Il Suicidio in Dante

Il suicidio in Dante

In inferno XIII appare la figura di Pier della Vigna, il potentissimo magistrato della corte di Federico II di Svevia, colui che tenne “ambo le chiavi del cor di Federico serrando e disserrando” e che, causa l’invidia di uomini vicini all’imperatore – secondo il Sommo Poeta- fu accusato di ruberie ed altri crimines e per questo condannato alle carceri, fu infatti arrestato a Cremona all’inizio del 1249 come traditore (proditor).

Fu fatto accecare per mezzo di un ferro ardente da Federico II a Pontremoli nella Piazzetta di San Geminiano e portato alle carceri a Pisa ove si suicidò sbattendo la testa contro il muro.

Celebri i versi “L’animo mio, per disdegnoso gusto,/credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto”. Quindi da innocente si fece colpevole per il suicidio commesso, di più, Dante ci dice cosa lo spinse al suicidio, per disdegnoso gusto- ed il perché “credendo col morire fuggir disdegno”.

Tale “disdegno”, a differenza di quello di un altro suicida, Catone di Utica- che Dante posizionerà addirittura a guardiano della porta del Purgatorio e non all’Inferno-non è un disdegno per valor perduto, per perdita di libertà senza rimedio ma per Dio, ovvero per la Res Publica oramai perduta, quindi un disdegno rarissimo e che colui che Tutto move immoto può non solo giustificare e comprendere ma, se4mpre nella giusta misura, ammettere.

Pier della Vigna rimpiange l’anello imperiale, vale a dire il potere perduto, le ricchezze, egli era ottimo uomo d’affari ed aveva sotto il suo vassallaggio gran parte del dominio di Federico. Per questi motivi il disdegno che lo spinge a morire è mosso da un disdegnoso gusto, la brama di potere e di danaro.

Ma analizziamo meglio il suicidio nell’ottica del tempo per poi passare alla analisi della pena riservata e dei motivi.

Nella Summa Tommaso d’Aquino affronta il suicidio alla Questione 64 articolo 5.

Il suicidio non è mai ammesso per tre ragioni. In primis perché offende l’amore di sé per sé stesso, in secundis perché offende la societas eliminando un suo membro ed arrecandogli nocumento, nonché non potendola servire, ultimo, e forse più importante, perché offende l’Amore di Dio e la Sua Grazia. Agisce, quindi contro il Carisma – – Universale, dato a tutti, ed allo stesso tempo contro il carisma del singolo, cioè dell’agente suicida.

Tale lettura, inerisce ai carismi χάρις, cháris, il cui significato è proprio “grazia”, la cui valenza è illustrata diverse volte nelle lettere di Paolo e nella prima lettera di Pietro.

Tale lettura non possiamo non compararla con Giovanni  15,  “chi non rimane con me venga gettato nella brace come i tralci”. I suicidi hanno una pena ancora maggiore, Dante è convinto che le anime dei dannati stiano nelle sterpaglie ed allora il mantovano invita il discepolo a staccare un ramo e oltre ad urla ne esce sangue. Quindi i suicidi non si trasformano in tralci ma divengono e sono sterpaglia, come nel De Plantis di Aristotele che credeva le piante nascessero dall’inerzia degli animaletti che smettevano di agire e formavano arbusti, allo stesso modo, col suicidio, si smette di essere in movimento, in azione, i vita e si diviene, dopo il giudizio letto dalla coda di Minosse rovo.

Inoltre essendo sterpaglia al 100% dopo la Parusia il corpo non rientrerà in loro come per tutti gli altri ma sarà appeso ai rami dell’albero. Una posizione che non può non ricordare l’impiccagione, in special guisa quella di Giuda.

Ma a tale supplizio se ne aggiunge un altro, i suicidi sono  tormentati ad ogni ora da mostri volatili, una sorta di pterodattili, le Arpie, col corpo di uccello rapace ma il viso di dolce vergine, il cui nome deriva dal verbo ἁρπάζειν harpazein, “rapire”. Esse erano divinità della tempesta che distruggeva i raccolti, odiate dagli agricoltori. A differenza delle Erinni, che punivano i crimines contro la famiglia, le Arpie erano rapitrici di tutto ciò che serviva a tenere in salute l’uomo ed il raccolto, venti maligni che attaccavano alla radice la vita, colpendo il cibo e generando carestie e pestilenze.

Questi i motivi per cui sono posizionate proprio a tormento di coloro che rinunciarono, volontariamente, alla vita, alla libertà.

Giovanni Di Rubba

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