percorre all’inverso

il suo cammino il tempo.

 

E appari così,

di traverso.

 

Ultimo giorno di scuola

L’ora batteva

distratta sul muro,

disegni arronzati,

i nostri per sempre erano intrecciati

col pennarello,

 

quello tuo viola.

 

Eri così dolce,

le tue parole

ricalcavano nel mio cuore

la storia del mondo

e davvero mi sentivo

importante,

l’unica,

la più presente,

la ragione dell’esistenza

dell’intero universo.

 

Ero davvero estasiata

e per questo

scrivo in ricordo

di questa giornata al passato.

 

E mi stringevi,

mai avrei immaginato

fosse la fine,

eppure

da subito capii

che mai avrei provato

un sentimento più profondo,

 

mai

sarei stata la luna,

 

mai più la penombra d’oscuro

 

e celava il mio cuore

la mia solitudine,

 

ti prego ora

dammi ancora un motivo

per vivere

e per sconfiggere i mostri del nostro presente.

 

Ti prego

non voglio restare

mai più

coi miei castelli di sabbia,

la rabbia,

 

voglio ancora te.

 

Ti prego

sono ancora

la tua fanciulla,

 

la tua fanciulla

che danza su specchi

al riflesso delle stelle.

 

Quando

De Sanctis estasiato e la famiglia

minacciavano a dito sospeso

di farci fuori,

dicendo entusiasti

 

la vostra non è cultura,

 

voi siete dei pazzi.

 

A quei tempi,

l’ultimo giorno di scuola,

scalfivo il mio cuore

silente tra le tue braccia,

 

tu vagabondo squattrinato

 

poeta dei sobborghi

 

che invece di piangere

mi osserva

e mi dà speranza,

 

proprio tu

non affondare,

 

non precipitare

 

non mi abbandonare.

 

(A volte,

ed era stupendo,

mi chiamavi

piccina).

 

Allo

squillo

rivoltoso

la cattedra fissa

e l’impiego

mandammo a puttane.

 

E venne,

subito,

sera.

 

Noi sulla spiaggia.

 

Volevo stringerti per sempre.

 

Ti baciavo

stropicciata

tra la sabbia

ed era la notte

più bella

della mia vita,

 

per quest’istante

e quest’anno

la mia solitudine

fu sublimata,

 

e non ero,

non fui,

 

spersa.

 

 

Attacco Antico (se c’è una conclusione è questa)

 

Assolo ritmico

nel silenzio che dentro me

forse c’è.

 

Non nascerà mai niente

da brulle suadenti colline,

quelle di sempre.

 

Eppure qualcosa

cambierebbe

se tremori autunnali

astuti

ponessero

premesse

dell’entusiasmo

rinato

quando ridi,

 

stupendevole!

 

Potrebbe

anche ritornare

l’assolo

di cui dissi,

 

ma non si crede

ad altro che a sé

se non progetti

i lineamenti,

 

quelli soliti

del tuo volto

 

fantastico.

 

E la novità,

qui è la novità,

nel momento

torcente

dell’intelletto,

 

dalla testa esci se pensi

dai piedi

 

se sbavi

nell’atroce

delusione

 

una speranza

che nasce

talora

s’ intravede all’orizzonte.

 

 

Nell’infinito dei sogni tuoi

 

C’è un’abitudine

perduta

tempo fa,

 

anni

in cui

luminosa essenza tu

splendevi cara

nelle lettere

ingiallite oramai,

 

ciao amore.

 

E la verità.

 

Tra ingorghi

nel trafilo

a bottiglia

smeraldo

gli occhi tuoi.

 

Tanti anni fa

guardavo il cielo,

 

le stelle parlavano

in piroette

paradisiache

a ritmo dub

 

angeliche figure,

le brame

dell’oscuro,

 

silenzio, silenzio,

ora,

 

cominciamo nella spersa radura

in cui

non seppi dirti addio,

 

splendi ancora

lontana

come l’aprile

del folle gesto,

 

lo sbarco

astuto

 

dell’occhio languido

e tenebroso

nell’infinito

dei sogni tuoi.

 

 

Nella banalità dei giorni dimenticati

 

Così

nulla resta di te,

le cose

scintillano però

ancora

 

bramando mani tue,

 

foto senza storia,

scritte sbiadite,

 

io e te

inutili puntini

nuovi

tutti rivisti

e piccoli persi

nelle tenebre

del nostro oscuro

disegno

del tragitto

che ci vedeva

al centro

 

dell’universo.

 

Ed anche

ciò che sembrava tutto

ora

è poco ed anche amaro

 

come

catrame i sogni nostri,

 

noi due…

colmo l’assenza

distruggendomi

di tutto

tranne ahimè

che di te,

 

mi amavi,

ti ricordi

 

come può finire

nella banalità

dei giorni

consumati?

 

Opaco nello stupore

 

Quando dal tramonto

sorge

il nuovo aneddoto

ininterrotto.

 

Sospiri!

 

Le storie di una volta

tenute

con gelosia

nei palmi stretti

e indifferenti,

 

delle volte

era divertente

parlare

anche un po’ al presente.

 

Se poi disdegni

l’etico ribaltamento

capovolto,

 

identificati nell’amato

per la perfezione

amorosa,

 

da lì

la vera kalos kai agathos.

 

Quando

distrattamente

leggevamo

distesi sulla spiaggia,

 

salino l’odore

del ruscello

 

le libellule,

il sentiero,

santificazione

tra l’echetto

delle onde

 

tra tornanti,

infiamma l’ardore,

quello vero

 

il sapore delle tue

labbra care

e tanto

straniere

su di me

 

opaco nello stupore.

 

Sognavi a denti luminosi

 

Sognavi

a denti luminosi

dalla storia

alla catarsi

catara

ed ipofagea

della scordatura

tra partiture,

 

le trasmissioni

esterografiche

sono le scollature

delle trafitte

assuefazioni,

 

e davvero bella

sei tra fasci di luce,

 

l’arcobaleno

segno di accordo,

 

la colomba,

il gabbiano,

il corvo,

 

sepoltura

gioiosa,

 

le aquile

e i gufi,

alteri

saggi

o ricercatori

di somma bellezza.

 

Non c’è spiegazione

 

allora poniti in tensione

come sbocciata

da una conchiglia

 

magari

a sostituzione

della rugosa

claudicante

tradizione.

 

Inchiostro stampa sul dito

 

La voce entalpica

scavalca a tratti te,

dolcissima e fulgida

immagine mattutina,

 

persiane socchiuse,

filtro di luglio,

 

refrigerio candido.

 

Ed ora è già così,

le miserie solite

scandite

da un lamento

che quasi compone

versi letti solo da me,

 

quel che dico

 

e chi sei tu?

 

Sempre io,

sempre noi,

 

parlo di te

che esisti

solamente

per l’umana specie,

per l’universo,

la natura,

i monti,

le colline,

prati verdi,

 

divino.

 

Tu sei il me ideale.

 

Ecco la risposta che cercavate

voi

dunque io,

 

chi legge

sono io che scrivo,

 

chi legge

sono solo io.

 

L’etereo

è solo per me,

 

vita

vissuta

ai margini

di un’esistenza.

 

Autoreferenziale

messaggio universale.

 

Nullo e vano

ciò che scrivo,

 

nullo e vano

ciò che dico

 

inchiostro macchiato

senza attenzioni

 

stampa sul dito.

 

Amo specchio del divino te

 

D’altronde ricomincio

sempre allo stesso modo

con varianti

spulciate

dall’eremo d’esistenza

sciupata

 

ma è solo la ricerca

che in vita mi tiene

ed oltre d’essa

mi rassicura,

 

quando

solo

penso

o dico

trapela

l’infinito

della mia stessa

resistenza

all’indulto amoroso,

 

lo stesso,

 

conosco

ciò che attende

 

non so se spendere

entusiasmi antichi

per nuovi

spauracchi,

 

non sarà

senza te

 

amo specchio del divino

te dolcissima,

 

altro che dire

pensiero

detto

segreto,

 

senza te

non saprei,

 

salvami

amina mia fragile,

 

su specchi d’ottone sappiamo

ciò che facciamo,

 

tutto uguale,

 

la mia parte di felicità

scardina

 

germoglierà ancora

un fiore

tenerello

 

in questa illusoria velleità

brulla invernale?

 

Non so

se sei ancora

speranza ultima

futuro prossimo venturo

 

cerco di te.

 

Il mondo è stupendo

 

Alla fine

è l’albero che nasce

in vista del frutto,

 

ed è così normale

 

il paradosso

poetico

di un’esistenza

che vediamo

così male,

 

il mondo

è stupendo!

 

Adoro la sapienza ebraica

e la poesia dolcissima

islamica!

 

Adoro

lo splendore

di un abbraccio universale.

 

Tante volte

hai detto

di dimenticare,

 

quante volte persa

nella cattedrale

di te

hai chiesto

venia!

 

E tuttavia

è così

 

il noumeno,

 

e così

squarciamo

il velo di Maya,

 

fuggiamo

liberi

oltre le finestre

 

spalanchiamo

il nostro essere

alla verità,

 

alla libera verità.

 

Tutto il creato

è sempre

semplice

intuizione.

 

Quando siamo

ad un passo

dall’eterno

scopriamo

che i meriti

e la nostra grandezza

non possono venir da noi.

 

Verità

 

La verità non sta tra i saggi

ma tra chi cerca la perfezione.

 

(adoro gli imperfetti!)

 

Fosse per me

 

Più parlo male di qualcuno

più quella persona merita la mia stima,

 

è lo stesso se parlo bene di qualcuno,

purché abbia discernimento.

 

Trovo difficoltà

a provare indifferenza,

fosse per me si salverebbero,

anche in extremis,

tutti.

 

Non sono granelli

 

Non sono granelli

ma chilate di umanità

negli occhi

di molti.

 

Beatitudini

 

Beati i ridicoli

perché erediteranno la terra,

 

non vedo motivi al mondo

per essere seri.

 

Se ci fossero più giullari

e più folli!

 

Adorazioni

 

Adoro i prelati che restano bambini,

 

mi stanno sul cazzo quelli adulti

che dicono al popolo,

con serietà sfacciata,

di comportarsi da bambino.

 

No

 

No, no,

nono,

non sono contraddizioni,

 

bisogna avere una visione d’insieme.

 

Porci

 

Alla fine anche i porci

vanno dal compro oro,

 

che se ne accorgano in fretta

delle perle,

 

beh, non è che siano stupidi.

 

M5s

 

 

Ho dormito per dieci anni,

forse quattordici

 

Grillo sta ancora a Cortina d’Ampezzo,

 

direi quasi

che non si è mai mosso di lì.

 

L’assenza

 

L’assenza

è l’unica vera presenza,

l’unica reale conoscenza possibile.

 

Declinazione del corpo tuo

 

La libertà, l’essenza,

delle labbra tue

e poi il respiro,

quello soffice sul viso

 

mentre distesa

guardi a bocca aperta

il fumo della stanza

 

aperta

 

sul ventre la speranza

di un futuro

tra noi,

 

millesimale.

 

Ancora amore,

è presto forse,

sono ore che penso,

allora forse siamo

quelle ombre disperate

riposte

nel cantuccio

ultimo.

 

Ma viventi

nell’assoluto

assaporiamo

questi addii e queste

storie

 

dipinte d’assurdo.

 

E sono le tre di notte,

lo sai bene,

vorrei stringerti ora.

 

E lo sai

bene

che sul sorriso

che sveli

truccata

e disarmata

furente.

 

Le spiagge nostre

e le fotografie,

 

vorrei

di nuovo

sospiri autentici

ed il tuo corpo

adorante l’infinito

che svelano occhi

timidi tuoi.

 

Amore di stirpe divina sei stupenda nel nome

 

Ed io così

in bilico

raccolgo

e stendo

 

dischiusi in me

tormenti antichi,

 

speranze vane,

 

e tu,

che amo già

potresti

sorbire l’amore

come se distratto

fosse

l’unica

silenziosa

essenza

dell’uomo

e di noi miseri,

 

respiro ancora.

 

Cara

ciao,

sei divina

nell’assunto

che hai tracciato

muta

tra piogge d’aprile

e rissosi

inverni

 

cara mia adorata

è solo il tuo stupore

a muovere

il sol e l’altre stelle,

 

tranquilla

nell’apocalisse

usciremo indenni

e simpatici,

 

adoranti,

come fidanzatini

adolescenti,

 

usciremo

dalla porta laterale,

 

assunti e pratici,

 

dolce amore

usciremo

come nessuno

sogna

 

perché soli

abbiamo amato

e abbiamo sperato

nell’assoluto.

 

Amore dolce

 

crolla il mondo

 

ma traverso

è lo stupore,

 

languidi

verso il varco eterno,

tranquilli,

 

un po’ bambini.

 

Noi che dai fiori

aspettavamo

l’eremo dei nostri sogni,

 

amore

di stirpe divina

 

sei stupenda!

 

Il finale

 

In quel futuro

io e te.

 

Se le speranze

nascessero intense.

 

Noi due

potremmo

sovvertire

la storia

fatta

da usurpatori

diabolici,

 

bramosia

e doppiezza,

 

noi soliti

innocenti.

 

Quando io e te,

magari

nel tempo libero,

ragionassimo

dell’evanescenza

e di noi due

stupiti.

 

Amami ora,

è l’unica

speranza persa,

 

rinascere ancora,

come timidi

innamorati

nel solito scontro

titanico

distruggendo il tempo

 

e casomai gli altri dei

sorridenti

ci tramutassero

in costellazioni

eterni

saremo

 

exemplum

per le generazioni future,

 

domani non esiste,

noi siamo

oggi

assoluto,

 

siamo divini

e languidi

ed assurdi,

 

ma stupendi.

 

Credo che

talos e contorno

di battiti

antichi

e brividi

da amanti fragili

 

siamo solo eroi

che non stendono

neanche ultime

decisioni,

 

siamo

trafitti

dai loro aforismi,

dogmi,

assiomi assurdi,

 

siamo preda

del ridicolo,

 

io posso solo amarti,

per sempre,

 

amare lo sciupio

degli occhi tuoi

 

dei tuoi capelli

accennati

 

i tuoi sofismi,

 

a che servono

le mie parole?

 

E’ finita,

ed è vero,

 

non mi mossi

mai da qui.

 

Ti amo,

da qui,

 

forse non mi mossi mai da qui.

 

Rottura d’Equilibrio

 

Potremmo, faceti, seguitare

 

Così colà

 

e la realtà si sgretola

tra mille sorridenti

rullii suadenti

quando nell’istante

schiocchi

le pallide dita

affusolate al pianoforte

 

e tu così

rompi dell’equilibrio

 

Il tramato intreccio.

 

Come quando

dici

 

(forse

stendendo

lo spasmo

verticale

come al sole

viola dal colore)

 

se nell’intentio

svelassi il senso,

 

ma l’entusiasmo che dai

non è infinito

perché

rompe disparico

il pari perfetto.

 

E sei aneddotica

nella solita vanagloria

quando stanca

muggivi armenta armata

di miagolii gaudenti

nell’angolo

immorale

della scollatura

frenetica

che gesso

dà al nuovo anno

il principio

concludente

 

quando sali le scale

del parapendio

strategico

implorante

all’oratore

di oziare

 

e poi lasciarci stare.

 

E trini

non pronunciamo

vocali,

 

ci intendiamo

lo stesso,

 

io nella storia

 

tu nella gloria.

 

Gomitoli rinascimentali

 

Rinvigorisci

alle putride acque

musa immemorabile

dal tuo capriccio

musicale

alle intestazioni

del tuo muto desiderio

 

scopri ciò che poi smarrisci

mentre ti intristisci

e spasimi all’equatore

 

mentre Miller è in esilio,

 

l’isola,

l’eremo

della tua ultima canzone,

 

sei come sei

 

tu sei,

 

e dici sgrammaticando la narrazione

che novità

non c’è

oramai nell’intuizione,

 

forse magari

pulluli ancestrale

 

e trasale

l’entusiasmo

di quando stanca

dici accorata e sonnambula

 

rispondo a me

 

ed alla stessa

tua assuefazione

enoica

e sconnessa,

 

mi racconti ancora

di quando fui, fuimmo,

fummo, facesti,

reggesti

 

letta poco,

 

ma questo

sciogli brighe

dialettico

è il nostro scontro,

 

magico incontro

 

incontaminata

collocazione naturale,

 

collisione

o congiunzione,

 

e il savio

dice ancora

 

è sera.

 

Però è così

che riaggomitoli

assuefatta ancora

ed austera

 

dissi altera,

 

badando

a ripetere

nella numerazione esatta,

 

se la musica svanisce

il silenzio

si fa sentire

 

risorge

il rinascente

sogno di noi due,

 

panchina e Toledo,

 

stretta la via

larga la soglia.

 

Stesa nella nebbia

 

Sogno lucido del tempo,

sei già la stessa

dei tempi dirottati

dall’umido incupito

e nel colore

lo splendore

di crestomante

chirica,

 

sorprendente,

assurta

a silenzio

e sei tu quella

che muore in gola

nel pensiero,

 

tutto corretto.

 

Ma nella sua inclinazione

ci ricongiungiamo

anime solinghe

 

stanche,

 

anime pullulanti

tra neve e parco

si ricongiunge

 

il patto d’assoluto.

 

Quindi

inventando stendardi

del respiro

che trepidano furenti

fumetti

 

all’arme!

 

armi in pugno

nella pugna

del sospiro

del tuo contorto

periodo

invettivo

nella incitazione

del sentiero

 

il veliero

a vele gonfie

imbatte

acqua

tagliata

a cavallo

dell’epica

storia

introversa.

 

Punto inclito.

 

E da ora

percepiamo

esponenti

della nobile

classe

animale,

 

ruggenti terrestri  naturali

tanto pinti e tanto riti

da aborigeni scandinavi

 

a mezzanotte

sogni ancora

la angelica diabolica sostanza.

 

E tutto ricomincia,

circolo finale,

 

stesa nella nebbia.

 

 

L’esibizione stonata

 

Duecento

persi nel tempio,

 

lo stupore fulgido

dell’aurora,

 

la tua stonatura vistosa,

 

il sorriso,

 

pianto antico.

 

Cadono stelle

d’inverno,

 

la fine del mondo

e l’Ellesponto,

 

Cerbero

il cardine traviato

naufrago

del sollecito

svolazzamento coerente.

 

Pindarico circense,

pitturino

panegirico

violato

in santità

sanscrita

 

e sciupio diagonale.

 

Eccomi qua,

 

chi va là.

 

Sostituisci purità

con l’impurità

e viceversa

cerca la gloria

nell’ultima mia perversa memoria.

 

Così,

capisci poco,

io nulla dico

tutto espongo,

 

tutto intimo e nascosto

 

parlo

di scie e di eliche,

di nibelunghi

cornamuse

e celti

cornuti

 

con le loro meretrici,

 

proiezioni d’incanto

su tele di stupore,

tutta tremante.

 

Così,

capisci a tratti,

 

e  sembra casuale

il nesso eziologico

dekantato.

 

Declinazione inviolata

 

Se la parola

si arrestò

il pensiero

stupito

si incantò

 

scucito

dalle tue

pallide

storie

da attrice

carina

mi dicevi,

 

soltanto

per perder tempo,

 

qualcosa,

 

il volto

nostro distratto

 

e noi due

ci perdevamo

soliti

eppur cambiati dal tempo,

 

soliti

eppur così lontani

da anni

 

ma io non dimentico

l’amore

per sempre

sogno mio

ed i tuoi

mondi

che perversa

sillabavi

a bocca tracotante.

 

Quando

allontanati tutti,

e tu per prima,

 

solo

sentivo ad occhi chiusi

e sento ancora

la voce tua.

 

Tu che disperavi

io ora che stringo

il cuscino

folle tra vie solinghe,

 

folle

e perduto per sempre,

 

però non dimentico

te,

 

non dimentico

la mia

solitudine,

 

declinazione inviolata.

 

Il canto delle rose d’inverno

 

Silenzio

tra i rami secchi,

 

sospiri

tra braccia perdute

e nella via oscura

sola,

 

dici tenebrosa

l’ultima tua parola

è nota accompagnata

dal canto delle rose d’inverno

 

e la sciolta

bocca

del peccato

che magica

si posa

sul mio corpo

ormai perduto

da tempo,

 

vorrei

ancora te,

 

e sogno il tuo sguardo

piccola

luce mia

e sincera

nubilosa

dell’amore

 

delle spiagge

sbattute,

 

vento e capelli

che si arricciano

allibiti

 

ed il colore

vìola ogni costrizione

viola dall’altura

 

guardo

solo le voci del tempo

che gridano

innamorate

 

torna

piccola

mia mela assurda,

 

mia speranza vana,

 

torna dolce amore perso,

 

torna tra braccia stanche

 

solo un grido

 

sperso.

 

Incanto d’inverno mattutino

 

Ed è sul passo

felpato ed angelico

che alchemico

respiro

tra sensazioni ornamentali

mentre schiudi

come ninfa

lo sguardo

preciso

 

delle sirene,

 

incanto d’inverno

 

mattutino.

 

Ed ecco che risale

annidata la storia

dell’intero

universo

dietrologo

allo spauracchio

delle generazioni

che sono ora centrali

e gaussiane

come orteghette

statiche

e compresi

i tutti nuovi.

 

Eppure

si smuove

pittoresca

la curva

delle correnti perverse

avverse

 

al caos

da un ordine

quasi divino

e baricentrico

su grattacapi

densi di antenne

come paesaggi

toscani

 

fine ‘900.

 

Ad occhi chiusi e sospinti

 

Ad occhi chiusi

inizia il viaggio

desolato

e pullulante

di novità boschive

che si inerpicano

su sogni violati,

 

l’entrata

di dietro,

e silente

ascoltavo

i nostri sabati sera,

 

tra le mie invettive

e le tue memorie future

 

e presaghe.

 

Così

restavi

spalle al muro

mentre fumavi

e la magliettina,

quella rossa,

 

ripenso

all’oggi di noi

passato,

 

quelle notti d’atmosfera rarefatta

bianca,

 

comunismo ed anarchia

spirituale

 

intruglio,

 

forse è tutto completamente esatto,

 

vada come è andata.

 

Così sentiti svenire

dipingendoti

tutta dolente

la stiva

restia

dei tuoi amori

leziosi e tetri,

 

c’era anche lei.

 

La luce si è spenta tenebrosa,

è già l’alba,

ai pomi

diversi

e declinati

da metà degli anni ’10.

 

Ti ascolto

e ti percepisco

nell’aria

tutta carina

e piccina

com’eri.

 

MA 9120

 

Eri lì

tra catrame e stralci di

bottiglie

 

limpida

nella via tanto lontana

e familiare ormai,

 

i rifiuti

e nuovi sbocchi

austeri,

 

eri stupenda,

 

lo sai

 

le siga

consumano

l’ultima

lontana

speranza d’addio,

 

smetterò.

 

Sei nel mio cuore

lontana

 

ma sempre tu.

 

Ti amo,

tesoro,

ti ricordi,

 

quella sera,

 

tanti anni

di silenzio

 

e follia la mia,

 

tuttavia

non puoi

censurare

l’altura

ed il ripiano

dei sogni nostri,

 

sono anni

ma tu

muta

dicevi

ti amo,

 

bacio

svogliato,

 

a metà,

 

primo bacio.

 

Chi e cosa sei

oggi?

Felice magari di te stessa.

 

Guardami negli occhi,

non puoi rinnegare

la parte di te

fondamentale

in cui

c’è l’alma mia spersa

che ti ha dato

 

amore e libertà.

 

Riuscimmo a riveder le stelle

senza te

ma noi

siamo vissuti nell’inferno

e non puoi

dimenticarlo,

 

lo sai.

 

Amore lontano,

sei l’unica,

 

se passa tempo e storie

resti luna

lunatica

che cercava

di capire

senza saperlo

 

eppur tanto solare.

 

Amai solo te.

 

Luna bugiarda

 

Se l’ombra davvero

è un errore

non c’è memoria

e non deve esserci

negli occhi tuoi,

 

solo un amore di contorno

nello specchio disilluso

della realtà.

 

Se è vero

che sei una così,

una

da passare

avanti,

 

una da semplice estate,

01,

 

loro così,

noi colì.

 

Se sapessi davvero

la verità

l’entusiasmo di oggi

avrebbe

un ricordo

di un estimo

ultimo

passato

per diletto,

 

e magari

avresti il coraggio

finalmente

di dire

 

io sono

stata falsa

 

ma forse t’amavo.

 

Maglietta blu,

 

gli altri

non possono capire,

che noi

siamo

l’ornamento

 

di storie più importanti.

 

E davvero

la scelta è stata per me

difficile,

 

sai di cosa sto parlando,

non te n’è mai importato di me,

 

chi sono,

nulla di differente

di ciò che ero per te

anni fa.

 

Racconto fine a sé

 

Nel silenzio

del ronzio

di un tramonto

ai campetti

d’estate

 

capelli barocchi.

 

Potresti essere chiunque

ma comunque sei tu,

 

e lo sai,

 

non posso tacere di me.

 

Il tempo passato

te presente

e andata

 

non cambierei idea,

 

cosa vuoi

 

l’entusiasmo

semel ama

semper ama,

 

tutte

ed anche tu,

 

entusiasmo smorto

ravvivato

dalla memoria

palladiana

e dalle forme

stupende d’un tempo,

 

maledetti

noi,

 

non può nuocere il ricordo

e le armi

e la forza

non possono farlo tacere,

 

il potere del pensiero

non cambia

con la morte

o col

dolore

della prepotenza

 

anche se il presente

passato non è più

 

e lo ammetto

 

resta in ogni azione

profumo d’infinito

magari fine a se stesso

 

ma autentico.

 

Io non pretendo nulla ora,

 

racconto solo

 

senza paura.

 

Note e numeretti,

note e sentimenti,

 

amo il mondo così com’è.

 

 

Ragazzina splendida

 

Cercando me

scopro

che noi

siamo.

 

Sinceri respiriamo candidi

senza sovrastrutture

inutili,

 

siamo noi

senza

bisogno

di arzigogoli prolissi,

 

lei è lei

e senza parlare

canta di me già

 

e tu silente

e assurda,

 

vorrei dirti la verità

se solo

un attimo capissi

 

che la verità

la respiriamo

senza bisogno

di

gridare

 

con garbo,

 

senza bisogno

di sembrare

veri burattini.

 

Non è tutto esatto,

gli spiriti magni

talora

nel palazzo enorme

e splendido

sito nel limbo

non possono vedere

come quella ragazzina

l’essenza di Dio.

 

Una ragazzina,

dunque,

 

che dici non capisce niente

ma ha l’anima

in onore sublimata,

la salvezza della vita mia,

non sei tu,

 

è l’innocenza

dei suoi occhi

 

come cerbiatto spaurito

lei mentendo

non può che dir la verità.

 

Quattordici febbraio

 

Ovvio è tutto così chiaro

non è tempo per le nuvole,

 

curiose sono le nostre anime

ma altrove

si dipingono

di aforismi destromani

mentre mancina

chiedi a dio l’amore

indecifrabile

ed io lontano

stendo il velo

 

sull’orma delle tue scarpe slacciate.

 

Ma tuttavia

il tuo amore

per me è il lontano,

valore immaginario,

il tempo del nostro però

è passato

ma non c’è circolo definito

se tu le labbra mi baci

 

è solo l’impressione

impressa nella libertà

di uno specchio fragile

 

frammento

dei tuoi occhi

 

che ricordo.

 

Ed ecco

l’attimo che passa,

 

stasera

ascolto

la musica

che ribalta

il ricordo

reso lucido

dalla spiaggia

che si scorge

 

solo

in penombra

 

ma tu sei concreta,

 

tanto corporale

 

mi lanci l’entusiasmo

che da tempo

credevo avere perso.

 

E non è falsità

se sulla panchina

nella villa

pensiamo

strutti

che

saremo felici

un giorno in eterno,

 

dì la verità

amore,

 

questo non lo puoi dimenticare,

 

l’illusorio mondo

del domani

è ancora

 

nostro.

 

Adesso e per sempre

 

Adesso

che è sera

ti stringi

sincera

all’alma

sconfitta

mia,

quella di sempre

 

e non esiste

nulla di diverso

dai nostri

occhi

chiusi

in un abbraccio

 

che amerà

l’eternità,

schiusa

la verità

tra sorrisi

e sguardi d’intesa

 

io e te.

 

Ad ogni buon

profilo

entusiastico

sei bella

come sempre,

 

dolcissima

pulzella

ribelle

 

e gotica.

 

Ti amerei

se avessi

me

nel palmo tuo,

 

sai cosa dico

amore mio

 

giorni

due

passati

amori

 

for ever

and ever

loving.

 

Adesso

ed al tuo corpo

la luce

della nostalgia

stringerà

nei nostri

incontri

fugaci

suggestivi

ed inviolabili

 

eremo d’eternità

 

io e te.

 

Tu sai chi sei

 

Ecco

ancora noi

 

traslucidi

 

notti

d’amore

senza pensare

 

traslucide,

 

lei ora non c’è

lei allora c’era.

 

Amami qui,

 

noi

tra

collocamento

e futuro

 

io e te

 

erba

e me

 

e te.

 

Dico

se ricordi

trovi

la risposta.

 

Dove sei?

 

Anni

passati ormai,

bacio che non fu,

 

aprile

02,

 

io e te,

mia sperduta

parva

anima

 

la mia,

 

sei tu

che mi slacci

il mantello,

 

e dico sul serio,

 

trasla

le parole

sei tutta bella

al chiaror

dell’ultima stella.

 

Ti amo

di profilo

teatrale,

 

tutta dipinta

dell’ultimo

respiro.

 

Cerco ancora di te,

 

senza

i tuoi occhi

non sarei io,

 

anche se solo e sperso

ti ringrazio,

 

senza te morirei

ed anche se morto

cercherei

il tuo volto,

 

tu sai chi sei.

 

Il Sospiro del Vento

Prolegomeni

Penso a te, guardo indietro e la vita piange sé mentre luce bagliore si fa, dalle note stonate dei giorni andati e delle notte violente come l’anima inquieta che è in me. Un’ombra, la solita. Ed è così, dovrei raccontare tutto quello che ho già detto, dall’inizio. Ma la chiarezza è così oscura, selenica la realtà nel sussulto del vero che si schiude tra le mani protese al vento. E’ sera, novembre, un novembre freddo. ’98, ’99, il varco è qui, ripullula il frangente. In realtà era il 7. Ma se scolora la vita frutto del senso, ed è così che vanno le cose, diciamocelo, se scolora, beh, una cosa l’ho capita. Forse solo questa. Il tempo non solo inganna ma rimescola le sue carte come vuole, la memoria è la mezza via tra ciò che ci parve di scorgere e ciò che è fantastico, quello che realmente, credo, scorgemmo. Tredici e otto. Perfezione mancata, come al solito, ma sta volta questi numeri assurdi significano ben poco se non sé stupendamente. Comunque iniziamo dall’inizio, so già che pensi mentre leggi dirò “o magari dalla fine”, per chi legge e sa, cioè chi ne capisce poco. Va bè, iniziamo con calma e facendo le debite premesse, ovviamente, di modo che capirà anche chi non sa.

Dove sono? al solito posto, sincero, tra il monte e l’oblio, qui nella vallata serale sudando freddo per le tenebre. sono qui eppure non riesco a trovarmi, scavo a fondo, in me per trovare le giuste parole, nella perfetta inclinazione, ed è come quando, naufrago, confido nell’inaspettato, la giusta corrente che spinge verso la luce lontana. Balaustra di sentimenti, trepidazioni profondissime ed inconsistenti ad un tempo. L’approssimarsi della salvezza. Trovarsi nel ricordo per fuggire ad esso.

Sembra la stessa cosa, già detta, già assaporata, ma rendiamo consistente il vano. Malamente ovviamente, ma è un modo. E poi l’ho scritto appena ora, la luce è in fondo, ora lasciamoci cullare da una corrente che è stupendamente non avversa.

Le parole di un infelice? Ovvio, scontato. Di un infelice che cerca gli occhi, i tuoi, e nella ricerca dà un senso alla sua infelicità. E poi gli occhi brillano, la luce è lontana ma, ripeto, la corrente etc., il pezzo di legno regge, culliamoci un po’. Instancabili.

Quanti anni? Tanti, troppi. Un istante, un soffio. Un giubilo perduto, mai avuto. Bislacco modo d’essere. Buffo, lo dico sempre, la sorte non è ironica ma beffarda, questo sì. E profonda. Meravigliosa aleatorietà dell’essere. Noumeno? l’avvenire, ovvero il già stato, e l’ovvero ha la sua solita ambiguità. La lascio, sarà chiaro poi.

Ad ogni modo parlavo dei tuoi occhi. (Esiste un solo lettore, ma cambia aspetto ed è lettrice). I tuoi fantastici occhi amore mio! Che tripudio! che canto velato! Il canto, il solito, quel motivetto semplice semplice che ti resta dentro, che non canticchi ma che scuote autonomo tra le tue membrane celebrali, che ti raddolcisce il cuore. Si potesse scrivere a lettere la musica. In modo però chiaro, evidente, subitaneo. Non parlo di note ma di parole. Se sapessi leggere la melodia che mi è dentro, che ti è dentro. Musica! Salva da ogni paura, ogni lingua si scioglie, inizia la danza, lenta, lento, accompagnato da un sussurro, di quelli che ti facevano venire i brividi, anima mia.

Asserzioni reverse

È la prima nota

oppure

all’indomani tre,

 

la vita corre e noi pure

tornando indietro le vite seguiremo

(stessa vita, stessa lingua)

è la storia.

 

Ricorda quel viso che eri

e sentirai simpatie per noi

e se m’innamoro

-sì serena-

sarà per dialoghi tra di noi.

Salto quantico 0: la ragazza con la valigia

Eh l’esaustività! Che folle pretesa, folle eppur così seducente, e seducente come ogni forma di abissica follia, di profondo discernere ovverossia discendere, cauti e arditi. Selendichter ed il resto. Ed il resto muto. Ah la storia! Ah il tempo! Ahi l’amarezza sulfurea! Tempo che non esisti se non in dispersione baalica, tu demone gettato, demone della caduchezza, speculum della caducità, gettato qui nel nostro sensibile mondo pseudopercettivo. Ba’al fatto demonio. Ds>-0. Lineare per forma, circolare per sostanza, attimo sempre uguale e sempre attuale perduto nel divenire. Ellisoidà perduta. E reversibile può seguendo tracce che diramano vitrioliche al nulla essente in sé perduto ed in sé manifestatamente fluidificato. Fuoco inerme e pullulante. Sator arepo tenet opera rotas. E se vai così vai colì, anche all’inverso. Quando passeggevoli scorgevamo il naufragare tra terre di corallo e lapislazzuli, tra asprose velleità, tra fulgori ritmici il lento sussurrare felpato di Lilith. Colma di vendetta, erinnica, eumenidesca nel riposo. Otium momentaneo e lenta rota, cui subito si incanta il dominio, scettro perduto d’alambicco e trono focoso sul polso. E tornate, per tornati, Ds<-o. E  poi silenti eliminare l’uguaglianza in congruenza, simbiotica, ad imitatio dei, e tutto è un solo istante ma dal conversum della moneta, caducità annullata, sartrianamente. DS=0. Eh l’esser per il nulla, che poi significa essere nel nulla, e poi si sa il vizio del pensiero è postumo, non del francese, il vizio è perversione e tutto è nulla e noi naviganti stolti su di un mare, come sul capo al naufrago l’onda l’avvolve e pesa. E poi non c’è neanche quel mare. Che è il nulla, ed il nulla è incapiente in sé d’entificazione e dunque d’essenza. Ma ti devi appigliare a qualcosa, imprimerti negli specchi per non arrampicarvisi. Bene, male, tutto, assenza. E dunque ne hai bisogno, dillo, ammettilo, ne hai bisogno di pensare al nulla. E lo perverti, lo pervertisci, lo esauteri dal suo esser nulla in sé, perché hai bisogno di concepirlo, se tutto ciò che è pensabile è esistibile, e dunque, passo ardito, esistente. Visibile. Oltre i quattro del fuoco, dell’aria, della terra, dell’acqua, sceso direttamente dall’etereo. Ed etereisticamente a ciò proteso. Ed allora lo definisci flutto pacifico, oceanico, dall’Antartide atlantica, nella zona oggidì sotto studio italofrancese. E dici, ne sei costretto, dai, in principio lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Era domenica credo, giorno del padrone, accettavo senza accorgermi un invito al dolore, suona la radio. Eh io la chiamo così. Siamo radio, cibernetiche. Sì sì, siamo, protesi oramai, lo siamo in prolungamento celebrare e celeberricamente etalagico. Utensili aggiungono vigore al nostro esserci, perché divengono parte del nostro essere. Come agenti patogeni, virus alieni, altri, creati in provette cablatiche che corrodono le sinapsi. E tu sei le tue sinapsi diviene già inattuale, ed attualissimo. Tu sei la protesi delle tue sinapsi. Impulsi elettromagnetici come cellule infettate. Banalità al dominio, dominio stolto, si intende. Elettrochimica spiritica. Morte dell’apparenza, sovversione della manifestazione.

Ed era domenica, penso, dunque plasmo. Ad immagine del divino dicevamo, che mi crea, ma parla tonante ed il logos diviene materia animata ed inanimata, ancora queste differenze, pazienza; che plasma poi ciò che è a sé somigliante e soffia, pneuma, dà vita, infonde. In fondo lo fa. Che scardinatura. Mamma mia! Appunti di viaggio. Come districarsi in questo labirintico corso dialettico che pone in essere assiomatiche et dogmatiche ineluttabili verità concrete. Concrete perché eteree. Epoca dello spirito, epoca dell’aquario, epoca del ritorno. 1936 apertura-2025 chiusura. Clauso il senso? Ripercorrere come da celle manicomialesche basagliche. Come quella mattina in cui mi son svegliato-e detto così sembra Bella ciao e forse lo è-.

Appare in tutta la sua fulgenza eterea la raga con la valigia. Raga jazzistico ritmato della ragazza d’alabastro dai riccioli cinabrici, dagli smeraldini ciondoletti, dorate piume e d’avorio i pendenti. E tanti metallici campanellini, e fasci di purpurea candida velatura sublime opposta al senso ed in sé pieno. Colma di grazia perversa, candida, dolciastra, leziosa. Bronzine le borchie corrose, aura magenta. Metilene e cobalto gli occhi. Violacee le gote. L’anello sinistro ad intarsio, persiano ab origo e dunque di quel colorito indico, indiano, semipenobrico. Ma pallido l’incarnato. E a destra due righe avviluppate all’anulare, forza Roma ed i suoi colori, forza Lazio e il suo turchino. Assenza! Tripudio austero dell’immenso! Scompare come nell’apparire, valido gelso di corolla audace, intimo senso subitaneo. Appare, riappare e scompare. Proprio in questo verso, in tale direzione, modulante del peso di sé, proprio in tale cronologica dissolvenza. Reca con sé quel taglio allo specchietto del frastuono che tacito è all’inizio, magia saporita del viso. È così, lei d’altronde è così. È lei chi è se non sé medesima assorbente d’assoluto. Si incanala, si incanala al dorso cromatico del tempo e rilucendo traluce nell’ultimo assiduo palpitio. L’assenzio rachelico, la assuefazione di sé, intima sostanza, forma ricucita dell’essenza e barlume percettivo. Assidua! Assidua ed immensa! Allucinazione eterea! Mandorlo dischiuso! Incanto prebabelico! È lei di cui dissi, e dico ancora, con le medesime parole e cambiando ritmo ed inclinatura all’inclito suo sguardo che fuggo. Fuggo come fuggisce fugace quella sua apparente essenza. Non lo sostengo, non lo reggo, ebbro di lei, dei suoi iridei assunti. Vortice proteso in sembianza di barlume. Lo ripeto in altra sostanza. È lei, è lei dunque. Pendolo che oscilla, repentino spasmo da cerbiatta, dominatrice in dissolvenza. E ciò che si ripete, attenta, ciò che si ripete, è lei, è lei, ciò che si ripete dà senso a quel volto antico ed attuale, modernismo delle spoglie vivificate ed intense. Come fluido lei diviene fluido e lo è sempre stato, come nebulosa, nubilosa, furetto fumante, nuvoletta aprica, d’aprile e d’ottobre, ultimo restio profumo di novembre. E lei fracassosa nel trapasso silenzioso tra questo mondo e un altro e quello appena appena appresso. È lei, è lei, è lei nelle infinite diramazioni negli intrecci e negli abbracci, tanto nel vento quanto nel pentimento, come nella colpa come nella sua assoluzione, nell’assolvenza, nella vanità, nella vacuità, nella nullità di cui dissi, quel nulla eterno che in lei si incarna dando consistenza al tralucente. Sublimando, sublime si avvicina. Ed è un sussurro la sua interezza, come ricordo che non ricordo, come pensiero lontano di ciò che non fu e per questo è sempre stato. Scende eterea. Scende retta, in diagonale, traversa al viadotto esistenziale, varco sommo. E sommamente lei. No, plauso mio. Lei eterna gloria di me, lei sola vivacità melanconica. Lei in sé, per sé e con sé.

E la valigia riporto e ditirambo. La valigia è il mistero azzurrognolo, che quasi è particolare dai cui sfuggire, da cui sfuggire per gaudio e non per paura, ma per timore di lei stessa che induce a contemplarla tralasciando il resto. La valigia un dono dimenticato. E dimentico del mondo per lei che è qui concreta e fuggevole, pragmatica nella sua inconsistenza, pragmatica nella sua velleità. Artificio vero e vera quiete dell’alma, ed alma stessa. Come corpo che nascendo in tensione ed in potenza è lì ad un attimo dal farsi e si disfa e disfacendosi si rende vivido, intatto. Nella mutevolezza si rende percettibile, si tocca, si palpa, si odora, si innalza, si gusta dolcissima labbra, labbra dolcissime. Violacee come le gote e come il profumo violetto della rimembranza che emana dai suoi polsi e dal collo. La valigia è già l’ieri, l’oggi è lei che ritorna nel domani, in quel domai ritmico che è il passato e l’adesso, l’oggi che percorriamo tra una pagina e un verso a ritroso per scoprire noi. Questa domenica mattina. Folle sbarco, mite approdo, porto sicuro, vela tesa, prua fulminea verso l’immenso. Cauta, cauti. Diretti oltre il monte, solcando l’illusionistica cascata d’orizzonte degli eventi, al di là dopotutto. Verso l’altrove e nell’altrove già da un po’.

Bellum: sotto i colpi delle saette oceaniche

  1. Credo sia questa la data. Ripartire, rifare, rimodulare. Se si cancella l’ardore esautora il furore. Da dietro le barricate son qui. Questo il punto, l’introito d’Universo. Bagliori funesti lontani giacciono, grandina respiro d’assenzio, acque velenate. Ondaccolare in suadenza. Sto rescrivendo (riscrivendo!?!) ciò che già scrissi. Ripensando. Questo capitolo, verso, versetto, scherzo. Scherzetto. Obnubila silente ancora. Fulminee secessioni malrimesse, saette cordiche sotto l’abissico cielo cariddico. E rimodulo, ci provo.

Bagliore, dunque! Bagliore! Illusorio, scrivo così e parlo colì. Rimbombo astrale. Scuote il sistema dalle fondamenta, fondamenta stolte del pensiero. Balaustre e bastoncelli d’incenso. Sotto travisamento altero. Scuote il cielo ancora nel turchineggiare attonito. Sono solo con tre foglie ed un cancellino. Dicendo ancora- tornanti infuocati-. Scuote l’abisso! Tramonti rubicondi!

Eccomi, è questo il punto. Sono, eh è già un’impresa, un proporsi in manifestazione. È l’apparenza [unica forma possibile d’esistenza, ovvero di epifania della stessa]. Etalagici voi invece, furbi che vi credete intelligenti mi vedete. E che vedete? La terra, bella, magnifica, magniloquente. Ma siete furbetti voi pseudointelligenti. Lo siete e dite: non è così e mai può essere cosà. E scavate romite talpe! Scavate per toglier le piume. Ed eccovi ora voi, che vedete. Acqua sporca di terriccio, acqua torbida. E dite il vostro eureka. Sententiate, profferite e dite (in quest’ordine o all’inverso), abbiamo capito. Furbi delle sottane asmodiche et asmodaiche. Stolti e ciechi nella vostra furbizia. Vedete il vello di metallo sotto tale torpore turpe? E se andate innanzi azzardate, immaginate e sortite ciò che non vedete, o che vedete per qualche spaccatura astrale, ogni tanto, di rado, a volte. Voialtri furbi più dei furbi deducete-e sempre dal sensibile- invischiati in questa epoca seicentesca della materia, protesi ma non ancora consci dell’Aquario. Dite. Sotto c’è l’ardore. C’è il fuoco! E in là più non andate. Stolti più degli stolti. Furbi di II livello, seconda generazione, 2.0, 4.0. non vi soffermate che sul voi stessi etalagici nel giudizio. Ecco il nucleo che credete di fuoco, voi che come spiriti immondi siete in quest’aere. Aeriformi dite: è foco! È divenire. Gnostici dei miei stivali, testimoni di Geova dello gnosticismo. Girovagate su voi stessi, tra Tartaglia ed Abracadabra –rimodulate entrambi cerchiando le lettere giuste ed ecco i primi numeri in sequela-. [Sator arepo tenet opera rotas]. Girovagate metà per metà verso la meta, o scorgete l’intero e una sua parte e di quella parte aurei il doppio ed il resto di esso mezzo. Ma non capite che del sensibile. Invettiva parlo di me, dell’universo e di ogni essere umano. Sono io stesso la vostra scusa, la mia scusa. In intermezzo. Ma scindendo in duplice forma l’immobile staticità. Ecco il nucleo! È etereo. Motore primo. È somma bellezza. maraviglia! Sonnecchiate razionali e non sognate l’infinito. Insensibili che studiano concupiscenti solo il sensibile ed ad esso si fermano. Tutto così claro a voi. Geoidesco, sferico, ellisodeico e fotografato e visto da un satellite –quale?-. clauso il senso ancora? Fondo opaco di bottiglia catarifrangente nel catartico eclissarvi in vitro. Neopositivismo filoprotestante, new age da burini cosmici. Attracco e fuga e attacco nel silenzioso sinedrio dei vostri solfeggi a fiato chiuso, flauti assordanti in Bastiglie masticate. Ridicoli e di nuovo, mi ripeto, ridicolità convessa. Vapore marmoreo. Nubiliscenza perduta e spersa.

Rimbomba ancora l’intorno della questione. Qui nella Terra di Saturno, nel Giardino del Mondo, vicino Città Nuova, sto meditando tra il fragore fulgido del frastuono. Eccoli! Avanzano! Sh!sh! Bastioni bellici! Non c’è pietà né dignità. Percorso distratto in rettipiano tetraetico. Crolla l’impero! Quest’ipotesi è astrusa sul tuo polso. Le vedremo tutte e quattro tra un po’, più in lì. Anzi cinque, tra calendario stropicciato. (Virtù diademica). Tra un po’ è già adesso, per il momento in parte e per l’intero il resto. Eccola! Bastioni bellici, incede con lealtà. Cambio repentino. Ma lieve ritorno. L’armata lontana si percepisce appena, no, non è ancora qua, ma il sapore dei rami è fruscio diverso, aspettiamo (aspetto!?!), aspettiamo immersi tra gli odori incantevoli et incontaminati. La Foresta Nera tromba di realtà mascherate. Nel mentre avanza, avanza e non si sente. Questa gioia ci raddolcisce. [E parlo al plurale sentendoti vicina amica, colmo chiasmo dopo il fulgore antecedente e prossimo, viso postumo], ci rinsavisce dal dolore, ci accomuna, ci sbandiera gaudio dagli occhi alteri. Assopiti, ondeggianti nello smeraldo. Le baionette sono un inciso. Ecco ancora. Un romore strano si avvicina, non è grido di guerra, non è urlo di vendetta, sembra quasi il prosieguo di tale armonia ancestrale. Ma gli zoccoli! Eccoli! Eccoli furenti i nimici. Alziamo l’asta. Si va, lance, spade sguainate. Si va. Shiva. Saettiamo, marciamo repentini, affrontiamo questo sibilo assordante, vacuo, all’istante. Voglio te, tra le mani. Mio plurale, raga dolcissima come liturgia dei sensi ed al di là di essi. In me stessa eterea sembianza. Unità e molteplicità ad un tempo. preludio di ogni verbo tonante e sublime nella grazia.

Io, solo, qui, tra la sabbia. Un dì batteva la speranza sui tuoi vetri di soffiata. Come sempre il sentore di averti amata, ma così, tra i capelli, tra i silenzi, mentre giri per intero il viso. Da sempre annebbiato finì l’incanto tra di noi? Vaghi vaghiamo, io tra frivoli pensieri. E tu sei tu. Sei la sola sconvolgente –e ti osservai nel giardino tra germogli di virtù-. Ossigeno sgorga e tu ne sei la fonte, tra queste nebulose venefiche della battaglia. Sì, ne sei la sorgente! e quel divario tra essa che è il nostro filo di appartenenza e così dal plurimo zampilliamo assieme. Alzo lo sguardo di là dalle barricate. Sei là, tra le nubi stesse, e arresa e fiera. Oh sì! Sei tra le nubi, mi chiami, mi sussurri colle penne tra gli anfratti cordici di me in attesa dell’assedio bellicoso. Ti imprimi nell’alma macchinosa, ti dilunghi estrosa. Oh la tua incantevole girata di volta, di archi, di riporti, ancora ossigeno mi sei. Voglio te, voglio te, voglio te. Qui ed ora. Tra le mie mani. Mia virtù diademica. Cosa vuoi mia luce e mio respiro? cosa vuoi sospiro intenso? cosa vuoi essenza luminosa? cosa ancora? Alberga in me il rimorso buio del tempo. Mi abita, lo indosso, chiara vita scorre nello sgorgo della barra oblatica. Vita e non violenza, scintilla lieve a cavallo di ippocampo. So che nell’aere vibra il tuo esercito imbattibile come tra gli abissi tremanti. Sembra giunta l’ora della verità. Ah il rossiccio ardore! ah il pallido incarnato! ah lo smeraldino furore! Sembra scisso in due essenze e tre sostanze il mio corpo. Improvvisa l’anima torna in lui. Torna. Salubre come te, che sei valore e sai volare nello scontro e mi cedi le ali intrepida. Le mani, le mie, che ti bramano schiuse! Hai boicottato i miei progetti terreni e sei ancora sospesa e faziosa, ma di te. Oh virtù diademica! oh bellezza angelica! oh firmamento marino! Arco da mille foglie e dodici varietà cromatiche. Statica mia! Il dormiveglia stride, unghia sul marmo in acustico bagliore elettrico. Vai, vai. Tu sai dove mirare in do minore. Sono tutto tuo. Vivido il violetto alfa et omega del circuito universale, intermezzo spettacolare, progresso generato dall’errore ribelle, uomo io e tale perché cado nel vizio, trappola tesa da cui mi innalzi. Uh magmatico limite! uh sinaptica percezione extrasensoriale! uh magnetica dialettica metallica!

Ancora ed ancora. Forever and ever. Scuotimenti sistemici, sistematiche docili e velleitarie. È un nuovo adesso e l’impero crolla. Crolla l’impero. No, non c’è barlume [ennesimo cambio repentino], non più. Siedo sulle scale, ti vedo muta carezzare il naufragio nei pensieri, dei miei pensieri, quelli nostri, dei pensieri. Scene oscene lì in su la nostra stella. Arde! Arde a tempo, arde fuori l’arioso e freme. A me, a me echi ancestrali, a me potenza indomita, a me. È una sera strana, aurorica, ne sorbisco i dissapori, le scarpette fulgide alla porta. Entri? Sì dai, entra pure. E cosa vuoi? Tu cosa vuoi? Tu che non piangi e respiri col dito. Tu che sei di lì, nell’altrove eppure qui, immanente nelle cose che profumano di te. Lontana ma ferma all’uscio, quasi timorosa e senz’altro –Dio come mi piace ripeterlo- ardita. Faccetta di neve in questa bufera cosmica e dialettica dell’oltraggio. E ti scordi arco femmineo, amazzone anarchica, ti scordi di nuovo. Ti vien da ridere alla follia, simultaneo il sopruso, lo sberleffo. E mi sbatti nelle segreta dell’animo senza esitazione, pietà, senza gravami alcuni, senza retori che esplodano in sermoni ed arringhe di ogni branca per me. E lei che ride a sua volta e crede che io, che noi, che voi, parliamo dell’autogemmazione squamosa. Eccoti qui, eccoti qua. Sei venuta dall’altrove e guardi, profilo assente, al di là. Ovviamente, altrove. Non ti degni di entrare, accenni già di dover andare via, di voler andare via, di fuggire tra altri beffardi segreti marmorei, come gli occhietti vivi e vividi che sfiorano i sensi e non riposano. Che tutto vedono ma che non scorgono il particolare, arghici ma per metà vivace in completezza. E i furbetti s’adoprano nelle loro belle generalizzazioni. Ma tu, tu, tu dimmi: la rosa non è meglio della distesa verdognola intorno che la contiene? L’intorno d’altronde ausilia soltanto la definizione di limite e pur tuttavia la stessa sussiste intrinseca solo nei petali. Sai? Booom! No, dov’è la luce? dove il sole? dove il cielo? Non c’è speranza ahimè, la scala crolla, è appena crollata disarmonica ed io con essa rovino. Futile oggettino antico nel postmoderno postatomico e postcibernetico scalzo. Nel ripensamento inutile. Noi, mai più noi. Anzi no, mai e basta. Mai ci fu passato, soltanto gemiti (le lacrime del cielo carmini versetti). Sento già e dunque comprendo che mai si perde ciò che non s’è avuto. Ma la libertà! Lei è in rivolta e non resiste alla rappresaglia del potere quieto e subdolo, cerca un appiglio ed io la seguo prolisso cercando appiglio. Stende le mani tese come le mie che te vogliono bramose. Stende le mani tese alla volta turchina macchiata, gelido metilene e cobalto pel fragore cromatico disturbante le intere sfumature del rosso. Tuttavia nuvole rade non ostacolano il gesto ribelle, il giavellotto o la torre della unica voce, la piattaforma della pace svilita dai nostri rimorsi dal sapore di sapienza e dal retrogusto di reciprocità e rispetto. Voce sussurrante e bellicosa che trafigge non il nemico ma il mio-nostro-stesso petto. Apparenza mia fulgida! Ohi! Ci sei o no? Prendiamoci per mano, varchiamo il confine. Anzi, con la gomma pane smacchiamolo e poi resettiamolo. Siamo qui per questo, tu già lo sai. Il tuono non spaventerà la moltitudine sola. Dai, vieni. Booom! No, non c’è pietà, in eterno esilio dalla verità (le camice sulla cruccia accanto alle scarpe). No, non c’è lealtà. Dove sono finite le armate invidiate et indistruttibili? A vele spiegate tutti scappati. No, no. No! Io non andrò via, resterò solo ed affonderò, e se affonderò sarà con te, alabastrina mia. Finisce il tempo, crolla l’impero, crolla l’impero. Crolla l’impero!

Scompari, riappari, scompari. Un giochetto. Che nervi! Dalla disapparenza svolazza un segno. Nel disapparire emerge un foglio, come un lamento di chi se ne va. Cade andando su [si inabissa quando s’alza]. Virtù diademica, ancora. Virtù arzigogolante. Lo leggo.

“Se scenderà

questo lamento tra le vie

con quel furore

che connota il mare

in tempesta,

 

se capirò

che tra le pagine

non hai lasciato il segno,

 

proteggerò il candore

della vita

stringendolo

semplicemente, lievemente

tra le mie mani.

 

La virtù nella sabbia,

tra pensieri nascosti,

senza tanto sperare

in quanto suadente

riposa in dolori

più agguerriti delle lance.

 

E poi,

fuggendo l’anima da quegli ostili spiriti,

mi chiede venia il cuore

ma stavolta senza stupirmi.

 

Intorno c’è tanto vigore

e quell’oscuro rifluire

di sangue nell’inchiostro

 

(protegge quella macchina

divina

il pathos della fortuna).

 

La virtù

senza rabbia

si è assopita di nuovo,

si è rinchiusa in stridenti

parole annebbiate

dai tormentosi bombardamenti.

 

Me ne andrò via

senza lasciare sparsi i fogli,

con quel sapore che distingue

il chiaro valore delle cose

 

e piangerà lo specchio

sentenziando un mio ritorno,

di canti irsuti

degli astri perduti.

 

La virtù

si domanda

se va bene così,

se ha lasciato lo spazio

al caldo invadente

ed al risollevato

refrigerio della mente.”

 

Mi ricordo. Mi ricordo. Parafrasando Pierpaolo la poesia è l’essenza del capitolo. O di più? La conservo stropicciato ed inumidito antico fattomi lei ed in lei. Scende il lamento. Virtù diademica, virtù diademica.

Salto quantico I: l’esperimento di MJ

  1. TS in scossa rivoltosa ha spianato il varco, per un attimo in controluce l’orizzonte degli eventi, immerso per scossa autocelica nell’LCTS, labirinto cosmico tele spaziale, telespaziale. Tutto in un istante è attuale, dietro il futuro ed innanzi il passato. L’ha fatto, l’ha fatto. Ma si è fermato stanco al bar a sorseggiare il solito tè sconvolto. Non era stata una buona giornata ma ottima. Noi lo sappiamo ed affidiamo a te, MJ il prosieguo, arma che distrugge et amaca assidua. Altro che arma, altro che scissioni. Ci state lavorando, scosse telluriche o lisergiche. Ciò che avviluppati assordanti stiamo per fare, oh MJ, è ciò che è impensabile! Oggi 9 dicembre. Sotto la svastica, sotto la svastica. Lavora littorio accademico dello studio. Assorda, assorda. Fluidificazione! Sintassi ostica del silenzio. Momenti, momenti. Il carico è pronto, scindiamo noi, annichilimento, annichilimento. È questa l’ora, sette e ventiquattro. Partiamo. Saltella opaca la tua scrittura, velocissima, supera la luce e si fa fattore. Asserzione destrimana. Aspetta. Luci ancora abbaglianti. Per non perdersi ne LCTS ricorda che pensiero vaga in. Ecco la congiunzione. Spalanchiamo e vaga colla mente soffermandoti su un punto. 12000 anni orsono. India. Amebe scarse, qui si fa la storia. Si cangia motore e maestrale detto a tratti. Soffermati su quel punto, medesimo giorno e medesimo mese. Purezza d’alleanza. Sublimazione.

Qui si fa la vita! Scostando l’assoluto e secernendolo in cellule scomposte. Neuroni. Ippocampo trainate vello roano ed amigdala vettore dirigente. Qui si fa! Canto armonioso propaga. Li vediamo, li vediamo. Uomini in cartapesta e cartongesso risaliti e rinsaviti. L’altare agli dei, che siamo noi. Inchinati e scimmieschi ma evoluti. Qui si fa la storia. Ciò che abbiamo aperto non si chiuderà. La soluzione nei radicali. Rieureka! Riscossa! Ecco come è diviso. E manco ci eri arrivato lettore, lettrice. Manco per divinità. Compressione del campo zero e Riemann. Ecco come accostare. È tutto esatto. Condotto fuori. L’India! Spostandosi si inchinano, diamogli il simbolo uncinato. Paradosso della conoscenza! Quello che stiamo facendo, quello che stiamo facendo. Era qui la chiave, nel flusso mnemonico. Nel flusso mnemonico. Il tempo è scandito dalle radici. Spazio reale e tempo unità immaginaria. Grande MJ! Ma è come perdersi, perdersi per pochi scansi sensibili. Approdiamo e la chiave è duplice. Il tempo scandito dalla sequenza numerica al quadrato. Questi sono i punti di accesso. Gli unici. E noi possiamo esserci in corpo, anima e spirito. In sangue ed ossa e dignità. Segale cornuta o pejote. Abbiamo avuto accesso e la numerazione è quella Gregoriana. Incredibile come la mente produca immago et suono! L’errore scostato e l’ora legale benjaminiana. Ogni cosa che sta facendo l’uomo l’ha già fatto, ovverossia la farà. Per ora l’India, ma continueremo. Si parte dall’1 che è se stesso. Ottimo. Ma hai fatto di più, sei andato in regressione prima dell’1 stesso. Come al solito, come sempre, MJ hai intuito una cosa prima di scoprirla. Incredibile! L’unità immaginaria! Irrazionale. Prima di capire come muoverci negli anni del Signore hai scoperto come muoverci in epoca anteriore. E da lì, poi, muoverci in questa. La mente umana è strana. Da perderci la testa se non lo si è già fatto. L’India non è il loco che cerchiamo, ma il primo esperimento è ok. Lei è un genio MJ.

Oggi, 9 dicembre 1936 il passato non è più lo stesso. Tutto qui comincia e tutto qui cambia. Silenzio e rullo di percussioni, assordato assordante assurgi. Ora il nostro futuro è il passato. Quello che ha dipinto in sala Hr non è rubato dal simbolo della vecchia destra. Ma è un simbolo indiano. I quattro elementi ed al centro l’etere. Oggi abbiamo cambiato ciò che era. Non si torna più indietro, non possiamo ritirarci. Si torna indietro, quindi. Buona la prima-anzi la seconda- accordo di quinta e verde. Brucia poi il silenzio.

Misterya Magna: la Creazione

Tutto ciò che è pensabile è esistibile, esistente in potenza per il tramite dell’atto. In principio era il Verbo, parola creatrice. E non esiste nella staticità divina creazione che non sia eterna ed eterna nell’attimo et priva di ogni demoniaca caducità. Thirassia la cacciatrice è il viaggio spasmodico ed in preda alla crisi, critica, poietica, poetica. Fattura et fattore. Et etiam fattura ad immago del fattore. Thirassia la Cacciatrice è Atlantide, il balzo sovrapposto tra pensiero presente ed epoca di contatto, Stupor Mundi, ed è così. Atlantide ed Antartide, zona franco-italica, mi ripeto. Etiopia. Dove? Terra di Prete Gianni tra India e Cina, e poi più in là nipponica premessa assurda. Samurai stoico et in vita suadente. Codice d’onore ed onore pratico. Poi più in lì scavando, a partire da qui, Giardino del Mondo vicino a Città Nuova, trovandosi nei lembi del pacifico mare magellanico, Mu. Ed onda convessa in striscia di foco, dorsale oceanica. E la Tule più a nord, lì, tra le nubilose ghiacciate e fumanti atrocità islandese. I Pitti incontrano gli indiani d’America, i Fenici diretti alle Canarie. Ma su questo torneremo, torneremo, amata lettrice, distratto lettore, magico ipnotico velame d’assenzio. Ci ritorneremo mentre il centurione cesareo brucia il museo. Alessandria. Per distrazione od ordine imposto. Ci ritorneremo. Premessa questa è come promessa, ma utile nel riguardo di ciò che sto per dire, fare. Tagliato il collo alla giumenta stanca. Vapori ancora tra Marsili e il pleonastico calcare, tra Vesuvio e i campi solfurei. Tra gabbro e basalto, e la metrica che è giambo, ci ritorneremo. Apriamo il preludio, monte d’universo.

E che atto, atto dettato da una volontà. Genesi, genesi. La premessa è per cercare l’edenico posto, il posizionato topos dell’assurdo imbavagliato dal silenzio ardente. Fuoco nel roveto legiferante. E come tutto nacque? Come cominciò quando lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Creatore e creatura. E cos’è l’uno e cosa è l’altra. L’altra mezzo tra detto e dicente. E siamo noi. E l’Uno trittico trino, per contemplarlo in trinità tre Persone ed una Sostanza. E noi ne deteniamo il riflesso. Noi che anima come Dio propendiamo e promaniamo con lo spirito nostro per il tramite del corpo. E questo potrebbe bastare. Ma basta? Questo è in altri essenti in egual misura, ed anche gli utensili, detti scarsamente, sono essenti, minerali. E dunque non basta a definire la creatura. I minerali, gli essenti vegetali et gli altri animati differenti da chi è a Dio simigliante. E che siamo noi. In doppio grado, uomo e poi in sommità donna. e donna tramite stesso ed apertura varco divino. Ma il sangue e le ossa e la pelle et i nervi, et la linfa nostra. È la unicità. È la unica vera unicità. Ma ogni altro, prima dell’unicità nostra, va descritto. Le onde elettromagnetiche, le onde elettrochimiche, lo spirito. E lo spirito ha tale duplice fattura, che dalla elettrochimica comunica in noi stessi risplendenti e che dall’elettromagnetismo illumina l’altro ed il creato. E tale conformazione è propria delle specie inerti ed erte, perché non v’è qui differenza, il loro spirito è colore, è sapore, è profumo, ciò che percepiamo. Et tale spirito è anche il loro, ma negli essenti clorofillici e negli animati a noi differenti come per noi c’è l’elettrochimica che elabora e l’elettromagnetismo che emana. Nei minerali è elettrochimica che sola emana e l’elaborazione del messaggio è in sé lucente carevole, e l’elettromagnetismo la accompagna, come bivio verso noi stessi, che siamo centro dopo Dio. Ma in tutti i descritti il messaggero è l’alma, come Padre persona divina, situata nel core per noi e per altri essenti animati, negli altri intrinseca sostanza, a ciascuno differente a seconda della conformazione e del diletto divino, e della sua fantasia. Il corpo è quello che rende visibile tale divino mistero dell’invisibile. Lo espone e lo dipana e lo intreccia et lo trama. Guscio del vettore spirito che è messaggio  e che è elaborato dall’anima messaggera. Spirito traino vellutato ed alma nocchiero, et corpo ciò che serve et è concreto. E sembrerebbe ora che la nostra distinzione che è sangue e linfa ed ossa e nervi ed anche pelle sia simile anche ad alcuni essenti animati, ma differente ne è la funzione. In loro animati evoluti et anzi evolti, perché evoluzione implica mutamento, e mutamento e divenire sono baalici, come ormai detto, tutto in loro funziona ad imitatio homini. Ed hanno altresì tali stesse sostanze perché a noi servono per la gloria, e noi che nominiamo, e nominando abbiamo fatto, subito dopo la nostra creazione, che ha forma differente, come tra un po’ la pazienza del lettore e della lettrice e degli altri mille, e delle miriade che sono e non sono e quindi saranno osserverà leggendo.

In principio lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. E dunque cosa c’era prima e cosa dopo, che è la medesima quaestio. Abisso è vuoto et infinito e zero, mare d’atrocità perché la mente intuisce ma non concepisce l’inesistenza. Ma tutto ciò che è pensabile è esistibile e ciò che è intuibile è respiro d’assoluto e del vento, e quindi del volto. È qui la seconda chiave. Per chi ha orecchi. E gli abissi! Mari colmi di tristezza, la tristezza e il pianto che è sospiro di desio. Che è sommo amore. Osservare sé ed essere in sé sufficiente e per questo incompleto. Era l’abisso Pitagora e sovvertito perché vi era il vero e la realtà era terribile in quanto perfezione nell’incompleto e quindi nel dispari poiché se il pari completo è definito, l’incompleto no. Ed in ciò resta traccia, perché nulla esclude ciò che era, essendo ciò in sé stessa. L’abisso la realtà, Dio la verità. L’abisso era il pensiero triste del divino, l’aracnide ostile che non doveva essere ma che essendo sarebbe resta in traccia. E l’altro pensiero era il bello, il buono, kalos kai agathos. Per questo il suo spirito aleggiava sulle acque. Come su ruscello senza abisso, ma l’abisso era il pianto. E allora il verbo arresta. Necessità. Necessità. Amore. Libertà. In giusto ordine. Perché l’Artista sommo crea, crea cioè pone in essere. E qui vi è l’atto creativo divino dettato da una volontà libera che è l’amore. E sia la luce! e con essa le promanazioni di Dio, ovverosia gli angeli. Messaggeri, taumaturgi, misericordiosi, combattenti. Promanazioni delle qualità di Dio, cori sonanti e musicati, canti di giubilo. E c’era la Luna che sono gli angeli strictu sensu, riflesse immagini nell’acqua cristallina ove aleggiava, che sono coloro a noi più vicini perché voti incompiuti, inadempienti, luna venere strabica e nella strabicità ha perfezione. E poi Mercurio ed i combattenti Arcangeli, per fama e gloria, bagliori e fragori che cantano e luccicano, Hermes che è Gabriele, medico Raffaele, generale Michele. Poi Venere che volteggia e canta e sono Principati, sommo gaudio d’immenso. Poi il sapiente Sole, e sono Potestà, spiriti di Saggezza, cantanti e danzanti in triplice corona. E poi Virtù, bellicose, che sono Marte e che sono eroi, danzanti in una croce luminose, le Gemme altere e pure, come essenza di minerali, nelle varie gradazioni. Poi i puri, catari, Dominazioni, in Giove, e dalla purezza la possenza della mistica, che danza e canta colla scrittura, aperta a chiare lettere ed è la parola più sincera, impressa lettera a forma d’aquila. Perché dalla scrittura e con essa combattono per la verità. E ciò che è scritto rimane ed è la Giustizia. Il pianeta possente è possenza d’estasi e l’unica divina Verità che vince la Legge di sabbia e di cristallo. Ancora l’accesso più alto, e che è Saturno-e qui è l’origo del Giardino-, gli spiriti contemplativi che sono Troni. I fattori del mondo, le parti migliori che ungono l’alma e nell’alma si innalzano. E v’è corrispondenza tra Giove e Saturno, tra questi, doppio volto della ascesi, contemplativo ed attivo, e l’azione vivente delle Dominazioni discende dalla purificazione dei Troni. Poi le luci accese in un cielo fulgente che sono i Cherubini, spiriti del trionfo, quelle luci corazzate e limpide, ove corazza è ciò che mostra la potenza infinita di Dio e la sua eterna gloria che mai tramonta. Stelle Fisse! Nulla muta e nulla diviene, eternità della parola. Ed ecco la musica divina, somma genitrice dell’essenza, nove cerchi concentrici che rotano attorno un punto, mobilità statica e non dinamica, flusso etereo ed intramontabile. Quello che la bocca tace è splendore del canto, i Serafini. La luce si fa musica in ondeggiamento dialettico e tripudio intenso, e tutto qui si raccoglie. E poi l’Empireo, la Rosa Mistica, il clamore che diviene grazia e femminea grazia, ciò che oramai non può descriversi, né dipingersi, né musicare. Ed ecco che qui ritorna il concreto. Ecco Dio, che è materia e che è energetico vigore genealogico et energetico flusso creativo. Ed ecco che è la luce, così descritta, quella luce che promana angelica ed è Spirito Santo, doppio vettore, di qualità di Dio e di contatto et etiam voce sua e sussurro del vento, alito ancestrale, pneuma, sollievo sospirante. Ed ecco il cielo che è luce, e che separa dall’incubo degli abissi. Per poi far emergere ciò che ogni altra cosa contiene e che è la terra, ed ogni suo abitante, con le caratteristiche perfette nell’imperfezione, e contenitori del tutto anch’essi, scintille del divino ma serventi. Ecco che Dio che è anche corpo crea il suo corpo di belve, clorofille e terre emerse ed è in esse perché in ognuna sia custodito l’infinito. Ed ecco infine l’uomo, che ha le medesime qualità del divino, a sé somigliante. E plasmato in creazione, non creato per mezzo del tuono candido delle parole come tutto il resto. Plasmato a sua immago e superiore anche agli angeli tutti, lux dei. Con un corpo proprio, con proprio spirito, e con propria anima e tutte derivante dal creatore. L’uomo che Dio ha modellato con le sue mani è suo respiro. E poi la donna ribelle e poi l’altra del suo fianco e la tensione d’assoluto. Lei che in duplice natura è angelo che tutto abbraccia e che a Lui conduce l’uomo. E l’uomo nomoteta come Dio delle creature e delle terre e finanche degli stessi abissi dà con voce e canto suo valore al corpo di Dio creato, nominando dà valore a minerali ed essenti immobili e mobili, nominando dà valore a quei frammenti dell’infinità del divino. La voce di Dio è il canto che crea, la voce umana quella che dà valore e che tutto canta stupendo e che tutto custodisce di ciò che è fatto ed a cui il divino stesso accompagna sulla via per mezzo degli angeli, per guida dello spirito illuminando l’alma umana che risplende e risplendendo illumina a sua volta nella custodia e nel concedere per grazia valore. E se gli spiriti angelici hanno libertà tal libertà è dell’uomo e della donna stessa ma maggiore per loro stessa fattura. E la libertà è ciò che conduce l’uomo a scegliere quale donna seguitare, e se dare o togliere valore alle cose ed agli essenti e quindi a sé medesimo. Se di sé aumentare valore o toglierlo, agli altri togliendolo, se distruggere il giardino scegliendo l’abisso e perdendosi in esso o se rimanere illuminato dal divino spirito ed esso seguire liberamente. Ed anche gli angeli ribelli, un terzo d’essi, scelsero di guardare verso l’altra sponda, ribelli al fattore e precipitati da Esso e dai fedeli nell’incubo suo, nella sua tristezza. E in tale tartarica tristezza incatenati. E dall’abisso a richiamare l’uomo ad essere lontano dalla luce. e dall’abisso ancora a convincerlo che lui è ombra perché la sua ombra vede ma può essere luce, e con tale finzione l’Avversario e i suoi distolgono dalla luce l’uomo, e gli tolgono valore. Invidiosi dell’uomo e della donna conducendoli in perdizione, con l’illusione, in tutte le sue forme. Perché illusoria è ogni essenza di quel terzo malvagio, dal divenire et tempo, alla caducità, alla malattia nelle sue diverse specie ed alla violenza bruta e d’ingegno. Mentre l’uomo fatto è per seguir la donna e tendere a Dio, e la donna per contenerlo e vivere in Dio. L’uomo e la donna sono le virtù di Dio da Dio promanate e tutte in essi contenute, quelle virtù descritte, proprie della luce, degli angeli, e dagli angeli donate all’uomo per il tramite dello spirito.

E l’uomo e la donna danno valore o liberamente possono toglierlo attirati dall’illusione, e l’uomo e la donna custodiscono o possono distruggere attirati dall’illusione ancora, e l’uomo e la donna posso seguitare il vero e veder il reale in sé e non nella sua illusorietà. In duplice via, l’una verso il creatore l’altra verso il creato, ed ambedue per gloria del divino. Timor di Dio per il divino e Pietà per simili creature, e quindi Scienza delle stesse e propria Fortezza, e quindi  Consiglio per i simili illuminati nell’Intelletto dalla terza Donna, Regina di Sapienza, e che conduce l’uomo stesso alla Sapienza. e ciò per la gloria di Dio. Ed anche il diletto pel creato e delle creature e dei simili, tutto è ad essi uguale e tutto tendente in spasmodico Amore, o in meditato stupore. Ed Amore agape che tramite l’eros brama ciò che manca, e seguitando la lingua prescelta e che è la Nostra, quella di chi scrive, della Terra di Saturno, lingua primigenia della italica stirpe. E per dialettica etimologica di genere che sintesi etimologica genera, ogni nome maschile è ciò che cerca ed ogni femminile ciò che è cercato per il raggiungimento d’Equilibrio che è razionale et maschile ed ha per faccia irrazionale e pura l’artistica Armonia femminea. Come ad esempio, et sommo esempio, Amore maschile cerca Bellezza femminile, e via per ogni cosa chi cerca è uomo e chi è cercato donna e tramite la ricerca incontrare Dio, ed ad esso tendere. Tutto per ogni parola, la Scienza lo Scienziato, e l’Arte l’Artista, e via di seguito. E tutto ciò saliscendo la Misteriosa scala del femmineo. Amore, mosso da Desiderio e Sentimento, salisce i gradini, Ricerca, Follia, Verità, Matematica, Scienza, Sofia, Libertà, Perversione, Responsabilità, Timidezza, Poesia, Giustizia, Intelligenza, Apparenza, Felicità, Morte, Bellezza. E al culmine la vetta: Armonia finale.

Dopo i fatti: salto quantico -1

“Scenderemo nel gorgo, muti”. 2005, ad un anno dai fatti noti. Muta, 2004 e lo sbalzo quantico. Scomparsi in regressione. Si indaga. Scoprire qualcosa per puro caso e per disagio esistenziale, mistero del dire in proporzione austera. Scoprire per caso, è ciò che rompe la causalità nel processo intuitivo, l’uso fatto da Philadelphia ‘43 all’MK 70 e poi al girigiogo estremo del 80-90, e poi a seguitare col 2000 da novembre a marzo del successivo anno da JT. Li analizzeremo ma bisogna partire dal negativo speculare. Diremo quasi sia avvenuto prima del 1936. Gran trambusto nella perdita definitiva della linearità giudaico-cristiana che era tomisticamente un orientamento per descrivere il reale, viziato, viziato dalla caducità. Ma essa comunque andava descritta, per farsene, come dire, una idea. Ma i tempi sono maturi. Le date confuse. Verrà poi il 2013. Ma dopo, cioè anzi la venuta dell’oblio ditirambico. Per dipanare il dedalico suono voi seguite la numerazione. Cerchiamo di dare ordine, intuitivo ovviamente. L’intuizione è ciò che precede la verifica e poi tutto si immerge nel calderone deduttivo. Ma andiamo per gradi, ripeto. 13 ottobre.

Le indagini affidate a MS, passato più di un anno e nulla di fatto. Il silenzio domina per evitare interferenze e c’è quel mistero del ’98  della comparsa dal nulla e della subitanea disapparizione, persi nei meandri dopo essere sedati. Quasi sembra si tenti, nonostante il silenzio e la discrezione, di deviare, distogliere, affidare ad altri. Ed MS lo sa ed oggi non cerca direttamente loro seguendo piste che gli sono congeniali, linee investigative tradizionali. Sa che c’è del mistero. Scavando nella vita. Nulla di concreto i due. Poca roba. Ripercorrendo a ritroso non c’è storia eufemica. Nulla di nulla. La cartella, la cartella del ’98. Sa che lì è la chiave. Lo percepisce come incauto elemento essenziale. Ma parliamoci in maniera chiara, limpida, dolce e cristallina. Il caso non è più suo. Solo primo intervento. Nel giro di un mese gli è stato tolto. Da chi? E soprattutto, perché? Agisce in proprio, quasi ossessionato. Una cartella con due righe ricuperata in gennaio, a seguire due fogli stracciati. Purtuttavia l’ossessione continua, continua perché nel suo ufficio è pervenuta quella misteriosa ed a tratti infantile poesia dal sapore di filastrocca e cantilena. Mitomane? O è lì la chiave. 18 di luglio. Busta gialla. Ad MS.

“La chiave è il motociclista.

———————————–

Colto sul fatto

da solo fritto.

 

Colto sul fatto il nostro amico

cadde pensando a ciò che dico

e se sul fatto non c’era niente

comunque lui avrebbe taciuto.

 

Era un ragazzo timido commissario,

lo giuro.

 

La polizia chiuse i battenti

ma scovò nell’aria altri incidenti

 

ergo riprese i battenti,

scavò nell’aia e trovò i suoi denti.

 

Il commissario più adirato di prima

prese i ragazzi per uno spalla,

tra un caffè e una sigaretta

passò nottate senza vendetta.

 

La povera Lucy fu poi interrogata,

fu poi chiamata

in quella stanza tanto,

 

troppo buia.

 

“Cara

cos’è successo? cos’è stato?

sono tanto adirato”.

 

Erano intanto le quattro di notte

e il commissario con disincanto

scriveva tanto e leggeva poco

non c’era nulla nella sua casacca nera

tanto la verità la sapeva già dalla scorsa sera.

 

La povera Lucy, la cara amica

era stata chiusa in cantina,

torturata il giorno appresso

e il commissario giocò il suo asso:

 

fatta la sera, fatta la notte

venne l’alba un’altra volta

e il commissario restò a guardare

cosa c’era nello scaffale.”

Banale e quasi deandreiana, deandreiesca,  c’è assonanza con Bocca di Rosa. La stanza del monolocale di MS è tappezzata di ritagli di giornale e fa bella mostra questa cantilena. Ci deve essere qualcosa che sfugge. Scindere elementi, cogliere eguaglianze, secernere congruenze. Lucy? Motociclista? Cantina? Ed analizzare la cantilena. Ogni parola deve avere un senso. È come fosse un messaggio cifrato, ne è sicuro. Lo compara con la canzone. Ne studia i personaggi, le situazioni. Scaffale? Cantina? Cellardoor! Tolkien. Scaffale-fascicolo. Fascicolo manchevole, cioè cosa manca nel fascicolo, la parte stracciata della cartella. Motociclista? Andantino e distrazione, fumo negli occhi, estraneo, chi si occupa del caso togliendoglielo ed occultando. Commissario, è lui, MS. Lucy-Notte-Sera-Alba. Lucy-Marinella-Muta quindi. “Ragazzo Timido”-compagno di Muta scomparso. Riprendiamo Sera-Notte-Alba, connessione con le stelle e col fiume. Dal fiume alla stella. Piegatura dell’estrella. Adirato, per il mistero? Incidenti nell’Aria- il volo nel fiume? L’Aia il Giardino-quale?- Denti-Tasti del Piano. Tortura-Disagio Esistenziale, ovvero paturnia del sé. L’Asso- il Gioco. Prese i Ragazzi per Una Spalla-una sola? Quindi Spalla sta per colui che è accanto, nel significato teatrale. Opera, messa in scena. Chiuse e Riaprì i Battenti-quindi indagine in proprio. Ma c’è qualcosa che manca! Ma c’è qualcosa che manca? Lucy-Muta, colei che dà la Luce-la luce plasmata dal fango. La Creazione, creazione che si sposa con messa in scena. Quattro di Notte-ora della scomparsa. Sommatoria delle due e delle tre di notte meno uno, che è il fattore manchevole. L’alba viene nuovamente. Quindi si scopre il mistero. Sera-Notte-Alba, Alba che nuovamente viene, cioè che è già venuta e che dunque è il punto di inizio. Manca l’Aurora. Dall’alba si comincia, ma la verità si sa già nella Sera. Cosa avvenne la Sera. Cosa c’entra l’Aurora. Aurora prima luce del mattino. Venere. Aura anche? Amico-Ragazzo Timido. Mmh. Che Comunque Avrebbe Taciuto. Avrebbe Taciuto, cioè sarebbe congiunto con Muta. Interrogare la luce per trovare il fango, cioè Muta, fare domande a Lucy. Scriveva Tanto Leggeva Poco-i fogli stracciati e le deposizioni. Colto sul Fatto-Fritto-Aurora (che manca). Tempo!!! Fatta la Sera, Fatta la Notte Venne L’Alba un’Altra Volta. Si inizia all’Alba e si finisce all’Alba e manca l’Aurora. L’Aura, Eos, Eos+Selene, e la composizione, rime baciate. Ryma, la ragazza suicida. Kymery l’Aurora, Chimera a cavallo, la Chimera è il sogno, l’utopia ma anche l’essere mitologico, testa di leone,  corpo di capra, coda di drago e vomitante fiamme. L’Aurora è la fiamma, ovverossia la luce. Due suicidi. E due scomparse. E siamo alle quattro di notte, di nuovo. Il tempo, il tempo. ma rimescolato a caso. Chimera, cioè capra, e cioè luce, legata a Lucy, e abitante la Licia, terra di luce. Di nuovo luce. la verità la sa –la so- dalla sera ma all’alba che nuovamente viene resta –resto- a guardare nello scaffale ciò che manca e lo trova –trovo-, pur se manca. I fogli stracciati. Ed uno i Denti nell’Aia, ovverossia le stelle nel giardino. Ancora l’Aurora e Venere. Sa –so- la verità prima di saperla. Il Tempo invertito. E manca ancora qualcosa. Cellardoor, l’ingresso magnifico-più bella parola della lingua inglese- l’ingresso negli inferi, Virgilio e la Chimera, Vitriol, Capra, et in arcadia ego! L’ingresso agli inferi! Ma Kymery chi era. Come persona dico. Tossica. La droga, Colto sul Fatto-da Solo Fritto. Il cervello fritto, fatto, che vuol dire anche drogato. Fatta la Sera-Fatta la notte. Ovverossia drogata sino all’alba. E nello scaffale cosa manca? Ecco Tempo-Droga-Luce-Fango. Ed il Fiume. E le parole in Rima. Manca la deposizione. Motociclista. Come trovare il motociclista, che è la chiave. E c’entra con la droga, col tempo o con entrambi? Giocare l’Asso, il suo –mio- Asso. Messa in scena, una messa in scena. Un gioco. Giocare l’asso, avere l’asso nella manica. Giocare il suo –mio- asso. Cioè barare. Barare per trovare il motociclista. Lui –Io- la Verità la so Già Dalla Sera. Non c’è Nulla nella Casacca Nera. L’asso nella manica manca. Quindi barare per svelare la messa in scena. E qual è la messa in scena? Ciò che si nasconde. Che non c’è. Un Re Senza Corona e Senza Scorta. Manca il riferimento, eccolo, manca il riferimento tra cantilena e canzone, quindi è questo. Il Re, la carta. Il Re è l’asso nella manica. Senza corona e senza scorta. Ecco, ecco. Collegamento con Muta. Presenza. Quando? La luce, l’alba, il millennio. 2000. 2000 è il Re che fa la comparsa, se sera è ’98 e notte ’99. Il Re-motociclista che era già-già sapeva la sera cioè il ’98- fa comparsa all’alba del millennio -2000-. Alba che torna di nuovo, circolo ritornante. Il motociclista fa la sua comparsa nel 2000 con Muta. Ecco dove cercare!

Conformazione

Tremo innanzi alla ricchezza,

ho terrore del potere

 

mi sento un umile artigiano

delle parole,

un bambino che stride e piange

lacrime d’assenzio

nel suo silenzio smorto

 

De substantia corpore, anima et spiritu: immago dei, visibilia et invisibilia

Se nel vuoto del mio silenzio sospira una viola in tumulto è l’universo. Candida speme! Nell’introito che dialettico si impone quando in principio era, ed è tuttora, il Logos, il Verbo detto e creativo, e noi dicenti a sua immago. Scossa ancestrale fu l’uomo nella sua essenza che è substantia, nella sua forma corporale, nella sua emanazione in dire e fare, poeta e artista. Cenere è ciò che ritorna, ingraziato dal femmineo ed è sommo amore quel che resta ed è ombra ciò che vivifica la luce e nell’occultamento la esalta. Ombra fallace ed illusoria se la si seguisce come reale, parte del mistero se la si vede come dono. Immenso dono di Dio. Gli angeli non hanno forma ma sostanza e quindi non hanno ombra. E l’ombra è ciò che il nostro corpo imprime nel ricordarci che non siamo solo luce, non semplici emanazioni ma completi in riscossa. L’ombra ci rimanda alla nostra completezza, è una parte che ci ricorda d’esser corporali e ricordando ci fa risplendenti e risplendenti illuminanti. Ma se come ciechi, stolti, guardiamo ad essa e la ergiamo ad una realtà possibile, dimentichi diveniamo di tutto il resto che non è corpo. E così del corpo facciamo idolo, e tutto il restante è miscuglio organico, miscuglio meschino che ingloba in sé alma e spirito. Il corpo ci ricorda che conserviamo in noi l’essenza, una, l’immortalità. Ma se noi stolti ancora studiamo l’orma e dall’orma ergiamo templi al corpo e svuotiamo la scienza dicendola empirica et positivista e svuotiamo la teologia filosofica dicendola filoprotestante et illuminista diamo luce al corpo nostro e non al resto. Il corpo, il corpo! E se l’ombra è un rimando all’etereo eterno Massimo Fattore ed alla nostra stessa essenza, da ciò svuotata di noi non resta che il segno impresso. Come fugacità l’ombra scompare e disappare per fattura della luce, di tal guisa l’orma è divorata dall’acqua e se ne cancella il ricordo. Più alta orma stampar? L’orma è il nostro peso e se il peso è corporale di noi non rimarrà che la mediocre esaltazione di sé, l’etalagia del corpo. Se invece come per l’ombra riempiamo d’alma il corpo, l’orma nostra è quella spirituale, e spirito resta perché da spirito ben più alto è mosso, quello spirito dolce colomba d’umiltà e promanazione di sapienza e carità che irradiando l’anima ci rende fulgidi e radiosi a nostra volta.

E dal corpo si cominciò. Sommo Artista Creatore Facente prese il fango per modellar l’umana stirpe, Egli essendo sommo in umiltà la sua creatura volle fosse umilmente somma, dono lezioso, amorevole et accorato. Modellare il corpo ad immago del corpo suo, et del mondo et dell’universo intero. E il mondo è terra e terra è fango quando inumidita dall’acque, e così in prima mistura già fece preparandosi all’opra e l’acqua e terra et epidermide dunque la seconda et acqua abisso tenue, perché nell’homo restasse l’orma delle sue lacrime che, ad acqua così ad essa intrisa, nel profondo come linfa e come sangue che tutto move e scuote, restasse nella sua creatura la stessa Sua nostalgia d’assoluto, lo stesso baratro d’abisso, impresso nel sangue. E terra, l’epidermide, vello dorato per il suo lavoro, per il fatto in potenza. La terra che madre è profonda e che donna è profonda e che come l’uomo ricopre col mantello la ragazza per difenderla alla stessa maniera e nella stessa inclinazione coprì dal freddo con pelame rado e biondiccio, e come donna in sé coperta il fattore fece intarsio a tale pelle umana abbellendola in magnificenza. E fu madore per secernere l’umido in eccesso e così le due sfere oculari da cui sgorga rimpianto e rimorso, e tristezza per l’abisso. E sangue è abisso perché, come per orma ed ombra, l’uomo libero scegliesse di suo la sua strada e la sua felicità, l’uomo libero scegliesse amore per esser tutto libero. Ma se la scelta fu diversa, maledetto il fango tornò alla polvere e fu cenere, ed in ciò tornò per spegnere superbia. E per spegnere superbia, di cui terribile è superbia violenta anche detta sanguigna, imparasse il dolore e la fatica. Ma quel sangue d’abisso, che resta oggi e resterà sin la parusia, fu in seguito lavato dal Fattore stesso che si fece, mistero d’amore grandioso, fattura. E sangue del Fattor-fattura ogni colpa lavò tranne la scelta ed insegnò dolore e redenzione, ed insegnò amore edenico per creatura e creato e quindi per Dio, et acqua del Battista e sangue del Cristo tutto lavarono quando disceso negli inferi all’homo insegnò d’essere ancor più a Dio vicino. Ma l’immensità d’amore dell’Amante che si fece amato a che l’amato l’amasse e amasse ciò da cui egli proviene fu a tal punto grande che in sé definizione d’amore non mutò, perché in amor non v’è comando ma erotica pulsione, libera scelta. E quelle tracce d’abisso lavate furon restando la possibilità all’uomo di scegliere ancora l’Avversario ed il suo terzo, come avvinti dall’ombra et illusi. Ma in quel sangue et in quel corpo immolato grande via fu indicata ed immenso mutamento a che se Dio prima parlava faccia a faccia per tramite degli angeli suoi, quel tempo parlò in sé e per sé di sé, e tragos fu lui stesso. Mirate la cacciata edenica come l’amante deluso pel tradimento dell’amato. Deluso e subito riappreso che comunica per profeti e per re, e per i primi spesso inascoltato, che grande scossa d’acqua diede dalla terra di Saturno, che irato d’amore pel tradimento scegliesse homo per homo et donna per donna una guida, ora profeta ora re che a sé l’umana stirpe riportasse, a sé, alla terra et all’universo tutto. E fe’ castighi anche di foco. E le guide mai ascoltate anche se in trono, e la Giustizia della sua bocca ignorata. E allora guida più grande mandò, che non è angelo né altra schiera, che non è homo sovrano et legislatore et giudice per compier sua azione, che non è homo profeta per parlar direttamente, ma egli stesso si fece homo. L’amore per l’amato è farsi egli stesso amato, e qui è la sua libertà. Oh maraviglia! Quale essente animato, clorofillico o minerale o istrumento tanto fu amato da sposarsi in sé. Quale fu tanto amato da essere raggiunto non più a parole né a fatti ma in sua stessa specie! Come chi ama e abbraccia la sua ragazza e nell’abbraccio è lei, o chi la sogna, o chi divide nello stesso piatto dolci e vivande, quale essere fu tanto amato da assaggiar l’ambrosia e bere il nettare nello stesso piatto dell’Uno eterno!

Fatto che fu l’impasto occorreva il sostegno, e le travi di Agarttha furon prese et le rocce possenti della terra emersa a che fossero tessuto connettivo di quel fango e lo reggessero nel peregrinar, e dure fossero le ginocchia a che inchinato e genuflesso desse lode e lodando con preghiera e canto, e preghiera e canto ben più gradito dell’angelico perché fatto su dura pietra impressa di cui le luci di Dio da sole non son sprovviste. L’ ossa umane sono l’ascesi dell’uomo, il contempalar il divino. Chini a gran voce e suono. E retti in piedi con le azioni che in libertà posson essere simili a quelle del Creatore. Ed in principio l’homo a sé bastevole perché anche donna fatta di tal guisa e che è Lilith, ma donna ingannevole e senza merito e senza colpa, avvinghiata dall’Avversario voleva esser Dio ed esser homo et anche angelo, e punita non esser né l’un, nell’altro, né promanazione. Ed avvinta dall’avversario e respinta dal creatore, da ambedue ripudiata ed ancor oggi a vagar perché in Superbia volendo tutto perse la progenie, che ora insidia come dragone con la Vergine. E quindi dopo i fatti l’Infinito amore diede compagna dall’osso stesso, perché sia solida essenza, roccia che a Dio conduce l’homo, dal fianco perché come costola protegge il cor che è foco e dunque, come detto, accanto all’homo lo guida verso Amor mai spento, solidissimo ponte; salda in fede contro le serpi, colma di grazia, ad imitatio dell’umana madre di Dio. Ovverossia Sapienza e Regina e Amore, donna aggraziata che non si farà avvinghiare né sedurre dall’Avversario ma lo pone sotto i suoi piè e perciò stesso scelta come madre del Creator-fattura e Madre potente, ed Avvocata della progenie umana perché umana, e dispensatrice di Saggezza. E dopo l’ossa fece un cuore prendendo foco dalla terra, e quel foco fu donato ed è motor d’amore che sussulta e regola l’eterno e che legifera come roveto, sempre mosso da amor che guida il giusto. Ah l’Avversario, che angelo senza foco né potestà d’imperio trasse in inganno l’uomo col nettare del fico, col pomo di discordia e disse, doppio nell’intenzione, tu donna e tu uomo mangiate il frutto in conoscenza, ed inventò Prometeo e disse che lui era tale, che rubato aveva il foco per l’homo e per la donna. Ma quel foco del pomo era già della fattura splendida e lui in invidia lo disse perché quel foco uman bramava. E diede seducendo pomo di conoscenza per condurre l’uomo all’idolo dell’ombra e non più il palpitare cordico scandì l’eterno ma la caduchezza spoglia del divenire, la caducità del mondo, il divenire che ci ingrigisce e ci distrugge. E logora il corpo! Quel corpo che però come immolato il sangue da Fattor-fattura diviene eterno e in ciò resta, nel mistero dell’union col sangue stesso e per l’eterna vita ci custodisce. Poi i nervi e tutte le diramazioni che sono contenenti dell’ispirito nostro e che ne son sorgente e moto, elettrochimica che modulando tutto dirige. E dal vento che dirada il foco li prese Iddio, perché non son liquame ma vapore diramato e sorgente ed in elettromagnetismo consenton comunicazione. Per bocca presa da costiere e tutta di stelle bianche trapunta, stelle bianche denti e infinite di sabbia sgorgano da lingua battente percussione, da corda vocale tesa come lira, e da soffio lieve il fiato e magica orchestra è la parola umana nomoteta, valente, valorosa e dispensatrice di grazia, di suono e canto e di preghiera che è somma delle prime, quando accordata, se non in dissonanza avversaria che produce maldicenza ed ingordigia. A guisa delle mani che come quelle del creatore plasmano e creano opere in magnificenza e strumenti et utensili. E le mani prese dalle selve, dalle savane e dai boschi, dalle giungle e dalle foreste e dalle belve ivi abitanti, a che dipingessero mistero, a che raccogliessero frutti e cibarie preparassero, a che lavorassero, a che scrivessero lodi infinite al creato ed al creatore. E gli occhi umidità, luce degli angeli emissari di gioia e di lacrime nostalgiche dal firmamento. E le orecchie che ascoltando imparassero, come guardando e come toccando e dicendo, ma più in profondo perché in alma umana risuonasse la voce divina. Ed esse infatti presi dagli echi tra le rocce, e nell’ascolto rendono roccia l’uomo. Il pneuma infine, soffio vitale che dà forma alla scultura, preso dall’empireo e dall’etere dunque a che lo spirito promanasse, dai sensi descritti e dalle parti corporali e a questi trascendesse, come sospiro che trascende ogni essenza corporale. E qui è l’anima, nell’etereismo dell’homo, il dolce ricettore, nell’organo che ascolta gli odori e che respira e che tutto del corpo santifica e quindi santificando nel corpo gli elementi e della terra e del creato, e quindi del creatore. E tale etere è completo, e tale è l’alma, sorgente d’infinito che se nell’homo e nella donna è in ogni frammento, frammentata è nelle belve e clorofille. E l’alma è vera e potenza ad un tempo, così che investe lo spirito e lo esalta e lo pone in atto a che attraverso il retante sia manifesto, nel respiro dà refrigerio ai nervi, assioni e sinapsi,  d’ossigeno ricolma il sangue e infiamma il core.

18 novembre 79

Due giorni nelle caverne! A fiotti e stracci accampati trentotto tra uomini e donne, queste dodici e in più i bambini, pochi e non contati. Alcuni morti pel freddo, gli uomini. Quel giorno si diressero non verso la spiaggia ma per i cunicoli che avrebbero dovuto condurre alle tenebre, al di sotto di ciò che è o che agli uomini è velato, ove Orfeo non riuscì a salvar la sua Euridice ed ove Persefone ha in quei giorni freddi appena varcato il guado d’Acheronte. E la flora non è mai come in questi giorni di fuori. Castigo divino del caro e lieto monte gentile. Quel cunicolo aperto nella villa del primo Imperatore, quel mistero che tanta ala diede a Virgilio e tanta fama, e che lo stesso trovò cercando altro e fece edificare. Alla ricerca del pozzo della Sibilla che egli situò ove i flutti-ah ricordo di fiamme del 13 e dei terremoti, della sabbia, dei pulviscoli, di ciò che rode e distrugge, e poi il frastuono al di fuori, e chissà il resto, chissà se è finita, da ieri alcun romore, ma esisterà ancora il mondo?- dicevo, dove i flutti bagnano il Flegreo e dove Averno è collocato tra gli uccelli malvagi e il mefitico Stige. E quel Virgilio seppe che ingresso altro era e più glorioso, da foce del Sebeto che irradia con scolo grazioso il Castro di Lucullo che sin quasi al Flegreo stesso si estende ed ove conservate sono le opere scampante all’incendio falso di Alessandria et altre ancora, raccolte dal centurione cesareo prima che i sudditi di Cleopatra vi irruessero per salvar a loro volta gli altri, riuscendoci. Quel centurione assoldato e ritrovato in terra egizia senz’armatura e come profugo, coperto di stracci verdi e decorazioni inusuali, inattuali gli scippi e delle stelle che chiamava gradi ed armato di bastoni tonanti, che a raffica o in singolo frastuono rombavano alla guisa del gentile monte. Assoldato e promosso da Cesare in persona a ricuperar i volumi e rotoli e poi a bruciare le stanze vote del Museo. Certo non riuscì a trafugar tutto, ma quello che gli serviva. Ma quando un dì disapparve così come era sorto, dal deserto, lasciò tra le dune il semovente che egli con guizzo di mano movea senza alcun traino di belva o umano. E di lì i volumi furon trasferiti al Castro e conservati assieme a mappe strane del centurione e a trascrizioni incomprensibili e barbariche in caratteri latini. E tanto ivi lesse il poeta accolto da Mecenate che soggiornò in Città Nuova con fama di mago e nei territori agricoli vagava come un matto per ritrovar quel varco che credeva accanto alla villa ottavia e che l’imperatore tanto finanziò e tanto dispese di propria tasca e fantasia e desio a che fosse trovata la vera origo, che scrisse in terra troiana ove decise di dipartire senza trovare e prima di salpare dalle terre brindisine morì ripensando e morendo chiese di esser sepolto nel Giardino del Mondo dopo averne dato istruzione ma frainteso fu ubicato in loco altro. Costui nel cercar l’origo della gente di Roma aveva trovato ben altro, l’origo dell’homo in quel Giardino, di cui le indicazioni sono sperse ma che in tre fiumi si dipana in uno sorgendo zampillante. E subito morente disse dell’errore, e di modificar il testo che narrava le gesta del figlio d’Anchise e d’Afrodite, e disperato per fatica volle bruciare ma fu frenato e all’imperator ciò restò, più il mistero. Ma quelle genti nelle grotte sapevano del mago folle ed autorevole per conto degli avi e s’addentrarono a cento spanne dalla sorgente sebetica nella villa imperiale e lì trovaron rifugio dai lapilli.

Ed il 18 più in dentro giunsero temendo, sempre per racconto degli avi, di giungere all’Averno e allo Stige nubiloso, o peggio in bocca ad Ade direttamente, ma temendo nasceva la speranza elisa di quel giardino dimenticato e fu la luce che più li smosse verso oriente e poi a sud e di nuovo ad oriente, ai bordi della cascata. E lì videro come pioggia riflessa al sole la cascata d’Eolo e la luce tenue più dispersa ma più lucida ed un’uscita de’ tre fiumi incrociati in uno et il giardino che sembrava immenso e che era intatto al fracasso e che era il mondo nuovo e che fece ben presto dimenticar la ruina, l’ala palustre, l’acquitrino. Come in bolle sorgiva era la cascata e come tra l’oppio i sensi loro più scoscesi nel salire e salendo maggiormente ancora inebriati. Se quello era mondo il monte gentile aveva donato, per grazia del Padre divino, loro novo loco, se ancora viventi eran -come sentivan percependo sé, la pelle propria e l’altrui, ed asciugando lacrime di gioia- e non nei campi Elisi.

Quel campo era ai più ignoti e palustre detto così come ubicato nelle cartine ma la paludosa sfoglia che l’avvolgeva e che i legionari sapevan accanto a campi abbandonati ed altri con poca cultura, serbava un loco estasiante e corazzato da cherubini in sembianze d’uomo e luccicanti e gloriosi, e vino a flutti, e tenerezza e gaudio, e perduta Arcadia come si dirà un giorno e ricercata poi dal Petrarca e da Dante posta a vetta di monte purgante, ed a ragione. E come Thirassia cacciatrice mostrò al viaggiatore stanco secoli appresso la via che nel racconto è descritta ed in visione nel quinto passo che riporto,

“uno specchio fluente d’acqua, sgorgava triplice da una comune sorgente e finiva su un corso maggiore di tre affluenti che erano il core e ragione che pacata e quasi lacustre ondeggiava a mo’ di docile ma possente chiarore solare in sé riflesso. Il sole coi sue raggi, tutto nell’immagine di quell’acqua sembrava dominabile, la paura smorzava ed era freno alle passioni, ma un freno che non si percepiva, che esulava pensieri folli senza che me ne accorgessi, li rimuoveva e sembrava quasi non ci fossero. Più imponente l’istinto, travolgeva ogni cosa, contornato di dieci costellazioni e una stella maestra che lasciava incompleto il pensiero. Ma il godimento era immanente. Si assaporava l’impeto e la paura assumeva una forma manifesta. L’abisso. L’insondabile. Gusto gotico e tetro, acque fosche, nubilose, sembrava fossi di nuovo smarrito. Finché non sopraggiunse la graziosa sintesi, il terzo corso, pacato e ardente ad un tempo, dal riflesso selenico, in penombra da un colle scendeva lieto. Cos’era? Un che di strano e piacevole, una scintilla sapiente e sensibile. Indefinibile, inenarrabile. Piansi immaginando le sue lacrime. Liberazione fluida, singhiozzo tra giulivo e triste. Luccichio improvviso. Come una bestiola che trascinava la terra sotto i suoi piedi e rifletteva l’Uno e il molteplice. Silenzio rotto da tale scuotimento interiore, frastuono non udibile, interno. Caddi quasi morto e dovetti porre le mani alle tempie per far cessare questo suono che pareva diabolico. Clessidra contenente liquido. Lì dinanzi a me lo sgomitolare da matti, lo sgusciare del tempo. E lei si manifestò per la prima volta così, ne ero certo, ne sono certo. Lei era il tempo. Rinchiusa in quel contenitore opaco di vetro era prigioniera, e rendeva noi servi. Una prigioniera che sottometteva. Fino a quando non si ruppe il cristallo contenente. E sprigionò potenza somma. Tutti i giorni, i mesi, gli anni e le stagioni mi investirono. Era quello il terzo corso d’acqua. Il tempo, così chiamato, così definibile se lo abbiamo a portata di mano, rinchiuso in un involucro, di modo che ci sia parvenza di dominio. Ma a tenerlo in ostaggio, in realtà, è lui che ci domina. E lei dunque doveva essere liberata, e lo fu. La mia mente atemporale anzi oltre il tempo, era tempo e allo stesso momento lo trascendeva. Moneta a doppia faccia. Voce bassa. Sembrava dirmi alza gli occhi e guarda, assapora questo suono che diviene quasi un respiro. Io subito volsi gli occhi ed ebbi una sensazione inaudita, vidi il tutto e il nulla senza essere visto da alcuno e senza vedere alcuna cosa. Scorsi la dimensione di un punto, l’immagine dell’aria, la misura di una linea infinita. Dialogavano gli eraclitei opposti. Non era l’uno mutamento dell’altro, era l’uno l’altro se presente, e l’altro l’uno se questo assente, ma l’assenza richiede astrazione o per lo meno intuizione di una eventuale presenza, e la presenza lascia immaginare l’importanza di sé ponendo la mente ad una eventuale perdita di essa e quindi ad una assenza. E se non esistesse assenza? Sarebbe solo una manifestazione questa della presenza? Una presenza che non ha il mezzo adatto a manifestarsi potrebbe divenire assenza. E quindi il bene è in ogni dove, ma si presenta solo se ha un mezzo per manifestarsi, altrimenti è assente e dunque è male. Sottile si spezzò il cristallo dunque. Ed io chi ero? Nella manifestazione contemplativa era davvero frutto di illuminazione divina ciò che pensavo, o che provenienza aveva? Un pensiero strisciante si insinuò. Se fosse tutto opera del maligno? La mia missione, tutto, ogni cosa che da quando ero partito vedevo. Il senno era andato perso? Era nelle mani negli inferi? L’eresia. Ma no, non poteva essere, avevo dinanzi a me un’inaudita bellezza e non può la bellezza distogliere dalla verità. L’apparenza candida è frutto del pensiero immacolato. Nel mio vaneggio stavo avvicinandomi, dovevo accantonare le ultime remore e avvicinarmi. Ma come contenere l’acqua? Scompare tra le mani, ciclica va via ma tornerà. Così la sua immagine scomparve. Così la sua immagine, ne ero certo, si sarebbe presto manifestata di nuovo.”

Lì era l’origo dell’umana specie, l’inaccessibile Giardino del Mondo. E così, quasi come avvinti dalla felicità ma trattenuti dal riverenziale timore vollero accedere ma erano frenati come ad insudiciar di fango quella terra che poi del fango di lì attorno lor stessi erano fatti, ma non sapevano o sapendolo lo avevano dimenticato. E il piede primo di SAF volle varcare, e il fece e fu quel giorno che loco aperto fu et accessibile. E i quattro corazzati che eran due ma umano senso inganna fecer uscir trentadue più i bambini e la cascata si dischiuse da spada angelica custodita e mai, si disse, fu più aperta, se non di rado in percezione, come successe al viandante di Federico imperatore per mano di Thirassia -ed abbiam riportato il passo- e come accadde talora altre volte ancora, in limite d’assoluto a qualcuno, et come accadde a Muta ed al suo compagno nel 2004 in confusione e in altri casi ed in altri lochi contemplanti di Selendichter e come accade in dormiveglia intuendo l’infinito, o in improvviso innamoramento tutti scossi e statici. La cascata fu richiusa e roccia divenne ed imprigionato tempo e terra di Saturno. Cristallo restava ed è memoria, lucentezza ed è fantasia.

Il motociclista braccato: Summa Malorum ovvero narrazione salto quantico radical2 et in progressio numeris

  1. In viuzze frastagliate e scarne della zona pomilia MS non sì dà pace eppure è da tempo vicino all’obiettivo, scovare il nemico, il motociclista. Sa il punto esatto: “al di là dei due ponti e dietro l’architrave del sonno di un domani che non fu”. Questo il biglietto del 4 settembre 2010. Tassello dopo tassello ricostruisce, ripensa e rimodula, come lo scrivente nel narrarvi questi fatti, qui ancora da dietro le barricate, per narrarvi il simbolo che udite e che vedete e che in clamore cercate ed è questo nella mente sua, mia, nostra, lettori e lettrici. Cos’è la vita se non la lotta contro il male, quale altro scopo l’uomo ha. Respinge il male ma ne resta avvinghiato perché affascinato da quella sua ombra che rende il corpo un idolo. E non va al di là, non squarcia il velo. Il fenomeno innalza ed il noumeno elude o lo pone in sfera diversissima ed eventuale, non dimostrabile e quindi non conoscibile. Non ne scorge l’utilità del secondo e si perde nelle brame del primo, ignora che l’uno è manifestazione dell’altro e che l’altro è respiro del vento, ed il primo tepore mattutino. Quel dì fu tutto in cristallo et luminescenza-e le ricorrenti parti di noi medesimi-. E bracca il male per noi MS ed abbiate orecchi, ogni personaggio ed ogni contemplatio di Selendichter e degli otto e di Mabus e dei quattordici, come di Muta e di Thirassia, come dell’Anno Scolastico, è nostra battaglia e nostra fascinazione. Ed è ricerca della Verità. Come gli Unicum di Tacita Amata o Berecyntia, o Alma Incantatrice. E così gli inediti tutti Percependo l’Ardente Spirito Incendiario, d’Amore Servitude è Libertà, Tra Vero et Irreale Sciocco e Naturale, ed Arsi Vivi et ogni forma, ed anche il Romanzo A. che ebbe inizio e mai fine, e poi fu silenzio. Questa fine, e la luce entrò tiepida, questo inizio. Ed anche i medesimi di questo, scrivendo e tacendo ad un punto per tentare spiegazioni, ogni cosa ed ogni parola, assieme a trame e personaggi et intrecci et contemplazioni che dicevo sono frammento dell’umano, un frammento imperfetto e costantemente in bilico. Ma in noi è vera perfezione, Venere strabica, in noi è frammento d’assoluto ma ferini cadiamo, cadiamo e fraintendiamo, cercando la luce ed adorando l’ombra ci dimentichiamo, dimentichiamo noi stessi ed il Sommo Fattore e volgiamo lo sguardo di là, per poi rivoltarlo in questo balenare di lettere e parole e fraseggi e rime. E le altre poesie e scritti che taccio e sono sparsi. Ma tutto è invocazione del divino e qui è il vero, tutto è lotta contro quel terzo che è ribelle e glorioso, che è superbo e lussurioso ed avido e meschino, e preda del vizio e dello scempio e della violenza bruta e dell’inganno fatto con l’ingegno. Quel terzo vanaglorioso su tutto e di tutto bramoso lo conserviamo ed è nostro abisso, ed il nostro abisso è la malinconia di Dio, come dicemmo. Et i due terzi sono in noi completezza perché dipana il vero nell’intero e lo spirito aleggia sulle acque e dunque in superfice perché l’abisso, sin dall’inizio, ci è indicato come rimpianto e la vera apparenza è l’acqua bassa. Le nostre illusorie gioie, la nostra Etalage, sono lacrime di pentimento e pentimento che promana dalla nostra incapienza, dal nostro poco sapere perché poco si ama. Ed i due terzi sono il nostro infinito, il nostro assoluto ed il nostro intero. E se quel terzo non possiamo eliminarlo da noi che resti come resta nel Fattore, malinconia d’abisso. E non prevalga la parte minore prima che si spalanchi la maggiore aurea che è luminescenza e materia e che anzi contenga nell’intero come percorso l’ascesi ed il lasciare alle spalle non è, perché manchevole è il lineare ma saper scegliere l’intero è nostra grazia e nostra libertà. Se libertà prevale è tutta d’amore, se la usiamo per volgiarci indietro è arbitrio e dissolutezza. Lo spirito aleggia e noi consci che vetrinetta lacrimosa è l’abisso, colmi di gioia seguitiamo questo spirito che ricolma d’energia lucente e musicata l’alma nostra e ci ingrazia e ci adorna per la gloria del divino. Seguitiamolo e lasciamoci trasportar su navicella pel mare perché è sereno e calmo nella mitezza nostra e nell’umiltà, radice di ogni sapienza, e nella carità, radice d’ogni azione e nella fede che si palesa evidente e sgorga mentre noi guardiamo specchi ed ombre e ci scorgiamo capovolti o incatenati a caverne, prigionieri di noi stessi. E nostra fede è questa, che l’intero è Dio che vuolci partecipi di Sé medesimo. Ah fede grandiosa! Guidati dalla speme che è prima ancora che tutto dissipasse e disincagliasse come Pandora, Antartide, e Atlantide e Terre leggendarie sprofondate per quel tale Avversario e quel terzo seguitante. Ma in noi è speme che resta, e dalle rovine, come dodicimila anni orsono quando cataclismico Marsili il tutto dissipò. E tutto in caduchezza, e tutto arso o annegato. Ma non la speme da cui risorge fiore al tramonto pel mattino che verrà. Noi cadiamo nel terzo e tutto perdiamo come terre sprofondate perché manchevoli non vediamo l’intero ed i due terzi seppur di gioia ci colmano ci sono insufficienti e per cercar l’intero e completarci volciamci ancora indietro e seguitiamo il terzo, che non è se non illusorio. E tutto perdiamo! E tutto perdiamo. Ma la speme ci fa ricostruire ciò che perdemmo. Capiremo un giorno tutto ciò che siamo, intero noi e l’universo, il cosmo, il mondo, creature e minerali et istrumenti et elementi compositivi, et forma et substantia. Scorgendo la fattenza femminea e seguitando essa, sommo ponte che abbraccia l’anima a che saremo un giorno abbracciati all’eterno e tutti eterni, saremo singoli e molteplici, statici e dinamici, e quel terzo che ci fa apparir caduci e stanchi, malati, irruenti, meschini non prevarrà ma sarà assorbito nell’intero e tutto sarà a noi evidente e riprendendo il discorso chiaro e noi completi per intero e non atterzati e prossimi allo zero e sempre in ruina poi verso il negativo. E come noi composti del tutto siamo singoli e nell’altro siamo noi fratelli e sorelle e nel creato custodi in Dio siamo tutto assoluto e tutti assieme. Se vogliamo, se vorremo.

MS è lì al di là dei due ponti e prossimo ad assopirsi, cadere in lisergia per sostenere le fondamenta in penombra, e scorgere la figura del motociclista Avversario che insegue dal 2004 e dal ’98, quando in finale simile De Sanctis e la sua A spiraron ma il primo rimase folle e la seconda come Muta ed il compagno disapparì nel silenzio viva l’una, gli altri due nel semplice altrove silenzioso dell’anno secondo eguale al primo. Et etiam nel ’99 quando inseguendo la greca donzella RS e Pallade e contenente e contenitore e contenuto il giovinetto disparve in altro loco, tabula rasa ricettiva ed opere in chiaro scuro, e discorso a ciò proteso, e lettere a RM, e poi ritorno estivo ed infine novembrino stupore e scoperta.

E assopendosi ecco la moto, ecco l’Avversario. E subito ecco il viaggio astrale in riflesso di tempesta stellare

“NR YH ‘BTRŠŠ W

GRŠ H ‘A B ŠRDN Š

LM H ‘A ŠL M SB’A

M LKT NRN L BN NGR LPHSY.

 

Alito inesperto

sul ripiano al furor del vento.

 

Urla arcaiche balestrali,

muschio, inebriamento astrale,

viaggio selenico e segugio

intarsiato nel metallo

a forma aguzza, dente felino.

 

È sulla spiaggia l’attesa.

 

PDN L’ŠMNMLQR

L’DN L’Š R ‘ ZP’L’Š

MN’B BN’BD MNB

N’BDTWYN BN HY

D RY BN BDGD

BN D’MLK BN H’B KŠ M’QL DBR Y.

 

Progresso progressive,

clastico calcareo anacronistico

nel proiettare immagini violette.

 

Paradigmatico l’incrocio

complesso ed epocale come adesso,

 

epica scissione psichica

della realtà sensibile

da quella intellegibile,

uniformità teorica

e superamento del quantico

e del relativo

nel flusso energetico imposizionato

ed ultratopico

presso l’orizzonte degli eventi

inaspettati,

violate leggi paradossali,

 

occhio di Ra,

ricordo, negativo parallelo,

animosa penetrazione divina

nella cordiale visita elettrica

della memoria,

inspiegabile è dir poco,

piuttosto inquantificabile

ma intuibile con successo scarso,

 

causalità invertita

l’accidente,

l’effetto genera la causa

ed il futuro modella il passato

refrattario e con geroglifico

sistema iconoclastico e binario,

 

intelletto artificiale.

 

Fuochi accesi ed intrapresi

rodono il fegato accostati

ad appostamenti di relitti sprofondati,

lo spirito aleggiava sulle acque,

le nozze bigotte proposte

e rimarcate deludenti

pretese violate,

la conoscenza civile

ostracismo dell’ardire,

domina da anni

la lotta darwiniana

senza genetica e malthiana,

non è follia

è semplicemente sbagliata.

 

Il bicchiere si ricompone dai cocci.

Resta tutto normale.

 

Viviamo dal principio

il circuito serpentino illuminato

avulso a senso spaziale,

 

parascrittura inusuale

del logos stanziale,

Dioniso umano morto e risorto,

mito caananeo.

 

Rifiuto usurpazione.

 

Ellittica trasmissione.

 

Velivoli d’oro,

argento dei bastoni,

navetta in terracotta.

 

Brucia Tiro,

fiamme e mare eroico,

le arpe e la musica contemporanea

ha da sé, base di vermi,

base di vermi,

ha attratto a sé, base di vermi.

 

Non voltarti.

 

Sgancia intatto una miscela il Fato,

dacci forma, urla isteriche,

ossessioni, precisioni,

il risultato mina basi, basi di vermi,

 

cambieranno tempi e leggi.

 

Scelta Pallade alla luce del mattino,

scelta furba tra le greggi,

oggetto del declino, frastuono,

armamentario scarno,

mistico volteggiamento, pendente,

non si muove, non si muove,

spazio diagonale,

la via più lunga per l’oriente,

la via più breve cerca il vero,

scinde il quark pusillanime,

 

tra i Gesuiti il fisico,

MJ

 

lingotti,

liste destre, sinistre,

guarda in alto la virilità,

robotica, cibernetica, androide,

tridimensionale,

ologrammatica imperfetta,

l’ecosistema non si conserva,

 

termodinamica sbiadita

e tramontana,

quantico aperto,

andaluso passo,

 

stanza.

 

Urla da circa

trecento milioni di anni,

 

spara.

 

In periferia i barcollamenti,

gli indumenti, stilisti attacchini,

stiliti spazzini, latte, piante,

l’arte, non si finisce,

surrealismo, cerca un blocco,

 

serpens caput, ophiuchus,

sirpium serpin, canfora,

 

truce struscio vorticoso.

 

Ecco ipnotiche soluzioni

per sopire dall’esterno

un vuoto interiore,

maggiore il magone invernale,

tremo alle ginocchia

ai passi felpati cari, unanimi,

incolore, inodore, psichedelici,

stimolanti maggiori,

 

macchie lasciate a caso sul pentagramma,

base, falsetto, reverse,

sintetizzatore proteico sonoro.

 

Venere nel nautico imbroglio

trasmutato Baal in Crono,

 

il signore dei signori

reso accadico tempo trascorso

non a caso e sferico

da quattro punti concisi dialettici

ed intensi.

 

Sogno, sogno.

 

Ricerca amore,

ricerca del vero amore interiore,

ricerca in contemplazione,

canto dinanzi al volto divino

ed unico e trino, mistero egizio,

rito ittita, dominazione assira,

 

Tiro brucia ancora,

le arpe, le arpe, perdute,

perduti gli accordi coordinati,

ritmici, abbellimenti,

legali legati in rappresentanza.

 

Dall’età non c’è più crudeltà

nella pietà,

 

ecco il punto,

ancora tu.

 

Tre fiumi incrociati

nel giardino perduto.

 

Eccoci di ritorno

a lampioni spenti in periferie

inviolate da atteggiamenti

impulsivi e distratti

dal via vai dei gatti.

 

L’occhio di Ra,

l’occhio di Ra.”

Nello spasimo ondulante come le parole si manifesta il senso ultimo del ricordo, accordo proteso e l’Avversario parla. MS ascolta estatico ed in paranoia delirante, l’uno stato sovrasta e avvolge l’altro in una miscela destrimane incupita. Il tempo è fermo per un attimo ma la sua tempità, cedevolezza, è rimasuglio intero e che tale sembra nella scorrevolezza del terzo. Inizia il motociclista, “dal 1943 Philadelphia. L’attracco fugace in terra d’avorio ed oro bianco, lapislazzuli, ametista ed opale, congiunti in scala, indomati e sinergiche intromissioni del fato che nella sua staticità convessa si mostra arioso concavo per ciò che vuole essere ma non è e non essendo slitta la parola al delirio. Philadelphia da dodicimila anni, Giardino del Mondo corrotto et ultimo cristallo opaco e fluorescente preservato dai corazzati quattro in forma duale. Tutta l’Europa e parte di Gea. Demoni d’aria e d’acqua e del sottosuolo, spiriti maligni aleggiavano come ora e fu una catacombe per chi di sé non sopporta. Noi scimmie in spirito per invidia abbiamo reso voi scimmie lavoranti, ma eretti ed abili dopo i fatti del Giardino, di varia genere et l’ultima estinta in tal trambusto perché rozza e a voi simile ma astrusa e tozza e rubiconda imperfetta. Et è abelico rimasuglio poi in sapienza consistenza della pastorizia sull’agrestre in Arcadia saturnina, che fuggito fu e morto, et altri figli accoppiati con ispiriti et immensi colossi rettili, ma in sembianza ed in forma avvelenata d’assenzio perché il corporal mutamento fu tutto loro e per nostro e mio comando in quanto noi bramiamo corpo. Tutto a significatezza della varietà che cessò quando dal mar calabro si dipanaron saette e maremoti. E pastorizia sapienziale rimase nella stirpe noetica pleistocenica e tarda, perché la somma libertà dopo maledizione pel Pomo rese l’homo storpio ed in dinamica evoluzione e la donna che talora imperava sacerdotessa et talaltra amazzone ed in taluni insediamenti in matriarcato a sigillo della terra. Tutto cessato col rombo del colosso e salvato il bene e di cessante e minor potere con l’Arca e ricominciò quella che voi sapete e nomate storia. Ed ancor prima, Sessanta milioni circa, in Messico, MK casco allucinoso. Voragine e di demoni conserva l’orma quei giganti e da essi proveniente, ma nella loro caducità et anzi la loro caducità sbocciarono i primi fiori, speme motrice, cretaceo. Da loro discendente in forma rettiliana. E da loro e dai volatili serpe piumata, Quetzalcoatl. Ed in terra beneventana in loco astruso ove formò comunità Plotino e la nomò Platonopoli e dove insidia millenaria è di Serapin ovvero Sirpium Serpin, che strisciante è rettilineo et mago et infesta come nel Sabato dei Saba di lì un po’ prossimi nati a perversione del lucente Sebeto turchino e celestiale. Tutto ciò è delirio non corpo proteso bestiale ma il corpo rettile/uccello è illusorio come quello insettivoro: solo spiriti ribelli. Nulla più. Nel vostro delirio! Nel vostro delirio. Voi esseri umani date corpo al terzo, date corpo vostro intero o con atto o pensiero o parola. Voi date corpo a tante gerarchie illusorie. Noi terzo siamo nulla, siamo abisso e voi ci date corpo e forza e ci fate alieni, astronauti antichi. Ci fate idola. Ma noi siamo angeli ribelli e gelosi di voi uomini e di più delle donne, di ogni candidezza, del vostro corpo e bramiamo il vostro corpo. E la donna che è il vostro ponte saldo verso il divino quanto adoriamo, quanto adoro farla strumento et utensile per la perversione del sé e per la vostra. E voi stessi uomini utensili vi fate nelle nostre mani, nelle mani del terzo. E distruggete e vi dividete e tutta la nostra invidia la riversate voi sul prossimo, tutta la nostra bramosia la riversate voi sul prossimo. Siete nostro utensile perché liberi cadete nell’arbitrio e nell’illusoria nostra essenza. Tutto ciò che è pensabile è esistibile. Nomoteti, potete trasformare il pensiero in azione e cadete in nostra balia, folli. Fate la nostra volontà e non di chi vi ama. Credete al pensiero e lo dissociate dal cuore e da tutto il resto. Vi credete scissi e vi sentite incompleti e nell’incompletezza venite a questo terzo e lì noi vi dividiamo, noi siamo coloro che dividono, io sono colui che divide. E voi vi vedete frammenti del nulla quando siete d’assoluto et d’infinito frammenti. E noi vi dividiamo, dividiamo le vostre membra e voi agite con i nervi distruggendo con frode, agite col cuore e siete in balia delle passioni e del concupiscibile, agite con le ossa ed edificate altari e fortezze al terzo che è nulla. Agite con la pelle e con le mani e col sangue siete violenti, come con la pelle fragili. Con le mani e costruite oscenità et armi atroci. Noi vi dividiamo e dividendovi siete in lotta tra voi. E dividendovi siete in lotta con la terra che parimenti violate e con l’universo che credete vostro e vostramente lo distruggete e lo fate pulviscolo. E con gli occhi non vedete e con le orecchie non udite. Noi vi dividiamo perché bramiamo il vostro corpo e voi lo donate. Voi ci date vita. Noi siamo nulla. Voi ticchettate il tempo ed invecchiate, voi scegliete Barabba. Voi crocifiggete. Voi ammazzate, voi tradite. Noi lo facciamo col vostro corpo e voi acconsentite. La vostra libertà è arbitrio. Tutta la storia è nulla. Noi siamo nulla e voi ci adorate. E nomoteti stolti, dunque, date nomi al nostro terzo, nomi taciuti agli angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni, cherubini, serafini, promanazione lucente del divino, tranne dei tre che simbolo son di ognuno, Gabriele messaggero, Michele generale e Raffaele medico. I due terzi promananti il divino hanno nome segreto e sono gerarchia tutta uguale e differente, cori angelici da diversi gradi in ascensione e diversi ruoli ma uniti alla moltitudo ad un tempo in Candida Rosa. Et etiam il Custode vostro che vi sussurra Santo Spirito ha nome segreto perché tutti sono adoranti il divino. Ed attraverso Esso promanano le somme virtù del Creatore che Egli stesso ha inciso in voi. E  ci siete voi medesimi che furono et essendo siete e sarete, i Dottori, Santi, Beati, Venerabili ed ogni anima gradita a Dio che è in ispirito cogli angeli, che un giorno si congiungerà col corpo e sarà l’eterno in ogni loco e ciò che vedete attraverso specchio vedrete faccia a faccia -e quel tempo della parusia è già venuto e già è nella mente del divino, ma voi corrotti e caduchi siete nelle nostre brame-  caduta ogni nostra intenzione e vizio da noi promananti. E voi invece date nomi a noi e sovvertite trinitate dolcissima e gaudiosa con trinità perversa di Satana corpo e Lucifero spirito et Diavolo anima-che tanto brama divisione-. E nomoteti non ci date solo il vostro corpo ma i vostri ambienti e togliete valore a creato e creature consentendoci infestazioni, e come godo e godiamo quando togliete valore perché ci fate violare il corpo incorruttibile del divino che non è in verità corrotto ma in vostra realtà et in vostra illusoria percezione. Et l’Anticristo che è idea duplice filoprotestante, empirica, illuminista, positivista, massonica, capitalista, liberista, comunista, dittatoriale di destra estrema e materiale o d’estremismo fanatico. Due bestie dal mare e dalla terra e falso profeta duplice azione che è lo scisma da cui promanò il seicento-e il viaggio codesto fece e facemmo negli anni ottanta- inizio di materialismo, di cui tentammo prima, nel ’78, di facere la medesima mutazione con cataro detto nel duecento ed altra eresiarca ondulazione, ma vennero i due ordini al bilancio et ivi scordammo ornamento. E prima con Simon mago, poi manichei, poi scisma in oriente e poi cogli ismaeliti e il lor profeta nuovo di Persia e l’altro anzi l’agnello mitriaco e taurino, somma sovversione ideologica. E non sol, date nomi a noi e gradi perché noi gloria bramiamo, e date gerarchia perché noi maledicenti et in piramidale assetto siamo, corrompendo natura vostra e vostra eguaglianza. Ed ogni nome nostro è perdizione e malanno, Baal è il tempo disgregante, Asmodeo è la lussuria che corrompe, per dirne due dei settantadue possenti, e a questi due date ancora più potere perché cercate materiale immortalità e loro disgregano il dono divino, la trinitate perversa Dio, Baal la Patria et il Creato e le Creature, Asmodeo la Famiglia e voi stessi. E cadete in malattia per quel restante terzo che malattie produce e che è legione di cui si servono i settantadue, trinitate imperatore e re, principi e presidenti, duchi e marchesi, conti. Ognuno ha al suo servizio demoni minori che si insidiano e procurano ogni malanno e disgregazione, a seconda di ciò che vi insidia e della specie cui date valore-ovvero disvalore-dei 72 gerarchi. E la vostra Eva non è ponte verso Dio quando seguisce Lilith che è dispersione e non la Celeste Madre e quando grazia cede per successo da voi corrotta e non rispettata, cade in tentazione e voi cadete con essa. Folli, distruggete ancora e siate divisi, il domani non sarà”. Il domani non fu, sussurra risvegliandosi MS, oggi è domani. Non prevarrete! E le tue stesse parole mendaci delirio nell’ascesi hanno detto il vero. Non prevarrete  incatenati nel buio mortale abisso dell’oscuro Tartaro, MS passò dunque dal delirio all’illuminazione e quasi anacoreta parlava per bocca del bene. Non prevarrete per il sangue dell’agnello, per patriarchi e profeti, per Dottori, Santi, Beati e Venerabili, per la Madre Celeste nostra difensrice, per gli impronunciabili da umano verbo et per somma umiltà Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini, Serafini, per gli altri Custodi nostri, per il Santo Spirito che guida l’uomo e la donna ed ogni cosa. Per tutti costoro che ci riempiscono di messaggi et insegnamenti et opere virtuose. Per la Divina Misericordia. Per nostra libertà e tutti stupendamente liberi sceglieremo l’amore e non l’arbitrio.

Monarca d’Occidente

“Dove sei,

anima mia dolce

ed elettiva,

tu che crei virtù

dai vaneggiamenti miei decadenti?

 

Dov’è il tuo stile

oscuro e fascinoso

da brivido

ed ora da dimenticare

tra le tenebre del mondo

nostro senza noi

e senza ciò che

rendeva fantastico

il discorso

articolato

tra pallidi amori perduti?

 

La luce nei tuoi occhi

chiara in risvolto tracotante

tutta da veste arricciata

e stupita,

abbrividita

dalle parole di fuoco

scese sul tuo corpo,

l’unico importante,

dimentico di ogni realtà

e verità trascendente,

solo ardente.

 

Mi manca il tuo dondolio,

il cocktail senza ghiaccio in estate.

 

Mentre fumo la penna sguscia

e l’immagine si forma intatta

sulla tua pelle,

sei la mia poesia e le stelle,

nell’ombra respiro

e l’aria trasuda di te,

della tua follia,

del tuo sguardo acceso,

del nichilismo.

 

Pomigliano nell’aurora,

occhi che non so

decifrare piccola e suadente,

gotico albore,

dopotutto resto a guardare

i tuoi cirri alla prima luce del mattino

tanto impressi

nella mia memoria,

le tue mani,

le tue mani aggrondanti la luna

nel tempo dall’umidio folle

di mille prati agghindati dal vento

del tuo nome superbo

 

il mio volto ancora ad accarezzare

tra la penombra

impresso vivido nella mente

come se non ci fosse altro

da ammirare

come se disimparassi in un tempo

ogni vagheggio

concreto

nel tuo etereo essere

concreta

con la noia a due palmi

e i dolci fiori

della stagione

delle tue parole,

 

principessa

vocetta inespressa

inaudita

e risonante melodie

parlate in sussurro

al risveglio del mio sogno

desto,

 

non ci dormo tenerella

tutta stupenda!”

2025 circa, scopro nella tasca ancora questo, mia scrittura, romanzo secondo et sintesi. È l’idea della memoria scarna, di un tempo che è non fu mai più. La guerra logora la memoria, questa guerra soprattutto, ed abdicando stropiccio il senso e non lo scovo. Ma è la mia scrittura. E la memoria barcolla ancora e si fa poetica nel bivio dell’incontro, terra pomilia, quando mi hai scritto una poesia tu stessa, ma breve et in un lampo hai poi però cancellato tutto, non volevi sprecare per me l’inchiostro, ma cancellando, oh ne valeva la pena!?!  hai lasciando sul foglio un groviglio nero di sogni inestricabili e più inchiostro di quanto speravi. Groviglio oscuro che non narra né canta di noi, due specchi riflessi, dal nulla si diffuse il silenzio e noi ci guardammo incantati, et il mondo era ai nostri piedi, tuttavia senza movere dito abbiamo proseguito per sentieri diversi il nostro cammino. E tu mi scrivesti la poesia, che hai poi cancellato.

Mabus nacque dopo gli otto e prima di essi con le sue quattordici trame e le tre scorte sintetiche e tanti frammenti. Nacque e nascendo realizzò la sua completezza di noi tre che siete voi tre più io che sono somma e parte e si disvelò il senso e tutto fu chiaro, e nello svelarsi il senso si esaurì restando barlume di mistero. E il Giovialista di sangue italico, saturnino e affine ai germani per forma estrasse la spada contro Babilonia e il suo sovrano, e il mistero trino autentico prevalse come era giusto e come era vero e come era sempre e si chiuse il portale. Ed è oggi. Spersa memoria, silenzio. Non dipano alcunché e nulla trovo. Come se fosse frastuono e apatia e dialettica tacitezza. La donna con la valigia. Ultimo ricordo. Dovrei chiudere in cristallo e lucentezza e ritrovarlo e scorgerne l’esatta ubicazione che già so e che è questa ove sono assiso in contemplazione e ho fatto accampamento, e l’alma mia è accampata e scossa. E nel silenzio mutano le vesti ed è 996. Giovanni manda la missiva dalla terra paludosa ove si annida il Giardino alla foce in Città Nuova. Sergio e Bacco umiliati in martirio lasciano traccia ultima di altro mistero luculliano et ad esso antecedente e alessandrino ed atlantideo. La giusta connessione, la giusta connessione. Le illazioni di Selendichter ed il resto appresso sparso ed ogni lettera sono viaggio e ricerca dissi, scrissi. E l’ama umana purificata è oblio della cascata lete e poi bevendo dirama in flutti eunoè riversando nel cocito Averno lo stigico acquitrino di contorno. Ed è somma ricordanza e riaperto il velo pel portale chiuso. Ed i tre fiumi rivedo lucenti che convergono in altro grandioso. E più non sento la ferita che dipana dal mio corpo. Selendichter! Mi lascio andare, qui ed ora, qui è ora, da dietro le barricate non descrivo ciò che canta il mio ultimo sospiro. Ti vedo in controluce che scompari tra le nubi e prendendo le mie mani tremanti appari luna candidissima e tutto è melodia d’immenso.

Vibrazioni Estetiche, la Genesi

 

L’urlo (apertura apodittica ‘82/’83)

La luce entra tiepida dalle veneziane della stanza di Gianni e gli illumina parzialmente il volto quasi a fargli la forma di una mezza luna. Sono le tre del pomeriggio, di un pomeriggio che procede sempre più lento, quasi a voler tardare coi suoi passi minuti il sopraggiungere della sera.

È immerso nell’inerzia e nel tedio, alla ricerca di una seppur stupida operazione in grado di prendere tempo, tagliarsi le unghie, affacciarsi al balcone osservando la gente lì per strada, chiudere gli occhi e sprofondare tra le materne braccia di Morfeo. Ma di certo i pensieri non gli danno scampo, la pennichella pomeridiana neanche lontanamente dà segni d’esistenza, la sua stanchezza è resa ancor più terribile proprio da ciò, dall’impossibilità di una presa di posizione risolutiva: da un lato stanchezza ed inerzia, dall’altro tedio e infelicità generati dall’inattività. Che fare a questo punto? È in questo momento che Gianni, ritto sulle sue decise seppur tremanti gambe afferma:  “ Ora mi farei proprio una bella canna”. Subito gli occhi cadono sul libro di chimica, dopo aver allargato una fessura insita nella parte posteriore della copertina e quasi invisibile, estrae una bustina mezza piena contenente una sostanza erbacea, dopo averla portato al naso ed inspirato profondamente esclama:  “O skunk, dolcissima skunk, come farei sine tei! Vieni qui diretta da Milano! Dal Virus”. Preso il pacchetto di pall mall da dieci, l’accendino e le cartine attraversa furtivamente il corridoio che comunica a destra con la sala da pranzo ed a sinistra con la cucina e, senza far svegliare la madre, apre con delicatezza il portone per poi chiuderlo alla stessa maniera. È già sulle scale e, colmo di frenesia giubilante, le attraversa in una manciata di secondi per raggiungere finalmente il terrazzo. Gli indumenti stesi sono immobili per l’afa, non si scorge un movimento atmosferico e l’animo ha una sensazione di gelo all’inverso, per prima cosa si affaccia stringendo salde le mani alla ringhiera, le strade sono deserte e rendono il paese ancora più inquietante di quanto possa essere. È il 20 luglio e nessuno si sognerebbe di uscire con questo caldo torrido; il palazzo sembra dominare dall’alto con i suoi sei piani imponenti e le orribili statue simil-greche, nulla esiste forse di più kitsch. Seduto a terra iniziano le operazioni da rituale, si prende la sigaretta, si apre e si svuota conservando i 2/3 ben stesi nella mano, intanto con l’altra mano si fa un filtro ottenuto strappando in minima parte il pacchetto e creando un cilindro perfetto. Dopo aver mescolato l’erba al tabacco ed aver rotolato la cartina chiudendola si forma un bel, come si dice in gergo, “cuoppo”.

Gianni inizia a fumare e subito pensa alla sua prima canna, fumata due anni prima, all’età di quindici anni. Quella sera non la potrà dimenticare mai, era ad una festa con amici, già sclerava perché si era corretto due birre al gin, poi due tiri di spinello, ed un’altra mezza canna successivamente. La testa gli andò a mille, ripercorreva in tondo sempre lo stesso tragitto attorno alla sala da ballo e fu lì che baciò la prima volta una ragazza, senza capire nemmeno come e perché. Si chiamava Marta e lui neanche la conosceva, l’aveva notata perché era abbastanza carina, ma nulla più. Anche lei era completamente ubriaca, non si sa chi prese l’iniziativa, se lei o lui, in ogni caso accadde ed entrambi non ricordano granché dell’episodio. Non sarà il massimo tirarsi una storia con una che non si conosce, senza scambiarsi una parola, senza provare niente, ma forse è proprio questa la bellezza dell’ebbrezza, l’agire secondo i nostri istinti, lasciarsi guidare da noi stessi. Non esistono sensi di colpa o inibizioni esterne. Come quella volta che fece filone con i suoi compagni Enzuccio e Lino. Presero il treno per Napoli, si diressero a Piazza del Gesù, dopo aver recuperato la roba stettero lì nel chiostro appaciati a fumare. Parlarono di argomenti assurdi che altrimenti non avrebbero mai detto né pensato. I segreti più intimi, le verità più nascoste, emergevano senza ostacoli di alcun genere. Come è bello quando il cervello inizia ad annullarsi ed affiorano come germogli in fiore pensieri celati, per puro caso e perciò in maniera terribilmente reale e sincera. Stupendo è ricordare momenti all’apparenza tanto vani, inutili, privi di consistenza e poi contemplarli nel vuoto del silenzio per esaltarli in maniera autentica. La vita sembra in questo modo prendere colore, hai il desiderio di continuare perché sai che vivere è stupendo, che nonostante le sofferenze a salvarti dall’irreversibile noia c’è la banalità di alcuni gesti, di alcuni istanti, di alcuni sprazzi di vita che ti ridanno gioia e senso.

Assorto tra questi pensieri Gianni ha quasi finito di fumare e resta a contemplare il paesaggio davanti a lui, lo sguardo fugge prima lontano, tra le case laggiù oltre il ponte dell’autostrada, ora tra il bianco ed il grigio, ora celesti e da più colori, poi si perde nell’infinito, oltre l’orizzonte, oltre le montagne alte, svettanti, sicure di sé, imponenti, sembrano quasi sfidare con la loro maestosità la minuta essenza umana. Gli occhi cadono poi più vicino, giù sulla strada, attirati da una oscura presenza che si aggira tra i cassonetti dell’immondizia, una bella donna sulla trentina col seno grosso, capelli sudici lunghi all’altezza delle spalle, una maglietta verde acqua trasparente a maniche lunghe dalla quale si intravedono i capezzoli, una gonna nera lunga sino alle ginocchia e scarpe da tennis senza lacci. Chi sarà mai costei? Perché si è ridotta a rovistare tra l’immondizia ed a vestire a quella maniera? Ha quasi voglia di scendere e di seguirla a distanza per vedere dove diavolo vada, una curiosità strana e forse fine a sé stessa. Buttata la cicca scende repentinamente le scale fino a giungere fuori, per strada; la donna si è intanto incamminata e procede con passo celere e quasi ossessivo sulla strada maestra, ma ondeggiando a destra e sinistra come fosse ubriaca o in preda a chissà quale delirio. Gianni la segue a distanza, attento a non farsi scorgere, per circa un quarto d’ora, sinché lei non giunge al parco pubblico e si dirige alla toilette. D’istinto il ragazzo entra assieme. Immobile ma eccitato ed in preda all’imbarazzo, come se quel volgare squallore, quella sudicia e maleodorante donna, seppur bella, lo attraesse.

“Vieni amore mio, dove scappi?” rise sonoramente la stracciona carezzandogli il viso con le mani unte. Scappò.

Dopo una frenetica corsa verso casa entrò nell’appartamento, si svestì e si buttò sotto la doccia , si strofinò continuamente col bagnoschiuma, tre, quattro, cinque volte, per purificarsi, quasi per redimersi. Come poteva il suo essere desiderare una donna per niente attraente, colpa dell’erba? O magari era proprio questa rozzezza, questo bestiale desiderio che risvegliava sentimenti ancestrali, sentimenti che la società, per tanto tempo, aveva represso. Sì era così, paura e pregiudizio. La paura rimuove i nostri desideri, la paura di sbagliare, ti fissa immobile con le sue redini alle sue convinzioni e, se spesso ti difende, ancor più spesso ti soggioga. E il pregiudizio, che implica la paura, il pregiudizio che è il volto sociale della paura.

Sale d’impeto sul terrazzo ed affacciandosi alla finestra urla a gran voce: <ANDATE A FANCULO!!!>

 

Vecchi futuri (percependo l’ardente spirito incendiario)

Sette mesi sono troppi, un anno lo è di più, una vita poi, non immagini quanto: passa così e va, guardalo, ancora vola il gabbiano a pelo d’acqua, sul pelo del domani come albatros mio baudeleriano , per un pelo non è caduto, sull’orlo dell’abisso, planando in cammino difficoltoso. Come avrà fatto? E intanto ancora muore ecco il riporto: frazioni, amori e vita sono solo un ricordo, pallido, futuro, ricordati ancora cosa vuoi, lo sai? La vita? e la vita è stata ma col tuo, sì col tuo silenzio hai ancora l’ostinato coraggio di parlare ma a chi e perché? Se ti ho pensata è stato per trasmigrazione mentale, inconcludente, incompetente diramazione. Eh la mia vita che ha perso ogni riguardo, certo, certo, ti guardo, ho visto quel tramonto, quella raffica di vento mi ha portato via, mi ha spalancato le porte del tormento! Ecco l’aria che ancora ridiscende, rugiada vaporosa che mi accende ma poi riprenderà me stesso ed io quindi ancora qui, che farò? Avrò troppo a cui pensare. Ogni giorno la mattina mi alzerò sentendomi più giù di ieri, la notte mi alzerò, mi sveglierò di soppiatto, dalla paura chiuso in un pianto. E intanto, nonostante ciò, al suo ritorno solleverò l’anima, mi sentirò già meglio, vorrò continuare. Ma si manifesta la sua potenza ancora: la morte! È finita, nessun amore sanante, continuo e la morte si avvicina desolata, sconsolata. Stella, lassù tu brilli: illuminami; luce, splendi ancor di più, sai?; vita, spiegami tu perché ho sbagliato; morte, al tuo avvicinarti sento che intanto…

Ed oscilla la tua veste, una nube viva e scura si dirige su di me, verso di noi perché da noi è stata creata estrinsecando il pensiero maciullato come giardino reso incolto. Eccoti vivere, vivi la tua vita, ricordi giraviti, colline e le viti intorno, precisione. La nube si dirige verso di noi, ha l’aria di un temporale, la nube si vendicherà, sai? Erinnica! “ma che devo sapere?” Che vivi giusto perché vivi ed ami giusto perché ami e dici ancora: “sao  ke kelle…”. Il senso non ha mai preteso senso, non lo possiede, ciò che è razionale non lo è, tu sei ciò che sei, tra le mareggiate delle tue idee. Sei chiara e non condizionata dalle correnti d’aria, condizionatore spento, vivi nell’aria perché il cielo è più nero se lo vivi, se lo pensi poi cobalto, turchino o metilene è solo ancora l’oscillazione della tua veste.

E salutiamo, ciao, ciao, ciao … Ah! Aspetta ancora qua, vivi ancora, ama, asteni andri ari mi, animi i pensieri. Vado di là, cambio verso, muta direzione, modulo scandito, non ci sperare! non ci credere! La tua mano! Il pianto terribile ed ancora ah sti, ah star. Geniale idea quella di venire, piccola innovatrice lo hai capito che non mento. Ciao, in un saluto sei mia! Due vocali sono poche, tre di cinque sono dieci degli Spartani perieci:  Asti Asti olar, dolar! La lingua smozzica il sopruso, bacio francese ad imitatio di quello minoico. Sbarco fenicio in Costa Rica. Verbo smorto, le poesie, Quando il sole ti trafigge finalmente gli occhi, spada luminosa, e con gli altri, a loro assieme, sta lì ed ascolta quel frammento che è attimo veritiero e abnorme, la strada è quella, percorriamola. Misi e poi nidi che coi, strappi ancora poi per noi: mi voltai d’improvviso e le immagini nostre mi strapparono il viso cartapesta, bastion di gesso. Il sole scompare per sempre. Non ti trafigge mai più, e tu dici tremante il tuo finalmente! fortuna mia! Strappate le poesie con rabbia e ricomposte col garbo dell’assoluto, dentro te, scritte ogni dì ed ogni notte, dentro te per sempre, l’amore si proclama con ogni arte, quelle parole che metti da parte il giovedì, musica ancestrale, musica celestiale, tracce d’amore rifinita su carta. Matti, siamo matti, cogliere una rosa è il nostro stilistico pensiero!

E dopo il monte? Domandi altera mentre penso al nesso. Io, io ho visto la vita fiorire negli occhi di ragazze, ho visto la dama del ponte, il conte. Tu mi chiedi, e dopo il monte? Lì non ci sono arrivato, come guardarlo dalla finestra, dalle vetrate, dalle barricate. Ho sentito dire che comunque sia i ragazzi di quel paese, che ne sanno, non lo sanno, non sanno della lavandaia, non rendono il permesso per il giorno appresso, non concepiscono il molto come scisso dal poco. Dietro quel monte? Forse c’è il mare, soltanto sabbia, è un deserto, un merlo desto, è ciò che sarà e che era ed è ancora. È così, come quando  bambino mi affascinavo affacciato ma aspettavo ancora di poter volare verso la meta, viaggiare sopra le cose e poi e poi, dunque, oltrepassare il monte. Uno, un solo punto in un posto qualsiasi dell’Universo, un punto spazio tempo lontano lontano, distante da qui mai lo vidi allora. Viaggio come volo. Ieri raggiunsi il posto e ti incontrai. E ora cosa vuoi? La vita mia, la vita sua, la vita vera, la vita oscura. Eccola qua, ne sa la mia di vita. Quattro case e quattro posti, quattro rospi e loro erede, quattro vostri, quattro nostri. Dio la pazzia è la mia vigilia, Dio la follia è là, eccola, la intravedo.

Ho chiuso gli occhi senza finire, in base a regole non fisse incolonnate, guarda che precisione, irritazioni e guarda e senti ciò che ti dico: è stata lei che ogni giorno aspettava perché ha ancora il pensiero rivolto a te. Cosa vuoi da me? L’errore è stato il tuo, non puoi ancora tornare indietro, non puoi fare più niente, per adesso! Si scorderanno di tutto il bene che hai fatto, ti accuseranno perché hai sbagliato ora perché una persona per loro si può solo giudicare. Per loro l’amor non conta niente, centro vitale, anello che tutto tiene per loro è l’imbroglio, scindono tra perdenti e vincenti, tra furbi e idioti. Ma noi siamo ciliegie, schegge, volti ridenti su tetti bagnati per niente, sassi precipitati, due parole, mille poesie, inchiostri di periferia, verdognoli cieli d’asfalto, pioggia e vento, fracasso del silenzio. Ciliegie e schegge di vita passata, di morte vissuta con te in prossimità, a due passi da me, scala a chiocciolo, stanza, di te, essenza che sai. Ed è un lampo, fuori il sole, una musica leggera mi accarezza il cuore, è calma, molto calma, salto giù dalla sedia, mi dirigo verso il balcone, eh sì, fuori il sole, mira, l’estate è vicina, il maggio delle rose e dei suoni e dei suoi pensieri profumati. Nel cielo vedo i tuoi occhi ma di sera la luna brucia nel core, la sera è nera, illuminano le stelle il soffitto e nei riflessi bui, nel letto la luce finalmente mi è dentro, un brivido mi percorre il corpo ed è pomeriggio, chiudo le persiane mentre loro sono ancora a Maratona. Afa. Brucia, l’usignolo laureato e delizioso beve ed un cane moribondo è dissetato dallo stesso pozzo. Amore, amore mio, ogni cambiamento, come il nostro, è frutto delle correnti del vento, ascolta!

Inforco gli occhiali, l’orologio e tutto il resto. Fuori giocano a pallone, in mezzo al viale, ai piedi del quartiere. Esco, un cane mi saluta col suo snobbato  rituale: saltello e rotolamento, indosso il mantello ventoso del respiro della natura. Sveglio da stamane, al suono del grillo e di tre sveglie con un gallo. Sveglio, riposo altri due minuti, prendendo gli occhiali, l’orologio e tutto il resto. Tutto è per tutto! L’orologio di sera più mogio della radiosveglia non suona però è vero nonostante le false assonanze, falsetti letti e riletti dal Mister Chicchessia, il signore e la signora, di giorno e di notte, rime baciate come mandrie alternate dei  pastori in trotto pel tratturo giocano a lotto arcadici urbani invecchiati tra le lotte per la supremazia, torna il Mister Chicchessia, in sella alla motocicletta, animando il chetone alifatico che appare un po’ il chiasmo di un chiaroveggente retorico ai guardi.

Salvatela, vi prego salvatela. È il gocciolio, il nocciolio mio, cosa ha detto lei e perché, qual è il mattino?, mio Dio, quale il motivo? se c’è un motivo. L ’hanno portata via, lontano dall’amore, rinchiusa ad ore per quarti di minuti, da un nascondiglio temporale ad un altro, da tre mesi. Salvatela, vi prego salvatela. Contattare qualcuno potrebbe ucciderla, ucciderla potrebbe far entrare in gioco qualcuno, proprietà riflessiva ed i riflessi dei suoi capelli che ormai sono lontani. Ma nessuna intercezione ha interceduto, il tratto del naso, del viso, il suo tratto ora non è altro che un ritratto. Gli altri hanno circondato l’edificio, loro sono scappati e lei è morta ma il sangue se lo è portato nelle vene, nelle sue vene.

Intermezzo antistress: “Ho chiuso tutto, bisogna far riposare la mente, bisogna rilassarsi, chiudere gli occhi e poi abbandonandosi a noi e riordinarci senza saperlo, meditazione trascendetale. Antistress, non confonderti le idee, un caffè non serve, ognuno dipende da sé non c’è bisogno di lozioni, pozioni o di divagare in  inutili questioni, riposa il tuo individuo, sboccia la tua persona e vaga nell’eden dorato e trapunto di smeraldo, così la foga perde ogni sua nozione, credenza, esistenza. Otium tra quattro quarti di milione per prendere energie, pensare poi ad altro, dimenticare il tutto, e le brecce parallele si formano come rette in un lichene, zone un po’ più fredde del corpo ove la tundra crebbe in tutta la sua flora azione.” Zero e zero zero segna quella radiosveglia, è ormai priva di vita, asma prorompente, salta e sale ad ogni ente che viandante del niente fa ritorno fiammella incandescente.

Ma è forse meglio. Ecco il punto, l’amore cosa vuole travestito da imbroglione, non è più lui, servo etalagico. Ma il cuore si ribella a tal mercificazione e vive puro. Quella sera gli sguardi riflessi di traverso hanno infranto la mia effige, ridato la speranza. Amare senza conoscerci, conoscere l’insicurezza nel punto aforistico più in alto. Hanno paura di apparire, cercano il successo, non vogliano sbagliare ma l’amore ha da amare, l’amore sa di sapere. Ciò nonostante continua in lotta informe e ribelle a sbagliare, non ci si rinuncia. Il vero sentimento dopo l’apparenza entra nel vivo e si dirama, costellazione dell’essenza. odio i preliminari. La rimembranza permane, si modella, cangia: ciò è accaduto proprio in questo giorno, un giorno passato che mi riporta qui, è perché ora che ho paura del domani mi affido a passati ricordi, a vecchi futuri. Inizia infine la storia che pensa ancora sé ed il tutto, che ricorda da lontano colui che come me ora un tempo varcava ogni confine presente e ad ogni suo sorpasso verbale, ad ogni passo, non si girava indietro, non si voltava, no, guardava avanti e si incamminava verso la morte. E dalle finestre si sporgeva in passato Sophia che coi suoi occhi vivi mi guardava, ed io il suo nome non conoscevo e neanche ora ne sono a conoscenza. Stesi ora son al suo posto dei veli bianchi e zanzariere nere mi sbarrano la vista: lei dove sarà? Forse a sguazzare nella chiara e viva acqua ove, nella stagione a questa avversa, non c’era. E sempre lei dopo il tempo, in passato -mai così lontano da esser remoto-, sempre lei rividi  ma meno distante, quasi vicina, la incrociai e quasi allargai le mie braccia per stringerla. Ma poi però, quasi di colpo, decisi di fermarmi, decisi di aspettare ancora un po’ prima di sapere, prima di conoscerla in tutti i tratti delineati, mi convinsi prima di cambiare gli altri che, senza o con moltissimi pretesti, avrebbero osato sfruttarla sotto il mio nome. E lei, capendo i miei pensieri, mi sorrise e senza né gesti né cenni di assenso o di lontani saluti si rivoltò, così, camminando col suo soave e lento passo, giunse all’orizzonte e sparì aspettandomi, aspettando che io di  corsa, di scatto o lentamente la possa raggiungere, la possa portare da noi, la possa amare.

Lei! Ora come nel limbo dei pensieri delle umani genti, o come nei pensieri di lei, del suo viaggio inutile. Servi: inesistenti. Nel mentre mi han detto ciò che tu passi dicendo, due più due fa sempre tre ma li ascolti odiandoli, odiando loro e tutte le ricchezze e i prezzi, l’ oro violato nella sua bellezza e reso vettore di scambio, snaturato. Dopo questo viaggio hai forse capito che qui non ti hanno accolto, hanno approfittato del tuo corpo e del tuo pensiero ripetendo ogni secondo il tempo persiano che scandisce l’ieri. E sulla statale 24 io giro e rigiro il volante e ti rivedo ancora lì, privo di spedizioni ancestrali ispeziono questo contenuto e noto al suo interno figure retoriche che retoricamente danzando sognano l’amore, tu  sogni ancora il tuo paese, quell’addio è già nostalgia, ritorneresti a costo di morire, di riattraversare il mare. Ascolti la voce, l’amore dorme sui tetti urbani e le foglie campestri, ancora un po’ vive, sin quando andrai via. E dai tetti a spiovente risuona la voce, ululi alla luna. Ti ho vista. Esisti, sì esisti, ti vorrei chiamare ma con dolcezza, non vorrei infrangere sugli scogli come soave brezza. Torna ancora il pensiero, ritorna (per ora) ritorna e tu lo pensi. Un vento caldo soffia e mi porta lontano, via da questo mondo.  Vedo giù l’acqua dei mari ed i piedistalli dei cardilli, su cristalli i vini, amore ed ebbrezza, gioia e vita. E lontano, lontano mi porti, senti la voce che risuona in te, ascoltala e vola. È amore, ti sento lontana ma ho tanto bisogno di te. E guardando fuori la finestra scorgo in un fascio di luce un po’ più lungo te perché per continuare ti devo sentirti vicina, dentro l’anima, nel mio cuore. Ed in alto nel deserto e nel mare, in acqua vedo i tuoi occhi che risplendono. Perché fuggi lontana? Perché ti inseguo ancora? e senza pretesti mi  salvo. E l’orologio ormai segna un orario particolare ed esatto di chi sa quale nazione, città lontana, nella quale tu starai osservando il cielo stellato blu marino. Passa un quarto d’ora sul mio orologio accanto al tempo non mi sento sicuro, tu starai abbracciata ad un altro non lontano.  Tuttavia, irregolarmente, con le strofe, mi trovo a raccontare queste storie spaesato per puro caso. Continua senza te la storia e se ti sento lontana mi basta pensare che ci sei per ritrovarti. Ricordati, ossessione mia, mia dannazione, mia mania, mia paura. Tentacoli amari riflessi alla parete mi ingabbiano, inchiostro cupo. Paura. Per non sbagliare tutto sbaglio di più, animo sensibile, ostrica assopita che si schiude nel tuo “no”. No che diviene multiforme ed echeggia tra le voci sparse di ragazze che nel presente, nel passato ed anche in altri giorni a venire rifiuteranno le mie parole. Ma tu ti seccherai e cadrai tra le mie braccia perché hai bisogno di continuare il tuo sogno. Ed io non mi abbatto. I calici, le messi ed i pensieri sono già stati portati via da ieri, erano d’intralcio. Io no mi abbatto, continuo lungo il mio sentiero pensando ai giorni, prima di ieri. Nel quadro soltanto un marinaio in uniforme bianca di tutto mi informa e prendendo come ricordo soltanto un sasso e un po’ di terra continua e per il mare erra. Sale sulla barca raggiungendo e oltrepassando l’orizzonte,  lei dietro il ponte, altera e con un fazzoletto tra le mani, saluta, torna a casa, piange. Non deve partire! La morte lo attende lungo il sentiero del sogno della sua vita.

È  finita la storia ora che son giunto al punto morto dell’universo mi domando quale fu il principio ripensando a quelle ore in cui la speranza era ancora viva. In quei mesi capii la mia vera realtà, in quei mesi, ancora solo, capii cosa c’era. E nello stesso istante ci distruggevamo da soli perché non avevamo capito che la soluzione era credere. Io e te abbracciati ancora per un po’, vicini a loro ed incuranti di ciò accadeva intorno ci scambiavamo calore. Per entrare all’interno bisognava far valere la parola, essere creduti. Come la nebbia all’interno foschia l’anima mia invernale. Poi al suo finire la paura giunta del domani per essere fedele all’infedeltà porto questa storia come un’impronta, l’impronta del passato. Addio amore mio, sai non ci rivedremo mai, addio, finisce la storia. E in quell’istante spinto dal vento e investito dal sole, lo sguardo andò in su, colombi vanno lontano, sorvolando il paese. Ripetizione di avvenimento annuali, soffi al ritmo di sogni estivi. Posati sotto un melo che non c’è, voleranno insieme a loro, volerò mentre ti incontro, giro, cambio direzione. D’altronde sei così lontana che posso accompagnarti. Dopo un po’ non mi sorreggo più vado via, scappo con te, mi ritrovo nell’irrealtà reale. Alla domanda rispondesti sciolta come una scarpa sulla quale inciamperei cadendo coi tuoi stessi gesti che vanno e vengono, api operaie all’alveare e tu regina ti ricordi di me sbattendo gli occhi, affacciandoti e guardando il mare lì, di fronte a te. Oh mia cara! sto guardando una tua fotografia, guardi l’obbiettivo con quei tuoi occhi indefinibili perché non sanno ancora cosa cercano nostalgici, occhi di chi ama. Lucidi capelli, naso, bocca albicocca leziosa assume il  rossore della tua camicia splendente. Te quiero! Dove sarai ora, in questo momento? Forse a provare accordi, me lo sento, forse come me starai cercando qualcuno o qualcosa che inverta la rotta fugace dell’esistenza, la nostra inscindibile. All’ombra di un bosco ascolto la tua voce, sussurro impresso nella mente, le parole che dici di lontano. E mi siedo su un muro (il nostro muretto) e costeggio te da lontano sollevata davanti alla finestra di casa tua. Ti scruto mentre tu scruti l’aria e ti siedi su una sedia lanciando in aria le gambe. Poi ti avvicini al tavolino leggendo giusto tutto quello che c’è da imparare sul fusto, il tuo strano gusto estraneo, ti affacci fissando un punto, non una virgola nei tuoi bei occhi fluorescenti pieni di vita e di gioia, i tuoi più ardenti spiriti nascosti. Ti volti di scatto e mi guardi, mi scopri e quindi capisci che son io che ti spiavo da lontano scortando il Ticino o il posto più accanto, più vicino.  E salti scendendo le scale di corsa, ora dunque ti avvicini alla mia persona e sulle punte camminando ci allontaniamo: nuovi orizzonti scoperti da poco, terre lontane, pensieri di indigeni, terre natie, scritte su carte, missive: ti incontrai due giorni dopo. Negammo tutto. Ti penso ancora. La vita è il nostro sogno realizzato, stiamo vivendo il sogno di una notte di foschia di un anno fa che però non si realizza, forse non vogliamo o non dobbiamo.

Io cerco silenzio! Mi guardo intorno e sono solo, meglio così, non un essere umano intorno a me, mi sdraio e leggo ed ho come amici coloro che come me hanno cercato il silenzio che cerco. Il silenzio che cerco è il cinguettio dei passeri appollaiati su di un albero, è il volo dei colombi bianchi, ed è il respiro del vento, il suo sospiro ed il sussulto, vibrazione di ciò che non c‘è. Eccolo il silenzio! È una musica dolce che in me risuona, è quell’astro lontano all’orizzonte irraggiungibile. Così avanza il dimostrabile, i passi sul continente sconosciuto e le bandiere che sventolano al vento ferme sulla luna. Ed ora amore mio hai capito che quella che guardi in cielo altro non è che un satellite, che il Romanticismo è una follia e l’amore è illuminato dalle correnti ragionevoli di pensieri nascosti ma benevoli, che con la contrazione del tuo sguardo mi agitano, finestre al vento lasciate aperte o aperte in quel momento. Siamo all’assurdo! Il sole s’alza e l’albero cresce e il cielo splende ed il fiore nasce, si illumina e coglie ogni fastidio perché continua il ciclo motore che gira e non può sbagliare. Forse non è bello come pare ma è stato un sentiero di campagna la causa per cui son giunto qui, bloccato abbatto il muro e continuo verso la libertà. Tu, spegniti desio! Forse non lo sa lei ma si ricorda di aver bisogno di me, si sente giù, pensiero ingrato, spina postuma, alcuni salvati e punti. Ora so che non ti avrò ma aspetto lo stesso e mi fermo e scrivo ogni cosa. Mi si stringe il cuore, sto male, il cielo è così, non è cambiato, io sì. Vita viva, spero in questo. Ciò che dici non lo capisco. Spegniti lo sai se mai acceso non ti sei. Per dimenticanza si cancella. Sono passato per tre volte inalterato, senza riportare danni alcuni e senza sofferenze atroci, tanto è vero che ho saputo cambiare ogni volta. Ne passerò illeso finché sarai nascosta in te stessa finché potrò scrivere qualcosa di importante. Affissi come i quadri i pensieri insensati, più lunga è la strofa più corto il pensiero infinito e allora ha un terribile limite: limitato solo da sé.

Intermezzo slavo: “vi penso, il sole qui davanti a me, non posso ignorare le persone che muoiono lontano. Ancora vi penso e risuonano in me ancora le urla, rifiuti gettati, ormai morti tra tanti, vivi per me. Donne, famiglie distrutte e le ragazze più belle hanno ancora il viso sporco di fuliggine, polvere indissolubile. E come un grido scompaiono. Io vi penso ancora, è vero ormai non ho paura di guardare in faccia la verità. Posso dirmi sicuro di aver timore della sua potenza. Sai però che non sei ancora arrivato a dividerli, li tieni saldi, non li distruggi, non puoi perché non sai farlo. Sai, stai perdendo, stai scomparendo. Io ce la farò non avrò più paura e ti dissolverai.”

Cosa le dico? Come le parlo? Di nascosto le chiedo sinceramente il nostro cuore che posto ha nel suo? Non le dico niente, so già come andrà a finire: aprendo e chiudendo le porte si sprigioneranno forse forze sconosciute famose poi per questo mio intento che credi malefico ma non è ciò che voglio dire. Lo so io come andrà a finire, le parlerò di Verne e dell’anima che pende senza riscontri. Troveremo amore solo su due mattonelle 34X30. Mi sdraio per terra, faccio poco o niente pensando a te che sei del fiume affluente ed estuario. Sul tetto di una casa un pianto a dirotto, spaccata a metà un’isola frammentaria. Poi perdo ogni rancore, mi siedo e penso riservandomi di parlar con te forse un altro giorno. Anche se non ha senso. Tu dici non l’abbia, pensandoti ringrazio e pensandoti sei tramite per il divino che ringrazio, sorgente prima mia. Grazie per ciò che tu hai potuto fare senza di me. Grazie di avermi dato tutto, perdonami se vuoi io ormai non me la sento di chiederti ancora scusa perché le mie parole son voce spersa nel sole. Grazie di questi anni vissuti e ormai finiti, non ci sono più legami: respiro per respirare ed amo per passare il tempo insieme a te. Grazie degli occhi per guardare lei e la natura e il mondo e il cosmo ed anche il caos, dell’aria per respirare e dei sogni per amarla. Lo so, ora il mio sangue è solo e solo resta ed anche se non ha senso è ciò che penso, che credo veramente: ho paura. Non è mica per qualcosa ho tanta voglia ancora di abbracciarla e stringerle le mani attorno alla vita, colmarla di baci, lo so che non ha senso ma io l’amo veramente e il resto non conta niente, è il resto che non ha senso. Tu dici che ho perso proprio l’anima ma se l’anima ama veramente mai si sperde. Certo, va bene il cielo è ancora scuro e pare fumo le nuvole … piove !?! la pioggia a schizzi scende su di noi e il fumo bollente cade dai tetti, copre il sole. Va bene, comunque vada andrà bene. Comunque! Io ho vivo il tuo ricordo e Dio come la vorrei vedere! Amore mio risplendi sempre nel mio cuore, gioco di consonanti e coro di amanti, solo tu! Amore mio sai che sei bella così, più di te, magnifica apparenza! Si può strappare un ricordo togliendo un accordo ma tu resti tu, magica, Amore mio! Magia del cuore! Quando t’abbraccio così vicino da essere lontano da ogni cosa mi par di vedere scendere l’ama dall’incandescente aria e con gli sguardi più vivi di tutti i ritardi, i tuoi, che in amore tendi a mantenere con questa vita finita prima di iniziare ti sento! Quando scompari di nascosto, vai via o perdi il posto esistenziale appena rintracciato, subito ti ricordi di me tra le lacrime: pianto disperato. Quante volte ho racchiuso i miei sogni in un’altra coltre colma di ricordi e di poesie scritte come sfogo su fango impietrito. Ho rotto ora lo schema affacciato alla finestra. La ricordi la balestra? Sorridi! È questa la magia del cuore, è questa la mia verità, è qui la tua sincerità. Mi vuoi amare? Questa mia vita è stata costruita solo per caso, lo sai? Non sai che questa mia vita è stata interrotta solo da me, dal mio affetto? È buio ormai ed io senza guida mi perderei anche se ciò che dici ha le più antiche radici, salici di piombo. Non hanno scopo gli altri sentimenti, non hanno vita più i tuoi e nostri pentimenti, volgare affetto? Verso questa grande città ci dirigiamo senza pietà per loro. Ora mia cara puoi chiedere gli occhi, non ho più bisogno di quei soffi, vento caldo freddo cuore, sole che illumina illuminami. Ho amato la tua sincerità. Scopro ora soltanto te, nella banalità del reale. In fondo sei simpatica per tutto ciò che fai, quando ti poni sulla difensiva senza ci sia un vero attacco, carna anche nel torto. Anche tu guardi il mondo dal mio stesso colle, siamo molto vicini, contrapposti e lontani ma pur sempre accanto. Io non me ne vanterei. Il tuo cuore va a mille un po’ troppo facilmente e questo è molto strano ma capita anche a me e quindi ti perdono tuttavia teniamoci a distanza perché essendo vicini ci potremmo voltare ed amarci e poi ignorare il mondo rimanendo sul colle privi di ogni veduta. E restiamo allora vicini e senza guardarci, senza scambiarci nemmanco idee perché sei come sei! Nasce il sentimento dalla sovrapposizione delle nostre parole.

Anche se questa vita è stata resa buia dalla nostra compassione crescendo in rifusione senza preferenze né rimpianti mi riporti i pensieri. Cambio stravolgente! Perché non provarci almeno per un poco? Perché mai non tentare? Amarci a vicenda senza fumo, scoppiettio, senza pensieri e umori mutevoli. Andiamo lontano saliamo e poi scendiamo stringendoci tra le braccia anche senza chiamarlo amore, non ha importanza. Guardandomi negli occhi avresti voluto dirmi “ancora” ma venivi ostacolata senza scampo dalla realtà dei fatti. E il tempo scorre come un dannato, più di un anno oramai sarà passato, io ti penso ancora. Restiamo nell’incerto ascoltando il solito concerto delle mie fitte foglie ingiallite. Ascoltando il tuo profumo, così che mi venga da pensare, che scenda un brivido salendo profuso. Ritorno al passato ed ho paura di te, ti guardo negli occhi, non sei con me ma ormai non mi domando più perché. È stato ciò che è stato mica l’ hai vissuto? È stato l’amore mica l’ hai chiuso, sigillato e sepolto il tuo sorriso? Tu che hai nei miei confronti un’espressione viva e vaga, ora, ma comunque esistente, hai cambiato ogni proposta inoltrata da me, se non l’avessi fatto me ne sarei accorto. Ti sei sganciata da lui per non vedermi soffrire. Sei finita nei miei desideri e li hai mutati, son cambiati per te, solo per te. Io che speravo di amarti ed ora spero solo di non rinnegare la mia dimostrazione d’assenzio assoluta. Sarà così però no, non posso scordarti, amica mia per sempre ti voglio così bene che non ti potrò scordare, lo ripeto, tutto il resto conta meno di niente. Mi hai toccato con una meravigliosa grazia che non ti ho detto prego nemmeno ‘sì per scherzo per divertito puro eccesso. Ma ti ho detto che veramente hai acceso questo fuoco nel mio pensiero o nell’animo più chiaro, più forte ma più dolce. Se per caso ti accorgessi di me non penseresti all’affetto, accampata lontano da ogni mio pensiero. E come vapore tu risali e cadi precipitando nel vuoto solida, verso un più chiaro e sicuro futuro. Ho trovato in un libro un tuo capello ed ho detto di volerti vedere o almeno avrò pensato di cercarti in questo mondo che ci ha rifiutati ma ci vuole accanto. Forse non merito di vivere in questo mondo privo oramai di ogni pazzia. L’altro giorno, ad esempio, abbiam fatto razzie e le acque abbiamo aperto seguendo soltanto il passo lento di un imbuto che non mi ha filtrato. Hai distrutto l’armonia, hai creato la paura rendendo questa vita più dura, la mia ricca fobia! Ma guardando il cielo azzurro mi sembra di volare, mi sembra di amarti ancora, inutilmente. Ti ho amata, ti ho amata ma ti amerò? Strano il sentimento in vano amore, cara. Lieve nel suo insieme? Sai che I sogni di ognuno sbocciano dallo stesso seme? Io penso che dovresti riflettere su ciò che dico e non rispondere con un ritornello, come un affronto fatto ad animo sereno e quindi imbarazzante.  Decidere su due piedi senza te e senza il nostro cuore né l’ausilio del sole più sciocco e più rozzo di un cappello, montato è su un mantello la protezione finta di cartapesta. Tu la mia amata, la più dolce mia compagna in questa vita dolorosa. Per te vari doni, più ricchi di tutti sono i suoni. Delle parole chiave è la voce, serratura la vita e tesoro sei tu. I fogli contengono parole, le parole hanno significati che tu non capisci ma intendi, lo so. Sono meglio o peggio? Sono comunque me stesso, sono il ricordo della vita e tu l’alito d’amore, sogno presente in ogni cuore, vita sonno e pensiero ciò che sono ed ero sarò sempre. Ed ora perché ridi? Io con te non ci sono stato ed il tempo è già passato, sarà trascorso un anno e mezzo e sul più bello tu vai via. È da tempo ormai che sogno solo te e non vivo se non sei qui. Eppure tu non sei lontano, mai ho trovato un’altra che mi guardi coi tuoi occhi illudendomi e splendendomi riflesso e tu ancor rifratta continui a guardare avanti e non ti accorgi che son qui. Amore, mio caro amore non riesco più a viver così ma sei solo tu che mi illudi, continuare ed amarti.  Il tempo passa e tu non cresci, il mondo cambia e tu rimani sempre così carina e non ti accorgi ancora che ho bisogno del tuo amore. Ascolta e guarda, la vita nasce e muore sapendo di essere chiara e tu non puoi saper di rinascere perché la vita ti ha deluso più di me. E allora perché ridi? Io non sto scherzando, ogni anno che viviamo ha paura di starti lontano. Sai che non c’è un sogno che io faccia senza te e sento ancora le tue mani su di me. Integrando l’amore lo hai capito anche tu che senza alcun pudore mi hai lasciato conducendomi lontano. Integrando l’amor c’è o non c’è l’importante è che tu resti qui. Ancor non sai che non puoi ottenere ogni cosa mettendoti in posa e continuando smentendo con arguzia questo sentimento. È così che vivi e che vivo io con te e per te. Questa resa sorse forse per scambiarci opinioni tramutandole in azioni, confortevoli  speranze di una vita migliore ma mai sentita come obbligo. Buonanotte amore, scende la sera e ti guardi allo specchio sola e perdutamente innamorata.

“Ciò che dici non è oro per il mio cuore e non è un sogno perché non si conosce. Narrando ogni cosa che ho dentro ho capito che in verità non c’è realtà se non ci sei. Io avevo paura e tu in sogno hai sorretto l’anima mia aiutandomi. Ora so di esser nel tuo cuore e tu mi sarai vicino ed io cercherò di esserti ancora più vicino. E tu non mi abbandonerai tu che mi hai rialzato senza giudicare, la mia caduta l’hai resa somma salita in sull’alta cima. Ora so che tu sei qui, tra noi e nonostante tutto ci aiuti salvandoci ed io mi prostrerò ai tuoi piedi e pregherò senza fermarmi sarai con me. E spero che così sarà, spero che ciò accadrà, lo spero davvero perché è sciocco negare l’evidenza come è sciocco gettar via la lenza senz’esca. Fuoriesce la luce dal mio cuore illuminato dal tuo grandissimo e possente.”

Versi questi versi

liberi e pensanti

liberi e quindi amanti

pensieri sinceri.

“Il bacio che aspettavo! Come un’illusione sei venuta ed andata via in un lampo. Ti volti fingendo semplice indifferenza e mi paragoni a ciò che già sai e perversamente risalgo il mondo in cui vivo ansioso come sempre passeggiando in questo bosco dopo il temporale con la paura che le gocce mi cadono addosso. Ma non lo fanno ed io mi salvo, cancello ogni paura ed ogni eventuale ed inutile timore, rifioriscono ancora i pensieri ma non i fatti. Ho sudato più camice ed ho sperato molte volte che ciò che oggi è accaduto potesse accadere un giorno. È accaduto ma sono restato immobile, ho sbagliato ancora una volta, però il sogno continua ed amo sperando in una nuova realtà. Ma qual è la sostanziale differenza tra ciò che è e che non è, non l’ ho capito e non lo so perché il bacio che aspettavo è svanito e non ritorna.”

Intanto cammini, passeggi, ci amiamo, vogliamo ricordare il nostro amore ma mai arreso.  I ragazzi corrono per le strade, i gatti salgono sui muri e le serpi assonnate e pacate ritornano in te. I marmi della pioggia! Evviva! La vita dei ricordi sofferta e i sentieri nascosti per un buffo intralcio che sale e che scende lì intorno che mitiga amore e che percepisce nel cuore le vite passate, mai morte, mai vissute, mai sorte, mai cresciute ma che conoscono le muse. Amore, sei ancora amata, per amore o per passatempo, ma comunque lo sei e sai di parlare in un vivo soliloquio. E mi parli e mi dici che non sei mica sola e sperduta e poi pensi, solitaria tu pensi a ciò, e poi ridi coprendo un pianto più grande di te e che non sai spiegare. Non continuare. Per questo ricordo di esser vivo in questo momento in cui sento le porte sbattere e grida. Ascoltami per questo silenzio che regna nel mio principato. E l’Impero Romano d’Occidente, caduto anch’esso persa ogni speranza è morto in rancore che è essenza di te. Sogna di volare sui sentieri della Gallia io solo un po’ stordito, sarà colpa dei Visigoti oppure delle correnti del vento. Non conosci mica il pensiero che dici lontano da te ma pur sempre invano mancando di quella presenza unitaria ed essenziale rappresentata da me in collisione con la luna e con ogni caduta cui segue un balzo beffardo e vile. Crea ciò che muore da un accordo oramai finito, plasma, poni in essere, è una sentita poesia o suprema pazzia. Comunque sia il ritorno è presagito, ballando incontrammo ciò che non sai ma che immagini solo lontanamente e forse nemmeno. Rendi tu ciò che hai da dire, ridillo, ripetilo e basta! Non continuare! Visto errato! Sogno di vederti, di spiarti, amarti solo per ‘sta notte e la notte appresso. Ho sognato di dormire su di un letto di fiori e di sognare. Ho trovato diecimila lire perdute e imbevute d’acqua corrente che sbriciola nel torrente e poi continua ancora il suo lungo viaggio sincero e così nero per il pensiero che tu lo avresti facilmente scordato essendo lontana. Visto errato! Nascosto tra gli ignoti ho visto solo ciò che volevo vedere, in questo falso mondo più veri sono i sogni o, per lo meno, i nostri. Lo sfilato portone non ha più fontane e cade dai muri di staccato disincanto. Scoprirai di essere soltanto sola e per tua decisione cadrai tra altre braccia vedendo nei miei occhi niente di importante.  Potrai camminare verso la tua verità senza inciampi al sentiero: la carta non ha paura di affrontarli e li distrugge così soltanto così.  La musicalità, infatti, cade e mai tornerà ma se per caso accadrà stai sicura che tu non ci sarai più. Se non lo farai ho paura che di certo nel fossato cadrai senza più rialzarti senza neanche la voglia di vivere più. E se non lo farai lo ripeterai per sempre e per sempre lo scorderai perché a te non importa, i sentieri nascosti essendo da te percorsi saranno davvero tuoi. Ora chiudi gli occhi e non pensarmi più sono ormai lontano e sto cadendo in morte sicura: amore mio addio.

Sinceramente hai detto di sì avvalorando il tuo no e sognando, soffiando ancora prima del sincero addio, senza rinascite ti piacerebbe senz’altro amarmi ma non puoi, non vuoi cambiare ciò che è già vivo in te. Mi ucciderai, ne son certo, anche tu ti senti un’altra, diversa, se baci lei corrente avversa a ciò che la società ti offre, ti dico: ciò abbatte la più sincera velleità. Il mio amore non sa che per amore non c’è bisogno di sperare e di avere passaporti, transitare da anima ad anima. Sinceramente ti sento mia mentre tu le ribaci e poi mi baci ma in fondo che male c’è sinceramente. Serenamente sono sbigottito nel vederla così: un carro inaudito.

Alla mia amata

 

Il cane scodinzola in sulla strada

che un prato lucente rende minata

da soffi di brezze e di incanto; bada

sublime ragazza tanto amata!

 

Un gatto mi guarda, mi scopre vivo

mentre intorno il cane svanisce, scende

lui sale senza sembrare impulsivo

o forse era in preda a ciò che non pende

 

Però a te, sola e sincera amica,

nulla importa di questo incanto vero,

amabile, perché non sogni mica!

 

Tu con lei passeggi, meriggio nero

lei è stata rubata da te, bugiardo

ma tornerà da me, sarò sincero.

 

Dalle tue espressioni un prato verde, una treccia azzurra è ciò che tanto mi manca, è ciò che persi in una notte. Sogni ma poi ti rendi conto di aver detto tante altre cose più belle: fonemi, sinceri sentieri più veri amore mio, così simpatici da esser con me a portata di mano. Amore, provare c’ ho provatoti ho dato ma non ho avuto e adesso tu lontana e fuggitiva sfinita ma sempre in vita sei proprio tu che mi dici “son qui” e poi scompari. Sincera no ma bellissima, lo so, simpatica di meno ti allontani senza riuscire a fuggire anche se tu non lo sai con le tue espressioni mi hai distrutto, sei così strana! Resto solo ma non lo resterò, ricordati che t’amo, percorriamo assieme il sentiero di campagna un po’ lontano in verità e che si si rinchiuse dentro te. Mi chiedo se mi ami ancora, mi chiedo se sei ancora vicina amatissima amica. Ma quest’anima imperante  comanda e non ti manda in esilio volontario perché sai tu di essere una scusa, un diluvio, una battuta. E sì è così, oppure ho redatto, diretto tale sintagma d’amore. Ti amo, dici, ma lo so poi che non è vero, ti voglio, è il mio solo pensiero, ti vorrei vedere, sentire, toccare. Ma mirando altre cose e sognando altre rose ritorno a zero che è il centro dell’infinito. Non sono stato ciò che tu volevi ma questi sono fatti tuoi, comunque piacere, sono io, strano ma così vero, strano questo tuo pensiero, amplessi complessi sistemi sinceri, ma che vita in questa realtà inesistente vuota, inconsistente.  Che strano, sono pensieri, solo pensieri, rimembranze vaghe e buie nel tuo cuore, non è contento ogni tormento, non è celato ogni argomento con il relativo valore impresso dal tuo cuore ancora insoddisfatto. E guardandomi intorno lo so, vado e poi ritorno,  preferisco assai di più morire prima dell’ennesimo ordine tuo. Tu mi stai sognando, tu mi stai guardando senza farlo notare, che giro inconsistente,  morte incosciente. E così questo sfregio nel cuore non ha senso e tu da lontano con un dito mi segni e ti nascondi, lo vedi e poi lo sogni. Ti ho scritto una poesia? Chi te lo ha fatto credere non so! Ho rinchiuso un po’ d’amore? Ma io non so amare! E non è vero che sei unica e non è vero che sei la sola, sei molto strana ed io non ti ho capito ancora, ma comunque piacere, sono io. Il sangue contenuto. Ancora non sai e non t’è mai bastato il sangue contenuto, il sangue da te veduto. Guardi gli uccelli ancora, guardi loro però è strano che tu sia ciò che sei adesso. Lo so che è così, sinonimo e contrario, inciampata per una penna o per la supremazia. Uccidi lei che non è peccato, uccidila così, uccidila, non è una persona, uccidila, è sola. Lei è ancora qui, il quesito è sempre aperto: risolvilo! “non ci riesco”,  ma come sei ignorante, stupida incosciente, garantito da me al cento per cento. Sin, drink, clock. È vero oppure no?

“Profumi d’infanzia! Mi sembra ancora d’ascoltare i profumi ormai lontani che non posso più assaporare, non posso sintonizzare l’olfatto con l’odore perché la mente torna ai più vecchi profumi d’infanzia. Odoro un pastello di legno e sento l’essenza vegetale in modo così naturale. Il tronco è vita! Odoro i capelli legati in ciuffo in un così buffo fiocchetto del grembiule di lei. Sento suonare la campanella, odore di quella scuola d’infanzia in cui accalcati noi bambini agitavamo lo spiazzale. E poi i plasmon! che sapore! chi li può scordare! inzuppati nel latte o da soli di pomeriggio erano un sogno. Si poteva anche spaziare affacciati e varcare il confine con lo sguardo. Le corse nel cortile, sudate, sento ancora l’odore di quelle serate. Infine la fantasia, volavo per magia.”

Senza nome, ho posato l’animo sereno, ho rincorso ciò che c’è o non c’è, per spavalderia non te l’ ho detto che resto ancora qui con me, senza nome io percorro case, salto edifici e tenute segno ciò che non va, non mi piace più ‘sta città preferisco stare qui con te. Dio che confusione e Dio la morte che consolazione! Sono nato forse nel ricordo di un’estate fa lontano da ‘sta città, lontano dalla falsa verità e lontano ancor lontano cerco ancora il tuo appoggio, vivo di malvagità, di prorompente inumanità, e sogno di restare con te. Sogni, ma che sono mai sono gomitoli di fantasia apparendo in me mi lasciano spazio per un lungo percorso troppo lungo in verità. Ma che stupida superficialità, buffa è la tua compagnia, ti cerco da tempo ma non ti trovo: non sei più mia.

 

Le Rimambranze

Un suono prolungato ed ininterrotto interrompe di scatto il sonno di Gianni che apre gli occhi e conferma l’orario supposto: sono le sette! Dall’urlo sul terrazzo sono passati ben quindici anni, o sedici, o diciassette. Ora vive in un’abitazione diversa ma sempre nello stesso paese, un piccolo appartamento al terzo piano di un palazzo sito in via Toscanini. Resta un poco nel letto come suole fare ogni volta, poi si alza di scatto ( ciò gli procura sempre un mal di testa della durata di circa dieci minuti) e si reca in cucina cominciando a preparare  il caffè. Intanto ritorna nella sua stanza e sistema le coperte disfatte, va in bagno e si sciacqua il viso, il caffè sale e dopo aver spento la macchinetta lo versa in una tazzina contenente un cucchiaino di zucchero. Si porta sulla sedia affianco al tavolo, accavalla le gambe, si accende una Pall Mall per assaporarla meglio mentre sorseggia. Dopo essersi vestito ed aver indossato il cappotto scende le scale e monta la sua vecchia auto, un’Alfa d’altri tempi, che a fatica lo accompagna lungo il solito tragitto giornaliero che da casa lo conduce a scuola e poi nuovamente a casa, salvo poche varianti. Presta servizio presso il liceo linguistico “Ettore Fieramosca” come insegnante di Storia e Filosofia. Entrato in quarta A comincia la spiegazione del pensiero di Francesco Bacone avvalendosi di alcuni appunti tratti dal grande capolavoro dell’autore, il “Novum Organum”. Il pubblico risulta sempre meno attento, però, quasi estraneo alla lezione e ciò vale anche per il prof che, mentre disquisisce è solito puntare gli occhi alla ragazza del terzo banco, Lisa Manzetti, carinissima, il suo sguardo gli ricorda una sua compagna di scuola, tanto misteriosa quanto affascinante: Alessia. Alessia, la prima volta che l’aveva incontrata era stato all’età di diciotto anni. Frequentava allora il terzo liceo mentre lei stava al primo ginnasio. L’incontro avvenne per caso, non l’aveva mai manco notata prima di quel giorno. Era il novembre dell’83 ed i ragazzi avevano occupato il liceo classico “Ugo Bargotti” di Napoli. Gianni stava sistemando le casse in un’aula in quanto aveva avuto l’idea di montare un mini impianto stereo.

“Gessì mantieni il cavo teso, così come te lo do e non far cadere l’altra estremità a terra altrimenti non facciamo proprio un cazzo”

“Giuanniè, non ti preoccupare, stai in mano all’arte”

“Proprio per questo mi preoccupo”

“Ah!ah! dobbiamo ridere? Piuttosto hai visto quella ragazza di primo ginnasio, sezione H, come è carina!”

“Chi? Come si chiama?”

“Quella di ieri sera…ah giusto, tu non c’eri! Si chiama Alessia, è proprio bellella, tutta sistematina, me la farei proprio”

“Veramente stai dicendo? Me la devi far conoscere compagno mio”

“Ok, sta su al secondo piano, andiamo”

Nel pronunciare queste parole Gessì lascia il cavo che cade a terra provocando la reazione fulminea di Gianni:

“Sei proprio uno stronzo, dico io, e te l’ho pure detto”

“Madò, scusami”

“Va bè, non fa niente, andiamo a conoscere ‘sta ragazza”

Salite le scale ed addentratisi nel corridoio a destra arrivarono all’ultima aula, lì stava con due ragazzi seduta su di un banco con le gambe penzoloni raccontando qualcosa.

“Ciao mi chiamo Gianni”

“Piacere, Alessia”

“Che fai di bello? Ti vedo tutta indaffarata nella conversazione”

“No, parlavamo giusto del più e del meno, niente di che, avevamo intenzione di organizzare un festino stasera, tu cosa ne pensi? Vuoi venire?”

“E’ un’idea magnifica, Gessì ed io stavamo giusto montando un impianto giù al primo piano, mi sa che stasera pariamo a pazzi”.

Alle sette e trenta Gianni arrivò a scuola dietro una vesparella di un suo compagno: erano appena giunti dalla base con otto pezzi di roba.

“Marsè, stasera pariamiento assicurato, don’t worry”

“Le ragazze ci stanno?”

“Certamente, ne ho conosciuto un paio fatte bene…”

“OK”

“Senti, perché non iniziamo ad entrare?”

Marsè annuì parcheggiando il mezzo all’interno del cortile, insieme poi salirono la rampa di scale giungendo al primo piano. Nel corridoio, seduta su una cattedra, subito incontrarono Enrichetta, ragazza del secondo anno minuta e sottile, con dei capelli quasi argentei, stirati sino alle spalle per poi scendere a cascata dietro la schiena. Gli occhi erano luminosi e crespi come onde del mare, comunicavano con vivacità e poesia.

“Ciao ragà”

“Guè Errichè, todo bien?” e nel profferire queste parole la baciò su ambo e guance seguito dal compagno.

“Tutto a posto”

“Per caso hai visto Alessia e gli altri?”

“Certo, stanno in quella stanza lì, dove sta la II A, a proposito ma ce lo vuoi con lei, non è vero?”

“Che cosa?”

“Dico co Alessia, stai cercando di fare carte con lei, no?”

“Vedi! Uno non può dire una mezza cosa e paf, la voce si sparge, certo è carina ma, basta, soltanto questo insomma, non è che è proprio il mio tipo. Al limite…giusto così…hai capito?”

“No”

“Va bè, non fa niente, comunque non ti preoccupare, ci sei sempre tu nel mio cuore!”

“Ah!ah! spiritoso, guarda!”

“Vuoi una sigaretta?”

“Yes, thanks”

Accesa la sigaretta si diresse assieme a Marco ove doveva essere Alessia. La porta era aperta ed i due entrarono di scatto. La famigerata ragazza stava con la sua compagna e tre ragazzi e ridevano come matti. Dopo i soliti saluti i due appena arrivati si unirono al gruppo ed iniziarono a parlare del litigio avvenuto poche ore prima con dei ragazzi dell’Istituto Tecnico i quali, entrati furtivamente in loco si erano, per divertirsi, messi ad insultare i liceali e rotto i vetri della scuola con delle pietre. Ad un certo punto, stanchi ed alquanto soddisfatti, ma non del tutto entusiasti, erano andati via minacciando ulteriore vendetta. A raccontare la vicenda era il più alto dei tre, snello col viso e gli occhi allungati e le sopracciglia esilissime. Facevano seguito a questo tale di nome Mario un certo Alessandro, con a faccia tonda e la corporatura robusta, il quale era sempre insieme all’amico e Valerio, un individuo minuto e chiacchierone che frequentava il primo anno. Alessia, invece, era stupenda, aveva un vestito dalle bordature viola, un paio di occhi che per l’occasione sembravano più verdi e più cupi, agghiaccianti, lo sguardo era intenso come quello di un falco che osservava dall’alto la realtà circostante, i capelli erano mossi, cirri carini e solitari. Terminato il racconto della vicenda Gianni si alzò e profferì le seguenti parole:

“Allora ragazzi? Che si fa?”

“Fumiamo”

“Sì!!!” fu il coro unanime di risposta, cui si aggiunsero, ovviamente Lino ed Enzuccio.

Alla terza canna Arianna, compagna strettissima di Alessia, si sentì male e Gianni si offrì volontario per accompagnarla fuori il balcone.

“Come ti senti?”

“Secondo te?”

“Vuoi vomitare?”

“No, ho bisogno solo di riposo”

“Non preoccuparti Ale, è solo un po’ abbattuta, lo fa a volte l’erba”

All’improvviso un grido: “Cazzo, la polizia!”, e sporgendosi dal balcone: “Massié, nascondi il fumo, le guardie porco dio!”

L’agente bussò e Gianni scese ad aprire.

“Sono della polizia” mostrando il tesserino “ Martino Serramonti posso entrare? Un controllo”

“E’ tutto a posto, prego”

“Sì, comunque qui, punto uno niente droga, punto due non scassate niente, punto tre non fate entrare estranei”

“Certo, stia tranquillo”

“E state attenti, mi rifarò vivo spesso, finché non finisce ‘sta sceneggiata”

“Arrivederci”, e dopo aver chiuso la porta “Fanculo! Un ufficiale addirittura, un commissario, stammece accorti che la situazione non mi piace”

Salite le scale e giunto di nuovo tra i compagni subito li rassicurò dicendo che aveva liquidato il poliziotto in pochissimo tempo e che la situazione era ormai sotto controllo. Chiese informazioni poi riguardo Arianna, la quale, dopo un caffè al limone preparato da Lino, stava già meglio. Si riprese dunque a fumare insultando la polizia, pazzeggiando e ridendo, soprattutto ridendo come degli imbecilli. Finché Gianni prese la mano di Alessia e disse:

“Vieni con me!”

“Dove mi porti?” rispose allegra e vaga senza quasi attendersi risposta. Le sue parole echeggiavano nella testa in modo indefinito, quasi allontanandosi le une dalle altre. In niente si trovarono al terzo piano ed entrarono frenetici in una stanza, senza accendere la luce. Gianni in preda all’euforia prese Alessia per le mani e, dopo averle sfiorato il naso con il suo, la spinse con forza sopra un banco spogliandola con delicatezza per poi prendere con vigore a spingerla e a penetrarla. Nel frattempo lei lo leccava dal mento fino a scendere all’altezza dell’ombelico e lui le carezzava il soffice seno bianco inumidendolo con la saliva. Quando arrivò l’orgasmo Gianni le si appoggiò sopra baciandole la fronte. Si staccò, poi accese una sigaretta offrendola alla ragazza che accettò ed insieme uscirono fuori dal balcone. Dalla borsa lei estrasse una bottiglia di vino rosso che si era ammacchiata a casa prima di scendere. Bevvero contemplando le stelle, osservando luci lontane e infinite, infinito e immenso buio, parlando di coscienza, reale, spirito umano, noia e limite, tutto fino a che Gianni non le si avvicinò baciandogli le labbra. Per entrambi fu davvero il primo bacio d’amore. Si sdraiarono per terra e presero sonno all’aperto, avvinghiati l’un l’altra.

La mattina si svegliarono con una brutta sorpresa: la polizia era all’interno dell’edificio e stava prendendo i nominativi di tutti i ragazzi. Cos’era successo? Mezz’ora dopo ebbe tutte le spiegazioni da Valerio che a sua volta le aveva avute da Alessandro, presente all’accadimento.

“Valè, non è che sai dirmi qualcosa, che cazzo è successo?”

“Mi ha raccontato tutto Alessandro, quei cretini del tecnico sono venuti stamani alle cinque, mentre voi stavate appaciati al terzo piano! Alessandro e Mario hanno cercato di opporsi ma erano dieci di loro con spranghe e bastoni”

“DIECI!?!”

“Eh sì, dieci, dieci! Sono entrati ed hanno rubato tre televisori nuovi, il proiettore e pure l’impianto stereo che tu hai montato, distruggendo inoltre tutto a destra e a manca”

“Porco cazzo di Dio Giuda! I miei ora mi uccidono”

“omunque la polizia ci ritiene completamente responsabili dell’accaduto, per questo ha preso i nostri nominativi ma la cosa più strana è un’altra”

“Parla”

“Quei ragazzi, mai visti fino ad ora, eppure conosco tutti del “Bastiola”. Pure il modo di vestire, strano. E la polizia, soprattutto quel Serramonti, non so….sembra un po’ folle, ha fatto domande strane che non ricordo”

“Ovvio stavi fatto”

<Ragazzi venite> irruppe una voce dall’altra stanza. Era Ancheito che stava ultimando il suo striscione, sul telo lungo cinque metri era scritto: “NO STATE, NO WAR, NO CHURCH: ANARCHIA AL POTERE”

<Anché, questo striscione è fatto a mostro! Sei sempre il migliore, ottimi i contatti con Milano! lo appendiamo vicino a Liceo Okkupato> affermò Gianni che aggiunse: <Ora vado a casa, sono due giorni che manco. Ho bisogno di riposo>

“Ok, ci vediamo oggi pomeriggio?”chiese Valerio

“Certo, caso mai viene Alessia dille che passo oggi pomeriggio alle quattro, anche lei è andata a casa, era stanca”

Valerio annuì.

Aperta la porta di casa trovò la madre che gli intimò di entrare; varcata la soglia cominciarono i soliti attacchi e le solite offese. Agli occhi della madre sembrava uno spostato, un buono a nulla, uno stupido, un individuo privo di coscienza ed affetto. Queste parole lo ferivano molto ma lui non abbassava la testa abbattuto, ma si infuriava a morte e, dopo aver mandato a quel paese la madre, in lacrime sbattette la porta e se ne andò. Girovagava per il paese incazzato, non esitava a prendere a calci i manifesti pubblicitari o a sputarci sopra. Non riusciva a capire cosa faceva di male, perché i suoi dovevano prenderla così, d’altronde non faceva altro che ribellarsi ai pregiudizi, per un mondo migliore, dovevano esserne fieri. E poi aveva quasi diciott’anni, aveva tutto il diritto di pariarsela alla sua età. La vita bisogna viverla istante per istante, senza rinunciare a niente. La verità piombava ineluttabile davanti ai suoi occhi: i genitori avrebbero voluto un altro figlio. Lo si notava dagli sguardi, dalla rabbia, non erano semplici rimproveri ma urli di sfogo. La coscienza che il figlio non sarebbe più stato recuperabile li rendeva o veemente adirati e pronti ad inveire nei suoi confronti o, peggio, totalmente freddi ed indifferenti, rassegnati. Assolto da questi pensieri decise di tornare a scuola. Comprò le sigarette dal tabaccaio e se ne andò.

 

Fuitella

La situazione a casa di Gianni stava diventando insopportabile, i genitori approfittavano di ogni piccolezza per riprendere il figlio. Lui era stanco e spesso gli balenava per la mente l’idea di scappare, fuggire lontano, un’idea tuttavia priva di qualsiasi consistenza reale, destinata ad esaurire in sé stessa. Non riusciva più ad essere davvero lui, non capiva quale fosse la soluzione al problema ed a volte pensava che, forse, questa famigerata soluzione non esistesse. L’occupazione era ormai finita da un paio di giorni, l’intento degli studenti di protrarla sino alle vacanze di Natale era inesorabilmente fallito. Quelle mattine fredde di fine novembre gelavano l’animo di Gianni il quale continuava a frequentare sempre più spesso Alessia. La ragazza condivideva con lui il medesimo disagio esistenziale, guardandosi attorno capiva sempre con maggiore certezza di essere sola in mezzo ad una folla. Le relazioni umane non solo non le davano alcunché ma spesso addirittura la annoiavano. La gente tutta, il mondo ed i singoli individui erano semplicemente degli ingranaggi di una macchina immane e potente che mescolava l’uomo e il suo essere con tutto il resto dell’esistente. I problemi e la negatività di Gianni spesso erano identici a quelli di Alessia ma ciononostante entrambi non riuscivano in alcun modo a darsi conforto. La loro angoscia li percorreva senza remissioni investendo il corpo e rendendolo gelato. Non erano più i loro corpi, erano pezzi di ghiaccio che neanche il calore passionale dell’amore riusciva a sciogliere . La situazione rimase identica fin quando, quasi per caso gli occhi di Gianni non caddero su una frase scovata chissà come da “Così parlò Zarhatustra”, di Nietzsche: -Dobbiamo disperarci più che rassegnarci perché chi vive male in questa società vivrà bene nella nuova. La nostra forza ed il nostro coraggio devono essere la forza ed il coraggio dei solitari, delle aquile; le anime fredde, le bestie da soma, i ciechi, gli esaltati non sono coraggiosi. Ha cuore chi conosce la paura ma la domina, chi guarda all’abisso ma con fierezza. Chi guarda all’abisso ma con gli occhi da aquila, chi adunghia l’abisso ma con artigli di aquila: questi ha coraggio[…]. Facciamo come il vento quando si precipita giù dalle caverne montane: esso vuol danzare al suono del proprio piffero, i mari tremano e saltellano sotto lo stampo del piede. Sia lodato quest’ottimo spirito scatenato che è nemico delle teste dei cardi e delle teste arzigogolanti e di tutte le foglie e le erbacce appassite: sia lodato quest’ottimo spirito selvaggio di tempesta, che danza su paludi e tristezze come su verdi prati! Sia lodato questo spirito di tutti gli spiriti liberi, la tempesta ridente che soffia polvere negli occhi di tutti gli immalinconiti ed ulcerosi-.

Furono queste parole il riflesso ardente nell’oscurità, ora sapeva cosa doveva fare, doveva rompere i vetri delle finestre e fuggire via , non importava tanto dove ma l’essenziale era andarsene, non ritornare più in quel paese di merda con quella gente e quella vita di merda. Alessia gli avrebbe senz’altro stretto la mano e l’avrebbe accompagnato senza paura e senza mai abbandonarlo, anche lei d’altronde soffriva i suoi stessi mali, più si è profondi più si soffre, anche per le cose apparentemente piccole ed insignificanti.

Organizzarono la fuga per sabato mattina, il piano era studiato nei minimi dettagli e la ragazza era entusiasta. Non importava se lasciavano il certo per l’incerto, potevano tranquillamente soffrire gli stenti iniziali ma la cosa veramente importante era essere finalmente liberi! Alle otto e venticinque del fatidico giorno si incontrarono come stabilito fuori scuola e furtivamente si incamminarono verso l’autostrada. Dopo essersi appostati all’altezza del casello si misero a fare autostop, passarono circa dieci minuti e si fermò un camion grosso con targa straniera:

“Dove dovete andare?” urlò con voce massiccia e con accento calabrese il conducente.

“Fino al capolinea!” rispose sorridendo Gianni. Ciò detto salì per primo sul mezzo porgendo poi la mano alla ragazza per aiutarla a salire. VIA! Potevano finalmente partire verso la libertà!

Il camionista era un tipo taciturno, non apriva mai bocca se non era interrogato e le sue risposta erano secche e coincise: da quelle parole non traspariva alcunché della sua vita, se soffriva, se era felice, se era sposato, se viveva da solo… Un alone di mistero circondava quel grosso individuo che, si seppe, era diretto in Germania, in una città chiamata Tistin. Dopo circa sei ore di viaggio si fermarono ad un autogrill all’altezza di Firenze. Scesero dal mezzo per sgranchirsi un po’ le gambe mentre Gennaro, così si chiamava il conducente, faceva benzina.

“Alessia tutto procede per il meglio, conto di uscire dal territorio italiano prima che le nostre famiglie allertino la polizia”

“Già “

“Ti vedo preoccupata…”

“Non per niente sono stanca, soltanto un po’ stanca”

“Va bene, durante il viaggio ti riposerai un po’, adesso andiamo a prendere qualcosa da mettere sotto i denti, ti va? “

“Andiamo“

Presero un sandwich ed una birra a testa e dieci minuti dopo erano di nuovo in viaggio. Gli alberi ai bordi dell’autostrada viaggiavano velocemente ed in un fruscio sembravano quasi sfiorare i finestrini del grosso camion. Alessia riposava beata sulla spalla di Gianni e dal lieve candore del volto evinceva che, senz’altro, sognava incantata; per più di un’ora nel mezzo regnava un mistico silenzio interrotto da un improvviso e repentino ondeggiamento. La ruota posteriore destra era partita! Dalla bocca del losco conducente iniziarono a vibrare pesanti bestemmie che talune volte nascevano e morivano d’improvviso, altre volte venivano stroncate sul nascere da un senso di pudore quasi infantile. Accostarono ad una piazzola di sosta e Gianni si offrì volontario per dare una mano a Gennaro il quale rifiutò in maniera sdegnosa. Erano le sette di sera ed il buio dominava pian piano gli ultimi spiragli di luce rossastra, il grosso tizio disse che si sarebbero fermati lì a riposare e che sarebbero partiti solo l’indomani mattina in quanto era troppo stanco.

Nonostante il disappunto del giovane montarono e subito il sonno si impadronì di loro, un sonno tranquillo per Gennaro, inquieto per gli altri due viaggiatori. I sogni di Gianni, ad esempio, erano confusi, enigmatici, vivida appariva solo l’immagine di una pistola nera e di un uomo basso e calvo con una faccia olivastra che la impugnava e sparava verso l’altra. Alessia, invece, era immersa nell’oscurità tenebrosa della notte e dormiva a singhiozzi, si svegliava ogni quarto d’ora e spesso non riusciva a prender sonno se non dopo un bel po’ di tempo. Si risvegliò nuovamente alle prime luci dell’alba e si accorse che la rozza figura “spiacevole e volgare” non c’era. Uscì allora fuori ed intravide Gennaro appoggiato sull’impalcatura dell’autostrada che fumava un sigarotto sputando ad ogni ispirazione i residui di tabacco che gli insidiavano la lingua. Subito, nel vedere la ragazza coi vestiti stropicciati ed i capelli arruffati, le andò incontro frettoloso e, senza dire una parola, le prese il braccio destro e la trascinò dove iniziava l’incolta vegetazione. Alessia voleva urlare ma riusciva solo a sussurrare parole incomprensibili e non riusciva ad opporsi a quella bestia che, per evitare spasimi inutili, le porse la mano all’altezza della bocca con violenza. Dopo averla gettata sull’erba iniziò a strofinarsi contro e si sbottonò il jeans. Le lacrime scendevano lentamente dagli occhi della ragazza che avrebbe voluto chiedere ausilio a Gianni ma non ci riusciva. Prontamente, però, riuscì ad approfittare di un momento di esitazione del grosso uomo per sferrargli una ginocchiata nei testicoli, alzarsi ed urlare con tutto il fiato che si era riservato in gola: “Gianni! Gianni!”. Il ragazzo si alzò prontamente, scese dal camion e diede prima un pugno dietro la schiena al bastardo poi col tallone lo colpì più volte sul capo. Presa la mano di Alessia le diede un bacio sulla fronte ed insieme fuggirono, scendendo giù per il fossato erboso.

 

Banalità concave

Bella e sola, sei bella e sola! Incontriamoci, stiamo assieme un po’! Cammini sola ancora ma più bella di prima, non cercare in alterigia la supremazia. Sei bella e sola! Ancora non so se fingi o fai sul serio, se scherzi o fai davvero, se è solo la paura a renderti così. Vai a spasso e fai la spola, nel vento lontano le tue suole, lunga sinfonia la nostra tra anima e magia, tra verità e bugia. Gli occhi d’un insetto che hai visto al microscopio te li porti a spasso, sono dove vuoi. Non sopporti gli innocenti, odi gli incompetenti ma perdoni gli eterni assenti. Sei bella ma comunque sola! Tra l’olio di prostitute. Tra le aule a trotto. Il giro è stato corto, violento, simpatico, vivace. Felice ed ansimante stavo sperso. Ritornano, inutile dirlo ti guardano, sei così normale, questo ti rende speciale, già il solo essere una ragazza sola. L’intersezione dei nostri cuori nell’animo nostro, nel sinedrio misto alla fine del nostro incontro. Ti voglio più vicina e tra l’olio di prostitute mi sporco le labbra di profumo d’amore. Sguazzo tra i sospiri, i tuoi sì sono sinonimo di te, spalmami addosso le soffici, vane mani tue. Tra i tuoi meriti c’è l’amore che m’hai dato lasciandomi osservare ciò che di vero c’è in te, ciò che cerchi tu stessa.

Mi hai detto che tu lo amavi davvero, eravate indivisibili e me ne sono accorto, parli solo di lui. Sei sconvolta, lo baci, lo abbracci, mano nella mano camminate. Ti alzi sulle punte, fai un giro su te stessa e lo baci, lo guardi negli occhi, lo punti e lo ribaci, attacco d’amore furente. Lo stringi a te, quindi. Ma tu sei soltanto parte di me, in te, sai, c’è tutto ciò che nelle altre manca. Ci sono i tuoi occhi trasparenti, pendenti le mani. Io solingo ti penso, sincero ti guardo di nuovo e tu vaga mi pensi a tua volta, nella mente tra le nuvole prevedi i miei temporali. È così. Nonostante tutto sei solo parte di me. E il giorno appresso t’ho baciata, non c’era alternativa, sei trasparente, splendi al sole, occhi dolci trapassano ogni confine e nel boschetto di selci trovano rifugio e s’innalza il canto, il suono dell’anima rimbalza tra i nostri cuori. Chiuso nella mia stanza tra un libro la tua foto. Parte il treno dei simboli scomposti, amore mio addio, ti prego non salutarmi ma guarda sempre dentro te, nel rifugio boschivo del tuo cuore saprai trovarmi. Il treno parte, amore mio addio, scompari oltre il monte. Non dimenticarmi. Non sai neanche cosa dire o raccontare, mi parli da lungi con affetto privo di senso. Non sai se vuoi restare in questo mondo da spettatrice, senza capirci nulla. Ti siedi, ti guardi attorno, è come se non ci fossi. O mi pensi. Risquilla il cellulare e alienata torni al tuo vissuto reale e vacuo. Parli di lui, leggi un suo messaggio con disincanto, gli giuri amore eterno. Ti annoi, non vuoi far più niente, ti guardi attorno di nuovo ma ora sbuffi stanca, neanche un quanto d’energia nei tuoi respiri. E risquilla il cellulare. I tuoi pensieri sono sintomo d’amore, come i tuoi sguardi che perdi nella stanchezza del virtuale. Pensami e distratti passeggiamo mano nella mano incuranti dei pensieri degli altri. Fuggiamo reali, rifuggiamoci nei nostri sogni.

Il mio album di fotografie! Quelle fotografie riposte un po’ confusamente nel cassetto antico, ingiallite. Quel cassettino ammaccato ma custode del tempo, non si invecchia tra i ricordi, sfogliando una pagina e poi un’altra si rimpiangono momenti sciocchi e banali, naturali, unici. E da lontano ricordo questo passato e le cose andate ma che balzano alla mente, esperienze andate ed attualissime, storia monumentale. Pezzi di puzzle ricostruiscono la vita, la mia, pensieri interrotti ed incompleti, vaghi. Il mio io irrazionale! Qui non ero nato, come andava il mondo, gli alberi e le genti sono solo frutto della mia immaginazione? Il mio splendore è caduto così come cade un grande impero, sacrificò la vita e il regno per noi. Un fuoco oramai spento fa ancora scintille ed io rivibro al sole ascoltando le sue parole. Testa bassa arresa e trucidata, testa impaurita –mi chiamano ancora alle sette del mattino-. Dicono non cadere, abbi fiducia, rinasceremo, ritorneremo, la guerra è finita ma la lotta continua. Il nostro impero tornerà. Mostriamo ciò che siamo veramente, l’amore, ritorneremo. Ricordo quando lei mi guardò e disparve. Tra la polvere i frammenti, una viola ci accompagnerà per sempre! A causa di un compromesso, tuttavia, è stata omessa la verità. Credi di conoscermi per il mottetto e i gesti informi, etichetti e spumeggi, fiato riservato. Abbandonati tosto a te stessa e stringimi perché la tua soave bellezza non finirà in questo bacio ma ci accompagnerà per sempre, lungo i ponti smossi delle nostre lontane esistenze. Non ci lasceremo mai, ciò che ci lega invisibile è indissolubile ossidiana. Resterò in quel cantuccio buio del tuo cuore, oscuro ma comunque parte di te, perché io non sono che parte dell’animo tuo.

Ritorno…cammini slanciata e agitata ma guardandoti negli occhi mi accorgo che è nell’anima tua che mi nascondo, chiudendomi in vani e opachi sospiri, i tuoi. Viaggeremo, andremo lontano, assieme, incuranti di tutto. Noi siamo qui sinceri o falsi, ma il giudizio è vostro, metro capovolto. Noi vessati non possiamo più fiatare, il nostro amore comunque risplende, siamo qui tra la polvere evanescenti e lucenti. Tu nell’incantevole mondo dei sogni. Ti alzi tardi la mattina, non hai voglia e non vai a scuola, guardi un punto fisso nella tua stanza vaga e ti rendi conto di te stessa. Passi il tempo a sognare, il mondo l’hai creato tu, nelle nuvole è il tuo regno, i sognatori soli ne hanno accesso, ne detengono le chiavi. D’altronde il futuro un giorno potrà cambiare grazie a persone che, come te, hanno ancora spazio per guardare il mondo con altri occhi. Tu che sogni d’altronde? Che il futuro venga a te! Ciò che vedi è realtà, non il freddo mondo calcolato, ti elogio la fantasia, ti lodo la follia, mai subordinata all’altrui volere. E sì, ciò che fai, senza senso, ciò che pensi, senza fondamento, è la manifestazione del vero nel reale, unica verità, perché tu non ragioni mai e lasci sussurrare il tuo cuore, l’unica fonte dell’essenza. non dici mai ciò che pensi, hai ragione, sei limpida come uno specchio.

Sono tornato dopo tanto tempo da te, non vi è più amore nei tuoi occhi, una foschia pervade la tua sostanza, svanisci tra nebbie opache urbane. Nei tuoi sguardi non ci sono più quei sogni. Che fine hai fatto? Come salvo da un lungo affanno ritrovavo ristoro e riposo e conforto in te ma lenta svanisci nella tua pragmatica corporeità. Ti devo salutare, partirò di nuovo, mi mancherai ma tornerò. Il tempo può passare e potremmo scomparire da un momento all’altro. ma se continuiamo ad amarci anche silenti resterà la nostra voce. Senza false parole. Con entusiasmo io provo rimpianto, ti perdo nel ricordo sbiadito. Sei spoglia di gesti e d’indumenti. Io prendo il volo, sui tetti della città, per mondi lontani.

Specchi, trasparenti mie figure. Il rosso delle tapparelle che scendono in trotto roteando quel romore cupo e vero ponte per gli astri. Lo ascolti e non è lontano. Sbattendo le porte afose l’orologio scatta sugli attenti dei nostri cari ricordi oramai persi. Verde, ritorna lo smeraldo tra le crepe dei muri e rimembranze nascoste. Il rossore è il saio dei giorni che passano e ricopre ogni senso, muore e rinasce, scende e risalta. Specchi, trasparenti mie figure, occhi verso il nostro mondo. Finestre, anime fuggenti da quegli esili ponti che dissi, da chiaroscuri verso monti, colli, sogni. Pareti, strane e vere, castano dei suppellettile sbuffo del camino, forno e fornello. Calore, fonte di calore, di noia quanto di gioia, domestici vagoni e accampamenti tra le nubi. Dipingimi il viso, mistero7, dimmi il falso e dimmi il vero. Tu intanto getti i capelli alla rinfusa e divieni falso ricordo o strano accordo. Inciampi su te stessa, ritta, altera, fonte di vita vera. Spiegami chi sei, voglio conoscerti, cammini per le strade incurante e bizzarra. Sei amore e sei anche amata, valle dorata, adorata luce, vivida presenza. Ti incontrerò, ti riconoscerò. Sei brusca improvvisamente vestita vagamente e ancor più presente nella mia mente. In me tu vivi. Tibi mei. Candida come nube chiara d’estate, candida la tua voce, chiara e amata, candida è la mente al tuo vago ritorno che fruscia e si rigira nell’apice nascosto dei pentimenti riportati in chiave sentimentale. La candidezza spenta delle sue fauci non tornerà, la mia presenza, coerente, non mancherà. Tu affacciati di sera dal balcone, guarda la luna, chiudi gli occhi, pensa, troverai l’amore.

17 anni mai stata con un ragazzo. Vivi nella tua purezza, fonte di bellezza, respiri più forte degli altri, intensamente, dai tuoi occhi traspare il sole lucente eterno. Sei trasparente anche se non guardi lo specchio, bellissima, chiara, i tuoi silenzi ti rendono misteriosa. Tu sei candida e il mio bacio ti ha sfiorato ma resterai pura perché in te vive l’amore.

Accadde ciò che tu sospettavi ieri, non è stato bello neanche per me, sei svanita. Ora vai via, non tornare, che aspetti? Non farmi più soffrire! Non ti dico quanto ti ho pensata, oggi le mie speranze sono distrutte. Dopo due anni. Ricordi quella notte, cadesti tra le mie braccia e ci confessammo le nostre paure tremanti. Tentammo di contar le stelle in cielo e sconfitti dalla prova rinunciammo, quelle scelte le chiamavamo per nome sperando ci venissero incontro. E il mare, i tramonti che contemplavamo, il nostro approdo e i nostri baci silenti. La spada dell’indifferenza trafigge l’anima e il nostro amore, che dicemmo eterno, sotto i colpi di saette bastarde esala l’ultimo respiro.

Intermezzo slavo II: “Ci guardammo fissi negli occhi, la guerra ci ha divisi. Sono ai piedi del silenzio e le lacrime mi bagnano gli occhi mentre il bastone scalpita colmo d’odio e rancore. Vivo è il fremito della patria e l’amore per il fronte e piangendo muoio di dolore, brucio tra le fiamme di questo inferno slavo.”

Intermezzo slavo III: “Caro Senio passasti la prua, caro amico varcasti il confine di ogni terra, segno di vita umana tracciata dai passi o dagli sguardi. Ma il vero cantore del mondo aprirà le braccia e danzerai ancora. Caro Senio dicesti la vita è bella perché indefinita. Parole banali ma ora profondissime. Tu guardando l’orizzonte scrutavi la natura del mondo. Caro Senio, fabbro dalle poche parole, ballerino del vento. Caro Senio quei tuoi occhi da contadino furbetto sono spenti oramai e deforme giaci in questa valle antica.”

È così che il mondo va nell’al di qua, siamo tutti uniti a un tessuto che è la vita che non insegna e muta ci lascia alla deriva. Soli vivi e vaghi. Amore mi stai guardando o fuggi solo con gli occhi per dispetto? Io sono solo polvere, polvere di te, ma non mi spazzerai via, non ha senso essere lontani quando ci sogniamo a vicenda.  Amica non chiedermi perché ma so che mi stai amando, ora, sul serio.

La penombra che scendeva silenziosa dal tetto un giorno mi invase. Il sole era lontano, freddo, chiuse la storia prima che potesse sbocciare, fior di primavera. E questo fruscio silenzioso, d’altronde, mi invase rendendo ogni cosa più simpatica, perché è nella simpatia la chiave di ogni conoscenza. Respiro d’ignoto. Ispiro sulla tua pelle. Percepisco l’ombra del tutto. È penombra, resto incolume al vento e non mi limiterò a guardare lontano ma scruterò anche sotto il mio naso. Un giorno alzai lo sguardo per scrutare la verità ma lo riabbassai. Tra la nebbia delle strade vidi lunghi vestiti respirando il caldo candore di una dolce sigaretta.

Ti ricordo amore, tu non lo sai ma non posso dimenticare te ed il tuo profumo, speranza di vita. non l’avrei mai sperato, mai immaginato: continui a conservare, riposta in un cassetto, quella lettera vecchia. Sì, capito avrai capito, si è visto dagli occhi, dal tuo sguardo, da te. Tu non lo crederai ma io non ti ho scordata, sei ancora nei miei pensieri, come la lettera ingiallita ti conservo. Un giorno tornerai viva e splendida come sempre, il mio cuore saprà aspettare, lo fa già ora, già da tempo. porgimi la mano, adesso! Fallo! In questo preciso istante fallo! Grazie mille, ci vedremo tra poco. Non ora. Adesso vado via, la pioggia ci ha dissolti, ci ha divisi ancora.

Cammino con te sotto la pioggia tutto inumidito per tenerti il passo spiegandoti che penso di quel poeta dell’altro giorno tu respiri forte ad ogni parola. Ti prendo per mano perché hai deviato il tuo percorso, la solita via, per passeggiare con me, silenziosa. Dove vai? Restiamo ancora un po’ sotto la pioggia. Restiamo qui per sempre! Compro svelto una sigaretta per 200 lire, fumo assieme a te e magico diviene l’intreccio del discorso. Baciami amore mio, e baciami ancora. Di colpo la pioggia cessa, ritorniamo a casa, ci vediamo domani  scuola, tu baciami ancora! E a casa col cellulare ti scrivo una poesia, guarda il tramonto, guardalo in fondo, ci sono anch’io, sognando baciami ancora.

Ricordo, noi ragazzi. Ti amai davvero e te lo disse anche lui, quella sera. Ma tu vaga sfrecciasti via strana e corrotta amica mia. Per far sbocciare amore seminasti passione, per rincorrerlo e volare salisti in sull’altare. Ma ricordo di noi ragazzi. Certe cose non le puoi scordare. Quel mio amico mi disse che a via Olbia tu ti incontravi con lui, vi vidi, avvicinandoti gli stringevi i fianchi, la sua bocca colma dei baci tuoi. Mi amasti, ne sono sicuro. Ma non potevi ed io ti vidi piangere mentre mi guardavi. Sono solo! Essere solo sembra terribile, ombra dell’oscuro, terzo indicibile. Non fuggire anche tu, resta almeno amigdalica, fumo del ricordo. Io caddi in cambio voluttuario per te. Fu splendido! Tu mi capisci? Perdonami! Nulla più è vivo nei miei occhi. Perdonami! Vivendo d’amore si muore e non lo sai, axiologicamente disorientato è l’amore sperso che tuttavia in maturazione si orienta. Sai che vivo nei tuoi occhi. Amica mia!

Ti ho sentita e sono corso da te senza sapere che fare. Mi guardi davvero anche tu e forse la tua bellezza io mai l’avevo vista. Mi senti? Sono qui per te, attendo istruzioni, mi guardi e sorridi sotto i candori tuoi. Sento l’amore, salire la voglia e la passione, tu accanto a me. Il primo sorriso vero della mia vita è stato per te, ragazza mia. Canticchiano i cardi e volano le rondini, mi senti ancora? Sono qui per te, forse capirai, forse no. Ma io ti aspetterò, qui, sul nostro scoglio, sulla tua spiaggia o nella mia campagna, sarò sempre qui, attendendo te.

Non è differente l’oggi dal domani, tu ti svegli e non lo sai se sarà diverso. Ti guardi con quello sguardo, la tua vita non ha più senso, Dio ti guarda e tu piangi pregando. O mio Dio com’è ridotta, o mio Dio aiutala a sopportare, a continuare, ti prego salvala e fai di me quel che vuoi. Le lacrime scendevano dagli occhi di lei e non c’era anima viva che non la guardasse inginocchiata innanzi all’altare, lei vedeva le mie scarpe. Vedeva me che la cercavo. Dio mio perché? Lei era così carina. Dio mio perché? Era stato solo uno sbaglio a tradirla e poi pregava anche per me un tempo. o mia cara Grazia, sai, ti penso ancora e continuo a piangere anche se so che non tornerai e la nostra vita sarà solo la mia.

Guardando il mare lì di fronte a te fumi una sigaretta e guardi l’immenso, l’infinto albeggiare di questo sole maledetto che l’ha portato via. Ma ora posa quel coltello, posa quel coltello. Lui tornerà. E il giorno seguente da stringere e baciare il suo corpo assente, l’amore della sua vita, costellazione. Io abbattuto dai cacciatori alpini dei promontori dell’anima tua. Tu mi pensavi! Tu che volevi amarmi ed io finsi di non capire. Avevi paura, sveglia alle quattro di notte, io leggevo il sogno desto insonne e non capivo, cifrato il ritmo sidereo. Il mare, la terra e le stelle non seppero esaudirti. Uno schiaffo e tu rovinata a terra, cranio spappolato. Addio mia cara! Povera amica mia! Di te restano le vene spaccate, il sangue a fiumi. Il mio cuore non resterà in silenzio, mai dimenticherò il tuo sorriso smorto, ti rivedrò nella schiuma del mare, nell’afa d’agosto. Povera Lisa! Povera Alessia! Intreccio ritmico.

Più ti pensai davvero ma senza crederci sino in fondo. Chiesi troppo. Ora solo te ne rendi conto. Ora che vivi sapendo, ti spogli di te, indumenti alla rinfusa ai piedi del letto. Finsi ancora di non saperlo. Venne la era luminosa, troppo chiara per lasciarti alla deriva, sola. Cadi e cadesti tra braccia altre, tante. Ma a notte inoltrata o alle luci dell’aurora ti senti ancora più sola. Angoscia di te bella e trapunta aa passo svelto. Ascolti che la luce può essere apparente, la ascolti, ne percepisci l’etalagia. Sei esausta! Non puoi avere il mare e te ne accorgi, le onde soavi. Ti accontenti dunque del tuo bicchiere d’acqua sudicia. Ah se cambiassi questa rotta, capitanessa dell’eterna carnalità.

“Ciao Amore, ti scrivo oramai da un mese e ancora non rispondi. È tutto pronto, aspetto tue notizie e la conferma dell’accesso all’assoluto. Non ti fai sentire streghetta. Ah! Quanto po’ soffrire un’alma senza compagnia, in bilico tra solitudo e follia. Non so, amore, quanto ancora resisterò alle saette dei tuoi silenzi. Non scordarmi, scrivimi. Lontano sento il bisogno di te e l’eco rimbomba nel risveglio. In me s’agitano volatili incatalogati ed onde d’alterigia. Sono l’orma tua! Si agitano possenti. Sei nella natura, lo ridico. Attendo tua risposta.”

Ottima idea la tua, ci farei un pensierino. Ma vedi, cara, ora non posso. Mi sono innamorato di te, te lo dico cara. Di te che vai via calma, pacata come mai sei stata, furente sbarazzina. Sei ancora nel vuoto, analizzi al vetrino il nichilismo passivo trasmutando il bisogno al richiamo del tuono.  Tabula rasa ricettiva. Ti amo, lo penso e non lo dico. Disincanto dell’azione altra. Siamo qui per caso ma io ti stringerò quando sarà il momento, l’ultimo.

Che dicevo? Ah sì, sono solo, solo e la vita ripullula allegra ed ebbra nelle mie vene. Ritrovo la forza nel riflesso etereo tuo. Né soldi, né amici, né amori. Bacio le donne distratto. Ma sei tu la mia forza, sei la luce, la fonte, la vita, il ricordo, la speranza, la tortura.

Cammino salutando le strade, cardi e decumani. Trivio e quadrivio, arti liberali. Scorre il sangue nelle mie vene, la gente ora mi è sconosciuta. Forse ripercorro queste vie, come profetizzai un giorno senza più salutare altro che non sia il languido tepore dell’Anima Mundi che mai m’abbandona. E tu sei nata in questa terra, arrossisci, ti chini un po’, soffiando fischietti la melodia, quella che un tempo era nostra. La valigia è pronta, leggera, ti porti dietro il peso della bufera. Quel cataclisma che si scatenò nel mio cuore quasi per problemi tecnici e non d’amore. Sorridi di nuovo! Io sono pronto per partire come te, tornare a casa, alla nostra origo. Un ultimo sguardo e poi l’addio. E l’asfalto corre, fugge nella calura dell’ultima mia scrittura. Girano, piroettando le ruote posteriori. Ti sento mia, addio, ci rivedremo!

Ancora sulla solitudine? Quella di te, mio amico. Spleen tuo ‘sta volta. Amico mio né strafottenza né egoismo vinceranno ma io caddi in balia di essi, ti imbrogliai metafisicamente con sotterfugi atoni. O caro amico ho visto gli occhi tuoi inumiditi e coperti per scherno da un sorriso che mi sembrò ingenuo. Era il sorriso più profondo, ripensai all’umile Senio. Mi assalì l’infinità e non capii d’aver trafitto, ora io, l’animo tuo per narcisismo, civetteria. Continuavo a fuggire, bastardo ed ipocrita, andai via.

Noi male non facciamo a nessuno. Non puoi capire, obnubilata la mente, annebbiata l’ama, ragione dominante. Lei è stupenda! Non mi interessano i tuoi giudizi, pontifichi sul nulla, e forse manco. Sulla viltà si fondano assiomatici i pregiudizi tuoi e quelli vostri. Lei mi ama e si è pentita di tutto. Non c’è giudizio senza amore tu ne sei innamorato e ti avvolgi nel manto farisaico della ipocrisia, intrappolato nell’invidia e nella rete sociale da cui desumi una paura: lo scandalo.

Hai ragione a dirmi che ho sbagliato e dovrei chiederti scusa ma lo faccio solo ora scrivendo di te. Sai quante volte avrei voluto avvicinarmi e confessarti la verità ma il coraggio veniva zittito dall’orgoglio e dalla fobia ed ora sono qui ad aspettarti mille miglia lontano da te 8essenza mia). Amore, cosa aspetti? Passa il tempo, scorrono ore fuggevoli, ti aspetto. È passata mezz’ora e ono ancora qui, non so perché lo faccio so che è inutile e che non tornerai. Follia la mia! Follia l’incontro! Fiato smorto! Amore addio, vado via, via senza di te. Io tutto ho rovinato, distrutto, quel tuo sorriso ricordo che mi sbalordì. Tutto poteva cambiare. Quelle tue mani sulle labbra e quell’ispirazione che per me facesti! Non sarà stato amore ma si condensò l’essere nostro in quei venti giorni.

Non ti sembra eccessivo l’amore che provo per te? Non ti sembra, sognatrice, inutile la realtà, l’indifferenza, l’ipocrisia e ciò che c’è tra noi? Perduta sei per mio pensiero. Son rimasto in piedi sulla soglia del tempo, tre giorni e tre notti a Canossa pensandoti. Suonavano le campane dai tetti spioventi di templi d’amore silvano. Il monte! Canta amica mia quella melodia mai ascoltata. Tu che provieni dall’orizzonte del mare, dalla cascata illusionistica.

“Ciao Amore, guardo te, c’è altro da vedere o pensare? da quando sei andata via cerco negli occhi delle altre i tuoi ma ciò che scorgo è solo il cielo offuscato e la nuda terra incolta. Non trarre conclusioni inutili. Avverti il talento e l’egoismo, il portento e il magnetismo, amore mio. Accostati così, mio Dio! Indecifrabile! Mi guardo intorno e sorrido, passano due ragazze, ripenso a te, ritorna, amore ritorna”

Mai scorderò lei né il nome suo. Parlando d’altro avrei voluto introdurre l’argomento ma spietato andavo via senza salutarti nemmeno. Libri, camoscio e ipocrisia, non dimentico la tua follia, la mia. Un racconto perso in un’età che non c’è. Infiammato il cuore. Errori percorrono le mie vene. Cresce fuggiasco un altro pensiero, lo tengo a bada, mi sento come fossi ragion d’altri, come questa fosse la mia posizione in questa frammentata esistenza, la mia. Ragion d’altri che fingendo dissero di avermi capito, ascoltato. Non la scordo, non ha del resto passato la notte insonne anche lei? Non ha ascoltato il vento nostro che tacito spariva via? La sua mano scorre fiumiciattolo sul mio corpo ed il passato è presente. Maestosità! Ne sono all’altezza? Se la sento vicina il cuore mio incatenato è libero, fuso il metallo, male ai Metelli. E parla senza paura. Non piangere, lontano non piangere, le dico. La penso e resta senza parole. I sentimenti in coro, magico girotondo, canticchiano stonati. Precipiti soluzione e sei ancora sola ma più bella di ieri. La voglia di cambiare la lessi negli occhi suoi, imprevedibile l’amore. Sincera mira alla vita con dardo d’amore infuocato. Pensa a me. Medea! Occhi a tal punto belli che ne colgo l’origo, il seme da cui frutto germoglia, pomo indescrivibile, nuova identità. Terribile! Non distruggerlo, esula la vendetta. Quanto ci costa l’ipocrisia, sincera lei non era e non sarà. Erinnica! No, non andar via ti condurrò in quel posto che sognavi, quel posto che la rabbia ti ha portato via. Lei non parla e rabbia cresce da rabbia, Medea l’amore non ti salverà, nell’oscuro tartaro, nel buio profondo brucerai per sempre!

La scuola è sempre lì con l’incanto dei tempi andati e di quelli che ora sono, sorrisi, sensazioni ancestrali e arcane, perversioni, illusioni. Tu che scendevi dalle scale senza pensare alla tua età. Passa il tempo, un anno, un’epoca e un millennio. Dentro te il desiderio germoglia piano e non sai più nasconderlo né barattarlo. Cose perdute, banchi di scuola, conteggi nostri senza pietà. La vita se ne va e non ti saluta. Un anno, un secolo, un millennio, poco più ma tutto ciò che conta sei tu. Io guardo avanti senza paura, ho detto tutto poco. L’ho fatto. Cara, questo che scrivo è senza senso, significato, è puro significante e tu il fluido che lo riempie. Batte il cuore, vola l’airone. Ciononostante guardandomi hai capito.  Mi hai sorriso. Sei vera nelle tue falsificazioni metafisiche. Ti miri ancora allo specchio, ciglia nell’occhio, ciglia e compromessi.

Il Pettine

Il rumore della campanella interrompe d’un tratto la lunga e pesante spiegazione di Gianni ed il suo intenso ricordare. I ragazzi si alzano incuranti delle parole del professore e lo spingono ad abbandonare il suo proposito di dare l’assegno. Posato il libro sulla cattedra segue con lo sguardo Lisa fino a vederla sparire dietro la porta che si muove quasi da sola e resta socchiusa. Si siede, posa la roba nella borsa e si rialza con un fare quasi convulsivo. Uscito fuori dall’aula si incammina lungo il corridoio procedendo con gli occhi bassi rivolti alle sue scarpe. Scende le scale salutando il bidello che lo ricambia ed alza lo sguardo al soffitto pensando per tre secondi scarsi che lo portano a pronunciare con voce roca ma forte:

“Professore!”

“Guè don Pasquale, dite”

“Tutto a posto?”

“Eh! Tutto a posto! Volevate dirmi qualcosa?”

“No, niente…sempre riguardo quel fatto là, se potevate farmi sapere qualcosa!”

“Don Pasquale le ho detto, mo’ non c’ho tempo, ho da fare , voi dovete solo stare tranquillo, appena tengo un po’ di tempo ne parliamo con Vighetti!”

“Va bè, allora mi posso fidare?”

“O Madonna mia, si, non vi preoccupate! Mo’ mi dispiace, vado di fretta! Tanti saluti!”

“Arrivederci”

Uscito dalla scuola Gianni si dirige verso la sua vettura, è lì per aprire la portiera quando nota una ragazza dai capelli ricci seduti ai bordi di un muretto con le mani al volto. La riconosce: è Lisa!

“Lisa!”

“…”

“Lisa!”

“Professore, buon giorno!”

“Tutto a posto? Hai qualche problema?”

“No, no” ed alzandosi in piedi scappando “Va tutto bene!”

Gianni pensieroso monta in macchina e non sa spiegarsi il perché di quell’atteggiamento. Ha notato che le usciva sangue dal naso e che da un po’ di tempo si comporta in maniera strana e la sua mente non sa in alcun modo dissociare i due episodi. La razionalità non domina l’istinto e si convince sempre di più che quella ragazza ha bisogno del suo aiuto, d’impulso gli viene quasi di fare inversione, di prenderla per un braccio e di domandarle cosa le stava succedendo. Dentro di lui sente però che non può , che non deve prendersi tutta quella confidenza e tutta quella premura forse solo perché Lisa le ricorda la sua Alessia.

Poiché il suo io non riesce a ricordarle il suo compromesso ma  avverte comunque da un lato il bisogno di tornare e dall’altro quello di non preoccuparsi inutilmente con la sola conseguenza di mettere allo scoperto i suoi sentimenti, decide di tastare un po’ prima il terreno per scorgere se i suoi sospetti sono fondati e solo dopo agire. Ma agire come? Senz’altro non deve far vincere alcuna idea bizzarra, deve sempre mantenersi al suo posto senza rendere noto a lei o agli altri che nell’animo qualcosa brilla per quella ragazza. Già, qualcosa senza alcun dubbio brilla ma non se ne percepisce l’essenza, forse si può scorgere semplicemente la trasparenza esteriore che porta al sobbalzo l’anima ed al suo intenso ardere. Sono gli occhi, le labbra, il respiro o forse qualcosa di più a provocare tale evento. Bruciar d’amore! Come cadere in un burrone senza fondo ed esser trasportato dal vento e dal rancore finché uno schianto non ti infrangerà per sempre il cuore. Ma nonostante questo modo di vivere tanto aleatorio ed incerto la passione si modella ed assume forma senza riportare intrighi strani, inusuali e ditirambici a sviluppi intensi.

D’improvviso inizia a scendere la pioggia senza che si sia fatta in alcun modo annunciare, interrompendo e disturbando i raggi di sole con disincanto. Gianni si domanda come mai il buio è illuminato dai fulmini che gli ridanno luce ma che poi, di colpo, svaniscono in maniera così improvvisa da sembrare casuali. L’apparenza è ciò che conta o è soltanto il frutto di un altrettanto apparente pensiero nascosto che ascolta timido il successivo e frazionato tuono?

Ardendo ancora il professore è quasi sorpreso da tale spreco di energia e da tali rimpianti e gli balena d’un tratto dinanzi agli occhi l’immagine di un sentiero di campagna infestato di briganti che, nauseati dai mestieri, decidono di apprendere la casuale arte del rubare.

Sceso dall’auto vettura Gianni corre verso il portoncino riparandosi dalla pioggia, che va facendosi man mano più intensa, con la sua borsa di pelle. Entrato nell’appartamento si cambia e si accende una sigaretta. Non ha fame ma un senso di stanchezza gli invade il corpo socchiudendogli le palpebre, il ricordo di Lisa si muove nella sua mente come un ronzio d’insetto che lo assopisce sempre più. “L’Amore è davvero il sentimento eterno?”

Con questo interrogativo vivido tra la mente prende sonno e subito vede comparire davanti ai suoi occhi un rosa che respira a fatica e getta i suoi ultimi spasimi in aria, mantenendosi però sempre fiera e dolce allo stesso tempo, mantenendo insomma il classico atteggiamento di quella sorta di fiori. Subito Gianni gli si avvicina domandandogli con un sospiro:

“Perché un tempo sbocciasti?”

“Sbocciai per renderti la vita graziosa, sbocciai per farti avere sogni, amori ed anche la gioia di una vita sublime e vera, di un caldo mattino che ti riporta a ciò che forse avresti voluto: la felicità”

“Dimmi allora cosa c’è di magico nei tuoi petali che mi rende tanto felice…”

“Ci sei tu che con quegli occhi riesci ancora ad andare avanti e con quei passi riesci a sentirmi anche lontano, per sempre. Tu che ora stai parlando con me dimmi, non capisci che io sono dentro di te e che ogni ragazza da me prescelta che tu vedi e sogni riesce a farmi sbocciare di nuovo e sempre di più?”

“Tanto è grande il tuo potere?”

“Si, sono tanto grande che l’immenso al mio cospetto è l’ultimo granello del più piccolo deserto”

“Questo rosso immenso campo sterminato che è in ciascuno di noi avrà mai fine?”

“Mai, lo giuro, non finirà mai. Regnerà sempre nel tuo cuore ed ogni volta che ti sdraierai al sole e che lo guarderai negli occhi io riavrò vita”

“Le tue parole sono davvero profonde, ma se tu non finirai, se tu mai mi scorderai, perché i tuoi petali stanno appassendo e tu muori?”

Si sveglia d’improvviso ed il cuore gli va in gola, voltandosi si accorge che i raggi del sole iniziano a fare capolino e le goccioline d’acqua sulla sua finestra si trasformano in variopinti arcobaleni. Ripreso il fiato lentamente si alza dalla poltrona anche se mal volentieri, avrebbe fato a meno di quella straziante operazione ma ha un lavoro da portare a termine. Sedutosi di fronte al computer inizia a preparare i quesiti a risposta multipla per il compito in classe che il giorno successivo avrebbero dovuto sostenere i ragazzi di quinta. È annoiato, pensa ad altro e conclude tutto in meno di mezz’ora. Preso il cappotto scende e si dirige a piedi verso la stazione del paese. Sale sul predellino ed è diretto a Napoli, giunto in città decide di prendere la metro senza sapere con precisione dove andare. Attende per cinque minuti la medesima fin quando non la sente arrivare da lontano; d’un tratto vede il suo volto riflesso sui finestrini del mezzo e, all’aprirsi della porta, monta. Gli sguardi sono sempre rivolti verso il vetro e le mani fisse sugli “appositi sostegni verticali”. In un improvviso “soffio di porta fa l’ingresso un bella donna” altera che domina con lo sguardo tutti gli altri viaggiatori che sembrano quasi chinare sottomessi il capo. Gianni la osserva con attenzione ed appena scende lui la segue. Escono dalla stazione e dopo aver percorso circa cento metri girano in un vicoletto. La donna a questo punto entro nel palazzo e l’inseguitore resta di stucco, dopo pochi secondi si siede su delle scalinate ancora bagnate dalla recente pioggia e si accende una sigaretta. Cade d’improvviso un pettine che finisce proprio dinanzi i suoi piedi, alzando lo sguardo nota la signora della metro che le chiede la cortesia dì rigettargli il medesimo. Proprio quando è sul punto di farlo, però, la donna lo blocca e lo invita a salire. Raggiunto l’appartamento la tipa lo apre ed afferma:

“Scusi se l’ho fatta salire, ma mi sarebbe dispiaciuto se, lanciandomi il pettine, mi avrebbe distrutto un vaso o peggio ancora mandato in frantumi il vetro della finestra!”

“Si figuri, è stato un piacere” e porgendogli la mano destra “io mi chiamo Gianni”

“Piacere, Anna. Ma si accomodi se vuole, le posso offrire qualcosa?”

“Volentieri, però sa com’è, non vorrei disturbarla”

“Si figuri, entri “

La casa è ben arredata anche se non molto grande, la donna non da neanche il tempo allo sconosciuto di guardarsi intorno che riprende nuovamente la parola.

“Mio marito è in ufficio, lavora sul comune, fra un po’ dovrebbe essere di ritorno. Abbiamo una figlia di otto anni, דניאלה, che ora è a casa di un’amichetta, lei comunque si accomodi”

Gianni annuisce e si siede sul divano del salotto, Anna subito gli siede accanto ed il visitatore d’impulso e senza alcuna inibizione le tocca i capelli arricciandoli a gruppetti. La donna non risponde. Il professore a questo punto ne approfitta per baciarla e sfiorarle la veste, lei gli sbottona la camicia e gli sfila la giacca che già era aperta. Si sdraiano sul divano ed iniziano a fare l’amore, lei è eccitatissima, l’ intriga farlo con quello sconosciuto che può essere chiunque. Non sa niente di lui eppure non ha paura ma prova soltanto un senso di infinito piacere. Stanno insieme per un po’, poi lui si alza e si ricompone, la signora fa altrettanto e Gianni le dice:

“Mi dispiace ma ora devo andare”

“Mi puoi dare almeno il tuo numero, voglio rivederti ancora!”

“Tieni”

“Grazie mille, sei favoloso”

Si danno un bacio e lui si dilegua dietro la porta.

 

Pensieri inversi

“Pronto studio dell’ingegner Reddite, desidera?”

“Buonasera, senta sono un suo caro amico, potrebbe passarmelo per cortesia? Dica che lo desidera il professor De Sanctis”

“Giusto un momento…, ora glielo passo…”

“Pronto, ingegner Russo!”

“Guè Vighetti  sono io, Gianni, come và?”

“Bene, bene, le solite cose! A cosa devo l’onore di questa chiamata?”

“No niente di che, dovresti solo farmi un piacere: Don Pasquale Rivesi sta in affitto da te, è un po’ che non paga, se potessi lasciar perdere lo sfratto e dargli un piccola proroga… “

“Un’altra?”

“Già, dagli un paio di mesi di tempo, fallo pure per me visto che ogni volta che mi vede mi fa “ ‘na capa tanta”!”

“Va buò, ma che siano solo due mesi”

“Ciao“.

Sono le sette e quindici di sera e, dopo aver rimesso al suo posto la cornetta, Gianni si affaccia ala finestra pensando a quella che ormai per è diventata un’ossessione: Lisa. Vuole vederla, non né può quasi fare a meno e per sanare questo dolore, questo roditore che gli rosica l’anima, si immerge nei ricordi. Già, i ricordi, l’arma potentissima capace di farti sorridere o di farti lacrimare a fiumi. I ricordi, che sembrano a volte quasi consolarti ma che finiscono spesso col renderti cosciente della tua attuale impotenza dinanzi agli eventi. Il trastullo dura così poco che anche l’essersi trastullato diviene motivo di rabbia. Ciononostante Gianni pensa, ricorda, e davanti a lui vengono a rinascere vivide talune immagini.

Il pretesto è il suono di un sirena della polizia ed il fervido tepore prodotto dall’effetto Doppler. Lui ed Alessia stavano sotto un ponte sul quale passava il treno e questo suono ossessivo che andava man mano intensificandosi li fece sobbalzare. Erano convinti che la polizia li avesse trovati e solo l’affievolire del rumore indesiderato poté tranquillizzarli, man mano del tutto. Il tormento interiore pur sempre li invadeva, erano fuggiaschi e stavano ancora in territorio italiano. Non potevano più chiedere un passaggio, ormai senz’altro le guardie erano alle loro calcagne, non gli resta altro da fare che nascondersi e pensare a come agire.

Tutto doveva avvenire nell’ombra, l’episodio del camionista aveva sicuramente ristretto il campo di indagine degli investigatori. Ora però non avevano alcuna intenzione di pensare al da farsi, la notte e la bottiglia di vino al loro fianco placavano lentamente i loro animi agitati e si riaddormentarono l’uno affianco all’altra, con le fronti congiunte.

Alle cinque del mattino Gianni si alzò svegliando la compagna, aveva ancora i sensi annebbiati dall’alcool. Dopo averla presa per i fianchi le disse che avrebbero dovuto abbandonare la zona e, invece di inoltrarsi ancora di più tra il terreno incolto, seguire la linea ferroviaria ma a debita distanza, con passo tanto svelto quanto affannato. È innanzi all’ovvietà che ci si perde.

Giunsero in un paesino rurale le cui case care sembravano quasi essere attaccate l’un l’altra, tanto strette erano le vie. Intrapresero una strada in salita che li condusse in un parcheggio dal quale sottrassero una 127 gialla. Sicuro che la medesima non avesse l’antifurto ruppe il vetro, la mise in moto congiungendo i fili e, dopo aver fatto salire l’amata, partirono. Imboccarono l’autostrada dirigendosi verso la frontiera Svizzera che doveva essere senz’altro la più vicina a giudicare dalla posizione in cui si trovavano.

Dopo circa dieci minuti di viaggio intravidero una volante della stradale dedita ad effettuare il posto di blocco. Alessia tremava ma il compagno la rassicurò tenendola per mano:

“Stai tranquilla, dobbiamo essere indifferenti e vedrai che sicuro non ci fermano! Abbi fede!”

Ma le raccomandazioni speranzose furono vane, il poliziotto, infatti, appena scorta la macchina alzò la paletta e li invitò ad accostare.

Gianni era tentato: pigiare l’acceleratore, fuggire, ma si rese presto conto che sarebbe stato inutile. Per questi motivi accostò affermando di non avere documenti, al che la guardia lo invitò a scendere dalla autovettura. Obbedì seguito da Alessia che si avvicinò a capo chino. Non c’era davvero più niente da fare!

Destatosi dai ricordi il professore apre la finestra e si accende una sigaretta affacciato alla medesima e con i gomiti poggiati sul marmo. Una coppia di ragazzini attraversa la strada lì sotto, sono sorridenti, sicuramente felici e passeggiano tenendosi per mano. Sull’altro marciapiede un vecchietto si trascina appena con l’ausilio del suo bastone ed i passi sono tanto lenti che sembra quasi strisciare sull’asfalto. Poco distante tre bambini sui sette- otto anni fanno ritorno a casa, uno di loro ha i pallone stretto tra le mani. Tra poche ore quasi tutta la città sprofonderà nel sonno e la loro mente fuggirà dal corpo e prenderà coscienza, come suol dirsi. Ma in realtà si è più vicini alla coscienza di sé nel sonno e non nella veglia, quando siamo presi dalle attività di tutti i giorni e perdiamo man mano la nostra identità. L’uomo è così, ciò che lo differenzia dalle bestie è il suo essere ridicolo!

Quando sta compiendo un lavoro è quasi completamente preso dal successivo lavoro che dovrà compiere e questo pensiero finisce col fargli vivere il medesimo con disincanto. Se, invece, lo troviamo immerso nell’ozio su di lui cade l’immane macigno dell’angoscia. Ciò che lo rende ancora più ridicolo è però il fatto che egli cerchi di vivere nel migliore dei modi, di stare meglio possibile, come se fosse convinto che questo lo aiuti. Si ricopre di averi e chiama il suo modus vivendi “benessere ” non cosciente dell’evidente contraddizione lessicale. Si preoccupa di essere ammalato e chiama la sua malattia follia quando poi altro non è che ridicolaggine. La vera malattia non è la follia ma la paura della stessa! La verità è che non sa stare da solo, ha sempre bisogno di assensi, di farsi dar retta dagli altri. È il nostro prossimo che il più delle volte ci impoverisce, ci rende avari, ci rende meschini, ci trasforma in avvoltoi. L’uomo è un’aquila costretta a vivere da passero. La paura, che dovremmo guardare con distacco e che dovrebbe renderci invincibili e fieri, finiamo col renderla un pretesto per nasconderci dietro fallaci mura. Noi perdiamo noi stessi! La paura degli altri e l’inibizione forzata delle nostre impotenze crea la competizione, “arte di fottere chi ti sta a fianco” nel modo più vile possibile. Ci esaltiamo se scorgiamo negli altri i nostri difetti e li critichiamo per distanziarci il più possibile da questi ultimi. Non esaltiamo le nostre vere virtù ma rendiamo i nostri vizi virtù. Attacchiamo gli altri a sguardo basso anziché scrutarli con sguardo altezzoso. Ci immergiamo nel fango e nella bassezza e godiamo se ogni tanto siamo coperti di letame schizzando chi ci ha immersi con la stessa sostanza. Talvolta ammiriamo chi è più immerso di noi e cerchiamo il sistema per raggiungerlo. In definitiva altro non siamo se non esseri succubi legati con catene da noi stessi create.

Finita la sigaretta Gianni la getta giù dalla finestra ed osserva il mozzicone che con rapidità raggiunge il suolo.

 

Tra le macerie

Gianni si è preso un giorno di permesso e con la sua vecchia alfetta ha raggiunto il litorale pugliese. Sceso dall’autovettura si toglie le scarpe e inizia a correre sulla spiaggia. Ripensa ai quattro anni di merda trascorsi in comunità. La guardia che lo fermò durante la fuga con Alessia gli aveva trovato in tasca della roba. Scostatosi dal poliziotto si avvicinò alla ragazza e la strinse forte dandogli un bacio. Il mondo intero si fermò in quell’istante, i brividi investirono i corpi dei due ed una lacrima, una sola, scese dagli occhi della bellissima amata. Quella fu l’ultima volta che si videro.

La vita in comunità fu traumatica per Gianni, non parlava quasi con nessuno, restava ore ed ore a contemplare il cielo ed a studiare. Non strinse vere e proprie amicizie, guardava il mondo con distacco ed il mondo stesso lo scrutava con noncuranza.

Alessia non c’era, i suoi genitori gli avevano anche impedito di scriverle e lui cercava man mano di rimuovere questo pensiero che lo assillava. Riuscì a laurearsi in Filosofia con una tesi su Nietzsche, aveva studiato però sempre solo il minimo che gli bastava per andare avanti ed anche la discussione della tesi non fu un successo.

Accesosi la solita sigaretta, ancora con il fiatone, si siede nei pressi della riva e le onde gli bagnano con dolcezza i piedi nudi. Il mare, nonostante la stagione, è calmo; il cielo terso e la brezza soave fanno quasi pensare all’ estate. Il sole domina il mare dall’alto lì ad est, è lo stesso sole di quella mattina d’aprile quando partì volontario per la Jugoslavia. Ricorda benissimo il suo desiderio di fuggire via, il più lontano possibile dal suo paese, mosso non dalla sete di conoscere ma dalla voglia di dimenticare. La nave sembrava non arrivare mai a destinazione e le coste italiane si allontanavano con lentezza. Alessia era partita ormai da tempo e nessuno sapeva dire a Gianni per dove, nessun legame era ormai tanto forte da legarlo alla sua terra e la convinzione di ciò avvalorava ogni istante la sua tesi.

Fu in un paesino vicino Sarajevo che conobbe Nadia. Era seduto in un osteria insieme ad un gruppo di amici e la ragazza serviva ai tavoli. Quando la guardò non provò alcun sentimento, era freddo e quasi insensibile, caratteristica che lo aveva accompagnato in quegli ultimi cinque anni. Solo un non so che di misterioso nascondeva quell’essenza femminile e lui era desideroso si scoprirlo.

Successe una sera, l’osteria era vuota, prossima alla chiusura e si intrattenne un po’ a discorrere con lei:

“Bella la tua veste!”

“È di lino francese”

“Sai che parli molto bene l’italiano! Dove hai imparato?”

”Qui stanno tanti clienti della tua nazione. Io ascolto e imparo”

“Brava, brava! E la sera, quando chiude l’osteria che fai?”

“Vado a casa, dormo su da mio padre, è lui il proprietario”

“Anche stasera?”

“Si, perché?”

“Ti va di stare un po’ con me?”

“Non posso mi spiace…”

Ciò detto fece per alzarsi ma Gianni, prendendola per la mano la costrinse a risedersi. Le si avvicinò lentamente baciandole la guancia rossastra. Col braccio poi le portò la testa all’altezza del petto continuando a baciarla fin quando lei non si distanziò definitivamente affermando:

“Mi dispiace sei tanto carino ma io non voglio, non dirmi niente, non me la sento!”

“Perché?”

Non rispose e si alzò; d’un tratto si sentirono rimbombi lontani che lentamente andavano intensificandosi. Si guardarono negli occhi e fuggirono nel sottoscala del locale giusto pochi secondi prima che gli aerei bombardassero il paese. Una trave colpì sul capo Gianni che cadde tramortito a terra.

Si risvegliò dopo tre ore, sporco di sangue, al suo fianco c’era il cranio della ragazza spappolato. Alzandosi di scatto, senza versare nemmeno una lacrima, se ne andò. Non riusciva a piangere, proprio non ce la faceva, perché doveva esserci quella situazione di merda? Che cazzo aveva fatto quella ragazza per morire? A destra ed a sinistra vedeva case interamente distrutte, macchine capovolte, un bambino disperato che piangeva alla ricerca della madre cosciente, anche se fanciullo, che non l’avrebbe mai più riabbracciata. Un soldato solitario correva con un mitra tra le mani, con la divisa sporca e stropicciata, con le ferite procurategli dalla guerra e di queste la più terribile è quella che ha nel suo cuore: la famiglia, la madre, la moglie che sperano faccia ritorno. Lui deve sparare, nascondersi, difendersi e poi sparare, sparare ed uccidere.

Gianni continuava a camminare tra le macerie della città semidistrutta dai bombardamenti, si sedette su ciò che rimaneva di una murata riflettendo: pensava al progresso, cos’è il progresso? Non di certo questo: ancora esiste la guerra, esistono le armi, ancora muoiono persone per colpa di altre persone. Il nostro cervello ha subito una rapida evoluzione in soli due milioni di anni ma non si rende ancora conto della sua stupidità: che senso ha negare la libertà di dire ciò che si pensa, di professare la religione che si ritiene più giusta e credere nei propri ideali? Questa che chiamano civiltà in realtà non lo è. Non è solo con la democrazia che si possono risolvere i problemi. Anche il popolo, nel suo piccolo, vuole la guerra, nessuno ha eliminato dal proprio cervello l’input che lo porta alla distruzione. Una società di stupidi non è mai una società civile. A che servono le leggi se non a creare guerre, l’uomo deve semplicemente ascoltare l’amore che è dentro di lui.

Lontano lontano c’è il mare e poi l’Italia, la mia patria! O Italia, terra d’incanto e di poeti, di musica e di scienza, di allegria e di tristezza, un giorno cambierai? Un giorno potrai finalmente essere una nazione che faccia da esempio a tutte le altre per la solida e solidale organizzazione politica e culturale? Un giorno farai finalmente capire a tutti che gli uomini sono uguali e che non devono essere sacrificati popoli né morire centinaia di persone per il solo gusto della potenza? Un giorno farai veramente valere il tuo nome facendo comprendere che non è solo con le armi e con la guerra (forza priva di forza) che si ottiene la libertà ma bensì con la forza intellettuale e spirituale, quel mistero che rende noi italiani così lontanamente vicini.

Dopo aver detto quasi a voce alta queste riflessioni gli scesero finalmente e quasi con forza le lacrime dagli occhi e provò nostalgia di casa, il cielo era ormai scuro e senza stele, illuminato solo dalla luna. Aveva deciso, sarebbe a tutti i costi tornato al suo paese, non gli serviva fuggire per allontanare il dolore .

Il mare si fa più grosso e Gianni percorre la spiaggia in senso opposto rimontando sull’alfetta. È stanco e decide di far ritorno a casa.

 

Piccole transizioni

Perché è la solitudine che uccide

è lei che ti conduce alla follia .

Se getti un sasso nel pozzo

non cadrà solo

nelle profondità dell’abisso

senza la scia del ricordo.

Se non trovi speranze,

laccio al collo

o vene tagliate,

c’è la vita vissuta che te le leva.

 

Questa è l’ultima lacrima mia

la lacrima nostalgica del passato

quello che cercavo l’ho trovato

ed ora non so più cosa cercare.

 

Anch’io non ti scorderò,

d’altronde non l’ho mai fatto.

Continua a conservare

ciò che sin ad ora hai trattenuto

e quel tuo sguardo

che eleva lo spirito

al sentimento eterno,

al massimo fattore

e l’anima anche se oscurata

si purifica coll’aria salubre del cenno divino,

calore inenarrabile è l’amore

e non c’è posto né morte

più nel mio cuore.

 

Da vicino non saprei risponderti. Per te, cara ci sono i prati, verde colline, cascine biancheggianti, pensieri non vissuti, sentimenti mai provati. Per te, in te, non troverai che amore, ti basta scrutare e restare a guardare ciò che l’universo ti porge, mazzolino di rose, vile ed ortensie. Anima divina, sindrome senza cura, casetta di periferia ai bordi del mio cuore, chiudimi gli occhi, chiudi anche i tuoi, come almanacchi vendi sentimenti futuri che io comprerò vivendo ancora.

Pareva piovesse fuoco che in scintille scompariva, pioggia riflessa al sole. in estasi la guardavo cercando il senso di ogni mio proposito e d’ogni azione. Ma era incanto, vero incanto! Cercavo la soluzione ai mie problemi ma lo sguardo salmastro mi spalancava il core. Sembrava dirmi sì senza aspettare le domande e senza pretendere compenso, baratteria, simonia. Perché era la luna che dominava su tutto e nella tiepida serata non un romore percepivo se non la cosmica vibrazione. Se il distacco può creare due o più diverse realtà, il qui e l’altrove,  l’unione ciò non lo comprende. Ed è di nuovo giorno, il sonno vinse ancora ma la sfida è solo rimandata. Tra le 4 e le 6 del mattino nascono i più bei sogni, fiori germogliati asciutti. Se poi è estate ciò è magico, compie il suo giro e posandosi su un balcone eterea si riposa.

Ancora, ancora un altro errore e da stupido ho tradito la tua fiducia. Cerca di perdonarmi, no so dimenticarti, ho pianto, da tempo non lo facevo. Kiss me moon, te ne prego, o moon, my moon! Sei vita per me. Non andare via, non abbandonarmi, senza te cosa posso desiderare? Sai, già mi sento svanire, l’orologio è fermo, fatti sentire. Kiss me moon, ti prego baciami, ti voglio vedere ancora, sogno il tuo ardente vestito di lino. Il fuoco che brucia non si spegne, senza di te resto sperso, dimentica, dimentica. Non mi abbandonare.

 

Sara

Sono le dieci e trenta di un sabato sera ed il professore è seduto al bancone di un locale con davanti un bicchierino di Jack Daniel’s. Sorseggia frettolosamente e discute col barista ma la sua mente, come sempre, è altrove. Parlano delle solite e ridicole questioni di tutti i giorni: la politica, l’inflazione e via discorrendo. Un continuo ed assurdo bla bla che non serve a un cazzo. Il lamentarsi dalla mattina alla sera porta sempre alla solita stupida soluzione: “Beh, in fondo viviamo nel migliore dei mondi! Poteva andarci peggio!” Il qualunquismo è l’essenza stessa qualsiasi impegno sociale, non esiste politica per gli italiani. Gianni sarebbe quasi tentato di dire al tizio che è un opportunista, un’ipocrita ed un buono a nulla come la maggior parte di coloro che gli stanno a fianco. Sogna di avere successo, ha paura che non riesca nel suo intento ma non si preoccupa minimamente di affaccendarsi. La sua vita è caratterizzata non solo dalla chiacchiera ma anche dall’equivoco, dalla convinzione che ciò che si dice è vero e ciò che si fa è giusto. Non si rende conto della vanità dei progetti umani e del suo “esser per il nulla”.

D’improvviso la mente inizia ad allontanarsi più velocemente dalla discussione, oramai sente soltanto il ticchettio del suo orologio fin quando scompare anche quello. Stufo decide di andarsene, saluta tutti ed esce.

La notte è molto buia, nessun astro la illumina, solo la luce artificiale dei lampioni lo accompagna lentamente. Fa freddo ed il tempo sembra minacciare tempesta ma Gianni non si crea il problema, l’alcool lo riscalda abbastanza. Così si siede su una panchina e si accorge che un cane lo ha seguito. I due si guardano negli occhi senza che il professore dica una parola, c’è intorno un magico silenzio. D’un tratto il cane finisce tra le braccia di Gianni che lo accarezza. Stanno insieme circa tre minuti, poi l’animale si dilegua nel buio. Alzandosi dalla panchina anche l’essere umano va via, diretto alla sua casa, si addormenta e si risveglia alle otto del mattino del giorno dopo.

È una bella giornata, Gianni si prepara per andare a scuola. Giunto in loco si dirige in classe, guardando tra i banchi si accorge che Lisa è assente. Inizia ugualmente la sua spiegazione si Hobbes, è stranamente tranquillo ma di una tranquillità che dura appena per un’ora. Finita la lezione va subito in Presidenza e chiede altri giorni di permesso in quanto non sta bene.

Si dirige verso la sua autovettura ma proprio quando è sul punto di mettere in moto è fermato da Sara, la bella professoressa di matematica che gli chiede un passaggio fino a casa in quanto lei abita fuori paese e, quel giorno, c’è lo sciopero dei treni. Gianni acconsente.

Intrapreso il viaggio la donna si accorge che il marito quella mattina ha preso il suo mazzo di chiavi e quindi è rimasta chiusa fuori. Il professore si offre allora di ospitarla a casa sua fin tanto che non sia tornato il suo congiunto. Entrati nell’appartamento lui vuole preparare il caffè ma Sara lo blocca affermando di avere più destrezza in cucina. Presa la macchinetta e riempitala di acqua e caffè accende il fuoco aspettando che salga il liquido scuro. Sedutasi su una sedia afferma:

”Abbiamo tempo “

Ha uno sguardo dolcissimo, come non glielo aveva mai visto prima, sembra quasi che quell’”abbiamo tempo” lasci sottintendere qualcosa. Subito Sara continua:

“Posso farti un domanda un tantino personale?”

“Certo!”

“Come mai non ti sei sposato?”

“Ehm… perché mi fai questa domanda?”

“Così, è come se in questa casa si notasse qualcosa che manca… qualcosa…”

“Beh, è tutta una questione di tempo, non ho mai trovato niente di così forte da farmi rinunciare alla mia individualità, guarda dalla finestra quelle piante rampicanti. Io sono come loro, fortemente attaccato al mio essere attuale ma sempre pronto a salire, a raggiungere le più alte cime. In questo modo sento sempre che il tempo è vicino, a portata di mano.”

“Ma non hai mai sentito il bisogno di iniziare una relazione stabile, solida?”

“Ti faccio un esempio, fai finta che io e te cominciassimo un relazione. Subito io entrerei nel vivo, mi seccherebbero in prima istanza i preliminari, il corteggiamento. Quindi ti prenderei per mano salendo in tua compagnia una scala che ci porti in un muro. Le mani umide per l’emozione si asciugherebbero sempre più sulla ringhiera. Noi saliremmo i gradini con le punte non sapendo se abbiamo ai nostri piedi un’epoca o una storia o una leggenda.”

“Quindi secondo te non è importante avere un punto di riferimento, una persona da abbracciare e tenere comunque al proprio fianco!”

“Sempre chiaramente tra i piedi”

“Ma comunque sicuro, reale”

“Già, ma soprattutto nel reale, senza la magia del surreale, la fantasia, senza ormai alcun mistero”

Il caffè è salito ed insieme ne assaporarono lo stupendo aroma.

LA discussione prosegue tra le stanze della canzone, le 103 odi di Orazio, i pensili babilonesi, gli oroscopi, la credenza come forma di conoscenza, Hegel, Eraclito, quam minimum credula postea, carpe diem, la prigionia del tempo. Insomma, a portata di mano! Quell’irreale che è metadiscorso e con cui Lucio va al di là del reale inteso come razionale. Una canzone di un disco di qualche ano fa. Ne colgono il significato vivendolo. Inebetiti, stupidi, dunque stupiti.

 

Nietzschando

Sara ed il professore iniziano a vedersi sempre più spesso, quasi ogni giorno e discuto di svariati argomenti. Un pomeriggio si ritrovano assieme al parco pubblico del paese e stanno parlando di morale. La donna è dell’idea che debba, comunque, esserci in ogni azione un giusto fine, che lei stessa, quando agisce male nei confronti di qualcuno, è presa dal rimorso, quindi senz’altro in tutti noi deve esserci qualcosa che ci spinge al bene, Gianni non è d’accordo e, sedutosi su di un muretto, inizia a dire come la pensa. A suo avviso è tutto un discorso di potere, la morale non è altro che ciò che distrugge l’uomo. La chiesa Cattolica, o più in generale quella Cristiana, ad esempio, si fonda su proposizioni assurde ed insensate le quali non fanno altro che distanziare l’uomo dalla terra. Con quale diritto si può definire “peccato” i piaceri o le virtù che non solo non arrecano danno né a sé né al prossimo ma addirittura apportano un senso di inebriante estasi ad entrambi? L’ipocrisia di chi da buoni consigli non potendo dare il cattivo esempio rinchiude l’individuo in una fredda e cupa bolla di vetro che lo “isola in relazione agli altri” nel senso che non solo lo rende succube e dimesso ma anche, allo stesso tempo, padrone, seguendo in linea di massima lo sciocco pregiudizio altrui. Non si è mai parlato in maniera precisa di bene e di male proprio a causa del pregiudizio mascherato ora da coscienza, ora da inferno, ora da regola, ora da Stato, ora dal polizia. La morale non consente di ragionare ma bensì solo d’ubbidire, essa non usa semplicemente ogni mezzo per spaventare ed allontanare la critica ma spesso è capace di capovolgere la volontà critica stessa dalla sua parte. Il mondo intero è soffocato dall’idea di castigo, la stessa esistenza diviene per molti di noi un “castigo divino”. Sin da fanciullo l’uomo è follemente bombardato da proposizioni e regole che lo rendono schiavo di una società e di un’ideologia che spesso risulta essere completamente estranea ai propri istinti . L’operazione di salvataggio intellettuale prosegue in età matura con la scuola e poi con lo Stato che vieta ogni comportamento incline a noi stessi e ci obbliga a sottostare a determinate leggi molto spesso utili solo a creare nuovi barlumi di speranza per i maestosi “cervelli produttivi” e libero campo d’azione per i potenti sfruttatori. Pensare in una società del genere risulta essere non solo inutile ma addirittura dannoso per il sistema stesso, il pensare deve essere solo incline alla produzione, all’educazione di menti produttive, al miglior sistema per abbattere la concorrenza ed al modo più adatto per isolare e ridicolizzare chi davvero intende cambiare le cose. Se, infatti, lo Stato e la borghese élite decisionale offrono comodità e benessere, poco importa l’infinito potere dei medesimi e l’immenso sfruttamento sublimale di chi non solo non si sente per niente sfruttato ma addirittura ha l’impressione di avere dominio sugli altri. Tutto ciò grazie al magico trucco della “libertà apparente” in base alla quale ci si sente padroni di qualsiasi tipo di scelta, poco importa poi se le scelte sono lasciate prendere per forza di cose. In realtà si finisce sempre col sceglier tra due mali il minore ed alla stragrande maggioranza non importa affatto la possibilità di venire a formare una società nuova davvero fondata sul puro ed assoluto valore della libertà. È talmente facile etichettare tale possibilità con l’ipocrita epiteto di “utopia” che si finisce col rinunciare alla realizzazione di un sogno solo per inerzia ed eccessiva faciloneria qualunquista. C’è poi un alto gruppo di persone che a questa inerzia aggiunge la paura dell’eccessiva libertà altrui, che poi equivale ad aver paura di sé stessi per non dire della natura intima dell’uomo. Se osserviamo un qualunque essere che si libera dal vincolante uso della ragione e vive seguendo i suoi più intimi istinti mai vedremo sul suo volto gli spasimi di una benché minima sofferenza. Egli accetterà passivamente il limpido succedersi delle cose ma sarà dominato da chiunque possegga un minimo barlume di ragione. La ragione è sempre e sempre sarà la causa della sofferenza al mondo, è la ragione che assieme alla morale corrode e crea uomini padroni ed uomini schiavo. La natura dell’uomo non è mai contro sé stessa o contro gli altri ma finisce col divenirlo allorché vengono a crearsi i presupposti base. Tali presupposti, indicati poc’anzi, altro non sono che uno strumento con cui il potere giostra e castiga i suoi favolosissimi e variopinti animali da circo. Proviamo ad eliminare per un attimo la fredda ragione e l’ossessiva morale dal raziocino umano ed immaginiamo come potrebbe esser l’uomo. Si potrebbe obbiettare che tali presupposti sono insiti nella natura umana ma in realtà ciò è facilmente confutabile. Se manteniamo lontano dal pregiudizio e quindi da questa società un fanciullo e lo educhiamo secondo i principi della pura libertà vedremo che qualsiasi morale o ragione, finora intesa come freddo calcolo per il dominio sugli altri, non avrà motivo di essere.

Nell’udire tali parole Sara risulta un po’ scossa, senz’altro su molti punti è d’accordo, non ha niente da ridire ma una domanda pone incuriosita a Gianni, gli chiede che senso ha in tutto questo il messaggio morale di Gesù. Il professore lentamente estrae il suo pacchetto di sigarette, ne prende una e la accende poi afferma con convinzione che l’uomo non può arrogarsi il diritto di giudicare e condannare un altro uomo e continua dicendo che il Cristianesimo per secoli non ha fatto altro, lo Stato non è da meno e preferisce punire in maniera esemplare piuttosto che eliminare alla radice il problema. L’uomo represso e privato della propria libertà non compie reato ma è spinto a compierlo. Lo Stato non mette in nessun caso l’essere umano a suo agio nella società in cui vive ma lo porta spesso a condurre un’esistenza alienata e finisce col non identificarsi più in niente. Questa assurda trasposizione di valori lascia libero spazio a chi detiene una minimalista abilità borghese di dirigere l’umana sorte e renderla succube. Gesù ci insegna che nostro dovere è quello di ribellarsi a qualsiasi forma di legge, abolire ogni sorta di punizione e lasciare solo l’unica regola dell’amore che panteisticamente è in grado di dirigere e governare il mondo. Le parole del “messia” sono state travisate dal Cristianesimo che ha saputo molto abilmente creare la più alta ed intricata sfera di potere terreno giocando sulle sue parole puramente e semplicemente anarchiche e creando la Chiesa, istituzione contro cui egli stesso aveva lottato quando essa esisteva già, sebbene in altra forma, con altri connotati ma col medesimo ruolo. Non è finora, infatti , esistito uno spirito più libero e più anarchico di Cristo, contro tutti e tutto rinnega non solo l’autorità terrena ma anche quella divina. Senza imporre alcunché lascia a ciascuno la libertà di mettere a nudo il proprio animo e di vivere una vita nella piena volontà di sé, fuori dagli schemi, fuori da qualsiasi gerarchia, da qualsiasi pregiudizio e da qualsiasi morale che, in una maniera o nell’altra, risulterà sempre ipocrita e falsa. Ricordiamo le parole di Gesù ai farisei: ”La legge è fatta per i servi, amate Dio come io lo amo, come suo figlio! Che importa della morale a noi figli di Dio?”. Gesù contrappose alla vita comune una vita reale, di verità. Con la sua morte e la costrizione psicologica a non vedere in essa alcuna fine rinverdirono le tendenze popolari. Egli non fece altro che dire “qui è il regno dei cieli” ma finì con la sua morte. La sua banda di seguaci fu insicura e fanatica, non seppe sopportarla, tutto fu inutile! Il regno è ancora in balia del male, ossia del nulla, ovvero di un terzo del tutto. Non siamo ancora figlioli dell’uomo.

Gettata la cicca il professore dice a Sara che sono ormai le otto, il marito è fuori per affari e per questo, volendo, sarebbero potuti andare a cena insieme. Si danno appuntamento tra un’ora, il tempo di farsi una doccia e di cambiarsi.

 

Sandro e Rossella

Il locale prescelto per la cena è un po’ fuori mano, Gianni si ricorda del medesimo perché un giorno portò lì una ragazza a mangiare. Aveva appena preso la cattedra al liceo e conobbe quella donna in Presidenza. Era una segretaria che si occupava dell’amministrazione interna, sui vent’anni, i capelli rossi, gli occhi smeraldini ed una grinta incredibile. Appena si guardarono furono subito colpiti l’uno dall’altro ed il giovane professore non perse tempo. Iniziarono a parlare del più e del meno, il caldo che stava man mano svanendo cedendo il posto ai primi freddi, l’emozione che provava essendo quelli i suoi primi giorni di insegnamento e via discorrendo. Non passò molto e la invitò a cena, lei, che di nome faceva Lidia, disse che si sarebbe occupata di trovare il locale. Dopo aver mangiato restarono lì a dormire e fecero appassionatamente l’amore, fu indimenticabile. Ancora Gianni non riesce a scordare lo stupendo profumo che emanava la dolce Lidia. Era il più istigante che avesse mai sorbito, anche le sue labbra sembravano quasi dettanti una soave musica celestiale, siderea.

Sara, accompagnata dal compagno, prende posto ed i due iniziarono ad ordinare le specialità della casa. Tra un pasto e l’altro sorseggiano della Falangina ed iniziano a discorrere, è lei la prima a porre una domanda:

“Gianni “

“Guè, dimmi!”

“Stavo ripensando alla discussione che facemmo a casa tua riguardo i rapporti stabili…”

“Si, qualcosa non ti è chiaro?”

“No, mi domandavo semplicemente se per te esistesse l’amore, quello vero.”

“Beh, io sono panteista ed amo l’Anima del Mondo e le diverse anime in ognuna, delle quali scorgo aspetti diversi dell’Anima del Mondo e quindi se vogliamo anche dell’esistenza.”

“In che senso scusa.”

“Nel senso che a mio avviso, ed anche tu puoi darmi ragione se ci fai caso, tutte le azioni umane sono mosse da Amore, quello con la “A” maiuscola, e non solo! La Natura stessa ed il Cosmo seguono le sue leggi e sono dentro di noi, chiudendo gli occhi possiamo renderci conto che possediamo il Mondo, che l’Universo, tutto agisce affinché noi siamo felici, affinché riusciamo a trovare lo scopo della nostra vita.”

“E qual è lo scopo?”

“Ognuno di noi ne ha uno, può essere quello di trovare una ragazza, di realizzarsi professionalmente e via discorrendo. Il vero scopo, però, è trovare noi stessi.”

“Noi stessi?”

“Già noi stessi, è capire chi siamo e cosa vogliamo.”

“È questo che molto spesso è difficile, soprattutto nella nostra società in cui siamo immersi nei bisogni voluttuari e perdiamo facilmente di vista qual è il nostro scopo reale.”

“Già, hai perfettamente ragione! Ma siamo a fine millennio, chissà se dal 2000 qualcosa cambierà”

“Aspettiamo un annetto allora…Comunque credo che l’amore molte volte possa esser anche distruttivo e te lo dico perché ricordo la storia di un mio amico, Sandro. Risale ai tempi del liceo, un giorno conobbe una ragazza veramente bella, una certa Rossella e si innamorò follemente di lei al punto che non pensava più ad altro. Era sempre presente nei suoi pensieri, se apriva bocca lo faceva solo per descrivere i suoi pensieri, se apriva bocca lo faceva solo per descrivere i suoi splendidi capelli biondi, i suoi meravigliosi occhi azzurri, il suo animo dolce etc… La ragazza, però, era fidanzata e Sandro divenne naufrago nel suo mare di lacrime, si sfogava apertamente soprattutto con il suo più caro amico, Gino. Gino ascoltava il compagno con tutta la pazienza che aveva e cercava in qualche modo di dargli dei consigli perché avrebbe venduto l’anima per vedere contento il suo amico più caro. Sandro da parte sua aveva fiducia nell’amico e lo rispettava massimamente, lo stimava molto ed il suo aiuto, perlomeno, gli alleviava un po’ le sofferenze. Dopo molto tempo finalmente si fece coraggio, trovò l’equilibrio ed acquistò sicurezza, era pronto a confessare i suoi sentimenti all’amata, che nel frattempo si era lasciata col ragazzo. Lei gli rispose che non aveva intenzione di iniziare una nuova storia. Passava il tempo e Sandro pensava sempre più a Rossella mentre lei non lo considerava proprio. Un pomeriggio Gino si recò personalmente dalla spasimante dell’amico cercando di convincerla. D’improvviso però lei si legò a lui, lo abbracciò e lo baciò ed il ragazzo, sorpreso dall’evento, non oppose la minima resistenza, anzi fecero insieme l’amore, la relazione con Rossella continuò e Gino tenne sempre meno in considerazione l’amico. Ciò non insospettì affatto il povero Sandro che lo giustificava, non poteva mica essere sempre dietro a lui! Però più il tempo passava più l’amico si allontanava; fu un giorno di primavera, Maggio mi sembra, che li vide insieme. Il giorno dopo fu trovato suicida nella sua stanza.”

“Davvero?”

“Certo, però Rossella e Sandro vissero lietamente la storia per un bel po’, almeno a quanto so io, poi li ho persi di vista”.

“È una storia bizzarra, quasi surreale! Senz’altro però ci insegna che amore e morte possono essere un binomio saldo, ma alla fine ogni cosa va come deve andare.”

“Già”

Pagato il conto i due si alzano ed escono, Gianni accompagna Sara a casa e va via. La luna all’orizzonte si eclissa piano dietro una nuvola.

 

Frammenti di luna

1)            Se l’uomo critica la Natura per i suoi sbagli, lei cosa dovrebbe dire degli errori umani?

2)            Fermati sole: il sole si fermò, fermati terra: la terra si fermò, fermati vita: la vita si fermò, fermati amore: silenzio.

3)            Ho cercato il maestoso, ciò che c’è di magnifico, di più grande, l’ho trovato nell’infimo. Nel più piccolo errore. Il maestoso nell’infimo, sublime abisso.

4)            Il lieto inizio è la fine.

5)            Il due non è un numero ma un mostro terribile che divora la solitudine.

6)            Non sono triste, angosciato sì.

7)            Continuare subordinato ad un’essenza?

8)            Vita, morte, pace, guerra: questi i sintomi dell’amore.

9)            La tradizione è etilica, più la bevi più ne resti estasiato.

10)         La più alta forma di conoscenza è fingere di non conoscere.

11)         In questi giorni rimando sofferenze.

12)         Ecco, è il momento, devo varcare la soglia del tempo. ma è tardi, ho sonno.

13)         Ho fallito nella vita, con te ed ho fallito col sole. ora i suoi raggi mi distruggono.

14)         Non hai alcun senso se non divieni conscia di essere diversa.

15)         Ti salverò l’anima, ti sfamerò di sapere, ti ubriacherò di virtù, colma sarai d’amore. Ma solo se lo vuoi.

16)         Alcuni percepiscono la fortuna, altri la sentono. Il caso vuole, però, che resti il segreto della scelta plasmante.

17)         La festa del patrono è un prisma di speranze, vivaci. Oggi le ho sentite.

18)         A fatica ultimata c’è lo stress del riposo.

19)         Le parole agrodolci strappano più lacrime di quelle tragiche.

20)         Non so chi santo t’ha protetto, tu sia benedetto.

21)         La visione di una ragazza francese mi ha ridato la voglia di vivere.

22)         Il tempo passa ma i ricordi che restano sono i nostri autorevoli maestri. Attendiamo il passato.

23)         Le cose importanti al pari di quelle vere emergono dalla casualità della vita, inutilità causale. Tutto ha un senso, anche questo.

24)         La bilancia a due piatti è temperanza ed onestà. La legge è freddo calcolo e raziocino, la giustizia è l’umiltà, è povera la giustizia di beni, colma di verità.

25)         Sbarcato tra i rifiuti un extraterrestre scapperebbe.

26)         Chinati al mio cospetto, servimi ed amami. Solo così mi sarai superiore.

27)         La tua forza distrugge ogni sopruso, converte i duri di cervice, salva i malvagi perdonando le cadute.

28)         Il freddo ci investe e uccide.

29)         Il prima attende, il durante vola ed il dopo è troppo tardi.

30)         Saltuariamente mi sento potente, con la musica nel cuore. Comporre, produrre suoni risveglia i sentimenti sepolti nell’inconscio e risveglia la tua natura divina.

 

Una partenza inaspettata

Aprendo la cassetta della posta Gianni trova, assieme ai soliti volantini pubblicitari, una lettera indirizzata a lui. Stacca la colla adesiva con l’ausilio di una taglierino e si accomoda sulla scrivania. La busta contiene un foglio su cui è scritto brevemente che si invita il destinatario a prender parte, come comparsa, in un film che si sta attualmente girando. Non è specificato niente né il titolo del film né altro, semplicemente la data, l’ora ed il luogo dove dovrà presentarsi.

Che buffo! Ricorda di essersi iscritto all’albo delle comparse al suo ritorno dalla Jugoslavia e che, fino ad ora, non era mai stato chiamato. Tentenna un po’ in principio, non sa se accettare oppure no ma alla fine acconsente, d’altronde un po’ di soldi guadagnati fuori mano non gli possono fare che bene.

Si presenta al piccolo campo di calcio del paese in perfetto orario ed ha modo di parlare col regista il quale gli comunica che in quella scena un gruppo di attori stanno in campo giocando a pallone e uno di loro è sul punto di tirare un rigore, lui non deve far altro che avvicinarsi alla rete che separa il campo dagli spalti e toccare la medesima. L’azione è ripetuta due volte poi è data per buona, Gianni si accorge che Sara è lì vicino, saluta il regista ringraziandolo e le va incontro:

“Sara!”

“Ciao Gianni, tutto bene? Che ci fai qui?”

“Ho fatto una piccola parte come comparsa, niente di che, tu invece?”

“No, ho saputo che stavano girando qui una scena di un film e sono venuto a vedere, oggi ho fatto le prime tre ore a scuola.”

“Ho capito.”

“Ma che fai pure l’attore mo’”

“No, anni fa mi sono iscritto all’albo delle comparse, al collocamento, può farlo chiunque. Ogni tanto, quando serve, ti chiamano per fare da comparsa in qualche film. 200 mila lire”

“Va bene, senti io ora devo andare altrimenti perdo il treno, ci vediamo?”

“Ok, ciao, ma non vuoi neanche un caffè? Devi proprio scappare?”

“Eh già! Sarà per la prossima volta.”

Gianni si dirige comunque al bar da solo ed ordina un caffè, mentre aspetta che gli venga servito nota sull’uscio Lisa con un ragazzo. Stanno litigando e lui ad un certo punto alza la mano e le tira uno schiaffo, il professore a questo punto si avvicina euforico ed adirato al ragazzo e gli sferra un pugno sul volto. Giacomo, così si chiama il violento, cade in terra e perde sangue. È rimasto di stucco, non si aspettava il cazzotto e senza parole si alza e se ne va .

“Tutto a posto Lisa.”

“Ma di che si impiccia, lei è professore e faccia il professore.”

“Non posso ammettere che per strada avvengano cose del genere, le prossima volta che accade potrei chiamare la polizia.”

Lisa lo guarda negli occhi, lo scosta con forza e dicendo vaffanculo va via.

Il professore pensa che forse ha sbagliato a comportarsi in quella maniera, forse è stato un tantino esagerato ma, in fondo, non se ne pente più di tanto, ha agito d’istinto, sentiva di doverlo fare.

Il giorno dopo, a scuola, vede in sala professori la professoressa Sara un po’ triste seduta sola su di una sedia. La stanza è vuota e Gianni, salutandola, le chiede se sta giù e come mai.

“Tu non lo sai ancora?”

“Che cosa?”

“Il mese scorso chiesi il trasferimento…”

“Trasferimento?”

“Si, oggi ho avuto la conferma, lo hanno accettato.”

“E perché?”

“Cosa?”

“Come mai hai deciso di lasciarci?”

“Beh, mio marito deve trasferirsi a Pavia per lavoro e quindi noi abbiamo deciso di andare a vivere lì!”

“Pavia? È lì che vai?”

“Già, o meglio io insegnerò in un paesino alla provincia. Eh! Mi spiace sai, stava nascendo una bella amicizia tra noi.”

“Amicizia, amicizia ma quale amicizia, fanculo l’amicizia!”

“Come scusa?”

“No niente dicevo che mi fa piacere però…però cazzo mi dispiace!”

“Ti fa piacere però ti dispiace?”

“Si.”

“Ma che significa? Va bè, non ha importanza, devo andare ora, vado di fretta.”

“Come vai di fretta, mo’ non ci vediamo più e tu vai pure di fretta!”

“Esagerato!”

“Un corno esagerato! Mi dispiace!”

“Me ne sono accorto, t’ho detto che dispiace anche a me, che ci vuoi fare, la vita è così!”

“Già, hai ragione! Ma quando hai intenzione di partire?”

“Dopodomani mattina parto da Napoli.”

“Quindi ci salutiamo adesso?”

“Si, ciao. Si è fatto proprio tardi, devo andare. Un bacio!”

“Smack!”

 

Libertà schiavitù d’amore

Ciao, non ti avevo vista ma ti pensavo, solo per dispetto. È passato tanto tempo, ora è inutile aspettare. Avrei voluto vedere nei tuoi occhi le lacrime mie ma tu eri impassibile e quindi irraggiungibile, irresistibile. Sbocciò l’amore per pura intuizione candida, tu irremovibile, inaccessibile. Tanto l’ardore in te, l’infinito dell’anima tua. E soffiando in su, ciocchette volanti, dicevi che avresti voluto inchiodarmi su di un palo per poi venire ogni giorno a togliermi un chiodo.

Luna tu non tramonterai ed io continuerò a soffiare.

Tu con le lacrime agli occhi ti volti e mi baci. Ti stringo le mani e sfiorandoti le labbra mi accorgo che ho sognato. È stato come volare su campi, colline, ascoltando le cicale e seguendo un fascio di luce, quello che emani fulgida e candida. Mi poggiai su un davanzale e scorsi dalla finestra te, ragazza dalla veste verde ed i ricami a fiorellino.

Ti guardo di nascosto, è folle, lo so. Tu mi scopri e ti avvicini pensando al nostro futuro, fingi indifferenza. Guardi altrove. Scusami amore ma non ho più la testa. Sai di qualche albergo che mi faccia un prezzo buono? Casa tua? Nooo. Non posso accettare. Ma se insisti, ok. Tanto il divano è sempre lì e sul tuo comodino la mia foto so che c’è ancora.

 

Spumeggia il mare sugli scogli

e il cuore brucia piano

pensando a te

ormai è una malattia.

 

All’orizzonte

sulle labbra dei pescatori

risuona ancora il tuo nome

per questo incanto perso.

 

O Maria

che guardi o tutto o niente

con gli occhi verdi

non pensi che all’amore

 

Partorita dalle onde

al suono della luna

e al canto dell’amore

sussurro del mare.

 

Figlia greca e spagnola

ma di incanto italiano,

figlia mediterranea

con la pelle salata.

 

Il dolce sapore delle labbra

e le trecce nei capelli

sostenute da un fermaglio

a forma di conchiglia.

 

Mia cara è una poesia

che ti inumidisce gli occhi

schiusisi velini

lì in mezzo al mare.

 

Poi quando tu mi hai vista

sorridendo da lontano

mi hai accompagnato in strada

tenendomi per mano.

 

O bellezza ballerina che volteggi fiammeggiante nell’aria sbarazzina, ardenti gli sguardi, prepotenti gli sbuffi. Cara dove sei? Questa storia è solo un’altra finzione armonica incessante, priva di senso, inconsistente. Mi accorgo che oramai è incandescenza, bolla d’aria in mezzo al mare, parola ineguale. Una storia finisce senza un addio. Scorri nelle vene da lontano gelide e riscaldate un po’ dal tuo respiro.

 

Andremo lontano

fuggiremo vicini

varcheremo i monti

attraverseremo i mari

ma sempre e comunque

sarò con te.

 

Hai ottenuto la libertà e ti accorgi di esserne schiava, preda del vizio. Quando capirai che la vera libertà è schiavitù d’amore?

Ho girato il mondo intero per trovarti. Solo oggi ho capito che eri tu a cercarmi.

È come cadere in un dirupo senza fondo, trasportato dal vento ed in balia talora del rancore, uno schianto sordo ti infrangerà il cuore. Questo è bruciare d’amore.

Preferisco voler bene chi non mi conosce o conosce poco. Se vuoi essermi amica non chiedermi niente. Scoprimi.

Luna che risplendi e mi accompagni lungo il sentiero della vita. a te solo.

Amore, caro amore, muoio. Sono qui nel deserto infernale, mi stendo e mi lascio andare giù dalle onde del mare.

Dandole i soldi lei mi ha benedetto. Le darei di più per vederla sorridere. Saluto!

Il tuo addio è stato un bacio profondissimo. Ho visto schiudersi piano i tuoi occhi chiari allo scoccar della passione. Non ci rivedremo più in questa vita ma non ti scorderà il mio cuore.

Ho capito chi sei e se vuoi puoi amarmi tanto quanto hai sempre sognato. Cara amica si può continuare sognando il mondo, noi protagonisti? Rubarci l’anima a vicenda e ridere del furto. Silenziosi ladri d’amore in punta di piedi. Fuggente l’attimo, volubile l’istante, repentino e terribile, incrocio lo sguardo tuo e spero sia l’infinito. Mistero, pensiero e segreto dell’identità. L’attrazione magico-sintomatica ed il caos totale in te non ti impedì mica di guardarmi e iniziare a parlare. Candido fiume colmo di gioia e di te, sentiero, accesso, tuono immobile, stabile. Sangue nei tuoi capelli e volto immobile, candido gesto e solitudine.

Cosa sono quegli sguardi lanciati avanti e sconfitti da una guerra che non fu? Cosa sono quei silenzi nati tra di noi? Non abbiamo reso il mondo importante solo per portarlo via! Cosa sono quei tormenti e quella testa abbassata? Non cerchi vie di scampo? Non puoi, no, non puoi cadere ancora. L’astuzia non risolve granché, così tu ricadi da sola incurante di tutto, incurante di me. Vado via, vado via per davvero. So cos’è l’amore, le pazzie, i tormenti, so di te. Vado via per davvero, senza te, scrivi qualsiasi frase col sangue e scrivi anche di me.

Morire! Cosa si prova? Cosa si sente in quell’ultimo istante? Prima di morire vorrei stringere la mono di colei che ho sempre amato e, dopo un bacio, dirle in silenzio addio.

Professor De Sanctis, chiamato solo per cognome, per epiteto o per professione, anni circa trentadue, inchini, un bicchier di vino bianco ogni sera ed a pranzo la domenica. Dicerie in paese e il silenzio del professore. De Sanctis, in attesa del suo amore perduto, muto a guardar le stelle, solo a pensarla.

Se tu sbatti le mani provo tanto piacere perché ancora posso sentirti. Squillare. Hai pronunciato la tua sentenza con una sottile punta d’invadenza, senza parlarmi. Puoi pure sbottonarmi la camicia, far scendere le tue mani sul mio corpo, dirmi cosa provi quando il tuo capo splendido si avvicina al mio, con le labbra puoi assaporare intatti i brividi che ci percorrono la schiena. Troppo sentimento nei tuoi occhi chiari ed inumiditi dal fremito della passione. Posso distinguere molto bene le dolci parole che pronunci sottovoce mentre mi osservi profonda come a dire “è sincero il mio saluto”. Vuoi giocare ancora? E va bene, sono pronto, stasera va benissimo. Stuzzicando col dito le tue corde più interne godi del mio respiro e  senti l’affanno del sole, un occhiolino nel vento: spegni la luce! restiamo in penombra. Ti sfioro, sei confusa, acceleri e ti fermi, rallenti, riprendi, con frequenza innaturale. Cerchiamo i nostri errori senza pensarci troppo, moduliamo gli sguardi, controlliamo i pasi nostri ridendo degli sbagli. L’amore è un’illusione. L’ho sfiorato, l’abbiamo sfiorato soltanto. Dov’è? Dov’è? Dice di sì. La paura torna, dov’è? Dov’è? È un’illusione. Fantasma storico, aneddoto esplicito, fedeltà implicita ma è solo un’illusione. Me illuso e me deluso. Noi. Noi a correre, a seguitare questa illusione di vero amore. Chiudo gli occhi e vedo il tuo volto, gli sguardi ridenti. Ma è solo un’altra illusione. Anche i tuoi occhi azzurri e la pelle battuta dal vento. L’amore folle, l’amore che non ha età. Affacciata alla finestra assapori la frescura mattutina. Tanta voglia di questa illusione! Baciamoci sotto le stelle, sai sono tante quante le ragazze al mondo che sono e che sono state e che saranno nel ricordo ed in declinazione perfetta. Ognuna è una stella dal nome favoloso, ed ogni stella, si dice, ha l’anima per ogni innamorato che riversa alla luna rendendola pallida essenza. mi dovrei affidare a loro, guardarle negli occhi, non ha importanza la maglietta stretta e la lingua perversa. Ed i capelli, magici evocatori di nascosti sentimenti e vividi ricordi, romantici seduttori, arma tua che mi spiana a buon prezzo e mi strugge con calda vendetta. Profumati capelli! Saporiti compagni delle mie perversioni! E tu non ridi ma sorridi e ci parliamo in silenzio, ti offrirei la mia vita, stesa sul letto ti penso adesso e sono me stesso. Dolcissima ti portassero a scuola con cani e pantere ti porterei via senza paura. Dolcissima illusione! Io non parlo anche se so capirai.

E girano le lancette. Tempo, passeggi scalzo per il nostro mondo, riempi di soluzioni ed ostacoli il sentiero del nostro senso più profondo e più vero. Ricordo del viandante partito in una notte buia per l’Oriente, una scoperta che non contò niente, d’altronde tutte le scoperte si muovono nel senso opposto però lui trovò la verità. Tempo, rovinasti tutto anche quella volta, d’altronde anche la verità costa la vita. Girano le lancette, cadono fogli dal calendario, chissà quanto sarà passato di tempo da quella notte invernale. Poi cercai di trovare altre soluzioni ma la mia mente tornava a te e cercai di farne una ragione, non so. Foto, riposte nel cassetto oppur nel fuoco. Un’ora, l’eternità fatta a persona, da anni passata senza dar conto a nessuno e tu la verità l’avevi trovata, purtroppo.

Hermes sono! Prepara le valige, chiudi il sipario, dobbiamo andare via dallo scenario vivo in bottiglia a Murano e che solo scende in aria piano piano. Che vuoi da me? Gira di lato!, gira che è tardi e il tempo non dà aria di cambiare, negli occhi del conte io sono vago, io sono strano ma lo giuro che andando via giro di lato ma poi segno chi hai scocciato. Ti dissi è tardi, che ci fai in piedi, vai a letto che domani qui ti siedi, ma cara invece non ci andasti chiudesti gli occhi lì dinanzi a me. Tu vuoi avermi ma non mi avrai perché io sono figlio di dei. “Figlio dannato, dannato figlio, non hai rispetto per tuo padre!”. Padre adorato, il tuo divino Apollo volle scaraventarmi nell’oscuro Tartaro, nel buio mortale ma vedi, papà, la mia astuzia vinse anche là.

 

L’incubo

La notte è buia e Gianni sta percorrendo una stradicciola di campagna completamente avvinazzato. Sembra quasi che il sonno lo stia per raggiungere e cerca di tenere la mete sveglia occupandola con dei pensieri. Il tentativo è vano, non gli giunge alcun barlume e così accende lo stereo, la radio è sintonizzata su di un canale che trasmette un’intervista ad uno scrittore sulla notte e sul viaggio. Cambia immediatamente frequenza, l’intervistato e l’intervistatore hanno un timbro di voce totalmente pacato che gli ricorda la ninna nanna che ascoltava da bambino, gli accenti e i suoni sono gli stessi: “dormi tranquillo/ dormi diletto/ dorme la mamma/ dorme il suo figlio/ dorme il rumore/ dorme il calore”. Ricorda grossolanamente la sfilata di nonsense che veniva recitata puntualmente ogni sera prima che si addormentasse.

La musica delle altre reti non sortisce alcun effetto sul professore che si vede costretto ad accostare a destra, parcheggia l’autovettura nei campi, spegne il motore e chiude gli occhi. Immediatamente gli compare davanti una lunga scalinata e vede un vecchietto che la scende di corsa senza scarpe ai piedi, dietro di lui c’è una misteriosa figura che lo segue. Gianni, incurante dell’accadimento inizia a salire lentamente ed a un certo punto scompare e gli si presentano innanzi due fuochi. Più si avvicina più il calore aumenta, ciononostante riesce a passare in mezzo alle fiamme e continua a salire. È giunto finalmente alla fine della scalinata e si accorge di trovarsi in un meraviglioso prato senza erba, già senz’erba, e non riesce a capacitarsi sul perché lo chiama prato. In lontananza scorge la figura umana e la raggiunge; la medesima è seduta ad un tavolino simile a quello dei bar. È incuriosito da quel tizio alto e robusto, con i capelli lunghi grigi ed una folta barba bianca. Subito gli chiede:

“Chi sei?”

“Dov’è?”

“Chi?”

“Muta” e poi, alzando la voce “Dov’è?”. D’improvviso si ritrova in un cimitero, soffia un vento autunnale e tutto è buio, l’unica luce è quella dei lumini. Cammina lentamente, è spaventato e giunge all’altezza di una cripta. Scende nella medesima e trova delle ossa sparse qui e là sul pavimento, intravede però una donna di spalle con una lunga veste a fiorellini e la chioma. Questa si gira, “L’autore è qui, tutto sta avendo inizio…è qui”. Alza lo sguardo per guardarle il volto che si fa incandescente, il fuoco fluttua come torrente. Gianni lancia un urlo e si risveglia.

È tutto sudato, ha le pupille dilatate e le mani gli tremano: il sogno è stato così reale che ancora non riesce a riprendersi. D’istinto mette in moto l’alfetta e torna a casa. Si infila nel letto, si gira e si rigira e non riesce più a prendere sonno, passa il resto della notte camminando avanti ed indietro nella stanza. Non riesce a capire quale significato si nasconde dietro quel prodotto del sonno, chi è quella donna? Chi è quel tizio con la barba? Solo le prime luci dell’alba riescono a placare un po’ l’animo inquieto.

Preparatosi si dirige verso la scuola e, giunto in loco, si accorge che tutti i ragazzi ed i professori sono lì fuori. Incuriosito si rivolge al collega di Chimica per chiedere spiegazioni:

“Albè “

“Guè Gianni”

“Che è successo?”

“Non lo sai? Lisa Manzetti, la nostra allieva… beh è morta”

“Come è morta?”

“Si, è morta! È stato il ragazzo, accidentalmente dice lui, ha confessato poche ore fa alla polizia”

“Ma quando è successo?”

“Ieri pomeriggio, sembra che stessero litigando e lui spingendola l’ha fatta andare a finire con la testa su un sasso. Le hanno trovato il cranio spappolato.>

“O mio Dio!”

“Già, è stato un colpo per tutti, queste cose si spera non accaldino mai”

“…”

“… Comunque se vuoi unirti a noi tutti nel dolore alle dieci c’è il funerale e contiamo di andarci”

“Mi spiace, non me la sento di venire, sto poco bene… anzi comunica al Preside che credo non verrò a scuola prima dell’anno prossimo. È un periodo che mi sento proprio male!”

“Ma che hai”

“Non so, non lo so. Mi spiace devo andare.”

“Eh sì, noi insegnanti dovremmo controllare maggiormente, mia figlia Thirassia l’anno prossimo si iscrive al liceo, controllo, controllo; come educatore, pedagogo, padre e scienziato…controllo anche chimico, è questo il futuro. Controllo, sicurezza, controllo anche chimico…”

“…sì, certo, certo”

“Comunque, sicuro che non vuoi venire?”

“Si, ciao”

Lisa è morta, la povera Lisa Manzetti è morta! Come si può morire a diciassette anni? Giacomo, doveva fermarlo quando era possibile, lo sapeva che era un violento e che avrebbe finito prima o poi col farle veramente male. Non sa cosa pensare, che fare, dove andare: lei oramai non c’è più, capite? Cosa significa dire “lei non c’è più”, che cazzo significa? Il suo sguardo è divenuto per sempre privo di vita, il suo corpo sarà presto privo di forma! Ah i suoi occhi! Ah il suo corpo! Così dolci e carini gli uni, così bello l’altro, la pelle bianca, quasi vellutata, gli stupendi ricci di cinabro! Le sue gambe! Lei! Lei! Lei! Dov’è? Già “dov’è?”, come ha detto quel tizio nel sogno, quel cazzo di sogno, se non l’avesse fatto forse quest’evento non l’avrebbe scosso a tal punto, d’altronde tutti devono morire. E pensando questo sferra un pugno al segnale di “Stop” tanto forte che finisce col piegarlo. Poi inizia a prendersela col muro, insiste così tanto che si logora la mano ed inizia con la testa.

“Professor De Sanctis!”

Voltatosi vede l’ombra di un uomo allungata che tiene per mano una bambina, alza lo sguardo e scorge i due che sono oramai ad un metro scarso

“Commissario Serramonti”

“Professore buongiorno”

“C’è qualche problema?”

“Beh lei ha intenzione di continuare con quel muro?”

“No, guardi, è per via…”

“Lo so, lo So, Lisa Manzetti” si accende una sigaretta e continua, non prima di aver cacciato un tamagotchi dalla tasca porgendolo alla bambina “Tiè gioca un po’” Dall’altra tasca estrae una Ms e inizia a fumare

“Grazie” è la risposta della bambina

“E’ la sorellina di Lisa, frequenta la seconda media, eh duro colpo, non sa ancora nulla, la tengo io per qualche giorno, sono anche un mezzo parente…”

“Ah, non sapevo, povera piccola, senta ora dovrei andare, non è giornata”

“Ma lei, si lei, era una sua allieva vero?”

“Sì”

“E qualche giorno fa ha avuto una colluttazione con il ragazzo, ecco ho appuntato il nome, Giacomo Scorgianti, dimentico sempre tutto!”

“Sì, beh è stato un incidente, lui le aveva messo le mani a dosso ed io…”

“Sì, sì tranquillo, credo che avrei fatto lo stesso”

“Ma lei come lo sa?”

“Eh la tenevamo sott’occhio la povera Lisa, sa strane dicerie su frequentazioni con un giovane parroco, roba del genere, lei ne sa qualcosa…”

La classica aria di chi finge di sapere meno di quello che sa, come la scusa di essere smemorato, tecniche che ricordavano a Gianni i polizieschi americani. Eh mi fa piacere che la tenevate sott’occhio, l’avete lasciata ammazzare, mo’ ‘sta storia del parroco che è. Continua a pensare il prof, ma risponde di getto cercando di non mostrarsi arrabbiato per il fatto che una ragazza controllata dalle guardie possa comunque essere stata uccisa, provando a non pensare alla povera Lisa, a quei sentimenti che si aggrovigliano e che lui trattiene per non continuare a tirare pugni, questa volta allo sbirro, sua vecchia conoscenza e la cui vista, certo, già da subito non l’aveva per nulla rallegrato

“ No, di questo non ne so nulla”

“Mmh” va bene “ah un’altra cosa, mi scusi ancora” dava sempre più l’aria di Colombo, non fosse stato per l’aspetto tutt’altro che trasandato “lei che insegna filosofia ha mai sentito parlare di un certo, aspetti che leggo, ecco ecco Krono, o Kronos”

“Sì, certo, il padre di Zeus, la divinità che impersonifica il tempo, per i Romani è Saturno, ma perché scusi?”

“No, nulla, nulla di importante, il manto, aveva un manto. Forse il vello d’oro, gli argonauti,  qualcosa del genere, mi scusi non sono ferrato in mitologia”

“No, non so, ma credo di no, nulla del genere, almeno a quanto ricordi”

“ Va bene la saluto, grazie, e la smetta di tirare pugni al muro, se la faccia vedere quella mano”

“Arrivederci commissario, ciao piccolina” la bambina, che giocava a pochi passi, si avvicina

“Ciao signor professore, lo sa pure io voglio fare il linguistico dopo le medie, come Lisa, così può essere che la vedo di nuovo”

Povera bambina!

“Certo, come ti chiami piccolina”

“Muta”

 

Sub Ryma

 

Floberta

 

Insieme siamo stati un giorno scarso

ed ora, sai, tutto tace intorno a noi

ma poi sento il profumo dei polsi tuoi

e mi sovviene del nostro cuore arso

da un fuoco che so acceso

ancora nonostante tutto il resto

si è solo offeso,

sa che prima o poi potrà ribruciare

con un sorriso, gesto

tra vivido e romantico cantare.

 

Floberta, anima divina e sincera,

cerca di capirmi ora e in eterno

o passerò dannazioni di inferno

senza te, fonte di una vita vera

e non di un vile e finto

atto di lussuria esasperata,

frutto solo di istinto

trafitto dalla nostra vera Essenza

creata da te e scampata

ai ricordi ed alla tua presenza.

 

I capelli senza pietà struggenti,

i cirri carini ma solitari,

cercando senza motivi emissari,

fuggono via in balia degli altri venti!

Gli occhi tuoi sono accesi

per sempre da una fiamma che anche fioca

non vuole gli indifesi

raggi spegnere solo per ‘sì poco

ma ardendo ancora gioca

divertendosi in silenzio col foco.

 

Floberta, canta un po’ la nostra

canzone che ho scritto in tanta lena

e ascoltando il mormorio e il cuore in piena

dimmi di sì mettendo il riso in mostra

e la voce per grazia

divina in calda e tanto sana cura

senza essere mai sazia

di me e delle mie parole sincere

e non aver paura

di venire alla mia fonte per bere.

 

Freschezza, solo freschezza troverai;

al calore delle mie braccia pronte

si alternerà la fresca mia fonte

e così, stando sola con me, vedrai

che si spazia ‘sì tanto,

ti basta solo un po’ di coraggio

e riparerai il pianto

che mi ha fatto soffrire davvero

e che le rose a Maggio

esprimono senza giudizio nero.

 

Floberta, ti chiedo di illuminarmi

perché sei la sola che ha saputo

senza pretesti e senza un risaputo

affetto banale e scontato amarmi

per ciò che sono e non sai

come posso sentirmi ora che solo

non ho più ciò che mi dai

e cioè la forza e la sincerità,

voglio vedere in volo

il tuo sorriso con la tua verità.

 

Hai strappato con ingegno

 

Hai strappato con ingegno e calore

ciò che ti scrissi con penosa voglia

ma assieme ai fogli ha strappato il cuore

di chi ti amava oltre la eterna soglia.

 

Hai sommato poi al tremendo dolore

anche la più fitta e vogliosa doglia

allietata forse solo da Amore

che la trasforma in colorata foglia.

 

Cosa sarà ora di me misero

e dei pensieri che felice pensai

quando il sapore non era ‘sì nero?

 

Forse solitario e sconsolato assai

resterò ad attendere povero

l’ultimo affetto, illusione ormai.

 

Dolce e sincero è stato parlarti

 

Dolce e sincero è stato parlarti

ma delle cento parole che in mente

avevo nessuna ha saputo dirti

quanto per me sei importante, Floberta.

 

Sarà perché sei carina, amica,

perché emani dolcezza silente

e vaga tenerezza innocente

comunque io non vorrei mai più lasciarti

anche se ora non sono ormai nessuno.

 

Mi manca tantissimo quel sorriso

che sulle tue labbra non ho mai visto

e lontano dal tuo vasto dominio

ti sento, ti vorrei avere al mio fianco.

 

Luna

Per quanto tempo ti ho rimirato

stasera le sere scorse aspettando

un tuo cenno, un tuo chiaro e intenso gesto

forse solo per libera evasione!

 

Solo, come sempre, sotto il tuo velo

ascoltando in silenzio le parole,

un barlume di luce mi investiva

ed io continuavo a guardarti, vivo.

 

Già, vivo, stranamente ancora vivo,

dopo la disastrosa storia con lei

nella decisione di stare con te

sentivo pur sempre la sua presenza.

 

A Ryma

Penso sia perché il tuo nome porta

o forse perché ha di pura luna

chiaritude e splendore, Ryma, sorta

da una misteriosa duna,

non so perché abbia scelto di amare

proprio lei quivi in una sparsa laguna

che di periferia ha aspetto e odore.

E già, è così perché non voglio sia

solo una nuova storia di dolore

chiusa nello sfogo di una ingiusta via

che non sa portare sentimento

ma tosto ‘na dolce stradicciola pia.

Se allora Dio vorrà per altri cento

anni di questa oscura vita

splenderà il suo bel sorriso al vento

e io saprò stringere tra le mie dita

in un solo istante tutto il sapore

e il gusto, la bellezza sua riunita.

 

Forse la nube scura

 

Chissà dove finiranno le frasi

che non ti ho mai scritto,

le parole che non ti ho mai detto,

le lettere che non ti ho mai spedito

ed i baci che non ti ho mai dato!

 

Forse la nube scura

saprà distruggerli per sempre, forse

annienterà il ricordo tuo e di noi

non resterà che il pianto

e tu, Floberta, dolcissima amata

ed io illuso, indegno del tuo amore.

 

Poi ti dissi ogni cosa

 

Il sole risplende intorno

illuminandomi mi chiede

perché continuo ancora in

questa folle realtà

mossa da bugie e non da affetto.

 

Le nubi si aprono ed io

pensando ancora a te le parlo

nascondendo i pensieri

e cercando quegli occhi

che desideravo da sempre!

 

Poi ti dissi ogni cosa

e finii quasi per perdere

il suo amore e lei stessa

e per tornarci insieme

ho rinunciato per sempre a te.

 

Ora il mio sguardo tenta

di fuggire gli occhi tuoi

e ciò facendo spesso piange,

rassegnato ti mira,

rassegnato ritorna

e una guerra infinita

rinasce nel mio cuore.

 

Raggi di stella

 

Fammi sognare ancora

regina di ogni fiore,

alba mia luccicante,

nuvoletta invadente!

Calmati un po’ soltanto

e vivi la tua vita,

solo accetta di essere

condannata alla eterna

ardente rimembranza.

 

 

Contemplando la Luna io non so cosa c’è di sbagliato in quello sguardo che hai fatto quella sera per sbaglio. Se hai qualcosa da dirmi non nasconderlo, sai che saprò comunque capirti, sempre. Tu, senza una parola fissavi le tue scarpe, i tuoi capelli scendevano sul volto, incomprensibile il silenzio. Poi una lacrima, una sola, scese dai tuoi occhi, lacrima gelida! Io ripercorro la storia fatta di dolori ma comunque nostra mentre tu mi racconti di mille misteri, tremila colori. Non so che errore avrò fatto, è stato amore, ed io l’amore te lo sbatto in faccia. Tu piangi su di te, non hai nulla da dire, fingi di soffrire ma mi mandi all’aria la vita e ci sei riuscita, è questo il tuo intento? “Ma quale intento” ripeti piangendo “nulla ti promisi, io non so cos’è l’amore e te lo dissi”. Tu non sai il dolore che provavo ogni sera, piangevo in silenzio, pensavo a noi, 18 novembre, chiusi in una bolla di vetro mi odiavi, passava il tempo veloce, volo di gabbiano in picchiata, martedì venne, amai l’altra, amore che nasce e muore in istanti bendati. Disperato stetti ai piedi della cattedrale d’amore, ai suoi margini, elemosinando un po’ d’affetto. Come quando bambino avvinto dalla paura del buio trovavo rifugio, riparo, contemplando l’immagine della luna riflessa alla parete. E tu allora divenisti la mia luna, 9 di dicembre, un bacio, la domenica in un cinema, occhi innamorati. Soffrimmo i dì seguenti, andasti via e tornasti sinché l’inverno gelato ghiacciò ogni cosa. Ti scordasti di me! Un bacio ad un altro, di sfuggita, per sbaglio, dicesti. Tornai io, ‘sta volta. Un’ombra ignota ora oscura il sentimento, mi ami lo stesso, ma non è questo. Ti vedo strana, rispondevi alle mie domande con baci passionali. Quale futuro? Non so. Cosa provo? Non lo so scrivere, il senso finisce ove inizia l parola e la parola si arresta innanzi all’amore.

 

Dolci invocazioni

 

Onda del mare che t’infrangi

sullo scoglio d’amore

ascolta il suono di una voce

che chiede ancora di te

e spera in un amore eterno!

 

Ryma, luna riflessa all’acque,

tiepida notte estiva,

mattina in riva al mare

sei ancora ‘sì lontana da me

ma vicinissima al mio cuore.

 

Stella, che trasparente

fai sognare anche chi, indifferente,

fingendo di guardare il mondo

senza pensarci troppo

al fine torna a te,

dalle anche tu conferma

che il mondo nulla è senza lei.

 

Parola, che fosti la gloria

degli eccellenti poeti,

sussurrale nel cuore

dolci suoni d’amore

e non farla mai andar via.

 

Corri sincera nel suo cuore

 

Gocce che cadono piano dal cielo

grigio ormai per sventura;

l’amore mio che lontano mi tende

la mano ed i suoi sguardi

ormai persi in tempeste di cristallo.

 

Io capisco che forse

una sera non basta più al cuore

per sentirla vicino,

per sentire la sua voce, Amor.

 

Ed allo specchio mi trovo cambiato:

i sogni non sono quelli di prima,

il mio cuore è solo,

non sa rinunciare a lei.

 

Corri sincera nel suo cuore, poesia,

‘ché lei mi manca, lo sai:

persuadi il tempo se puoi,

convincilo tu per me,

voglio solo lei e nient’altro

da te!

 

Starti lontano

 

Guarda questi occhi senza lamento

quest’anima che mi porto dentro

insieme al rancore e alla paura

di perderti ancora ma per sempre

rubata in silenzio da qualcuno

mentre stringi poi forse nel cuore

un pensiero o forse una canzone.

 

Starti lontano fa tanto male

vorrei vedere il sole in cielo, amor,

e vedere cadere un aquilone

quando sei triste o quando mi pensi

anche se sono stato io a sbagliare!

 

Ma poi mi perdo ancor

tu mi domandi stanca

perché lo sto dicendo

io ti rispondo: perché sono sconfitto!

 

L’inesprimibile nulla

 

Non posso morire ancora,

sono già morto,

no vivo più, ho perso tutto,

non trova la mia anima, però,

il coraggio di allontanarsi dal corpo

e resta qui con me.

 

Venerdì, 4 maggio. Io nella mia vita ho sempre sbagliato, lo so con certezza perché continuo a soffrire. In me domina tristezza e amore, nei ricordi cerco scampo al dolore ma il filtro del tempo rende il passato stupendo e l’oggi ‘no schifo. Sin da bambino cercavo di trovare fuori me stesso, quel me stesso che eri tu, protettrice del sonno, ti volevo, ti cercavo e ti volevo ancora. Solo ero e solo resto, solo al mondo! Oggi guardo il cielo e la terra, mi guardo accanto: non mi fa paura più niente, ho deciso, la faccio finita! Morirò, sento già i tentacoli dentro me e la morte mi attira a sé. Non sopporto l’imperialismo americano e scrivo “Lunam et Sideras laudamus, Solem adoremus: in morte vita”. odio la borghesia, la corruzione, il danaro, spengo la tv ed ascolto il silenzio del mondo.  Penso che ti amo, ti voglio e trovo la verità nella menzogna, il maestoso nell’infimo e te in me.

 

Canzone di Floberta

 

Ridi dolce amica

in tal maniera audace

da ricordarmi chiare e insonni notti.

Se tu poi non vuoi sia

riso in segno di pace

ma sintomo degli equilibri rotti

da quei soldati indotti

a guerre pel dominio

aspro di terre aride

che Dio dall’alto vide,

proponi all’ingenuo e stolto animo mio

vita rigenerata

dal sorriso della bellezza tua creata.

 

Floberta, cara, ascolta

la voce di un amante

che vive alla ricerca di Bellezza

e che ad ogni rosa incolta

pone mano tremante

nella speranza di trovare l’ebbrezza

senza alcuna certezza,

armato di speranza,

di fede e di pazienza

non sa trovar l’Essenza

forse solo per poca temperanza,

per fervido rancore

intuisce il lento passo del furore.

 

Di tempo ne è passato,

le notti fuggite via,

ma vivo è il ricordo di tutto:

nel cuore sta accampato

il tuo mormorio, che sia

sincero oppure del torto il frutto,

sappi, io via non lo butto

ma un incontro studiato,

insito su quel lembo

della vita che vien chiamato stato,

già lo tengo presente

come dolcissimo essere vivente.

 

Ma poi sorge un quesito,

dal cuore il disincanto

nasce vivido e chiaro, dolce suono

del tuo labbro squisito

e di quel soave canto

che tanto t’è caro quanto l’è buono,

del tempestoso tuono

nemico da una vita:

mi domando se forse

il sentimento incorse

in quest’anima insita

in me per dolce sosta,

dall’imperatore dei cieli posta.

 

Canzone s’è così vola nel cor

di chi ha li occhi che brillano sul viso

la cui alma ricerca invano quest’amor.

 

 

Vorrei essere una vampa di fuoco, in quel caso saprei dove andare, già, in fondo sarei pronto a bruciare quei bastardi di cui sai. Da tutti volerei con piacere, pietà non potrebbero cercare, li truciderei nel profondo del cuore per scorgere cosa c’è.  Ascolta, una lacrima l’ho regalata al vento così come il tuo sorriso che molceva, mi bruciava il cuore. Ah le tue tiepide labbra da baciare e lontano dal mio cuore il sole, perderti ancora sarebbe inutile anche se non so cercarti. Soffrire fa male e tu lo baciavi, lo guardavi con quei tuoi occhi miei nei suoi.  Il mio perdono lo hai ottenuto ma quei bastardi figli di puttana non troveranno pace!

PVDS: non sai che darei per trovare ancora parole, parole capaci di colmare il silenzio che è dentro me. Tanto amore ti ho dato, tanto ne ho ricevuto, lo sai, ma sai anche che vorrei continuare senza più paura. Piove ancora fuori la finestra e cadono giù lacrime maledette, sventure terribili, mi nascondo nel cuore ma ho paura, non va via lo spauracchio indefinito. Troppo spesso trovo in me quei silenzi che non so se colmare, capire, nascondere o abbandonare a sé stessi. Vorrei non perdere i tuoi abbracci, i tuoi baci, la pura svanisce, io dimentico tutto ma la macchia rimane, quel sorriso innocente dal mio cuore scompare, capisco che t’amo, mi manchi, ti voglio, senza i tuoi baci non so stare. Di nuovo qui, ritorno, seduto sul nostro muro –muretto- . il caldo estivo tormenta l’anima e il sapore di questo pomeriggio mi ricorda te, che ti imponi nell’alma mia. Sono assorto e penso a tante cose, da quanto tempo non ci vediamo? Accendo la siga. Chiudo gli occhi, i tuoi lontani. Lo ripete la mia mente. Da quanto tempo! il telefonino è spento da tanto, non mi saluti, ho paura! Non ti so scordare! Torna qui, torna, torna! Quando andavamo a scuola ci baciavamo in fretta, appoggiati qui, nascosti, intrepidi, assoluti, contro il mondo. Noi! Scendono calde lacrime che bagnano la foto, piccola mia che appoggiata a me ascoltavi il mio cuore! Inutili cadono i ricordi, continuo a scriverti, tanti i rimpianti. C’è un altro, c’è un altro. il nostro amore abbandonato lì, quel 9 di maggio! Chiudendo gli occhi andasti via. Riapro i miei.

Mi ritrovo con paura, oggi, innanzi alla verità. Un giorno o l’altro ci lasceremo di nuovo, ‘sta volta per sempre. No, no, no. Non è timore ma un segno indelebile nel cuore, il mio. Ti offro questo gesto d’amore, non so se saprò continuare, splendida mia pallida candidissima! T’ho fatto soffrire, spesso in modo stupido, vado via senza più parlare, senza parole, tante te ne donai! Piangerò, il mio fiato sarà  sperso nel vento, starò a guardare di spalle il lento sussurro del mare. La mia parola che non dissi, la più dolce, è già nel tuo cuore. Ascoltalo, fai quello che vuoi, ma ascoltalo, non soffrire.

Ecco! Non dovrò mai più dire “sine tei”. Possiamo fuggire, che ne dici! Possiamo allontanarci l’un l’altro, l’Universo intero ed il Mondo ci riporteranno vicini!

Annego in questo mare di ricordi al dorso di questo indomato e docile destriero nomato Silenzio, potrei restare alla temperatura opaca dei flutti aspettando che i adegui al corpo. Seppellito sono da pensieri nascosti, dalle incostanti assuefazioni del sesso violento, masturbato, immaginario, reale ma innocente comunque come sempre. E ti ricordi noi chiusi in una bolla di vetro a fare due tre tiri poi assieme a te fuggire tra l’erba alta e l’odore incantevole del lungomare notturno dicendoci t’amo e non ti lascerò mai! Da quel tuo primo bacio mi innamorai, sigillo d’eterno.

 

Pallida, mia pallida Essenza

 

Pallida, mia pallida Essenza,

risplendi e così illumini

le mie notti ansimanti

con argenteo candore.

 

Mistero, sommo mistero

che con lo sguardo mi uccide

e mi dà vita

per poi togliermela di nuovo

con indifferente piacere.

 

Sommerso dalle assurde follie

della vita

e dai mille pensieri

relativi

ti ho scritto parole

stracolme d’amore.

 

E lo disse Ungaretti,

Montale, sicuramente Nietzsche,

tutti parlavano di te già da tempo,

 

tu, la mia dolcissima anarchica ribelle.

 

Il tuo nome rubato chissà dove,

la tua candida presenza,

che ora è assenza essente,

mi distanziò per sempre

dal mio amore.

 

Tu dolcissimo animaletto arzigogolante

che ridi del mio continuo arzigogolare

e mi spiazzi con sorrisi senza pietà.

 

Tu che insaziabile ti nutri

delle mie trapassate spoglie spirituali

che di anima hanno il nome

e di sostanza il sommo grado.

 

Senza parlare spesso ascolti,

senza che io parli spesso mi capisci

al volo

e me lo dicono quegli occhi

vividi e senza riverenza alcuna.

 

Misteriosa mia cara,

che sfogli un libro andando al di là

delle parole,

carpisci il setacciato già tratteggiato

nell’aere come dal nulla

e sembra evidente da tanto

il significato delle cose più profondo.

 

Enigmatica e piccola creatura

per una volta ascolta per davvero

quel che già sai,

quel che leggi nei miei occhi

e dimenticando ogni intuito razionale

lasciati andare in balia del tuo umore.

 

(D’altronde il tuo nome posso non dirlo,

lo sai).

 

Il mantice odoroso che lentamente sale dalla tua essenza rende le notti chiare ed i silenzi dolci. Nascosti sotto un ponte o vicino ad un ammasso di rifiuti a percepire l’Anima Mundi. Le vibrazioni estetiche ed il fluttuare candido rendono la mia vita intensa. A mille va la testa quando sbricioli tra le mie mani, batuffolini, e sbatte ancora, sbatte, percepisco il suo rumore –booom!!!- a mille anche il cuore! Ryma mi guardi attonita ed io ti pongo soffice e ti giro, mi baci di nuovo. Il tuo sapore non abbandonerò mai, dolcissima!

Anarkia! La notte giungeva lentamente ad occhi spenti con in mano i suoi calzari intorpiditi mentre puri i capelli lunghi e mossi battevano con forza quell’Autunno ormai in catene ed in preda alla follia dei suoi ricordi. Soffrivo ma forse non capivo, chiudevo gli occhi stringendo dentro me la forza ormai resa impotente e i sogni distrutti nella mente da una rinata disperazione e dalla prepotenza di una guerra che ora non so più fronteggiare. Silenzioso il cammino, muto! che io attraversavo in pochi giorni mentre i Mesi con carrozze rumorose facevano lentamente la spola, consegnati dai messi i giornali quotidiani e rinsaviti dalle catene ardenti delle nostre congetture al traguardo aumentavano le mie paure. Forse ero rimasto solo, utopia, utopia la mia speranza e i sogni ancora abbattuti dalla violenza di un mondo che ha paura di se stesso: morale, che rende la virtù vizio, teologia, che aliena l’uomo dal suo vero amore, pregiudizio, che uccide i miei fratelli, stato, che spara i miei compagni perché no ha rispetto di chi dal mondo aspetta il pieno riflettersi di sé reso persona umana. Non mi arrendo anche se stanco, non arrendetevi, saremo un giorno umanamente uomini.

IVS: Lontano dal vento e dal cuore le parole asciutte che sincere ascoltano i lamenti miei. E loro ti chiedono strizzando l’occhio se stasera sei libera. Ai loro baci piangi con un sorriso. Lento il silenzio ed i giorni che imbruniscono il ricordo, lento il sospiro, l’ombra rosea sul tuo viso ed il chiarore pallido. Scura la notte, sei sola e sola rimani. Assapori il tuo labbro splendido, guardi lo smalto e vedi i tuoi sogni. Infiniti smalti vitali. PUF!!!

 

La missiva

I genitori di Gianni muoiono uno dopo l’altro, a distanza di solo un mese circa. In una sera di ottobre riceve la chiamata dall’ospedale, il padre ha avuto un ictus fulminante, non c’è possibilità di scampo. La madre invece ufficialmente muore di infarto ma il figlio e tutti i conoscenti sono convinti sia stato per crepacuore dovuto ad uno stato depressivo già in atto che, con la morte del marito, è andato acuendosi.

I rapporti con i suoi non sono mai stati buoni o forse non sono mai stati e basta! Sin da quando era piccolo li ha sempre visti e considerati come due estranei, forse perché gli hanno dedicato molto poco spazio in quanto lavoravano entrambi e quindi avevano modo di stare assieme solo un po’ la sera. La loro morte passa quasi inosservata sotto i suoi occhi anche perché, dall’età di diciassette anni, quando andò in comunità, non ha voluto più saperne nulla di loro ed invano si sono fatti plurimi tentativi per cercare di ravvicinarsi.

Gianni è ora andato alla sua vecchia casa dove abitavano i genitori, non sa se farlo o no ma alla fine si decide, se non altro per vedere in che condizioni si trova se è cambiata etc…, insomma è apparentemente solo la curiosità che lo smuove. Tutto è identico a com’era, anche la sua stanzetta, non è cambiato niente! La disposizione dei mobili, i tappeti, perfino la stessa televisione, gli stessi quadri appesi negli stessi posti. Al di fuori della sua stanza chiusa e ibernata, però, non c’è più alcuna cosa in cucina o in salotto o nelle altre camere che ricordi il figlio. È come se in questi sedici, diciassette, forse diciotto, anni avessero cercato di fingerlo morto, di rimuoverlo e man mano cancellarlo dalla loro esistenza. Si siede su una poltrona del soggiorno ed inizia a fumare una sigaretta, mentre fuma allunga la mano su uno scafale per cercare un libro ma nel compiere questa operazione gli cade tra i piedi una busta. D’istinto la prende e legge il destinatario: lui, poi il mittente: Alessia che scriveva da Parigi. Apre la busta velocemente e nota subito che risale a circa otto anni prima. Inizia a leggerla:

Caro Gianni,

è passato tantissimo tempo dall’ultima volta che ti ho visto e non riesco a dimenticarti, ricordo il tuo bacio di addio: anche se ti tremavano le mani mi comunicasti una tale passione ed un tale sentimento come nessuno aveva o ha mai fatto fino ad ora. Porca miseria, solo ora riesco a scriverti qualcosa, ho sempre voluto farlo ma non ho mai trovato le parole giuste ed anche queste non so se saranno degne di giungere sino al tuo cuore.

Chissà se ancora ti ricordi di me, cosa avrai fatto in tutto questo tempo, se avrai o meno trovato l’amore della tua vita io sono convinta di si: sei tu. Si dovrebbe vivere lontano per capire davvero quanto si vuole bene una persona, il nostro amore è stato solo seminato e non ha avuto modo di crescere per i motivi che conosci.

Beh io come forse sai sono stata costretta dai miei a partire con loro per il Belgio. Avevamo una casetta su un lago ed io mi affacciavo dalla finestra e restavo ore a contemplarlo pensando a te. Fu in uno di quei giorni che sentii di avere qualcosa di nuovo dentro me e le analisi mi diedero ragione. Aspettavo un bambino. In un primo momento non sapevo come comportarmi, mio padre e mia madre rimasero molto male dell’accadimento e mi costrinsero a sposare. All’inizio stavo molto male e Marco mi stette vicino, era di Milano ma abitavo in una casetta vicino a noi. Andai ad abitare da lui, aveva tre anni in più a me e finì col volergli bene. Col tempo però iniziò a cambiare, era sempre nervoso, si irritava subito e spesso cominciò a mettermi le mani addosso. Grazie al mio amico Pierre riuscì a lasciarlo ed andai con la mia bambina da lui.

Per un primo periodo rimasi lì, poi iniziai a lavorare in una casa editrice come traduttrice italiana e comprai un appartamento. Per lavoro mi sono poi trasferita a Parigi dove vivo tutt’ora insieme dalla mia dolce Selenia. Già è così che si chiama tua figlia, come la Selene, la luna, l’unica compagna che mi è stata davvero vicino e che mi permetteva di pensarti e di tenerti a portata di mano.

Ti mando una sua foto, è stupenda e ti somiglia tantissimo nei lineamenti e nel carattere, però ha gli occhi ed i capelli miei.

Mi spiace che sia stato all’oscuro di tutto ciò per tanto tempo ma ti chiedo, se vuoi, di venire a trovarci, anche se nutri rancore nei miei confronti ritengo giusto che tu debba conoscere tua figlia e che lei debba conoscere chi è il suo vero padre. Ti aspetto.

Tua per sempre

Alessia

Parigi

3/09/91

Gianni non ci può credere, si tratta di Alessia, la ragazza che non ha potuto dimenticare gli aveva scritto ma i genitori, pur leggendo la lettera, non gli avevano comunicato niente.

Non ha dubbi, deve assolutamente vederla, sua figlia nella foto ha otto anni, ora ne dovrebbe avere all’incirca sedici. Chissà come è diventata! Sono passati altri otto anni! Già, altri otto anni, e se Alessia si è risposata, se non ha più intenzione di vederlo né di saperne niente di lui? Fa niente, comunque la figlia è sua e nessuno può togliergli il diritto di vederla almeno una volta! Partirà per Parigi.

 

Appena appena dopo

 

Aurora, dal cielo più limpido l’amore, muto rimane il sospiro, scompare, risorgendo dai fulgidi spasmi.

Mi hai scritto una poesia

Mi hai scritto una poesia

breve, in un lampo,

l’hai però poi subito cancellata

perché avevi paura

di sprecare l’inchiostro.

Ne valeva la pena?

 

E’ rimasto sul foglio

un groviglio nero

di sogni inestricabili

e più inchiostro di quanto speravi!

 

Io ti dico, però,

che ho capito tutto lo stesso,

d’altronde, dalle mille parole

che ci siamo scambiati,

tutto era chiaro sin dall’inizio,

noi: due specchi riflessi.

 

Poi improvviso ed inaspettato

dal nulla s’è diffuso il silenzio

e ci siamo guardati incantati

e il mondo era ai nostri piedi.

 

Tuttavia non abbiamo mosso un dito,

abbiamo proseguito per strade diverse

il nostro cammino

e tu mi hai scritto la poesia

che hai poi cancellato.

 

Divina padrona un mistero sublime avvolge quell’aura di tristezza che ti invade da quella notte. Sola e in silenzio varchi ogni dì le soglie del tempo. Spiazzi con lo sguardo e intanto sorridi nobilmente, con incanto e celestiale gaudio. Parli di te con vivacità e poesia, ti agiti, ti muovi e non cedi. Trapassi l’aria

e volteggi amabilmente tra le tue parole mutate in furiosi e vorticosi ingorghi. Tempeste di sabbia,

diamanti di cera, serpenti a sonagli ed animate, vuote storie di peccati. Non concedi alla sera

che qualche barlume, non chiudi le finestre neanche se gli sconfitti petali ti investono. Li tramuti in foglie secche che con superbia sgretoli tra le mani. Ridotti in polvere ti implorano pietà ma tu indifferente li spargi intorno a te, chiudi gli occhi, apri la bocca e divori il vento con voracità. Poi soffi e

dai potere al caos, confondi le menti e domini compiaciuta. Sovrana e padrona ti annoi con semplicità,

ti rendi complice del tedio ma lo pugnali alle spalle fingendo indifferenza ed estraneità. Infine ti stendi

sul tuo letto argentato, porti un dito al cielo, ti sfiori poi le labbra e godi la tua divinità.

Fuga

 

Prendiamoci per mano

e chiudendo gli occhi navighiamo

traversando correnti di mari lontani,

 

ed anche se più tardi del previsto

al fine giungeremo sulle rive

calde del nostro mondo.

 

Poi, senza remissioni,

ascolterò parlare per davvero

il tuo candido cuore

che, anche se in silenzio,

mi saprà dire cose

che tu non hai mai detto.

 

E sarai già brilla,

le tue parole fuoco e argento,

sole e vento

dalle corde vocali.

 

E sarai ancora più bella,

il tuo vestito dalle bordature viola,

 

non ti sentirai sola.

 

Dalla sera alla mattina

non avremo più paura

ed il nostro spirito più vero

darà corpo al pensiero

che, brulicando tra le rovine,

sarà più libero di quanto credi,

urleremo sino a tardi.

 

E poi verrà la notte

e tu sfinita cadrai sul guanciale

con una forza animale.

 

Ed io cogliendo l’attimo

carezzerò la pelle,

soffici saranno le stelle

che dai tuoi fuochi accesi

cadranno più cortesi

sul mio braccialetto.

 

Illumineremo il cielo

con un arcobaleno di diamanti

dagli zigomi striscianti

che toglieranno il vero,

il buono e il giusto

dalla nostra mente,

 

zigomi di serpente.

 

E, come dei bohemiens,

non ci cureremo del passato

o del futuro,

vivremo coscienti

solo di essere noi stessi.

 

Ma non sarà poi il giorno a svegliarci

col suo soffice e sottile filtro di luce,

sarà un repentino mutamento

della temperatura del nostro corpo.

 

Saremo ancora mano nella mano

e i baci, baci, baci

investiranno il corpo

come sopra come sotto.

 

Però la nostra forza tremante

cadrà sconfitta a terra.

 

Il circolo ondulatorio della testa

intorno ad un oggetto fisso,

che poi è lo stesso,

ci renderà più lenti

nei movimenti.

 

Il flusso di ricordi

sarà annebbiato da dimenticanze

a vivide alternanze.

 

Le nostre ali spezzate

saranno rinnegate

dagli altri

ma risorgeranno dal nulla.

 

E la fonte blu cobalto

stenderà sul tuo smalto

uno strano desiderio.

 

Fammi follemente innamorare

 

Fammi follemente innamorare

come cavallo indomato

contro il monte

asproso.

 

Fammi follemente innamorare,

in sogno come nel reale,

renditi leziosa,

candida.

 

Richiama pure un ricordo

beh!…se vuoi cancellalo,

soavemente ribaltalo,

ammaliami, allettami,

seducimi.

 

Rendimi il tuo servo

ma con lo sguardo innalzami

sino all’empireo.

 

Conducimi dove la selva brulica,

plasma un piedistallo di marmo

altissimo,

riponimi sopra

e per ora resta a contemplarmi.

 

Con un bacio dammi la voglia

di vivere,

rendi sensata la mia esistenza.

 

Condiscimi e servimi al tuo tavolo,

ammirami, esaltami,

chiudi gli occhi e canta:

fammi follemente innamorare!

 

Il lamento della virtù

 

Se scenderà

questo lamento tra le vie

con quel furore

che connota il mare

in tempesta,

 

se capirò

che tra le pagine

non hai lasciato il segno,

 

proteggerò il candore

della vita stringendolo

semplicemente, lievemente

tra le mie mani.

 

La virtù nella sabbia,

tra pensieri nascosti,

senza tanto sperare

in quanto suadente

riposa in dolori

più agguerriti delle lance.

 

E poi,

fuggendo l’anima

da quegli ostili spiriti,

mi chiede venia il cuore

ma stavolta senza stupirmi.

 

Intorno c’è tanto vigore

e quell’oscuro rifluire

di sangue nell’inchiostro

 

(protegge quella macchina

divina

il pathos della fortuna).

 

La virtù

senza rabbia

si è assopita di nuovo,

si è rinchiusa in stridenti

parole annebbiate

dai tormentosi

bombardamenti.

 

Me ne andrò via

senza lasciare sparsi i fogli,

 

con quel sapore che distingue

il chiaro valore delle cose

 

e piangerà lo specchio,

sentenziando un mio ritorno,

dei canti irsuti,

degli astri perduti.

 

La virtù

si domanda

se va bene così,

se ha lasciato lo spazio

al caldo invadente

ed al risollevato

refrigerio della mente.

 

Negli occhi del mare

 

Splash!

 

negli occhi profondi del mare

un cerchio di foglie e collane

eppure l’ardore è quello di sempre.

 

Splash!

 

negli occhi giocondi del mare

un cumulo di convinzioni,

eppure non ci conosciamo.

 

Splash!

 

negli occhi adirati del mare

una voglia sfinita d’amore

e foglie secche autunnali.

 

Splash!

 

negli occhi dolci del mare

Bellezza che insegue amore

in un turbino di Armonia,

caotica per declinazione.

 

 

Ti accompagnerei per il mondo su una nube, la mia vita, pallidi barlumi di speranza, annebbiata la tua presenza, Essenza! sogno il cinguettio dolce degli uccelli, ardito! Non avevamo ancora finito! Potessero le mie parole sfiorarti come la neve, io ho sete! Potrò un giorno mai respirare le tue candide labbra restando in silenzio, soli, abbracciati, a contemplare l’Anima del Mondo, tra i prati o lungo spiagge, nei boschi o adagiati su misteriosi fondali oceanici?

 

Ki sono io

 

Ki sono io!?!

che domanda! Io sono poeta.

 

Io sono poeta

quando parlo, quando leggo

e quando scrivo.

 

Sono poeta la notte e la mattina.

 

Sono poeta se le calze,

le sue calze,

troppe rosse o troppo verdi

mi scuotono il cuore.

 

Sono poeta quando mangio

sono poeta quando bevo e quando fumo,

sono poeta quando sogno

a cuore aperto.

 

Sono poeta se mi affaccio

da una stanza.

 

Sono poeta se mi chiudo

in una stanza.

 

Sono poeta per paura,

per orgoglio, per valore,

sono poeta per avventura

sono poeta per rincorrere

me sole.

 

Sono poeta per adorare te,

luna!

 

Sono poeta se i delfini

mi acciuffano.

 

Sono poeta se sbuffo,

se cammino,

sono poeta anche se mi inchino.

 

Mi arrampico sugli specchi?

Mi imprimo negli specchi!

 

Sono poeta, io,

coi pro e coi contro,

per tutti e contro tutti.

 

Sono poeta sempre solo

tra una folla,

sono poeta e godo ad esser

solo!

 

Chiudi gli occhi, chiudi gli occhi,

non leggere e non parlare,

sono poeta e da me di più

non ti puoi aspettare!

 

Cosa può darti il poeta?

 

Cosa può darti il poeta

che non sia amore,

un attimo di gioia

nell’oscurità.

 

Cosa può fare il poeta

se non offrire una sigaretta

a te che non fumi

per conservarla e guardarla

in quei momenti in cui sei tentata

di accenderla

ma non lo fai!

 

Cosa può dirti il poeta

se non:

Amore ti amo!

 

Scrivi di me, non impedire a una rosa di sbocciare, tremula la foglia nell’oblio. Scrivi di me, rendi candido il tuo dolce mielato e assaporalo in silenzio. Scrivi di me, tra il caos ed il rumore assordante fai germogliare una melodia lieve e piacente. Scrivi di me, come vuole il tuo nome, studia una scena, rendila immagine, scrivine e parlane, scrivi di me!

Mi hai straziato, scosso nel profondo. Rimasugli di perché, soffrire come unica arma per capire. Dolore intenso e fulgido, dolore profondo. La goccia cade, tremula nel bisogno di infinito.

 

Sublime gioia

candido gaudio

rampicante euforia

immenso piacere

battito a mille

acuto stupore

nuvola densa

ancora più intensa.

 

Felice e gaudente

innalzo la lode:

o follia, dolce compagna

resta con me

e senza ritegno

non nascondere

tutto ciò che

io sento

non ho mica paura

ancora son vivo!

 

Soffri da tempo oramai e le lacrime sgorgano, acqua alla fonte, salate, aspre, pungenti. Il gomitolo di lana con cui il tuo gatto giocava ora dov’è?

Se vuoi io sarò il lume che placherà, seppur con luce fioca, i tuoi momenti di sconforto, e risplenderà più vivo quando ne avrai bisogno!

Amazzone: E quando la donna posò il rimmel truccando le carte fu candida ma altera, con la testa alta e virtuosa, le armi in pugno, la rabbia nelle vene, dolce Venere e potente Mercurio, mai tal connubio fu più distruttivo per ricostruire la libertà.

Sulle nubi candide si nasconde il tuo castello. Resto immobile a contemplare la tua bellezza, pura! Che la luna ti protegga  con i suoi riflessi, che le stelle ti illuminino con luce fioca e sia penombra nel tuo forte incantato, così da rendere graziosa la notte e limpidi e dolci i sogni. Ho infinito bisogno di te, degli occhi tuoi accesi, delle dolci tue labbra, degli scossi tuoi capelli, della tua candida aggressività nei momenti di magia, di intrecciare le mie mani con le tue. Mia principessa difensrice, io tuo servo e padrone. Torna, torna da me. Di te ho bisogno infinito. Ricordo che apparisti fulminea nella mia mente e poi… infiniti silenzi. Scrivo ancora di te ed è tutto quello che posso. Condita sei di candide nubi, scompari. Poi riappari, scompari, riappari: che nervi ‘sto giochetto! Il braccio e l’inchino piegato sul muro lento riscende da corpi profondi e si dirama. Il cuore e nel cuore: lavorio d’insetti. Tu non lottavi ma difendevi il muschio più verde che soavemente coglievi dal pozzo, accesso per l’infinito. Chiare ed inconcludenti le discussioni che colpivano tradendo le tue mani agitate dal vento. Non ti arrendevi ma rischierata ti ridifendevi come vuole il tuo nome.

Uniti nel fuoco, divisi dal tempo, più di dieci anni di lontananza. Piccola e dolce, sua quella notte, lo sguardo altero, noi contro il mondo. Le lotte in silenzio o apertamente, soli a godere dell’aspra impresa. Candidi gli abbracci, bianchi i sospiri, tiranna la voglia di reagire. Persi noi sui bordi cupi del bosco druido, la paura di entrarvi e il desiderio di amarvi. Poi quella guerra, infida, viscida, connotò il nostro bisogno  d’eterno. Senza un appoggio sul pendio, il giuramento con le spade incrociate. Un bacio, poi un altro, vi disarmava. Ardua la lotta illeziosita. La luna riflessa all’acque, la sabbia nei capelli, lenti oramai i vostri lamenti.  Cara, non piangere, lui ti diceva e senza fiato restavi in silenzio, muta! Se ne andò via col tuo fermaglio stretto al cuore. La nave dal molo si allontanava, le lacrime in volto asciugate dal vento.

Dolcissima! È un ricordo che il cuore mi investe offuscato da tempo. Solo a scriverti in chiarissima contemplazione, amore immenso per te! Ti parlai, sì. Non sfiorasti mai le labbra mie con le tue candidissime, col gaudio immenso ed il retrogusto d’eterno. Ti parlai, sì, puerilmente, stupide affermazioni vacue, retorica pura, inconcludente ditirambo, tuttavia profondissime, non te ne accorgesti? Ti scrissi, sì, lettere d’amore con la mia grafia inestricabile. Tu, forse, le conservi ancora. Tanto tempo passato, muta il profondo del senso inverso. Ma i sentimenti son gli stessi come i tuoi occhi, son quelli, come i capelli, cirri purpurei da accarezzare teneri. Dove sei ora, nella limpida selva argentata? Insito nel vuoto il loco indicato dal tuo dito intrecciato all’assoluto. Nel vuoto. Con chi? Cosa è rimasto di noi? Qualcosa di minuto, impercettibile ma presente. Non leggerai, mai arriverai a questa riga. Sarai stupita, lo so, non saprai che pensare, inutilmente cercherai dentro te un appiglio: folle impresa! Questo messaggio ti giungerà vibrando nell’etereo, casualmente, senza preavviso, nell’istante, uno qualunque, del susseguirsi immaginario del tempo. e non dimenticherai, lo so!

Cerco il denaro di notte, sonnambulo, in casa, insonni le notte per guadagnarlo, accumulare, conservare. Se mi presti dieci l’anno venturo avrai diritto ad undici. E da questo sistema dirama, col tempo, che avrai diritto a nove e due di riserva. Grande depressione! Il futuro sarà guadagno, non ha senso, non ha senso questo rapporto sinallagmatico del baratto o della moneta, non ha senso la dialettica credito debito. Ciechi! Accomodati! Rassegnati! Attraverso le vie del paese, mani in tasca, testa bassa, entro in un negozio per la spesa. O Dio! Ho dimenticato i soldi. Segnami tutto sul conto anche se il tempo passa e siamo giunti a 106. In gioielleria miro l’anello, sottile, vero. Entro in osteria, pago il conto più la mancia e per spavalderia, vigliaccheria o semplice follia poso i soldi sul tavolo in bella mostra. Mi manchi amore. Ma l’amore oggi si può comprare. Commino di sera per le strade del paese, il nostro. Domattina confesserò tutto ad un prete che ha perso la fede e chiederà dei soldi. Vorrei dirti tutto ma poi rinuncio, spendo i soldi per le coperture. False restano le vedute. Tali son appellate per follia, vigliaccheria, spavalderia, desio di supremazia. Cinque anni di comunità, furto con scasso la nostra fuga, soldi all’avvocato, neanche per sogno, eredità: sette milioni di contributi svaniti tra cambiali. Hai una sigaretta, io l’avevo ma l’ho persa in una rissa per la supremazia, spavalderia fu o semplice follia. Passa il tempo, il valore del denaro, idolatria dell’uomo, vitello d’oro, sbarcare il lunario, sperperare, cataste di giocate a lotto o nel giro d’azzardo in complotto. Pomigliano peggio di Montecarlo. Finiti i soldi, guardo il tramonto, ora comprendo l’unico valore. Mi puoi aiutare? Ti trovi, mi puoi amare? Non ho una lira ma la disperazione è onesta!

Profonda creatura umana che con forza respingi le mie lodi. Dolce e candido il tuo sapere, ti soffermi sui testi assetata di conoscenza, perversa sei! Tu dolce cammello, due poli invertiti per l’equilibrio e in contrasto col polo di sotto. Risaliamo.  Trasformata sei in superba leonessa. Con orgoglio rigurgiti  ciò che hai imparato e ne vai fiera, sei Achille bellissima, trascini la sconfitta ignoranza fuori le mura della Verità Assoluta.

Ho avuto paura di rimanere solo, lo confesso. Ti ho fatto soffrire in maniera orrende. Sono solo, ora, ripenso a quegli attimi passati assieme, gioia e felicità. Adesso sei labile, mi mancano le tue braccia calde. Resto solo per ore intere senza parlar con nessuno, sguardo fisso nel vuoto, scende una lacrima –la solita-. E per te si propaga, diluvio acceso, non ti scordo la notte, nostra alleanza, tesoro nascosto della vita, la mia. Tesoro nascosto. Ma per un attimo infinito ti stringo la mano eterea, il bacio eterico. Lontano sono i giorni della gioventù più belli. Passeggio per le strade, lo ripeto. Torno a casa, occhi inumiditi. La mia tristezza! Muta come il silenzio accende e spegne ogni rimasuglio di gioia. E noia, disagio, insofferenza, spleen, dominano compiaciuti. Non danno scampo i suoi pugnali malefici, lo spirito è atterrito e vuol cedere ai colpi inflitti. Attanagliano le lame e silente l’anima mia è d’avvoltoi rosicata.

A fiumi sgorgano rompendo il silenzio ed in un vorticoso ingorgo lente spariscono e il silenzio rimane tenue. Parole! Parole scritte che odorano come carta stampata, sapore superbo! Parole per dirti tutto ed il suo contrario, quindi ogni cosa. Parole sottili che infliggono colpi, veloci balestre. Parole sbagliate che ti fanno pentire di averle scritte e poi di eserti pentito. Parole giuste, se ci fosse un metro, axiologicamete sapresti cercarle, fossero giuste finalmente1 parole di fuoco che ardono il cuore, sospira l’anima. Parole che si perdono nel tempo. parole che mostrano immagini di un tempo che fu. Parole, limite ultimo di infinito.

Gelido spasmo mattutino, illustre il candore che ricevi, dono selenico, luna ti rende limpida e risplendente, più del sole. cirri biondi danno refrigerio alla sera spogliandola di ogni pretesa e si riaccende d’un tratto la notte e la vita è ancora la mia insaziabile compagna. Nella notte il tepore è lento, labbra tue sconfinano, limiti invalicabili verso l’altrove, scontrano mandrie di peccati. Soave tu dai nome a ciò che hai intorno, che ti appare improvviso. Sincera in un saluto, oblio d’insetto. Soffi sulle cose, case, diamanti, dai vita al caos e te ne nutri. Così vivi ancora. Sincera? Stringi forte i pugni ed in un rollio sei più limpida di prima.

 

Il turbamento interiore

 

Il turbamento interiore

che sale dal mio cuore

è frutto del ricordo esasperato

e nella mia vita riletto e consumato.

 

Cosa vuoi,

resto sempre qui

a ridipingermi il viso con sospetto

e me lo chiedo se ritrovo spazio ancora.

 

Sorse dal nulla tra di noi

e l’alterità delle barricate

un tumulto disatteso,

 

gli scatti veloci come gatti

impressero un sospiro

 

sul tuo profilo.

 

Si dovrebbe avere coraggio da bestiole

che in te trovano riposo

e ristoro,

 

si dovrebbe contenere il tuo affannato respiro

e dire che ho lottato,

sbagliando

ma di poco.

Eccoli,

 

ecco l’arte,

i vividi monumenti alterati dal progresso

che non piangono più lacrime ma gesso.

 

E silenti estroversi si smarriscono.

 

Poso tutto e corro tra le tue braccia,

peso poco e gradivo il mio corpo si slaccia.

 

E finisce

prima ancora del prologo

il tuo sermone orripilante

e oscuro.

 

Arianna

Il volo per Parigi parte alle otto e trenta, Gianni ha fatto i biglietti e con una piccola ventiquattrore in mano si dirige verso l’imbarco. L’aereo parte con mezz’ora di ritardo, “rulla sulla pista sgombra” e si alza in volo. Le case sono così minuscole viste dall’alto, gli ricordano tante scatolette di fiammiferi, le autovetture e le persone non si scorgono neanche più. Il cielo lì sopra è sempre blu, anche quando giù da noi piove a dirotto in aereo si riesce sempre a scorgere il sole, a volte a contemplarlo per ore intere. Attraversata l’immensa e verdeggiante Pianura Padana e le alte vette alpine giunge finalmente in Francia. Passa solo mezz’ora e l’aereo è atterrato.

Il professore non parla una parola di Francese, si arrangia giusto un po’ con l’Inglese sebbene la pronuncia di quest’ultima non sia granché. Preso un taxi mostra al conducente un foglio dove è scritto l’indirizzo di Alessia. Si tratta di una villetta sita poco distante dall’aeroporto e quindi non ci mette molto ad arrivare, pagato il taxista si avvicina al citofono: non c’è scritto alcun nome ma l’indirizzo coincide e così bussa lo stesso. Risponde la voce di una vecchierella che parla Francese e Gianni cerca di spiegarsi come meglio può:

“Hello! Sono italiano, italien”

“…”

“A-L-E-S-S-I-A c’è”

“…”

“Excuse moi, Alessia”

“Alessia?”

“Eh, addò sta? Do you speak English?”

“No bien”

“Ok, where is Alessia Forino now?”

“Forino? Oh oui, oui! There isn’t. She went in Belgique six year ago”

“Belgique? And where?”

“Oh I don’t know, I think to her parents”

“And where do they live?”

“Oh, I don’t know”

“Have you got her telephone number?”

“Oh, no”>

“Mercì! Bye bye”  ed allontanandosi  “Ma va fa mmocca a soreta, num me ditto nu cazzo”

Non sa a tal punto che fare, il Belgio è una nazione molto grande e lui non conosce la lingua, sarebbe come trovare un ago in un pagliaio. Non gli resta altro che tornare in Italia e cercare di scoprire l’indirizzo esatto.

Giunto al suo paese ritrova in un vecchia agenda il numero di telefono di Arianna, l’amica carissima di Alessia. Non esita e la chiama subito:

“Pronto”

“Ehm famiglia Soldati”

“Si, lei chi è?”

“C’è Arianna per cortesia”

“Arianna, no non c’è nessuna Arianna”

“Come no Arianna Soldati! Sono un suo ex compagno di classe”

“Ah, ma mia figlia è un pezzo che non vive più qui, si è sposata la può trovare al numero “6239852” “

“Grazie mille, arrivederci “

Digitando frettolosamente il numero si domanda come possa la signora non ricordare il nome della figlia, non associare, mah, inizia la conversazione.

“Pronto”

“Pronto, lei chi è?”

“Ciao Ari, sono Gianni, ti ricordi di me? Frequentavo il tuo stesso liceo però un anno avanti a te, o giù di lì”

“Gianni! Ciao, da quanto tempo! Come mai mi hai chiamato?”

“Ti volevo chiedere un favore”

“Dimmi”

“Ti ricordi Alessia”

“Certo che la ricordo, era la mia migliore amica. Voi due all’epoca stavate insieme! Tutto quel bordello, mamma mia! Che mi fai ricordà”

“Si, ed è proprio riguardo a questo che voglio parlarti. Ti ricordi che ce ne scappammo assieme e poi ci divisero per sempre…”

”Certo, come mi ricordo benissimo! Mi sembra ieri che lei si disperava con me perché non potevate più vedervi. Doveva partire per il Belgio”

“Da quanto tempo non la vedi?”

“Da quel periodo, lei è partito per il Belgio e non l’ho vista più”

“Ti ricordi per caso in che parte del Belgio andava? come si chiama il paese? qual è l’indirizzo?…”

“Su due piedi l’indirizzo non lo ricordo però se chiami tra un po’ forse potrei esserti di aiuto. Per un po’ di tempo ci siamo mandate delle lettere e potrei controllare l’indirizzo!”

“Grazie, sei un tesoro! Che ne dici se ci vediamo stasera tipo al Bar Bologna e mi comunichi ciò che hai trovato? Se sei di zona”

“Certo, è un piacere! Madò il Bologna!!! Sì sto a Napoli quindi non è un problema raggiungerlo, non mancherò”

“Va bene alle otto?”

“Alle otto”

Gianni è seduto a tavolino quando vede giungere Arianna, la riconosce subito: sembra che per lei il tempo non sia affatto passato. L’unica differenza che ha con la ragazzina di sedici anni è che porta i capelli molto più corti; la saluta:

“Ciao Ari”

“Gianni? Sei proprio tu! Dio mio quanto tempo è passato, una vita!”

“Accomodati, io insegno al liceo Storia e Filosofia, tu invece?”

“Io sono una casalinga, mi sono sposata quattro anni fa ed ho uno stupendo bimbo di tre anni”

“È meraviglioso! Senti hai trovato l’indirizzo?”

<Non sei cambiato per niente!!! Dritto al sodo, com’era’ odio i preliminari. Ahahaha. Lo dicevi sempre, madò la grezza quando lo dicesti alla prof, non ricordo di che. Sbottò si dice i convenevoli, e tu, noo i preliminari va bene e lei tutta rossa. Ahahahaha. Si eccolo comunque! Ma posso sapere come mai vuoi, beh si come mai vuoi sapere queste informazioni, hai intenzione di incontrare di nuovo Alessia?”

“Si, è una lunga storia, ho saputo cose che non sapevo e… adesso voglio vederla, lei stessa mi ha scritto tempo fa, ma per caso, tu hai detto che ti sei sentita con lei via posta, ti ha mai parlato di me?”

“Sì, era disperata all’epoca della partenza, per un po’ mi chiedeva di guardarti, sìsì, proprio così, guardarti, non salutarti”

“Ma scusa non sapeva che ero in comunità?”

“Sì ma lei, cioè voi, siete sempre stati un po’…diciamo così… poi erano i primi tempi, era molto scossa, quindi non ci ho fatto caso, poi a quell’età sai, comunque ci siamo sentiti non per molto”

“Capito!”

“Ah guarda, a proposito ieri spulciando per cercare l’indirizzo ho letto la sua ultima lettera, era strana, cioè più starna del solito. Parlava di una certa דניאלה, diceva che le aaveva parlato dicendo di essere  una tua ex allieva, che aveva delle cose da dire a te su un ragazzo che nel ’98 avrebbe iniziato il liceo, che però era allo stesso tempo in manicomio nello stesso anno, diceva che da lì partiva tutto…un certo Giovanni mi sembra, che avrebbe fatto dei viaggi, parlava di tempo, strane cose, mamma mia non ci capivo nulla. Esperimenti, mi ha scritto anche diversi nomi di ragazze”

“Allieva? Ma di quando è la missiva?”

“Beh del 1992. Non ci sentivamo da molto. Fatto ancora più starno”

“Anche perché nel ’92 non insegnavo”

“Già ma poi lei diceva che eri il suo prof al liceo classico, non ricordo il nome, nell’anno scolastico 2009/2010”

“Nooo, è impossibile, io insegno da poco e sempre al linguistico. E poi siamo nel 1999, quindi…”

“E che ti devo dire, forse non stava particolarmente bene Ale quando lo ha scritto”

“Che cosa strana. Ma l’hai con te ‘sta lettera”

“Volevo portarla, l’ho messa sul tavolino ieri proprio per questo, stamane non l’ho più trovata”

“Mah, speriamo bene, quando la incontrerò immagino avremo molto da parlare”

“Già, ad ogni modo ti auguro con tutto il cuore vada tutto bene”

“Grazie, sei un amore”

 

Tra il vero e l’irreale lo sciocco e il naturale

E dunque principio qual fu, qual primo varco, difficile a dirsi. Tanti indicati e tutti veri. Da quel ’99 forse il primo seguitando ordini che poi si scossero e apparve in posta lira magica o fatata per l’etate di chi dice ciò che scrive ed è parimenti già in quel tempo in duplice forma e sostanza, nuovo e di poco invecchiato. Tra sciocco e naturale sguazzati siamo a vero ed irreale in loro essenza confusa di anno primo. Di risveglio strano e un po’ paura con lei splendida sul letto, nome rubato dal passato e con dico e immagina e sa chi ogni cosa ha letto da principio. Aggrovigliato tra tessuti persiani e paradossi, parossismi e chiroscuri e Merisi, quadri stanchi, scendiletto di tal guisa e oggetti strani, vasi vasel musicali e condottieri aurighi del sapere e dell’amore, lei in poche vesti e nuda quasi, lei dalla pelle bella e baci tremanti al di là di questi miei stanchi manierismi, lingue incrocite e folli sbarchi, seni dolci e sul petto il sussurro del cuore suo. E giunse il servo del mattino, final stupendo è questo immaginato e vivido. Vestiti a festa toghe belle e tuniche e mantelli e vesti, tanti i busti per li corridoi et altri due servi e poi fuori all’aperto gente strana, antro di spiriti magici e sapienti, barbe lunghe e capi corrucciati. E tutto è qui in epoca ancora anteriore 399 prima del Cristo, e diecimila, dodicimila ancor lontani e prossimi in futuro, libro scritto e Sedonte che con vivido pugnal vigliacco trafisse la schiena e sorse comunque l’accidente per opera di Eschido e dell’altro e dell’amor di lei e di tutte l’altre susseguenti contro il terzo maledetto e i loro nomi. Giunto nell’oasi svenne e si ravvide, et ogni secolo un prescelto che è eso stesso e questa è storia in copertura per celar il velo che in quell’estate era prematuro, un giorno scoperto. Et il ricordo che non ricordo e che svanisce anche quello, e la prescelta e l’altre di cui diremo, che ho già detto. E discussione per tragitto verso Verità Assoluta e divino, Somma Sapienza e Sommo Amore e dunque questa via di conoscenza che non trova altrove se in essa non si crede e nei suoi dogmi, ecclesia immortale e Diva Sposa. E Verità che è in noi da afferrare per riaffiorar sincera. E più si cerca cosa più lontana la si sente e non si scorge che è vicina e bramosia mossa da amor puro che a bellezza dirige pel percorso che in altro scritto è indicato, quello finale del sospir del vento, soffio primordiale. E sulla terra di essi intermediari litterati e poeti e musici e scultori e pittori et ogne gente d’intelletto sincero e candido, e sacerdoti vie maestre nell’interpretazione, e profeti e santi, dottori, beati e l’altri. Ognun di noi è diverso pur se in noi è medesima veritade assoluta, e noi congruenti e non eguali e solo un giorno traslati e sovrapposti ma comunque identitari, triangoli euclidei collisi quel dì d’eterno eppur distinti perché ogni cosa è anche l’altra in contemporanea pur se fatica a ciò, a capir la divina contemplazione, la mente umana e l’identità diversa, e la valenza, et i talenti che uniti in virtude fioriscono come giardino antico. E non è gene veritade né clonato si puote, né mai umana mano può imitare l’illustre dipinto del Divin Maestro Artefice Sommo perché noi sua imitazione terrena e per nostra sventura maledetti pur pel bene di Lui Imperator dei celi e d’ogne cosa. E sine forma e dimensione che geometra possa affrontrare è veritade in noi e noi stessi poco la scorgiamo a guisa di libro in cui ogne cosa è riportata e quando da esperienz cogliamo è come aprire cotesto e sottolineare qunto appreso e molla più grande è creatività et intuizione che legge ove altri non puote. E spesso concetto è il medismo ma umanitate esporlo diverso a seconda di razza e provinienza ma non è scindibile dall’Incarnato per amor nostro et ognuno per comprendere e salvarsi debbe conoscerlo et seguitarlo et amarlo e credere e sperare. e tempo è maledizione ed apparenza, parte immaginaria di numero complesso, e tutto cangia in illusion, noi stessi, terra e natura et universo stesso. Verità relative create per maledizione nostra quando altrui via seguitiamo come angioli che inj sinistra e destra posson guardare e noi di più perché in corpo come il Creatore, Plasmante Sommo.  E vita vissuta quindi come corsa verso l’ignoto, ma erroneamente perché essa è crescita verso la veritade ma se non ama e cade in balia dell’odio e di superbia, lussuria, vanagloria, cupidigia arrogante e inferno divien nostra destinazione che è somma ignoranza e gelo eterno del core. E se non v’è amore veritade dall’uomo è ignorata a guisa di secchio ove acqua diven vapore per inerzia nostra. Amore molla prima verso il conoscer. E tutto il resto spiegherò avante, ossia ho già fatto, autore ora traslato in primo principio euclideo di congruenza triangolar protagonista. Il sospiro del vento!

 

Tistin

Tistin è un piccolo paesino del Belgio molto caratteristico, sembra uno di quei centri della Germania o dell’Austria noti per le particolari costruzioni. Il taxi procede lentamente e lo attraversa per intero, poi si intrufola per una stretto viale alberato della periferia e giunge in prossimità di una villetta.

“Compaesano è questo l’indirizzo “

“Grazie Mario, è stata un fortuna trovare un taxista italiano, per lo meno abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere”

“Già, capita sempre, come nei film!”

“Infatti, da non credere! Ci vediamo allora, ancora grazie! Eccoti i soldi”

Senza dubbio quella che ha davanti è una casa tutt’altro che modesta, si intona perfettamente con il paesaggio circostante in particolare spiccano i colori molto vividi. Ad aprirlo è la donna delle pulizie, subito le dice il nome del padre di Alessia che compare dietro la porta:

“Oui”

“Lei è Anselmo Forino?”

“Si, e lei chi è”

“Sono Gianni, Gianni De Sanctis”

“Gianni De Sanctis? Mio Dio e con che coraggio ti presenti qui a casa mia dopo tutti questi anni, hai ripreso a frequentare mia figlia forse?”

“No, perché lei non è qui?”

“È un pezzo che è andata via ma se non è per mia figlia che diamine vuoi da me?”

“No è per sua figlia, se mi fa entrare le posso spiegare tutto. Credo che l’ospitalità sia un dovere e non si nega a nessuno”

“A quelli come te dovrebbe essere negata insieme a qualche altra cosa, comunque è passato troppo tempo e sarebbe ridicolo mostrare tanto astio nei tuoi confronti, d’altronde non ti meriti nemmeno quello! Sei una sciagura vivente! Accomodati comunque”

Gianni ubbidisce ed in quattro e quattr’otto prende posto nel salone d’ingresso, è ben arredato anche se abbastanza piccolo; domina il colore smeraldo.

“Allora” pronuncia Anselmo con aria alquanto stufa “Cosa vuoi da me, si può sapere?“

“Voglio solo sapere Alessia dov’è”

“Ecco. E che poteva essere! E perché dovrei dirtelo? Che devi fare con lei?”

“Voglio vederla, ho saputo che ha una figlia che è anche mia figlia ed ho il diritto di vederla”

“Ma quale diritto, quale diritto! Come osi tu parlare di diritto, chi ti credi di essere! Sei convinto che ti presenterai dopo tutto questo tempo e… che farai? Dirai a tua figlia: “Piacere! Sono tuo padre! Mi spiace se non mi sono mai fatto vivo, comunque c’è sempre tempo per recuperare ”, credi che lei ti possa mai dare ascolto, possa mai amare una persona a lei del tutto estranea? Se pensi questo sei un povero illuso, sei rimasto il ragazzino di diciassette anni che andava dietro a mia figlia. Sei un buono a nulla, uno spostato ed hai distrutto la vita della mia unica bambina! È colpa tua se lei ora si trova in questa situazione”

“Quale situazione?”

“Ma che credi di capire tu, povero incosciente!”

“Senta, lei mi sta coprendo di insulti ed io non la sto rispondendo, ma c’è un limite a tutto. In tutti questi anni avrei voluto vedere sua figlia ma come fare? Lei me l’ha strappata! Ho passato cinque anni della mia vita in una comunità che più che un comunità era un carcere…”

“Questi sono problemi tuoi”

“Già problemi miei, è lei che mi ha portato via Alessia”

“Io ti avrei portato via Alessia? Ma cosa credi di averla comprata al mercato? Che fosse tua proprietà? Alessia era mia figlia, capisci bene M-I-A F-I-G-L-I-A!”

“Perché era, ora non lo è più?”

“Certo, per me sarà sempre mia figlia anche se non si fa mai sentire, se sembra che mi abbia dimenticato” nel pronunciare queste parole una lacrima scende piano dal suo occhio destro. Si asciuga con la mano sinistra sollevando con quel gesto gli occhiali e continua: “Io l’ho sempre amata con tutto il cuore, ho sempre fatto di tutto perché lei avesse il meglio dalla vita e guarda come mi ha ricompensato! Se non fosse stato per te la nostra vita sarebbe stata diversa, lei non si sarebbe mai comportata così con me”

“Ma si rende conto che è più che ridicolo ciò che sta dicendo, come può scaricare su di me le sue manchevolezze di padre”

Al che alzandosi in piedi ed urlando risponde: “Questo non te lo permetto” e sbattendo il pugno chiuso sul tavolo davanti a lui insiste: “Non hai nessun diritto proprio tu di giudicare se ciò che ho fatto è giusto oppure sbagliato”

“Già, ma lei ha tutto il diritto di insultarmi, non è vero?”

“Bando alle ciance comunque, non ho alcuna voglia di mettermi a litigare con te e comunque non ho intenzione di dirti dove vive mia figlia ora “

“Ma insomma, per favore, voglio solo vederla per l’ultima volta! La prego!”

“Per favore, tornatene a casa , lascia perdere è troppo tardi ormai”

“Lei non ha mai avuto fiducia in me!”

“Non ricominciamo sai che ti sbatto fuori!”

“Non voglio iniziare altre discussioni, anche lei condivide con me due emozioni: in prima istanza è un padre e può capirmi, in seconda istanza ama Alessia e può capirmi ancora di più!”

“È inutile che cerchi di impietosirmi con ‘ste stanze, con me non funziona!”

“Non voglio affatto impietosirla, le chiedo solo questo favore poi le giuro che non mi farò sentire più, penso che non sa cosa vuol dire avere Gianni alle calcagna. Glielo sconsiglio vivamente perché se lei non mi darà questo benedetto indirizzo io non le darò pace per tutto il tempo che le resta da vivere”

“È inutile che mi minacci, è un fatto morale ed un fatto di principio”

“Io ci toglierei il morale”

“Ed io invece lo sottolineerei centomila volte”

“La prego don Anselmo, la prego! Non mi faccia mettere in ginocchio”

“Per carità! Risparmiami questo gesto pietoso almeno, già sono stanco di sopportare le tue stupidaggini, l’i9nferno mi doveva venire a visita oggi! Come non avessi già problemi!”

“Allora me lo dà quest’indirizzo?”

“…”

“Per favore”

“Con te è inutile parlare, sei tale e quale ad Alessia! Non molli fin quando non hai ottenuto ciò che vuoi, c’hai proprio la testa da criaturo”

“…”

“Però…in fondo…già ormai che posso fare più! Tieni abita qui, o almeno credo. Forse vederti servirà a farla tornare in sé, ormai non ho più niente da perdere, no? Ho già perso tutto!”

“Grazie, grazie! Siete un brav’uomo nonostante tutto”  ciò detto gli stringe la mano.

“Nonostante tutto…” borbotta Anselmo.

 

Arsi Vivi

Durante il timido rientrar di una soave e tiepida luce che cerca di trafigger a lunghi affanni le cupe nuvole della mattina, pomeridiano il senso, ricca di travagli d’occasioni dense perdute nel trotto verticale per l’amico nostro, piangono le colline del mare che azzurro, ruscello riservato in fiume arioso, si infrange su li scogli lontano, anfratto del paese Iavano, Liviano, terra di pomi o pomilia gente di assuefazioni scorte. E d’amor s’io devo e devo raccontar mi accingo e strano e silenzioso mi sedo ed inizio, o amici, ve ne prego, prestate orecchio e sospirate stanchi. Poiché dissi d’amore e debbo dire, ripeto il verso dimenticato tra stalagmiti e delicate spiagge, la voce si scarna e si smarca prima ancora dell’inizio, epilogo di tutto, sento il bisogno di celeste illuminazione, di te divina erato, che d’alto illumini ogni core, Selene, Selenia, trittico stampato al son di luna, continua il viaggio brusco inverso ed ha fine, viaggio che è la vita come vagabondo blasonato fu un tempo avanti duecento a questi in cerca di Thirassia -il suo passato anche quello, paradosso e vorticapo- accendi la mia voce e racconto cotesta storia mettendo un punto. Passata che fu, infatti, la notte, lui e la sua cara furon destati dalla luce che dissi, di cui parlai, che contemplai, ampio spazio trovò l’uscio e guardia il motore, pronunziò solennemente: è l’ora, seguitato da un orgoglioso “e sia”. Notte d’inferno passata dai due, notte contorta e colma di incubi percossa, sogni orrendi che deformavano immagini buie della cella ombrosa e senza vita né romore se non rosichio intermittente. Ed il ragazzo cadde tra le braccia di Psidide, Giangiovanni, Giovanni da nome mutato e da tempo lontano a cavalcar destriero in senso paradosso, trovar calore è amare in quella notte gelo, il cor spaura, spauracchio il verbo, l’ultima notte passata. Arrampicatosi più spesso all’orlo d’abisso scorse a un metro scarso dal muro la luna per l’ultima volta e ricadde tra le braccia amate, incanto tra guizzi euforici nascosti. O miseri, il principio è il nostro nulla. La fine. Il ventidue, il tredici, il nove, felicità spersa, strappa solco nell’alma scomposta pel trambusto. Un dì si coglievano gli attimi migliori, anzi alleanze dolci o patti tiranni. Grande valore delle generazioni umane il multiforme ingegno, loco di culto oggi presente nell’oblio di Iavano al dorso del mare. Et una strega che reca grave omaggio e misteriosi intrugli e guarigioni e cadute, fedele se Satana un tempo Cherubino e Lucifero Serafino, perché invertita la sapienza il primo in arroganza et il calor d’amor il secondo in lussuria e bramosia. Amor genuino volle contrastar costoro ed il terzo presente et in egual modo ribelle, ciascuno per su specie, quando divenne virtù vizio, come i due a questi secondi, eternità resa tempo scandito Baal, e luce sbagliata eros perduto e fluente Asmodeo, e a discender l’altri, stige paludosa Iavano a guisa di Serapin Sirpium Serpin, Rettingfai. Spaziar la mente oltre i confini, al di là del monte, oltre illusionistiche cascate, ed etalagiche storie, e si ricorda di Etalage, simbol nostrano dell’epoca che fu nel suo passato et ora quivi è futuro lontano e per chi scrive altresì passato. Il ragazzo tace. Condotti incatenati in su la piazza gremita in focolaio supplizio e su di un palo smosso e dialogo pressante e disprezzo. Occhi languidi l’una e desio d’abbraccio l’altro. ed in ogni cenere che fu seguente al grido stampo d’amor reto lì appresso. Et anni dopo con Ryma scomparsa al par di Kymery andata, e collocata in loco Muta e fuga che fu principio omai passato, quindi vecchio futuro.

 

L’inizio di Selendichter : alle porte del nuovo millennio

La porta si riapre e Gianni si ritrova faccia a faccia con Alessia. Sono pochi i secondi di silenzio ma molto intensi: lei sembra, lei è così boschiva, l’espressione del viso è come quella di chi viene chiamato d’improvviso per strada. Gli occhi sono quelli di sempre, dolcissimi ed alteri, leziosia, di quel cobalto che sa d’assenzio!  Avvicina immediatamente la mano alla bocca ed inspira in maniera audace poi la avvicina al volto del professore toccandolo, quasi per dissolvere la folle e fanatica idea che possa essere un prodotto della sua immaginazione. Stracolma di meraviglia esclama senza fiato:

“Gia…Gianni?”

“Alessia! A-L-E-S-S-I-A !!!” e nel proferire queste parole la abbraccia, lei resta immobile, assume l’essenza di una roccia. Non parla e rientra in casa appoggiandosi sul divano ma lasciando la porta socchiusa. Gianni la segue e le siede vicino.

“Alessia! Amore mio!”

“Gianni, ma sei tu? È possibile tutto questo?”

“Si, sono proprio io”

“Ma ti rendi conto…mamma mia quanto tempo è passato, ti aspettavo da una vita”

“…”

“Ma le cose sono molto più complicate di quanto tu possa credere, lo sai che ho una figlia e…”

“Si, lo so, e so anche che è pure mia figlia”

“Già, ma lei crede che il suo vero padre è morto e non deve sapere niente”

“Perché?”

“Perché potrebbe non capire, voglio dirglielo a tempo debito e dosando il tutto lentamente nel cucchiaino”

“Col cucchiaino. Guarda, però…”

“Non dire più nessuna parola” sussurra coprendogli la bocca con la mano “stasera lei è a casa di una amica, dormirà lì ed io voglio che tu resti qui con me!”

“Guarda, posso almeno guardare una sua foto? Vorrei vederla, chissà come è diventata, chissà…”

“Basta bla, bla! Spogliati!”

“Come scusa?”

“Ho detto spogliati che devi essere mio!”

“Ma…”

“Basta ”ma” “urla energica “Spogliati e basta!”

Gianni è confuso però si spoglia lo stesso, anche lui muore dalla voglia di possederla anche se non si sarebbe mai aspettato una reazione simile. Comunque sdraiatosi sul letto lei si denuda lentamente ed aperte le gambe si siede sopra di lui movendosi. Dopo appena quindici minuti si stacca e si mette al suo fianco affermando:

“Mi sono scocciata”

“In che senso? Addirittura, bene!!!”

“Nel senso che ho detto, per me basta”

Il professore non risponde, preferisce accendersi una sigaretta; Alessia, invece, apre il cassetto del comodino ed estrae una bustina contenente una polvere bianca. La svuota sulle lenzuola ed inizia a sniffare.

“Ma che fai” le dice alzandosi di scatto “questa è cocaina?”

“Nooo. È come si chiama. Non mi ricordo, ma è buona. Vuoi farti una tirata?”

“No, grazie. Ma da quanto tempo sniffi? E soprattutto cosa, non sai nemmeno che ti rifilano”

“Perché?” domanda irritata

“No no. Domandavo, figurati!”

“Io ho amato tanto”

“Scusa?”

“Quando tu non c’eri io ho amato tanto, come se ci fossi, tu eri parte di ogni ragazzo che mi facevo. Mi piace fare l’amore a me! ahahaha”

“Ho capito…”

<Pure a te vero…Io amoooo!”

“Sìì, ho capito!”

“Perché io amo amare”

“Brava! Però mi stai un po’ spaventando”

“Però amo di più te! Oppure me stessa?”

“Non lo so amore, io ti amo”

“Anch’io, cosa credi “

“Va bene, ci amiamo, adesso perché non ti sdrai e ti calmi un pochino?”

“Io sono calma!”

E ciò detto apre il balcone ed inizia a danzare abbracciandosi i seni e con lo sguardo rivolto alle stelle. Gianni le va incontro e la riporta in camera costringendola a sedersi sul letto.

“Tu lo sai?”

“Cosa?”

“Chi sono io?”

“Alessia ma che ti prende, deliri! Statti appaciata!”

“Moriamo!”

“Cosa stai dicendo ora!”

“Appaciamoci insieme, chiudiamo gli occhi e moriamo tanto bellini, uno di fianco all’altro”

“Ma che dici, pensa che domani mi devi presentare nostra figlia”

“Ma quale figlia, è un po’ che non la vedo, chissà con chi starà facendo la puttana adesso”

“Ale stai calma, ti ricordi? Mi hai detto che stava da una sua amica”

“Ti ho mentito, sono tre giorni che non torna a casa, forse pure di più, non lo so, io sto fatta dalla mattina alla sera, e poi il tempo non esiste! Moriamo, così capiamo chi siamo. Ahahaha. Tu non sai niente, di tutto quello che è già successo, di quello che succederà, Dopo il 2000. Ahahaha. E tu non morirai!”

“Ok, rilassati, non sei in te. Ma non ti interessa di lei? Forse le sarà successo qualcosa, dobbiamo assolutamente cercarla!”

“No, non ti preoccupare, ti ho detto: starà facendo la puttana da qualche parte oppure troverà l’uomo della sua vita e si sposerà, vivrà per sempre con lui e…boh, non mi ricordo che ha detto quella lì, l’ebrea credo, quanti nomi, quante ragazze, poi quello, quell’altro, l’autore, il tempo, i viaggi”

“Ma come puoi essere così insensibile?”

“Insensibile? Per niente, voglio solo il suo bene! I figli non sono figli nostri ma figli del mondo”

Chiude in quell’istante gli occhi e si sdraia lasciando solo una gamba a terra, è come se avesse su quel piede tutto il peso del mondo meno il suo. È estenuata e pallida, sembra quasi addormentata; lentamente però si rialza e con passi minuti scende in cucina per poi risalire con una bottiglia di Vodka e delle compresse tra le mani.

“Gianni”

“Che devi con quella roba?”

“Accompagnami nel mio viaggio, torniamo indietro, loro vivranno dopo di noi solo se torniamo indietro”

“Ferma!, non fare sciocchezze!”

“Voglio morire conte, eri l’unica cosa che mi legava alla terra ed ora voglio finire la mia vita tra le tue braccia, sei tornato finalmente”

“Sei folle? Posa la bottiglia e fatti una dormita, vedrai che domani starai senz’altro meglio!”

“Allora fatti una sniffata! È importante, prendiamo le compresse, loro vivranno”

“Che hai detto?”

“Fatti una sniffata se no mi uccido, mi butto di sotto “nell’affermare ciò si affaccia al balcone scavalcando la ringhiera.

“Tu sei completamente partita Alessia! Dov’è la roba?”

“Nel cassetto c’è un’altra bustina! Poi prendi le pillole”

Gianni sniffa la roba ed ordina ad Alessia di rientrare.

“Ok, andiamo a farci un giro adesso, prendi le pillole”

“Ale, ma dove vuoi andare a quest’ora ed in queste condizioni? Mi hai fatto incapare pure a me mannaggia alla miseria!”

“Un giro in macchina” afferma sorseggiando la Vodka “se no mi riuccido”

“Andiamo!”

Giunti in prossimità di un prato erboso di periferia la donna chiede a Gianni di fermarsi e scende frenetica dall’autovettura buttandosi sull’erba. Il compagno la segue e le da la mano stringendola forte. Alessia dice a questo punto:

”Sei pronto?”

“Per cosa?”

“Facciamo ritorno alla natura che ci ha creati”

“Già, facciamo ritorno”

I due si assopiscono lentamente e Gianni si sveglia alle prime luci dell’alba, al suo fianco Alessia che sembra ancora dormire.

“Ale, sveglia! Guarda l’alba è favolosa!”

“…”

“Ale, Ale, A-L-E”

Lei non risponde ed i professore la scuote, è fredda, solo toccandole il polso so accorge che non c’è più niente da fare. Abbracciandola inizia a piangere come non aveva mai fatto prima. Il sole che lentamente sorge le inonda il volto e per un attimo sembra quasi che lei accenni un sorriso. Ma è solo un attimo. Che gli resta ora da fare? Dovrebbe cercare sua figlia? E come? Dove? L’inerzia lo invade ed è quasi più forte del dolore, si sdraia di nuovo a fianco ad Alessia ed inizia a parlarle:

“Ora che dovrei fare secondo te? Portarti in ospedale, poi andare a cercare mia figlia che neanche conosco? Che c’è, non rispondi? Va a quel paese, perché cazzo non rispondi?”

Presa una bustina dalla tasca dell’amata tira su. Estrae un coltello e si taglia le vene abbracciando di nuovo quella donna. Un lamento lieve si percepisce tutto attorno ai due. Poi è silenzio.

Lascia un commento