La Seduzione di Merlino; Edward Burne Jones; 1874
Dicembre Bavarese
E dai,
non lo so,
cento grammi di follie
sotto il campanile del cielo,
credo sia impossibile
interloquir con te compiutamente,
facciamoci un’altra pinta,
folleggiando,
Monaco e la Baviera conquistati
solo per te.
Pongo lieve assedio,
tu altrove volgi lo sguardo.
Ah che gelo,
è quasi inverno,
fallo ancora,
carezza inumidendo le labbra,
linguetta accorata e accaldata,
frescura umideggiante.
In più
assumerò
emissari scaltri ma inconcludenti
perché da te intuiti,
o sì,
magari già,
ero proprio io mascherato da velo squarciato,
addenti di soppiatto
quel dolcetto nespolato.
Ti asciugo le gote,
tu scarichi in sbuffo indolenza su di me.
Ti accarezzo la fronte,
tu stendi le dita sull’invisibile piano.
Oh, teresettamente guardi,
io ti cito il canto della malinconia,
ma chi sei tu intermittente membrana,
seduta resti ancor sulla panchina.
Campanellini
Dolce amica
guarda questo promontorio steso.
Campanellini.
Dolce inabissata
piangi tra sollievi
spumati qua e là.
Campanellini.
Vorrei disegnare incautamente
la veduta sannita
per porger il limite più in là,
questa nostra spedizione senza fondi
né bottiglie,
un paio di pall mall,
nell’istante dello sbuffo
il naso tuo sfiora il mio,
dimmi se hai scalfito
il canto restio.
Campanellini.
Dolce scapigliata
sciocca e astuta
ti copri di sabbia.
Campanellini.
Dolce scalmanata
prestami le borchiette.
Campanellini.
Vorrei tanto porgerti
le mani sulle spalle,
intelaiare quel tuo braccio,
renderlo a ridosso
di uno spettro
che se c’è magari batte i colpi
ed io ti sbatto sul verace giaciglio,
non so se hai reso l’idea
confondendo l’ondulazione delle mani
coi tuoi occhiali inamisati.
Campanellini.
Dillo ed esponilo,
vai tranquilla che ti ascolto,
parlami di te per allegorie,
poni a due passi le pazzie,
oppure taci con abilità.
E vorrei sognarti
desto in conclusione
ricattatrice d’amore,
scribacchina viola del rancore,
smozzicante sentinella d’ardore,
forse hai gli appunti.
Hai scoperto il nascondiglio
del mio cuore
ed hai appiccato il fuoco,
casomai te ne pentirai
allestirai un paio di tempeste,
tanto la natura
aspetta i colpi della tua bacchetta
per vendetta,
oh che disdetta
lo hai detto
non ce l’hai!
Ipazia Palladiana
Come mi vedi
anelito del mare?
Scopri le spalle,
dai,
scorgimi gli affanni.
Un capriccio al di là della soglia
dell’amore, una simpatica
disquisizione sulla noce.
Sei stata bistrattata come il sole!
Albigese!
Spaventami dai un po’,
porgi in scacco i passi,
delle tre essenze poste
scegli la seducente,
frescura dal palato magico
e ignorato quel portamento
furbettino
e il mal d’aria
che ti scaglia
i carmi nel padiglione.
Sei svogliata e innamorata,
ma di chi?
Sei sciupata dal ricordo
e dal mio conforto!
Catara arresa!
Ipazia Palladiana
mi scrolli due note legate,
stupenda assolvi
la tua parca funzione,
l’intruglio di lumache
e acqua tofana
è il tuo cocktail migliore,
ah belladonna,
viola del pensiero.
Sei imbrattata della schiuma
nella sala!
Sei oriunda e romita
ma orientata!
Pura cortese!
Sei svestita
sotto le stelle
come orionica danzante!
Sei trapunta
delle scorze di limone
e di melagrana!
Docetica apparsa
Amore del pensiero
L’inverno sboccia cauto
tra i rami,
il riflesso del mio cuore
tra le tue dita,
e scrivi d’amore
senza fronzoli di sorta,
affidandoti al Fato stolto,
oh la volta cobalto!
la luna!
E tu.
Tu piccola dominatrice
umile con lo sguardo fiero.
E me.
Io alla porta,
chino con sparsi i fogli
tra le placche del marmo.
O piccola aiutami
a metter ordine.
Oh cielo!
Non ricordi il nostro rifugio?
E socchiudi la porta,
hai focalizzato gli occhi,
mi hai carezzato gli zigomi,
ridato luce alla mente,
pizzicato la tua arpa
senza profferir parola,
posta sul capo la corona
e non sai più cosa cerchi,
cosa vuoi da te,
si riapre da sola
la porta
e non ho vie di scampo,
rifuggo nel tuo sguardo,
sai sono sperso anch’io,
tu,
tu piangi,
tu mi osservi
e piangi,
ti guardi allo specchio
e pensi al futuro.
Non stai sbagliando,
la via è quella giusta,
mia cara, penso a te,
ancora a te,
mentre da lontano guardi oltre,
ti asciughi gli occhi,
riparte il palpito
mai interrotto,
ci sei,
tu ci sei,
lo sento,
lo scorgo dall’orma sul muro,
dal segno indelebile dello spray,
dal vetro della finestra appannato,
dall’umido della fronte.
La porta si richiude,
non ho che te,
amore fugace e perenne,
indenne esposizione
di fiori raccolti,
crestomazie
dal sapore di fiele
e inizia l’amor mai finito,
l’amore germogliato
dalla brulla e spoglia diramazione
del ligneo tronco,
il fiore invisibile e meraviglioso,
quel fiore invernale
che scorgono solo i miei occhi,
che scorgono solo i tuoi occhi
e resto ancora alla porta,
con te,
amore dai lucidi capelli,
oh sì,
amore del pensiero.
Sorge una stella nel tramonto
Sorge una stella nel tramonto,
il mio cuore innanzi geme,
alma serafica
non sei affianco a me,
dove sei ragazza mia?
dove sei?
E chi c’è con te?
chi ti stringe le spalle?
Lo sai che sei,
sei la sorgente
pura del mio spirito,
dentro me sospiri
e candidamente scosti l’aria,
che movimento puro,
che disincanto sospeso,
che pensiero disilluso
amor mio,
la vita non ci dona
la candida rosa,
la scorgiamo solo da lontano
come emblema
del nostro cuore. Il sapore del vento.
Ticchettio mio dove sei?
Amore livido e seducente,
dove sei mia attrice,
lunare effige plastica,
ciondolo siriano al collo,
mio speciale barlume lieve,
tu dispetto buffo,
paonazza e bronzina gioia,
goccia vespertina,
acrilico scardinato
ma possentemente intriso,
musica dolce nelle vene,
sole notturno e gelido,
melodia stampata indelebile
sul vetro.
Sorge una stella nel tramonto,
ti amo credo
e te lo dico senza perifrasi,
tanto è come staccare un fiore
ed annusarlo, lo sai che preferisco
contemplarlo e immaginarne l’odore,
ma stasera sento un tepore
che dai polsi mi invade la schiena,
scende a perpendicolo
e mi scuote il capo,
ti prego, vieni qui con me,
sogniamo insieme nella radura,
so che ci sei,
so che verrai,
se sei mancata a tante albe
non potrai dimenticarti di me
proprio ora che riscende la notte,
sì so che verrai,
sarai qui appoggiata
alla mia nuca,
noi di spalle
gli un gl’altri
a guardare il cielo
e poi chiudendo gli occhi
a raccogliere l’attimo profondamente,
trattenerlo e non perderlo più,
per sempre insieme.
Ti amo, ti amerò per sempre!
Sorge una stella nel tramonto,
senza di te la rimiro e penso,
dove sei ormai non lo so,
amore!
Sorge una stella nel tramonto,
vago in speranze lontane
con te distante, mi volto e piango,
tu non ci sei,
sono assordato da questo silenzio,
amore!
Sorge una stella nel tramonto
ed alzo le mani,
saluto e scanso le foglie caduche,
ti attendo e mi asciugo gli occhi.
Amazzone
L’eco lontano
rimbomba tra le stalagmiti,
odore di fumo e tamerici.
Nostra dama sull’orchestra,
oscura e viscidamente funesta.
La gabbia dei sinceri addii
che tristi rotano lì intorno,
la fiamma dei cabalistici ulivi.
Follia e Dionisio,
vivi nelle vene
e nella scure,
amore bazzicante.
Sento la forza arcana,
la potenza ancestrale,
la violetta scismatica ragazza.
E poi l’incanto dei pensieri,
scuri dal sapore lieve.
Amore,
dici a tua volta,
il maestrale nostrano
non è la furia scandinava
dei tuoi servili temporali,
succubi domani deleteri.
Sei stupenda
scandita dalle percussioni,
sbellicata dagli archi
e dai mesti sultani
che si inchinano
e che fremono al tuo giacere.
Io sono qua,
l’alba dell’età,
l’anima del sagrato,
l’ombra del segreto.
E non ho le seducenti mani
a tempo sul ripiano,
sgomito nell’altopiano,
banalizzo i sentori
dell’incauto oltraggio.
Sei di sbieco senza fiato,
sei svilita e xilofonata,
spiega e metti in piega,
subisci pure gli odori.
Sento un po’ la pioggia
e non ho quel gomito carnale,
quell’archibugio astrale,
quel rimpianto sconfitto,
quel petto trafitto.
Resisti a quel sopruso,
mangi pane e burro,
scruti la soffitta
e non è eclissi il sole nero,
l’atomo del vero.
Ti ricordi ancora,
ho lacrime d’assenzio,
germoglia lo smeraldo,
travalico i monti,
ti guardo negli occhi,
la mia testa sul tuo pallido petto,
rosa ebenacea sul mento
e cuore in fermento.
Oh godo alla vista della luna,
oh godi al verbo incarnato,
trasfigurata effige catara,
provenzale sonata,
tubinghese teologia,
atavica pazzia,
orda indoeuropea stanziale,
cornuto vitello d’oro,
taurino messaggio,
belante miraggio,
allucinato istante bendato.
Ludica la sinfonia del giglio sotto assedio
Ludica la sinfonia
del giglio sotto assedio,
adornava di scalzi misfatti
la seducente sagoma,
lati obliqui
e servili inclini
all’inchino pianeggiante
mostravano intrepidi
fermenti bellici,
slacciando le vesti
e tu ti spingevi
oltre la guardia
lasciando intuire
mistero e fermento,
sincero cimento.
Maglietta rossa,
lastricato,
poi pioggia,
infine livore.
L’importante è espandere la mente,
come se fosse l’universo
che si avviluppa non sviluppa
ma statico volge centripeto
verso il vero,
che è sempre esistito,
non si è trasformato,
non è stato creato,
Dio immanente
nell’universo finito,
dov’è l’infinito?
semplice,
immagina il tondo talismano
se ellissoidale
assurge a gemito temporale
kronoide baalico!
Indotto in meditazione
al quanto soggettiva
divenivo oggetto,
quindi persona
anche se sembra paradossale
ciò è reso concreto,
come?
Eh eh,
sono i tuoi occhi. Saltimbanco
romano
alla corte del pontifex maximus,
se non fa ridere allora
allestiamo un rogo,
incendiamo ‘sto lurido rovo,
depuriamo,
chiariamo,
cioè diveniamo oscurantisti,
rosacrociani,
oppure andiamo a quel paese,
il paese del miglio,
patate sbucciate,
canarini e sottane.
Volgi lo schiribicchio di rame
verso l’infuso sopito,
mettersi l’anello al dito
oppure lasciarlo ciondolare?
da Angelica al rimpianto incatenato e furioso sesquipedale
L’importante è frastornare,
due o tre sofismi,
in santità velate,
devi sapere che dalle parole
è nata la vita,
la vuoi la scintilla della materia,
eccola perché dunque ecco il verbo.
E, dici,
la materia inanimata?
Dai ti rispondo,
bios è anch’essa,
l’anima è ovunque,
non perdiamo alcunché,
non mi credi? Allora sovverti
un altro po’ le coperte,
agita le lenzuola,
allestisci laude colline,
vitigni toscani,
scaldini equatoriali
e se arriverà la penombra
non mostrerò indecisioni.
La vedi la pioggia?
Batte ora più forte!
Crolla l’Impero
No, non c’è barlume,
siedo sulle scale,
ti vedo silenziosa
carezzare il naufragare
nei pensieri,
le oscene scene,
la nostra stella.
Arde a tempo,
arde fuori l’arioso
e freme. A me,
a me echi ancestrali,
a me, potenza indomita,
a me.
E dalla sera
sorbisco i dissapori,
le scarpette fulgide
alla porta, entri? si dai entra pure.
Tu cosa vuoi?
Tu che non piangi,
tu che respiri col dito,
che sei di là,
lontana ma ferma
all’uscio timorosa
e ardita,
faccetta di neve.
E ti scordi di nuovo,
ti viene da ridere alla follia,
simultaneo il sopruso,
lo sberleffo
e mi sbatti
nelle segrete dell’animo
senza pietà alcuna,
senza gravami,
senza retori
che esplodano sermoni
o arringhe
di ogni branca per me,
tu credi invece parli
dell’autogemmazione squamosa.
Eccoti qua, eccoti qua,
sei venuta guardando ovviamente
altrove,
non ti degni nemmeno
di entrare
accenni già di andare via,
di fuggire con altri valenti
e beffardi segreti di marmo
come gli occhietti vivi
che sfiorano e non si riposano,
che vedono tutto
ma non scorgono
il particolare,
fai ancora le tue belle generalizzazioni
ma dimmi,
la rosa non è meglio
della distesa verdognola
intorno che la contiene?
L’intorno d’altronde
ausilia soltanto
la definizione del limite
ma la stessa sussiste
intrinseca solo nei petali, sai.
No, dov’è la luce?
dov’è il sole? dov’è il cielo?
Non c’è speranza ahimè,
la scala crolla
mentre rovino con lei,
futile oggettino antico
nel postmoderno,
nel ripensamento inutile.
Noi, mai più noi,
anzi mai e basta,
non c’è mai stato passato,
soltanto gemiti,
le lacrime dal cielo carmini versetti.
Sento già
che non è perduto
ciò che non si è mai avuto
ma la libertà,
lei è in rivolta
e non resiste alla rappresaglia
del potere quieto e subdolo,
cerca un appiglio
e stende le mani tese
alla volta turchina,
nuvole rade non ostacolano
il gesto ribelle,
il giavellotto o la torre
dalla unica voce,
la piattaforma della pace
svilita dai nostri rimorsi,
dall’albero dell’amore,
dal frutto di sapienza
ed il gusto di reciprocità
e rispetto
trafigge non il nemico
ma il nostro stesso petto.
Ci sei o no? Diamoci la mano,
varchiamo il confine
anzi con la gomma pane
smacchiamolo e poi resettiamolo,
siamo qui per questo,
tu già lo sai,
il tuono non spaventerà
la moltitudine sola, dai.
No, non c’è pietà,
in eterno esilio
dalla verità,
le camice sulla cruccia
accanto alle scarpe.
No, non c’è lealtà,
dove sono finite
le armate invidiate
e indistruttibili? A vele spiegate
tutti scappati.
Arde, arde e freme,
la città,
fiamme a gola altezzosa,
via, via l’umiltà,
non c’è pietà.
No, non c’è dignità,
tu te ne vai,
e così finisce quest’istante.
No, io non me ne andrò,
solo resterò
ma con te affonderò.
Finisce il tempo, crolla l’impero,
crolla l’impero.
Astri Estrosi
Tu,
specchio,
valvola trascendente,
tasto d’avorio,
scala in si minore,
giro ossessivo,
armonica compulsione strumentale
e la testa sotto il cuscino.
Tu,
tu già lo sai,
sulla sponda del molo
sfoglierai la luna,
oh frastuono di miele,
oh onda spumeggiante
e lastrico di schiena bianca,
tondo violetto,
clavicembalo alato.
Sto con te amore mio,
guancia a guancia a fissare
impietriti il mistero,
e arriva il do,
hai voglia delle mie labbra,
mi sussurri.
Oh, i tuoi capelli sul mio petto!
E non hai l’ortica istigatrice
sul ventre, continui.
Sarà il nostro segreto
l’aurora,
vaneggi mentre protendi
il tuo dito serrante
sulle mie labbra.
L’albero esplode
di vigore nei tuoi giardini,
sono tuoi gli altarini.
Ascendo tra le foglie,
sono superba,
strafai.
Astri estrosi
incrociano i nostri sguardi
mentre li orchestriamo,
accordiamo le falle,
nessuno può fermare
il nostro palpito furioso,
mai,
la tua veste candida
sotto assedio,
mistero di vetro è questo,
cristalli condensati nel tempo
e rimessi al vento,
rimessi al senso,
assi e travi urbane
a sostegno dei giorni,
paonazza sei, ragazza,
affronta i ridenti,
angosciosi fermenti,
lividi inospitali
sul polso violato,
docile riporto,
matematico sfregio naturale,
vasta alleanza sui binari
dalla fiamma antica
della fiamma amica.
Bacchetti la corda
con forza tra le nubi,
vai mia piccina instancabile,
continua a suonare,
le carte le puoi giocare tranquilla,
sono paziente,
squarcia il velo orientale
dell’illusione,
e sorgi luna
in luogo del sole,
ridona la potenza
alle selve,
riaddenta la mela,
volgi lo sguardo alla luce,
un lieve sentore
sobbalzerà in te,
serva e padrona d’assoluto,
maestra e scolaretta,
demone angelico.
Astri estrosi
ruotano intorno
mentre scriviamo,
il piano stonato,
la vita nostra sintomatica
svilisce il potere superbo,
sorge per sempre
il bagliore pallido,
nell’abbraccio possente
fondiamo e creiamo
staticamente la sostanza.
Serenellosa
Il carillon suona,
ostile, incantata e stupita
sorseggi il tuo cioccolato bianco,
nessun rimpianto
visto dal rifugio,
quel cantuccio caldo
magari toscano.
Pioverà,
già un po’ sgorga
la serenità,
sole spagnolo caliente
e sordo,
calante
e l’astro nascente,
dio mio che caldo,
dammi un beso
però serrato.
Prendi il panteismo,
va bene,
ma fa comunque troppo caldo,
due scritti di Coelho
magari pleonastici.
Ermete Trismegisto,
dai punta all’Egitto,
mentre intrecci
la tua collanina di perle,
bella, grazie, è per me,
iridea oserei dire,
un po’ di impasto
e il dolcetto è arabico,
caramelloso il tuo leccalecca,
il piercing e l’andatura da emo,
ti lecchi i baffi invisibili.
Riccettina vola,
dolce ausilio viola ondaccolante
dai, mentre afferri i soffi incliti,
il più bello si confonde
col tuo cappellino viola,
sei un uragano ottagonale,
allucinante l’orecchino
da circo,
togli le converse
e sfreghi i tuoi piedi,
la scintilla è la risultante
algoritmica ed oligominerale
dell’animo.
E lo scherzo
sembra quasi finire,
il maestro è furioso
perché non rispetti i tempi,
allora dimmi
che hai un bel gattino
arruffato e sbadato
che ti mischia le carte
e proprio non puoi studiare,
passa ai canditi,
formaggio filante,
così dai un bacio
al sapor di big babol
al tuo finestrino
nel traffico volgare e irreale,
diciamo va’, nuovamente sesquipedale.
Serenellosa la serenata,
scorgo la luna,
stil novo partenopeo,
e tu fai le bollicine
non di sapone ma di tè.
Boccolosa doppio malto
e chiara,
mostrami la strada,
toh che carino il braccialetto!
Scarti qua e là,
dormi dai un po’,
ti carezzo la coperta,
e la scorza zuccherosa
nel palato stringe
il fiato universale,
così poi tu puoi tranquilla
far l’elastico filetto gommoso,
l’impronta del tuo rossetto
sulle mie labbra.
Ohibò
Avessi fiato parlerei di te,
magari in barca
solfeggiando il golfo
costeggiato ed ingolfato
veicolo stellare,
la sabbia che sporcò la stiva,
vestigio umano
del ricordo,
padroneggi con rispetto
il mio timone,
nocetta buffa,
vocetta candida e serpentina
cassi le mie casse
con rinvio, formale l’errore
illogico il dolore,
manifesto marxista infondato.
Accendi la siga e tiri sorridendo,
il tuo fumo appanna i miei
occhi portali,
in sogno portuali
appigli sepolti
e sepolcri, spogli nichilisti
da canarini che tu sai,
sbottoni la camicia in trance,
meditazione ondulata,
e già!
Dagli un nome a ogni creatura,
va be’ ma questo è proprio orrendo
nomoteta arruffata,
il suono fonetico deriva
dall’onomatopea,
fumetto primordiale e astrale,
studi la parola e allora,
perché babeli ancora?
Il gruppo clanico
cambia forma
non sostanza né apparenza,
vedi l’allitterazione
tra suono naturale
e pronuncia umana vocale,
costante consonante,
impronunciabile e sonante,
il nome di dio lo puoi intuire,
e la cravatta non ce l’ho.
Un altro paio di tiri
perché me ne lascerai due,
già lo so,
mi offendo così però,
contrasti la trinità,
la verità non è duale
o manichea,
ma unica
perché il dispari alla lunga
fa unità,
l’infinito è un otto capovolto
anzi diciamo steso tramortito,
pari ma impari
dunque impuro,
cadi in contraddizione,
accendiamo un bel falò
e ammettiamo l’inesistenza
del pari allora.
Piangi ma che fai?,
ti disperi,
in realtà mi accorgo
fingi e poni il piede sinistro
in avanti
il destro ben saldo
e dai fiato al fumo:
esiste tutto quanto,
il pari in realtà
è disparico in disparte
quindi dispari se si completa,
dunque il pari è parte
del dispari risultante
e di conseguenza l’infinito
finito incompleto.
Ohibò!
L’intro pensa se stesso
Ti incontro, ti scorgo,
vedo i tuoi occhi spalancati
e abissali,
sorridi,
e poi…
Insieme tra le gemme,
il silenzio intorno è irreale,
innalzati io e te,
tra i segreti nostri
domani imperscrutabili
ma chiari,
comunque vividi
per noi che siamo…
voltati guarda,
spacco in sezione aurea,
le mie valige,
la tua effige plastica.
Tic tac, tic tac.
Noi qua,
faccio il suono vocale più intenso,
si presta meglio,
canzone che pensi te stessa
vai, il progetto
sentimentale assoluto,
karma intrinseco,
e piangendo sdruccioli
ciò che c’è cioè,
non so,
perché il ritmo incalza,
o amor e viaggia
la mente lungo i nostri boschi,
le bianche nubi cherubiniche
metalliche
dove finalmente trovi
l’accordo fatale,
l’altisonante verso vitale,
e vai via,
resti qui comunque sai,
e poi in ogni caso materialmente
tornerai, fiduciaria del cuore,
vassalla dal sapor di neve,
riccetta ammiccante,
e riparto in sol,
vado verso ciò
che non so,
la simpatia e l’intrigo
tra me e te,
mostri pietà.
Va, lento va,
il motivetto che è un passante
battuto e infreddolito
che si avvita sulla scala
metafisica e lo vedi meglio,
la testa è capocchia
di fiammifero rubino
e poi il din don
ticchettante.
Tac. Tic.
Urticante amica,
bruciacchia il naso ardita,
vai cambia tonalità,
le sentirai le mie storie,
sono simili a ciò,
linee melodiche che si rincorrono,
si cercano,
si scrutano,
poi infine al momento
di accostarsi,
senti là il sapore
del bacio quasi vicino,
prossimo,
senti il fiato sul tuo,
vorresti incrociar le labbra,
ma il dito continua a salire
e discendere,
sembra lontano,
ma ci distraiamo ed è scintilla!
Ah passione!
Vampa umida elettromagnetica
in corrente,
vero archè,
l’energia secerne,
potenza cosmica,
vero archè
dunque il bacio
e lo sai dura un istante,
il verbo del principio
insufficiente, si arresta il sistema,
non è attimo,
non è tempo
è nuovo logos,
è senso della vita,
anima, spirito
dunque anima in azione
e materia a un tempo,
genesi ed epilogo,
punto immisurabile,
scena indipingibile,
melodia appena intuibile,
infinito!
Ah passione!
Dionisiaco, apollineo
e poi hermetico,
potenza dell’amore,
vaso colmo
e vuoto di ogni nulla,
arcobaleno a banda
da tredici colori in filigrana,
bello e buono
a un tempo,
essere e dover essere,
immanenza e trascendenza.
Ah passione!
Veemenza e temperanza,
riso, pianto e poi sorriso,
liturgico ed orgiastico,
canone, precetto, disciplina,
volontà e azione!
Ah passione!
La pace!
Evanescente il dolore spento
Evanescente il dolore spento,
la rosa dischiusa in silenzio.
Dolce effusione
mentre fissi la tela.
Vorrei scrivere effluvi,
vorrei partecipare al simposio
tracimando lo spirito.
Sognami.
Quel canto elevato mi scuote.
Granelli tanti
quanto i giorni in giovinezza.
I segni del tempo
sul volto cedono
alla potenza del bello.
Le palpebre sbattono al vento,
portoni di cortine incartocciate,
sbadate e sincere
mentre studio i tuoi sguardi
di sbieco,
tu assisa sul bordo
della fonte centrale.
Ragazza guardami ancora,
sono nel punto genealogico
delle realtà oniriche,
ditirambica, filippica,
estrosa e sofista.
Tu, prediletta dai numi,
il mio fiato è per te,
io frollerei solo
per un tuo fugace approccio,
uniti, indelebili,
te lo ridico, sei la voce
che da corpo ai miei pensieri,
la tua essenza mi guida
solingo con verga e lanterna,
ed io non posso tradirti
o abbandonarti, non voglio.
Sussurri come brezza d’inverno,
la tua voce non copre il gemito,
lo vuoi il mio cuore?
La mia anima?
Il mio spirito?
Il mio corpo?
Materializzati allora
dolce eterea,
la tua voce intensifica il suono,
diviene strumento essa stessa,
e allora drummeggi e sorridi.
Iannara misteriosa
Proclami l’inverso
come assorta,
l’incubo si raddolcisce
in un istante,
l’eremo tra la vivida
vegetazione,
l’ermo domani.
Imbellito il vascello
dei pensieri,
l’ultimo eco è risuonato,
dardi di fuoco in campi di spine,
non diamo spazio abbastanza
all’incanto del dominio
senza armi e armature,
con egide dagli occhi gorgonici,
nemici atterriti,
la spada del verbo,
la ruota dentata
con te minacciata.
Iannara misteriosa
vai senza aspirare,
fuma tossendo,
precludi un assedio,
tranquilla, l’aurora è vicina,
già vedo venere e luce
dell’angelo ribelle,
già vedo il fuoco
e la maledizione, il grifone
che rode la bile,
incessante il dolore,
ciclico il riapparire
con fasti dionisiaci,
con mandrie gelate,
o dissi offuscate (?!?)
il frutto e la conoscenza,
cioè consapevolezza
e libera scelta.
Poi il brivido dorsale,
certo ci vuole,
e ti affanni a rinsavire,
vorresti trovar la formuletta
anche per questa sconfitta
benedetta,
allora ti alzi austera,
aspetti i canti di gloria,
le sonate del furore popolare,
dell’arca trainata,
tale sembra il tuo
perverso sortire.
E mugugni trasognando
nel vuoto della stanza,
la radio a mille,
a mille il cuore,
lo tracci un sorriso,
cominci ad inveire,
a spegnere il verdetto di fuoco
coll’umore del corpo,
ti arresti improvvisa,
la pelle che freme,
la luce che accenna,
spegni la lampada,
scaldi le gambe col fiato,
slanciata in avanti
coi muscoli tesi,
gli occhietti furbetti,
la piazza in fermento,
l’odore di polvere e vento.
Dal Caucaso spedizioni albeggianti verso il tramonto
Dal Caucaso spedizioni albeggianti
verso il tramonto,
ampiezza frontale e vigore,
radure di primi eredi edenici
incontaminati rubicondi
ma pallidi, nubi
intorno alle loro parole,
eroi dimenticati,
gelati,
equilibrati,
ragazze avorio ed oro bianco
sui ciondoli e il volto vitale,
lo slancio floreale,
sonate martellanti
ed echetti in falsetto,
marce di pace.
La falena variopinta
sulla spalla,
l’anello intarsiato,
coleottero libero.
Nella vasta distesa
verso l’ignoto,
l’indomabile vuoto
sarà colmato,
il messaggio di speranza
proclamato,
gli strilloni in silenzio
loquaci mostreranno
il percorso di verità.
Urlettino soave,
scisso sensazionale Liocorno,
regno dei magi,
foglietta di sapienza autunnale
col verde scalfito dal viola
di transizione e rivoluzione.
Proseguiamo io mesto,
non indugiamo l’orizzonte è vicino,
la ghiacciata terra
a tre lati sul mare,
la caliente terra
a tre lati sul mare,
l’una di fronte all’altra,
scindiamoci,
istruiremo in conoscenza d’assoluto
la rozzezza,
la lotta armata scomparirà,
muta si dissolverà,
diremo loro che il male
è ogni forma di violenza.
Vedranno il frutto del risveglio,
o dormiranno ciechi nelle loro zuffe,
l’amore dominerà e vincerà,
col tempo si capirà
il senso del nostro vagare.
Ah scaglie di fuoco!
Ah scaglie e fuoco!
Piange il mio sospiro,
lacrime, cenere,
amore, con te.
Ti ho qui,
muta oh Sophie!
Qui,
le tue mani intrecciate
alle mie.
Si alza la fiamma
e resta il verbo,
i nostri discorsi,
la nostra isola lontana
senza più approdo.
Ipocrite le orazioni
degli incappucciati
intorno al fitto dardo
che ci ha trafitto alle spalle.
Ancora no,
fauci secche,
neanche più spazio
per gli affanni.
E la melodica
in do minore
discende intatta,
geme,
vuol rivoltarsi,
armeggiar la piazza.
Ah le illusioni nostre!
ah i nostri rotoli!
le rimostranze dialettiche!
trivio e quadrivio!
Ah sì, l’esilio!
ah le fontane del chiostro!
Sale, sale, sale,
l’urlo muto riarso,
l’umidità combustibile,
le perse nostre parti fredde.
Ora sì, ora sì,
vivremo nel sussurro del vento,
nessun limite, ora sì,
nessuna damnatio memoriae,
solo liberi,
già intravediamo
nell’opacità oculare
sempre più vivida
la riva da noi sognata,
per sempre nostra,
adesso.
La lezione di Iside
Ma quanto sei sospettosa,
languida e timorosa,
cicalina dagli occhi oscurati,
velati, mesti e sbadati.
Ti alzi e te ne vai via,
ti pensierosa sbatti
le dita sul labbro,
ti cambi e ti trucchi il viso,
passi allo sfondo
e il mascara ti manca un po’,
metti malachite preziosa
e galena da atmosfera,
ocra labiale,
sei pronta e con le gambe vai giù,
sì ti tiri le calze
in virtù titaniche e simpatiche,
l’impulso ti palpita il pensiero,
lo deponi il silicio del vero.
Questo tepore di fieno
che pone in dialettico intruglio
il veliero pronto a salpare
è un rimorso micidiale
nella tempesta portuale.
È vero la voglia stanca
peggio del pavesiano lavoro
ma la lezione di Iside è austera.
Sei un po’ svogliata ragazza,
mangia la cioccolata in terrazza,
visto errato il riporto,
guarda il sale precipita più sotto.
Una miriade di sanfedisti valenti
erano ancora più tristi,
spedivano indulti,
indulgenze plenarie
e sigilli papali
ai briganti.
Crolla il mondo se torno,
quindi godo e comunque,
guarda, lo faccio,
mastica le foglie di coca,
bevi pure una scoria di basalto
liquefatta
quindi tornata all’origine
ma raffreddata in paradosso.
Il sergente Trisiani
suona il flauto avvitando le travi,
a me sembrava felice
tanto che sciolse le camere e si dimise.
D’altronde la Legge leggeva poco,
legulei e clero giurista e scaltro,
si ispirava piuttosto ai fumetti
ma guardando solo le figure,
era un surrogato e un rimasuglio
di etica e morale
allora laica lucidò del potere le scale.
Il destriero nel vento meticcio
assaporò il languore del maestrale,
fu cavalcato a pelo
e senza redini
da un auriga senza vettura.
Un colpo di spugna
e tu ripensi al trucco,
soffi aria tra le mani
mentre ti senti distrutta
di prima mattina,
l’alcol ancora nel sangue,
vai in visibilio ondeggiante.
Meno male,
oggi non piove,
tira aria gelida ma buona,
dormirò avvinghiata al termosifone.
Virtù diademica
Cosa vuoi
trasparente essenza luminosa?
Abita in me il rimorso
buio del tempo.
Chiara vita
scorre nello sgorgo
della finestra,
non violenza
ma scintilla lieve,
a cavallo d’ippocampo
vibra nell’aere
come tra abissi
il tuo esercito imbattibile,
e sembra giunta l’ora,
l’ora della verità.
Ah il rossiccio ardore!
ah il pallido incanto!
ah lo smeraldino furore!
Divento come se il mio corpo
fosse scisso,
poi di colpo
l’anima ritorna in lui
salubre,
e io so volar,
le mie mani schiuse,
mi guardi e sì,
boicotti i miei progetti terreni,
e stai faziosa ancor sospesa.
Oh virtù diademica!
oh bellezza angelica!
oh firmamento marino!
L’arco da mille foglie
e dodici varietà cromatiche,
non è un dolce ma temperanza
statica,
il dormiveglia stride,
unghia sul marmo
in acustico bagliore elettrico,
vai, tu sai dove mirare,
tanto sono tuo,
vivido il violetto
alfa e omega
del circuito universale,
intermezzo spettacolare,
progresso generato
dall’errore ribelle,
uomo tale perché cade nel vizio.
Uh magmatico limite!
uh sinaptica percezione extrasensoriale!
uh magnetica dialettica metallica!
Resta qua
Non trovo più il disco
con inciso il verso,
quello dei porticati,
non hai idea
di quanto mi dispiaccia,
piangerò se non gli dai la caccia.
Non scherzare con il fuoco lento,
soffia pure il perdimento
controvento in paramento,
la fiamma risplende d’incanto,
la mia vera mistica ascesa
tra le tue braccia.
No,
non è amore,
sembra condimento puro,
fondamento della sostanza,
sua linea e chiave di volta
e sostanza stessa infine.
No,
il viaggio può aspettare,
già lo sai,
l’importante è l’ altrove
dei nostri pensieri,
siam lontani,
sospesi,
inauditamente protesi,
siam plananti
in giubilo festanti,
nella ciurma in calca,
sulla pista ghiacciata
scia di pattini.
Volge il sole al tramonto
ormai omelette,
scorgo l’ombra
e non è stavolta sul soffitto
ma miscelata alla mia,
tu meta e non metà,
il tuo sorriso sensuale
stampato a Gutenberg
per scherzo immobile,
non parlo della città
del metal melodico
donna e ragazza,
amica e compagna.
Non vorrei amor divagare
come d’uso,
stiam giocando
col dispetto nostro
e col sospetto loro,
regoliamo il volume
al minimo
e socchiudiamo gli occhi,
come son carini
i nostri due nasetti
che si sfiorano appena!
No,
non voglio,
non lasciarmi le mani,
l’alba tarda ancora
e non fronteggerò
la transizione
senza il tuo sguardo,
puoi restare,
dormire qui se vuoi,
i nostri sogni mattutini
saranno fiori germogliati asciutti.
Non mi abbandonare amore,
io sempre ci sarò
se chini il tuo volto
sulla mia spalla.
Non credo sia importante il perché,
basta un attimo
e riappari fulminea
nel limpido sfondo,
ti penso,
come se non fossi qua.
Non credo sia importante
il risplendente sole
senza il tuo volto nel giardino,
scendi dai monti
come ruscello benevolo,
neve sciolta e odorosa.
Non c’è più l’affanno
sul vetro,
nell’attimo concentrico
d’assenzio sei già qua,
come fonte di splendore
autentico.
Non miscredenza
nell’essenza del simpatico
fare estroso,
magari candida nube
di gloria eterna.
Non clamore frastornante
ma rivoluzione silente
cioè scarica vitale,
pulsione indomita d’amor.
Resta qua!
Qualcuno inveisce con forza nella mischia
Qualcuno inveisce
con forza nella mischia,
sincopato il labbro
come pastasciutta,
questo pseudoepocale manto disilluso della folla
è scostato e snobbato dal volgo stesso.
Invece quel nostro ingorgo a trotto
è così finito:
altro non era che libro dei sogni,
il burrone abissale dei ricordi
svelati come fossero mobili.
Girano quei fogli enciclopedici della nostra vita,
passa il tempo
e resta il disincanto
quindi, le magliettine,
le bende e le bandane,
i cagnolini e le grosse belve domate,
l’apostrofo e a capo dell’epiteto.
Un passante stranito
guarda e sorride,
le nostre parole stese su panchine,
gli amoreggiamenti, le effusioni
e le questioni insolute,
presumete orbene
che il sentimento puro
sia deducibile solo
da una stupida trasmissione televisiva
di Bercoglioni
o forse un post del Grillo parlante genovese di Cortina,
o ancora del nostro Dalaipapa gesuita?
Trasudante il sangue vespertino del cielo,
postilloso e cavilloso
il callo scrivano,
un tantino amarognola
l’offesa,
più che altro indifferente
la massa proletaria,
sorprendente il manico di scopa,
però.
Oscuro l’Efesino
stracolmo nella cruna
mentre filan le Parche dolenti,
pubblicherei per cambiare pagina
un pezzo sui siriaci serpenti.
Magdalena
Sguardo svanito,
nell’anima del bosco,
solitario un fruscio lontano,
il vento ti carezza i capelli
lo spirito inonda i tuoi occhi,
dolce la neve sul volto
inondato di speranze,
come fosse vivida fonte
tra l’aurora del tuo domani
I canti antichi
impressi sulle pareti
le tue dita in cielo
volteggiano e guidano
le tue parole
come il nascere del sole.
Sei luce,
immagine sincera,
torre d’avorio ed oro bianco,
lo sguardo si acuisce
e la mia essenza si eleva
e non c’è più vuoto o buio
dentro me.
Notte ai Decumani
Stanotte ai Decumani
la consorte del principe di Venosa
coperta solo di lenzuola
maledice i madrigali verseggiando,
intravedo il barlume corneo nei suoi occhi.
Sansevero che cauto miscela arsenico
e belladonna sulla tela
poi come un caimano piange,
ah la sua cura sforbiciata per il plasma!
Sai, vorrei bruciare l’odore
dei tuoi pallini d’incenso in combustione
privi di allori e seducenti,
è ora:
il venditore di giornali sembra
aggiudicatario battitore,
picciola mia stai attenta e non dimenticare
di trasmutare la morale.
Croce, il diplomatico mancato,
estetizza estasiato in biblioteca,
l’arte è una parte,
direi però la fondamentale,
la molla della storia
e del circolo perverso della gloria
(i poeti laureati tra le piante dai nomi poco usati).
Patteggiamo col divo Nerone!
Era un tempo l’era dei fumetti
letti in piazza
tra il gomito e la tazza
di solfuro intarsiata
stracolma di folla indispettita,
le cicche fumate a metà
raccolte dal senso e finite.
Varia l’effige!
Bruno studiacchia
nel chiostro e si distrae,
poi butta all’aria le icone
dei fratelli
e le sostituisce con scritti
babilonesi o neoplatonici.
Virago celtica!
Ed affinché
non dimenticassimo le beffe
con le cornamuse contuse
facemmo il verso al gesso
del docente inconcludente.
E spaziamo con la danza!
Ondeggia a sinistra o di là,
vedi
vai già
più lenta della musica,
ritmata la tua scorza di limone,
candito
inflitto a pizzico di dito.
La violenza sconfitta
con un bacio in palafitta
dell’invasrice indoeuropea
ancella di Brighid,
epoca remota,
l’edenica scena
non fu mai più riproposta,
son fiori colti nel deserto
e tradotti in sanscrito.
Non manca fumo pel digiuno,
C’è cenere e amore se ti volti di là,
il capo piumato è scolorito
allora rinunciamo all’allettante invito.
Al far della sera si cacciava
e per maledizione
non ci si nutriva più
solo di frumento e bacche,
la simpatica ragazza
faceva l’occhiolino
ed incrociava le braccia.
Tu sai,
conosci il nome del silenzio,
vuoi avere le cartine al tornasole,
le patrie senza limiti e frontiere.
Le musiche non cambiano
da popolo a popolo
c’è comparabilità nell’identità
l’essere diverso
si identifica solo con l’incontro
e col confronto
ed acquista così unicità.
Mi conceda infine l’ultimo passo di danza
(d’altronde hai intuito l’uno e l’altro canto, il verso stravolto e il suono).
Si svestì dinanzi allo specchio
Si svestì dinanzi allo specchio,
il mio,
se ha un rimorso lo scuce
nel letto,
la voglia forse non rimane,
ma lei sembra la scia
di una stella
o magari della viola
la corolla,
colta da una donzella estasiata.
Tutto negli occhietti,
brivido pensante
ed astraente
in quanto manifestazione,
spirito apparente.
E il corso d’acqua
risplende ciclico,
ci bagniamo sempre
nello stesso fiume statico,
unità triplice della natura,
dio ad un tempo anima,
spirito e corpo,
ti prego ricorda
l’impresa ardita
tra i flutti,
le colonne d’Ercole,
antidoriche,
il muschio ridente poi.
l’ultima stazione,
il vagone sonante,
te che parti,
che fuggi,
tornerai?
si schiuderanno più le labbra?
sussurrami il versetto.
Giradischi affetto
da dolori al petto,
e stride al contatto
col corpo lucido.
Io tendo le mani,
la luce si riflette,
cado in estasi
come se scorresse
latte nelle vene.
Assopito penetravo nell’assoluto,
spesso un ronzio mi distraeva,
il mio annullamento volitivo,
è nostro potenziamento giulivo.
L’orologio batte sugli attenti,
l’incubo si smorza
e il sapore della svolta,
mi pone nel dubbio,
ti fa sobbalzare.
Scende ora la pioggia lieve,
parli quasi sopita,
i boccoli e lo sguardo vago,
le lenzuola stropicciate
al vento,
ombra soffusa
al chiaror di luna,
pura immagine,
la sonata è mancina ed estrosa,
la veemenza del silenzio,
il viola tra le dita,
macchie soffici d’inchiostro,
picciola la magica orchestra
è dipinta nell’aria,
sei speciale sai,
penso a te.
Sento già il brivido dorsale,
le mani tremano,
la voce tua sublime e dolce
in me,
scendo e salgo,
guardo il cielo,
c’è lassù la stella
dai contorni tuoi,
illumina,
guarda qua,
si dirama in costellazione,
e così prende forma
di te.
Scorri a fiumi,
ti sento dentro me,
il cuore palpita,
la voce tremula.
E credo non dimenticherò
il tuo sussulto,
la musica della tua voce.
La notte domina più in alto,
il tuo sguardo obliquo
di nuovo alla parete,
cosa darei per vederti così,
per racchiudere
e non dimenticare più
quest’attimo,
vorrei dirti più
di quello che posso,
ma tu sei più
di quel che so,
fermati attimo
e lasciala impressa,
sì.
Guarderei solo te,
non vorrei mai più perdere
i tuoi gesti, i tuoi sogni, le tue parole.
Voglio te,
i tuoi occhi
e i tuoi soffici capelli,
non dimenticarti mai
di me.
Scende ora la pioggia lieve,
i pensieri non vanno però altrove,
diventi fluida come l’acqua,
pura e sincera
coi tuoi problemi,
le tue dolci esitazioni,
e io ti voglio veder
per sempre così.
Picciola mia!
Sei splendida stasera,
fantastica sai.
L’alba del domani sarà petalo tra le nostre dita
“Cosa fai lì sconfitta,
stesa e un poco afflitta,
direi dalla luce trafitta?”
“Dai se proprio insisti,
tolgo il cappellino,
agito i capelli”
“Sì,
vibrazione austera,
sento in te il sapore della sera”
“Vorrei dirti una sola parola
ma la nebbia mi scolora”
“Se credi sia giusto,
socchiudi gli occhi,
col dito sfiorami,
materializzati,
l’inverno non ci può avvilire,
ti prego, dai,
non scomparire,
non dissolverti ancora”
“Deh mio simpatico amico,
non ricominciare,
io non mi soffermo mica”
“Uh guarda che carino,
il piercing e il nasino,
l’introverso giro in tondo fino”
“Ohibò,
che dolce l’hai notato”
“Dimmi un po’ allora
cosa ti trattiene?”
“La sabbia, il vento,
la maglia, il tempo,
l’ultimo elemento”
“Quale?”
“…”
“D’accordo fa come vuoi,
lo scoprirò”
“Non c’è numero che tenga,
ma un’unica sostanza
allora stringimi forte amore,
dimentichiamo tutto
e scopriamo l’assoluto
avvinghiati come ultimi eroi”
“Sono stupefatto
dal tuo sguardo, dal tuo volto,
dal tuo corpo,
credo che la notte
sarà l’ultima vittoria,
se il mondo crolla,
i nostri sogni sfumano,
l’erba cessa di crescere,
noi ultimi reduci
ricostruiremo la vita,
l’alba del domani
sarà petalo tra le nostre dita”.
Il Giardino di Epicuro
Goccia di rugiada,
quattro di mattina
il giardino respira di follia,
si prepara la festa frugale,
feta, orata mandorlata
e un cotilo di vin mielato.
Passa la ragazza,
capelli raccolti,
trucco accennato,
corpo snello,
vademecum sotto il braccio,
pulsione di vita in petto,
è stupendo il profilo!
Un bacio sulla guancia,
l’altro mi sfiora le labbra
con sapore fulgido d’incanto,
e poi il ciondolo e il pendente,
il braccialetto spigato,
finemente intagliato in bronzo.
Entra il maestrino,
solleva lo sguardo,
anzi lo abbassa in alto
ascetico ed intorno fa le mosse
mentre lei con due o tre smorfie
si inchina e si intarsia,
si strapazza,
vai giovine pulzella,
vai piccola frigente
e fringuellosa slinguacchiata
e decorosa.
Cara siamo soli,
cogli le asciutte parole.
Volgi l’indecente,
ci basta poco per essere felici,
dai con la bacchetta
dirigendo austeri
l’orchestra con la pace,
con la gioia,
con l’amore e la fortuna
dei nostri anelli
eliminiamo dal mondo
violenza e guerra,
le scritte nei cartelli,
i disegni sui fumetti,
sui manifesti l’orma
dei pennarelli.
Vai raccogli l’aere,
inspira l’anima della natura
tramite lo spirito diventa pura.
Vai distesi a terra,
poniamo la brezza egea
e chiamiamola flemma e purea.
Vita straordinaria,
il sussulto divino si scorge
nel semplice barlume affino,
doniamo noi stessi alla causa,
al bene comune,
l’orticello del dispetto
devastiamo coltivando il rispetto,
e vita eterna nell’amore
e nella cenere il mutamento statico e ciclico.
La ragazza di Dublino
“Spremi il tuo cuore!
Con speme scandisci le parole!”
Sto svitando cardini e cancelli,
le fondamenta
della mia passione
sono obliqui raggi di sole,
vasti scoscesi campi da arare,
vitali illusioni da nutrire.
Mastodontici colonne,
templi castrici a coda di rondine.
L’architrave sembra seducente!
“Cogli il fiore!”
Sono assai distratto dall’incanto del vento.
“Poni ardenti assiomi…”
Ho mangiato,
in fretta il mio panino,
struttura cellulare,
impermeabile membrana,
pompa sodica e spola del potassio.
Nel silenzio vibra un phon,
la musica ancestrale in profondità.
Livido scolo.
Canuto argine dell’acquedotto.
Potrei divagare, impostar la voce nell’anfiteatro.
“Vai tranquillo!”
Sembra divagare
la previsione astrale.
“Scorgi le scale?”
Scade la ricevuta,
alto là,
l’imposta sudicia,
la baratteria dantesca.
“In anime ribelli
la chimera del tempo”
Scesi poi bazzicando
tra le strade del borgo.
“La corrente è un po’ avversa,
mantieni la promessa”
Ero un po’ assorto
nei miei pensieri.
“Lascia stare,
resta in piedi”
Passò d’un tratto
la ragazza di Dublino.
Il flusso allora si arrestò
e mi misi a parlare.
Come stai?
E perniciosa dove vai?
Rideva, dispettosa
e cinica non rispondeva.
“A volte il silenzio è l’incubo del portamento”
Ma poi d’un tratto iniziò a sciorinar parole.
“Vedi, è fiera!”
Le sue scodelle.
“Dove è il pragmatismo?”
Accordò la lingua
in intenso spulciare indecenze.
“Non disperarti amico
lei ti vuole bene”
Allora le coprii
le labbra con un dito.
“Guarda che occhi!”
Non so,
il mondo è sul suo volto,
la storia nel dondolare,
la conoscenza nell’indicare,
la sapienza nel fiatare.
“L’atomo è in paradosso scindibile
ma il legame no,
è solo apparenza,
resta saldato”
Mi colpisce più di ogni cosa
la dolcezza che ha nel parlare
ma soprattutto
la grazia nel baciare.
L’immagine dell’assoluto
nel cenno della testa.
Dodici chiavi ed una serratura.
“Non ti distrarre,
continua a fissar lo sguardo,
innamorati appassionatamente,
le gioie al petto e al braccialetto.”
E quando smette
carpisco il suo discorso,
mi svesto dell’orgoglio,
scaccio la vanagloria,
mi fisso allibito,
bocca aperta
e lei sporgente.
“Le sentinelle del sinedrio
parlano di vendetta,
lei resta estromessa
e allora espande letizia”
Schiarisce un po’ la voce
non tossendo ma ispirando
e mi mette al corrente
degli opposti, immanenti a loro
c’è la sintesi che li ingloba
ma allo stesso tempo
li contiene e quindi
annulla differenze,
c’è un’unica sostanza
e quindi il male si scorge
solo dall’assenza.
“Le virtù son sante e beate,
dal cielo e dalla terra benedette,
se scordi ciò che c’è in te,
perdi di vista il divino”
Irrompo e mi trascino estasiato,
educato alla libertà,
alla dignità, all’amore
e alla parola.
“La simpatia è universale,
ponila come premessa,
siam ginestre vesuviane,
stringiamoci in un unico abbraccio”
Cleopatra Selene
E va la gazzella,
carta attacca,
volge intatta,
preda al corso
d’acqua,
oddio che scacco!
La ragazza morsa
dalla taranta danza,
ondeggiamento sub sahariano,
regina della savana,
estasi statica.
Warhol fa graffiti urbani,
la ragazza domata trasforma
il lamento gutturale
in lemma soprano,
indossa le borchiette dark,
la zattera a triplo tronco
alla sorgente del Nilo azzurro
va .
Reginetta a pesca in apnea
stretta al timone,
allento la corda
e il tronco divarica
in trotto,
viandante va’.
Fiori cretacei tra i capelli,
cacci lo specchio,
trucco cretese,
labbro fenicio
semi sporgente.
E in un rollio kilimangiarico
sembri crapettare,
austriaca scura.
Vai,
comica zuffa,
luna violetta,
lingua sorretta,
patina asciutta.
Sogni il megafono francese,
il punk senese o berlinese,
la dedica con scredito,
l’urletto sollevato,
la seducente ondata,
il Clysma cobalto-cinambrico.
Cambia il taglio dei capelli,
il colore dei sentimenti,
la danzetta sta finendo,
rinforca gli occhiali da sole
e pensa,
riprendi il clarinetto,
scuotilo per dispetto,
nell’indecisione mistica
crea una moda,
una parola,
o una vivida storia
già fritta,
un aspide che insidia il calcagno
della tua discendente,
la flotta nemica
salverà qualche libro?
Kimery
Dam dam,
le spoglie spirituali,
zam zam,
sostanza al sommo grado,
la la,
astute simmetrie,
quo quo,
superflua venalità.
E scivolo sul piano inclinato,
mi manca un sostegno,
forza trasversale
e vettoriale inverso,
sditato un po’ cucito,
svampito twilightiano,
ennesima eclisse consoliana,
ambasciata emo zigzagata.
L’espansore a incudine
falcia il martello,
l’ultima occasione,
l’incubo del sonno di ragione,
nottuccia amore,
illuminista romantico
e decadente enciclopedico,
rosa e biancospino,
acca un po’ aspirata,
capo o coda o smilza
bicocca da sfinge.
Set set,
pentole bibliche,
pam pam,
sbrigata statica,
bum bum,
sorseggia mandorla sudamericana,
ven ven,
veltro spoglio da addobbo intrinseco.
Cado come sabbia,
clessidra formativa,
body modification
da scettro maledetto,
anello gianico e ceccato,
si fossi fumetto andrei all’inverso.
Beng beng,
golfo tarantino,
can can,
suono asciutto israelita,
bon bon,
maya nutelloso,
br br,
cancro in capricorno
uniti all’ordinata g
ascissa p-melissa
dell’equatore milleriano.
Lady Nietzsche
Agalma sbiadita
dall’incuria dei giorni andati,
non è finzione,
sei vivida in proiezione,
riflessa e maledetta,
in un angolo col libro
semiaperto,
e poi diretta al piano
ondeggiando.
Il silenzio del vento taurino,
la seduzione e l’ossessione,
natura e sonata frastornante,
pessimismo ridondante,
il bel sì alla terra,
elevazione spirituale diretta,
il litio in provetta
e sei più calma.
Dov’è la parola ardente?
dove il furore? In te si chiude
la storia come girotondo,
danza sugli specchi,
la tua gioia,
la fierezza permane,
e la voglia di sovversione,
trasmuti l’alma
e ti trasfiguri.
Booom!
Dondola la pioggia,
va.
Piange il sole,
luna altrove,
nero ardore,
corvo in Mole.
Strisciando intanto
sui rimasugli,
la vasta quiete
del sussurro
interrotta dal vascello silvestre,
le danzatrici,
la fruttaiola e l’uva,
l’intentio,
l’inaudita verdognola
pozione amarognola,
il rosmarino diluito
tra i capelli,
il rito sabbioso,
il rito tenebroso,
la voglia d’incenso,
la mitriaca valenza,
lo schizzo alla fontana scissa,
la solitudine vana,
poi la virtù velata,
la tracotanza infetta,
la magica rimessa intatta,
il rigurgito vitale,
la passione scardinata,
la sincopata arsura gelida.
Infine un ululato lontano,
poi il silenzio.
Da qualche parte
Da qualche parte,
forse proprio lì,
oltre il confine del mare,
alberga l’indicibile,
sguardi attenti, rivolte, gesti.
Sfiora il tuo viso l’inverno,
accenni un sorriso di nuovo,
piano, calma, non c’è fretta,
calma.
L’astratto, discorde, pudico,
velato cenno cinereo,
vita in versi, forse indifferenti
i gorgheggi preliminari,
eh eh, vedi la luce
intralciata dal velato
dolore lacrimato.
Dammi l’attacco,
l’ingorgo.
Dammi il soffuso,
l’illuso dischiuso,
poi zitta!
Qualche cosa dentro me
si muove.
Noci celebrali, impulsi magnetici,
meschini corsari dimenticati,
messi elettrici,
cause motrici attente,
teorie disdette, paralogismi,
canti come mandorli in fiore.
Dimmi di sì
sul predellino del sapere.
Dammi l’accenno
sul fiato ondulato,
magia del creato.
La pioggia!
È così che va la storia.
Così soffice il guanciale
del tuo corpo,
incantato il posto.
Così mi guardi di sbieco,
sempre sgocciola neve,
neve.
E scrollo le mura,
gli architravi dei miei pensieri.
Avvolte come cialdoni,
avviluppati discorsi
carichi di forza
e molecolari inscindibili,
indiscutibili, limiti intrinsechi,
a volte umidità labiali
tra me e te,
madori vischiosi,
calcoli finali,
trovami l’intro.
Dimmi lo so,
non lo trovo però.
Dammi il misto focoso
di ardore strepitoso.